Dreams Of The Drowned – Dreams Of The Drowned I

Come spesso accade nei dischi più illuminati, il black metal è un punto di partenza per qualcosa che va oltre e che abbraccia molte vie musicali, trattando di vecchie leggende europee, con una forte valenza della natura.

Dreams Of The Drowned è il progetto avantgarde black metal di Camille, musicista francese che l’ha fondato nel 2007 e che, dopo svariati demo, è approdato al debutto sulla lunga distanza.

Dreams Of The Drowned I è un disco che contiene moltissime cose, dal black metal più avanzato, allo shoegaze, alla new wave e a tanto altro.
Le coordinate sono in continuo movimento e il suono generato da Camille, che in pratica fa tutto da solo tranne l’utilizzo della voce di Aldrahn nella cover Midnattskogens Sorte Kjern dei Dodheimsgard, uno dei gruppi di riferimento del progetto. Ascoltando il disco non si sa mai cosa verrà dopo, e ciò giova enormemente alla soddisfazione dell’ascoltatore. Si potrebbe intendere il lavoro come una narrazione di un qualcosa che noi umani riusciamo a malapena a percepire, ed infatti viviamo tutto come un sogno, un riverbero della realtà. Nonostante ci siano moltissime strade diverse in questo disco, Camille riesce a dar vita a qualcosa di organico e ben strutturato, con una coerenza ed una forza invidiabili. Il progetto raggiunge vette notevoli e assai interessanti, il suono è qualcosa che crea dipendenza e non annoia mai, in una continua mutazione di suoni. La cosa che colpisce di più è questo muro sonoro, un monolite che cambia colore e calore a seconda delle accezioni che gli dà Camille, il quale oltre che essere un musicista totale è anche un notevole produttore. Come spesso accade nei dischi più illuminati, il black metal è un punto di partenza per qualcosa che va oltre e che abbraccia molte vie musicali, trattando di vecchie leggende europee, con una forte valenza della natura. Vi sono dei momenti di autentico satori, si raggiunge la luce passando per le tenebre, trascinati dalla forza superiore di questa musica, fatta con passione e grande talento. Ci è voluto molto tempo per arrivare al debutto su lunga distanza di un musicista che impressionerà più di un appassionato di musica pesante che guarda avanti e che garantisce molti ascolti, nei quali si scoprirà sempre qualcosa di nuovo.

Tracklist
01 Dream I
02 Conciliabules
03 The Revolutionary Dead
04 Real and Sound
05 Vieilles Pierres
06 Crawl of Concretes
07 Danced
08 Midnattskogens Sorte Kjerne (Dodheimsgard cover)
09 Dream III

Line-up
Camille – Guitars, Vocals, Bass, Drums, Synths

DREAMS OF THE DROWNED – Facebook

Bergraven – Det framlidna minnet

Grande talento compositivo di Par Stille, artista che non ha timore di sporgersi oltre i limiti del black, miscelandolo in un blend multidimensionale e arricchendolo di nuova vita.

Per lunghi dieci anni Par Stille ha tenuto ghiacciata la sua creatura, la “Montagna Nera” (Bergraven) e devo anche dire che, sinceramente, con la grande quantità di materiale uscito nel frattempo, io me ne ero anche dimenticato; aver letto di una nuova uscita ha risvegliato i sensi nel ricordo delle interessanti opere del passato: Fordarv (2004), Dodsvisioner (2007) e Till Makabert Vasen (2009).

Avanguardistico Black che non ha timore di oltrepassare i limiti del genere, di inglobare frammenti multidimensionali a creare brani fluidi, sempre stimolanti e open mind; opere da recuperare per godere del talento multiforme di Par Stille, musicista svedese, che in questi dieci anni ha dedicato il suo talento allo sviluppo del suono di Stilla, quattro dischi dal 2013, orientato su un black più tradizionale a tinte naturalistiche. Il ritorno dei Bergraven è un piacere per il nostro apparato uditivo, la struttura complessa dei brani, otto per quasi cinquantacinque minuti, ci conduce in una sfida dove la fluidità del suono si accompagna a una capacità di integrare strutture jazz/folk senza pari. La band, un trio costituito dagli stessi musicisti di Stilla, offre tante suggestioni nelle sue evoluzioni come gli otto minuti di Der Dodens Stiger, in cui un inizio black atmosferico lentamente si sfilaccia in trame acustiche madrigalesche e medievaleggianti, ricche di pathos e tristezza. I brani variano, non sono ancorati a strutture prefissate, con l’aiuto di strumenti non usuali nel black come sax, trombe, vibrafono e piano, e i risultati conquistano in Leendet av ans verk dove il folk si coniuga con naturalezza al jazz per un risultato dal sapore particolare. L’ingresso della tromba a metà del brano è da pelle d’oca e il tutto viene inglobato in una furia black che conduce al termine. Difficile spiegare il disco e le sue sensazioni scrivendo solo qualche riga, ma invito gli ascoltatori a provarlo, lasciandosi trasportare dal grande talento compositivo di Par Stille, artista che non ha timore di sporgersi oltre i limiti del genere.

Tracklist
1. Minnesgåva
2. Allt
3. Den följsamma plågan
4. Minnets melankoli
5. Leendet av hans verk
6. Den dödes stigar
7. Till priset av vårt liv
8. Eftermäle

Line-up
Pär Stille – Bass Vocals, Guitars
Andreas Johansson – Bass
J. Marklund – Drums

BREGRAVEN – Facebook

Signs Of Human Race – Inner Struggle Of Self-Acceptance

E’ un sound intimista e nervoso quello che la band ha creato per dar vita ai cinque lunghi brani che compongono la tracklist di Struggle Of Self-Acceptance, che alterna, com’è da tradizione del genere, parti metalliche ed estreme a più pacati momenti di post rock dalle atmosfere che non permettono di scendere al di sotto di un grado di tensione elevato.

Le vie del progressive moderno portano su strade ormai battute ma pur sempre affascinanti, come dimostra il debutto dei Signs Of Human Race, quintetto bresciano che in questa primavera 2019 debutta con Inner Struggle Of Self-Acceptance, opera progressivamente metallica, alternativa ed avanguardistica.

Licenziato dalla Sliptrick Records, label acchiappatutto nel panorama underground europeo, l’album del gruppo lombardo non mancherà di soddisfare gli amanti dei suoni progressivi dal taglio moderno, sempre in bilico tra impatto estremo, sound drammatico, nervoso e dark, ed un’attitudine alternativa che risulta un mix perfettamente bilanciato tra metal estremo di matrice death (Opeth), prog rock alternativo (Tool) ed ispirazioni tradizionali che rimandano al prog psichedelico dei Pink Floyd.
Non male per un debutto, anche perché i Signs Of Human Race si dimostrano band capace di far dimenticare all’ascoltatore di essere al cospetto di una giovane band al debutto, con una serie di brani maturi, personali e perfetti nel saper miscelare le varie influenze che ispirano i cinque musicisti.
E’ un sound intimista e nervoso quello che la band ha creato per dar vita ai cinque lunghi brani che compongono la tracklist di Inner Struggle Of Self-Acceptance, che alterna, com’è da tradizione del genere, parti metalliche ed estreme a più pacati momenti di post rock dalle atmosfere che non permettono di scendere al di sotto di un grado di tensione elevato, mentre la musica (e qui sta il bello) scorre fluida grazie ad un songwriting ispirato.
Diventa difficile scegliere un brano in particolare, ma direi che i dodici minuti conclusivi della bellissima Choking In Hopeless Agony possono tramutarsi facilmente nel sunto compositivo del questo ottimo lavoro, consigliato senza remore agli amanti del genere.

Tracklist
1. Dreaming Reality
2. Above The Languages Of Life
3. Journey Into Self-Reflection
4. Of Love And Misgiving
5. Choking In Hopeless Agony

Line-up
Remek James Robertson – Vocals/Keyboards
Diego Lorenzi – Guitars
Alessandro Ducroz – Guitars
Davide Brighenti – Bass
Samuele Leonard Sereno – Drums

SIGNS OF HUMAN RACE – Facebook

Locus Animae – Luna

La poetica del gruppo è quella di avanzare attraverso musica originale e di ispirazione neoclassica verso territori gotici ma anche di avanguardia.

I Locus Animae sono un gruppo proveniente da Novara, attivo dal 2012.

Inizialmente hanno cominciato come gruppo black metal, poi hanno sviluppato una poetica tutta loro, come si può sentire in maniera molto netta in questo nuovo ep, Luna. La poetica del gruppo è quella di avanzare attraverso musica originale e di ispirazione neoclassica verso territori gotici ma anche di avanguardia. La musica è delicata e sognante, ma anche possente e perentoria quando, con reminiscenze del black metal delle origini. Luna è la continuazione del ciclo cominciato con il precedente Prima Che Sorga Il Sole, che era un ottimo lavoro. Spicca l’azzeccato gioco fra la bellissima voce femminile di Vera Clinco dei Caelestis, che si completa benissimo con il cantato sia in chiaro che in growl di Gregory Sobrio. Il gruppo è tecnicamente di livello e porta molto in alto il pathos delle canzoni. Il sentire è gotico, forte di un sentimento anche mediterraneo che porta a vedere le cose in una maniera molto diversa dal gotico nordico, ad esempio. La presenza di un afflato neoclassico nella musica dei Locus Animae è molto forte ed è una delle colonne portanti del loro suono. Il cantare in italiano conferisce forse il vero valore aggiunto di questo gruppo, la metrica della nostra lingua si sposa benissimo con questo suono, e ne è la narrazione perfetta. Fin dalla prima canzone, L’Incanto Della Sirena, si capisce che non siamo al cospetto del solito combo di gothic metal, qui si va molto oltre: Luna parla di ricordi, tasselli della nostra vita che rimangono nel caleidoscopio di ciò che pensiamo di sapere. Stupisce la forza dirompente dell’album, la completezza del sound dove non c’è un cosa fuori posto, un’incongruenza, un qualcosa di sbagliato. Il sentimento è il motore primo di tutto, e i Locus Animae hanno un nome che è adattissimo alla loro musica, perché parla alla nostra anima. La comparsa di quando in quando nella musica del black metal attraverso intarsi molto preziosi è un ulteriore segno della bravura e della grandezza di questa band. La forma dell’ep è il giusto spazio per poter godere di queste composizioni così dolci e forti, che parlano di un mondo che possiamo vedere se abbandoniamo il delirio che ci viene proposto quotidianamente.

Tracklist
1.L’Incanto Della Sirena
2.Il Cantico Del Mai Nato
3.Crepuscolo
4.All’Imbrunire
5.Eclissi – Come La Terra Baciò La Luna

Line-up
Gregory Sobrio – Clean Vocals, Growl, Scream –
Nicolò Paracchini – Bass, Scream –
Brian Cara – Rhythm Guitar –
Emmanuele Iacono – Lead Guitar –

LOCUS ANIMAE – Facebook

MAYHEM – GRAND DECLARATION OF WAR

I comuni mortali da secoli attendono – costantemente, con trepidazione – un nuovo gesto, un improvviso cenno, un tanto agognato segno dai propri Dei. Così, molti di noi, si stanno ancora internamente arroventando, per l’aspettativa di un nuovo full-length dei mitici Mayhem. Purtroppo, anche questa volta, non sarà così. La nona ristampa su CD del mitico album del 2000 ci coccola, però, nella trepidante attesa di una nuova uscita.

Parlare dei Mayhem oggi, vorrebbe dire raccontare la storia di una delle band più famose al mondo, almeno in ambito estremo, ma soprattutto, significherebbe citare centinaia di aneddoti storici, sociali e culturali, di uno dei gruppi che più di tutti ha influenzato e sconvolto – da tutti i punti di vista – la scena Black Metal.

Di loro si è detto e scritto tantissimo; negli anni – tra finzione e realtà – vi si è creato intorno un alone epico, leggendario – meritatamente aggiungerei – che, oggi, fa dei Nostri non una band semplicemente storica, da cui attingere a piene mani, quale fonte di ispirazione, bensì un vero e proprio mito. Oggi, quasi si nominano i Mayhem sottovoce, per l’enorme rispetto che i fan (non solo blacksters) hanno per questi ragazzi norvegesi che, fin dal 1984, furono capaci di sconvolgere il mondo di allora, e non solo musicalmente! Tra Inner Circle, Helvete (oggi eretto a museo in quel di Oslo), chiese bruciate, show imperniati di lanci di sangue e teste suine, ma soprattutto tristemente diventati famosi per morti violente dei formers (chi può dimenticare lo sconvolgente suicidio di Dead – all’anagrafe Per Yngve Ohlin e l’altrettanto scioccante omicidio di Euronymous – all’anagrafe Øystein Aarseth – , per mano di un giovanissimo Varg Vikernes – alias Count Grishnackh, alias Burzum – oggi all’anagrafe Louis Cachet) e per le tante vicissitudini legali che ne conseguirono.
Spesso, le band che vivono la loro esperienza musicale in un contesto così sconvolgente, passando da un cambio di formazione ad un altro, tra traumatiche dipartite (anche nel senso letterale del termine), lunghe pause, ritorni e pseudo-collaborazioni che durano il tempo di una canzone, tendono – a lungo andare – a sciogliersi. In realtà i Mayhem hanno stoicamente proceduto di gran carriera (soprattutto grazie alla costanza e all’impegno di Hellhammer, oggi anima e cuore della band), giungendo ai giorni nostri , sicuramente con poche effettive produzioni (solo 5 album ufficiali in 34 anni…), ma hanno però contribuito a fomentare quell’alone di sacralità che li circonda, portando con sé fama e gloria, leggenda e miticità che, ancora nel 2018, non trovano eguali.
La ristampa dell’album qui recensito – la nona su CD per essere precisi!- non deve necessariamente aggiungere alcunché, se non semplicemente rendere nuovamente disponibile un masterpiece che, ancora oggi, dona emozioni ai fan. Grand Declaration Of War – uscito originariamente nel 2000 – trova ancora Maniac alla voce (Attila, dopo aver “prestato” le sue doti vocali per De Mysteriis Dom Sathanas, il primo mitico lavoro, si dedicò ad altri progetti quali – tra gli altri – Plasma Pool, Sunn O))), Aborym, e Korog, per poi ritornare in pianta stabile, solo nel 2007, in occasione dell’uscita di Ordo Ad Chaos), Blasphemer alla chitarra, Necrobutcher al basso e ovviamente il mitico Hellhammer.
E’ il primo full-length che vede il cambiamento del logo da Mayhem a The True Mayhem; album fortemente voluto da Hellhammer che, già nel 1995 con una nuova formazione, faceva uscire lo storico The Dawn Of The Black Hearts, il live bootleg semi-ufficiale, registrato in quel di Sarpsborg/Norvegia nel 1990, con in copertina originale, la foto tanto controversa del cadavere di Dead, e appunto il nuovo logo. Piccolo aneddoto su questo bootleg (che è tanto curioso quanto terrificante): la leggenda narra che fu proprio Euronymous a trovare il cadavere; lo stesso Aarseth avrebbe poi prelevato dal cranio del povero suicida, parti di ossa, con cui avrebbe “adornato” collane per i membri del Gruppo. Indignato da tale atto, Necrobutcher avrebbe lasciato la band, sostituito dal celeberrimo Vikernes. Se così fosse, viste le conseguenze di tale cambio di line-up, si potrebbe affermare chiaramente, che mai Fato fu così impietoso per il povero Euronymous…
Ma torniamo a Grand Declaration Of War; qui è palesemente dichiarato il netto distacco con il passato (che suscitò non pochi dubbi e critiche dai fan di allora). Un album sicuramente più maturo, più complesso e – per dirla tutta – molto progressive, sia quasi letteralmente (un album davvero “progressista” per quei tempi) sia nel senso musicale del termine. Già dalla title-track si percepisce il forte cambiamento: orientamenti sonori, oggi accostabili più ad un Avantgarde che al puro vecchio Black. Il sovente utilizzo della “clean voice” (come anche nella successiva In The Lies Where Upon You Lay) fa presupporre che con questo album i Mayhem volessero dare una svolta decisiva al loro sound. Un album molto articolato, con una struttura davvero inusuale per quel tempo (e per i Mayhem stessi). Decisi inserti di elettronica – come in A Bloodsword And A Colder Sun e in Completion In Science Of Agony), rendono ancor più interessante l’opera intera, corroborata dalla tecnica sopraffina di Blasphemer (lontano anni luce dal grezzo, rozzo, sporco – ma non meno favoloso – guitar sound del compianto predecessore). I cambi di tempo sono impressionanti: da cadenzati mid-tempo a feroci up-tempo, da marce militari e rulli di tamburi, a variegate scale Death Prog, un po’ à la Necrophagist, o meglio ancora à la Cynic (come in View From Nihil). Grand Declaration Of War è – in definitiva – un capolavoro di tecnica, novità (per quegli anni) e originalità. Un album mai noioso, che riserva sempre sorprese dietro l’angolo: assaporate To Daimonion che, dopo un intro sci-fi, si libra in un Heavy Funk Prog (vagamente Mordred di Fool’s Game) imperniato da sublimi ritmiche Thrash, ove lo scream Black non imperversa mai, bensì si miscela in un sublime divino coniugio.
Scontentò molti allora, ne incuriosì altrettanti; ma oggi – abituati come siamo, a questo imperversare di generi e sottogeneri, nuove influenze musicali e nuove suggestioni sonore, che spesso impreziosiscono il nostro caro Black Metal – si può affermare con assoluta certezza, che è amato da tutti.

Tracklist
1. A Grand Declaration of War
2. In the Lies Where upon You Lay
3. A Time to Die
4. View from Nihil (Part I of II)
5. View from Nihil (Part II of II)
6. A Bloodsword and a Colder Sun (Part I of II)
7. A Bloodsword and a Colder Sun (Part II of II)
8. Crystalized Pain in Deconstruction
9. Completion in Science of Agony (Part I of II)
10. To Daimonion (Part I of III)
11. To Daimonion (Part II of III)
12. To Daimonion (Part III of III)
13. Completion in Science of Agony (Part II of II)

Line-up
Maniac – Vocals
Blasphemer -Guitars
Necrobutcher -Bass
Hellhammer -Drums

MAYHEM – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=3yxrje6jNJ0

Selvans – Faunalia

Tutte le canzoni sono magnifici affreschi tutti diversi fra loro, attraverso i quali si viene trasportati in una dimensione dove le nostre tradizioni sono ancora vive, anche quelle più crudeli e demoniache, perché noi siamo degli animali.

La natura, soprattutto quella animale, è la nostra vera casa, ed il cristianesimo ha rotto questo stretto legame, che si è totalmente dissolto con la nostra epoca giustamente chiamata antropocene.

Il nuovo lavoro degli italiani Selvans, chiamato Faunalia, è qui per ricordarci tutto ciò e riportarci sulla retta via: trattasi di un’ulteriore evoluzione del loro avanguardistico black metal, che con questo disco travalica i confini del genere. Infatti l’azzeccato sottotitolo è A Dark Italian Opus, ed infatti è un nero viaggio nel nostro immaginario, nei nostri boschi, nelle nostre tradizioni popolari, con i nostri animali che ci ricordano chi siamo in realtà, ed è qualcosa di ben diverso da questo sentimento moderno che imperversa ovunque. Il duo usa il black metal come codice di partenza per andare a creare un suono che sfocia, in alcuni momenti, nel neo folk e nella musica tenebrosa. Il suono dei Selvans è sempre cangiante ed interessante, vi troviamo il black metal italiano della nuova specie, momenti più classici sottolineati da un organo importante e sempre puntuale, e poi ci sono forti inserti di neo folk con l’introduzione di strumenti tipici. Non c’è posto per la confusione in questo progetto, la direzione è sempre in avanti, il disco è di alto livello e rientra pienamente nella nuova stirpe del black italiano, dove Donwfall Of Nur, Progenie Terrestre Pura, Earth And Pillars ed altri stanno facendo qualcosa di davvero importante, trasmutando il black metal in qualcos’altro, in pieno spirito alchemico. Ascoltando Faunalia si può addirittura parlare di progressive, perché le canzoni sono concepite in maniera non circolare, ma è un continuo avanzare verso nuovi territori. Tutte le canzoni sono magnifici affreschi tutti diversi fra loro, attraverso i quali si viene trasportati in una dimensione dove le nostre tradizioni sono ancora vive, anche quelle più crudeli e demoniache, perché noi siamo degli animali.

Tracklist
1. Ad Malum Finem
2.Notturno Peregrinar
3.Anna Perenna
4.Magna Mater Maior Mons
5.Phersu
6.Requiem Aprutii

Line-up
Haruspex – vocals, keyboards, traditional instruments
Fulguriator – guitars, bass

SELVANS – Facebook

Cor Serpentii – Phenomankind

I Cor Serpentii si dimostrano un macchina ben oliata, perfetta nell’esecuzione vocale e strumentale ma molto meno algida di quanto il tipo di sound offerto potrebbe far supporre; in definitiva, Phenomankind è un lavoro indicato a chi vuole ascoltare musica complessa ma al contempo non aridamente intrisa di solo tecnicismo.

Phenomankind è il primo frutto discografico di questa nuova band composta da tre musicisti gravitanti nella scena estrema francese, con agganci a band come i Savage Annihilation, i disciolti Insain e gli Orakle.

Ed è proprio il mastermind di questi ultimi, Frédéric Gervais, ad offrire le ottime parti vocali in questo album che potrebbe apparire anche sorprendente, se non fossimo ormai da tempo tutti ben consci dell’obliquo incedere del death metal in certi ambiti della scena transalpina.
I Cor Serpentii si rivelano così un entità in grado di offrire il genere nelle sue sembianze più tecniche e progressive nel senso vero del termine, andando ad abbracciare molteplici sfumature che partono dai Nevermore più nervosi spingendosi fino alla sperimentazione folle di Devin Townsend e a quella più ragionata di Ihsahn, senza neppure tralasciare nei passaggi più estremi gli influssi dei connazionali Gojira. Tutto ciò serve per fornire un’idea di massima per inquadrare un lavoro che sfugge comunque ad un preciso tentativo di catalogazione, risultando naturalmente di assimilazione non semplice ma anche meno cervellotico rispetto a quanto fatto da Gervais con i suoi pur ottimi Orakle.
A Phenomankind manca solo un brano capace di catturare l’attenzione per fissarsi più saldamente nella memoria di un ascoltatore che viene, comunque, circondato e sopraffatto da un sound in costante cambiamento ma non privo di passaggi melodici, subito dopo spazzati via da arcigne progressioni strumentali.
I Cor Serpentii si dimostrano un macchina ben oliata, perfetta nell’esecuzione vocale e strumentale ma molto meno algida di quanto il tipo di sound offerto potrebbe far supporre; in definitiva, Phenomankind è un lavoro indicato a chi vuole ascoltare musica complessa ma al contempo non aridamente intrisa di solo tecnicismo.

Tracklist:
1. Retrieval
2. A Closer Signal
3. The Serpent’s Stratagem
4. Sand Storm
5. Theomachia
6. Rise of the Blind
7. Waves of Wrath
8. Reversed Evolution
9. Phenomankind
10. Ubik

Line-up:
Benoît Jean – bass
Nicolas Becuwe – guitars
Frédéric Gervais – vocals

COR SERPENTII – Facebook

Bald Anders – Spiel

Il cantato il lingua madre caratterizza non poco opere di questo tipo, che sono comunque in grado di soddisfare il palato di chi vuole cibarsi di qualche pietanza saporita e meno usuale, assumendosi pure qualche rischio, ampiamente compensato dalla bellezza straniante di Spiel.

Chi ha amato i Lunar Aurora, quella che probabilmente è stata la migliore band black metal di sempre partorita dal suolo germanico, non può fare a meno di avvicinarsi con trepidazione e doveroso rispetto verso questo nuovo lavoro dei Bald Anders, gruppo fondato qualche anno fa dai fratelli Benjamin e Constantin König, ovvero gli Aran e Sindar responsabili, fra gli altri, di un capolavoro ineguagliabile come fu Andacht.

E’ bene però sgombrare subito il campo da ogni equivoco: qui il black metal è solo una delle molte componenti che si sovrappongono, talvolta in maniera apparentemente illogica o bulimica, all’interno di un progetto musicale che si presenta maniera esplicita come un qualcosa di difficilmente etichettabile.
Spiel è incentrato sull’idea di gioco (appunto spiel in tedesco) in tutte le sue forme, siano esse quelle più spensierate e di natura infantile, sia un qualcosa i cui esiti finali possono radicalmente la vita di chi vi si cimenta; ma un gioco è anche quello nel quale si trova sicuramente coinvolto l’ascoltatore provando a scoprire, di volta in volta, dove i nostri andranno a parare, ricordando ora la solennità degli stessi Lunar Aurora (Verhext), ora la vis sperimentale dei Nocte Obducta (Pestulon), per arrivare alle ritmiche scanzonate e catchy in quota Die Apokalyptischen Reiter (Drei Wünsche) fino ad una sorta di cabaret decadente di tipica matrice germanica (Rosenspalier).
L’album al primo ascolto spiazza e non poco, ma poi di volta in volta i tasselli del puzzle trovano la propria giusta collocazione, per cui la convivenza tra tutte le sfumature citate in precedenza vede la sua sublimazione nell’enfasi lirica di Fantasma, brano in cui il flusso emozionale che pervadeva l’opera dei Lunar Aurora trova un suo naturale sbocco, sia pure sotto diverse sembianze.
Come sempre il cantato il lingua madre caratterizza non poco opere di questo tipo, che sono comunque in grado di soddisfare il palato di chi vuole cibarsi di qualche pietanza saporita e meno usuale, assumendosi pure qualche rischio, ampiamente compensato dalla bellezza straniante di Spiel.

Tracklist:
1.Das achte Haus
2.Drei Wünsche
3.Taugenichts
4.Verhext
5.Fantasma
6.Rosenspalier
7.Le Fuet
8.Pestulon
9.Der Onkel

Line-up:
Benjamin König
Constantin König
Clemens Kernert

BALD ANDERS – Facebook

Gnaw Their Tongues & Crowhurst – Burning Ad Infinitum: A Collaboration

Molto raramente una collaborazione fra due entità musicali e spirituali è stata così proficua e valida, come se si trattasse di un nuovo gruppo che nasce da due teste, un incubo sonoro votato al dio rumore.

Quando due estremismi musicali e due produttori di rumore si incontrano non può che venirne fuori una piccola apocalisse, e questo è proprio il caso della collaborazione fra l’olandese Gnaw Their Tongues e Jay Gambit aka Crowhurst.

Gnaw Their Tongues è la creatura di noise tribale estremo di Maurice De Jong, che si è creato con le su opere uno zoccolo duro di amanti dei suoi suoni alieni, mentre Jay Gambit è un altro esploratore sonico in solitaria, ma ha anche collaborato proficuamente con Caïna ed Ævangelist
Il risultato è un ep devastante e bellissimo, una fotografia insanguinata ed in movimento di ciò che può essere un uso del metal e dl rumore fatto da due produttori molto talentuosi. I quattro pezzi dell’ep sono tutti diversi e portano avanti un discorso separato, quasi come se fossero opere a sé stanti ed autosufficienti, con il titolo che rende benissimo la struttura portante del lavoro. Burning Ad Infinitum, bruciare all’infinito, è un qualcosa che è molto ben rappresentato da questa musica, un continuo rovesciamento, un incrociare droni con un black death che vive di grind, un sottofondo violento che poi esplode in passaggi vicini all’hardcore e ai Sepultura più tribali. Un misto di estremismo e di grandi scelti musicali non convenzionali, qui come in ognuno di noi non vi è nulla di normale, come tastiere angeliche che fanno da accompagnamento ad un pezzo grind noise. Ascoltando questa collaborazione (che non è uno split, attenzione) si viene completamente immersi in una forma musicale che è una deprivazione sensoriale, poiché qui il vero protagonista è il rumore che distorce la realtà e ce la fa vedere per quello che è: il nulla. Molto raramente l’unione fra due entità musicali e spirituali è stata così proficua e valida, come se si trattasse di un nuovo gruppo che nasce da due teste, un incubo sonoro votato al dio rumore. A differenza di tante avanguardie che sono inascoltabili od illeggibili, a volte per scelta volontaria, qui tutto è perfettamente leggibile ed ascoltabile, e ciò spaventa ancora di più perché questo è rumore vero. Il dodici pollici è pubblicato dalla Crown And Thorne Ltd, che è una delle etichette più libere e creative in circolazione, nonché la casa più adatta per questi suoni.

Tracklist
1.Nothing’s Sacred
2.Speared Martyrs
3.The Blinding Fury of Suffering
4.The Divinity Of Our Great Perversions

Felis Catus – Banquet On The Moon

Banquet On The Moon è un’opera che vi porterà lontano dandovi modo di sognare attraverso un reticolato musicale che si espande dentro e fuori di noi.

Felis Catus è l’affascinante progetto solista di Francesco Cucinotta, voce e chitarra dei catanesi Sinaoth.

In questo progetto solista cominciato nel 2010 Francesco si esprime liberamente e spazia in tantissimi generi, dando vita ad una delle cose più interessanti dell’underground italiano, uscendo per la Masked Dead Records di Brescia che ha un catalogo molto interessante. Il disco è visionario e usa diversi linguaggi musicali per dipanare una narrazione interessante ed assolutamente non convenzionale. Per idee e prolificità Francesco è una di quelle persone che vive di musica, ed è molto bravo a rendere al meglio atmosfere diverse. Ascoltando Banquet On The Moon, seppure non sia di lunga durata, ci sono innumerevoli sorprese, è come un palazzo con ampie stanze, ma anche passaggi segreti che scorrono a fianco delle cose visibili. Il suo approccio alla musica è totale, la sua ricerca musicale è immensa, in questo disco ci sono vere e proprie visioni musicali che denotano la sua voracità musicale. Qui dentro troviamo dal death metal all’ambient e tanto altro, ma soprattutto si incontra una coerenza nel raccontare una storia, come se Banquet On The Moon fosse la colonna sonora di un libro o di un film. Il filo conduttore del disco è la meraviglia, lo stupore dell’uomo di fronte a qualcosa di molto più grande e misterioso di lui, e Felis Catus mette in musica una grandissima gamma di emozioni, di vita, sogni e morte. Praticamente Cucinotta ha suonato da solo tutto il disco, come un magnifico direttore di orchestra, e il risultato assomiglia molto a vecchie colonne sonore di film italiani underground dimenticati ma ancora vivi. Il metal è solo un punto di partenza e c’è un forte gusto italiano in queste musiche, una sensazione che parte dagli anni sessanta ed arriva ai giorni nostri, un visionario filo che lega insieme molto dell’underground e di aspetti che attraversano varie discipline, senza terminare con il mero atto musicale o di scrittura. Banquet On The Moon è un’opera che vi porterà lontano dandovi modo di sognare attraverso un reticolato musicale che si espande dentro e fuori di noi.

Tracklist
1) Banquet On The Moon
2) Cydonia (Feat. Gray Ravenmoon)
3) Baron Munchausen
4) Eternity (The Nothigness) (Feat. Alessandro Riva)

Line-up
Francesco Cucinotta – All Instruments and voice

FELIS CATUS – Facebook

Dark Buddha Rising – The Black Trilogy

Per chi ama il metal psichedelico e rituale, un sottogenere apertamente esoterico e alienante, questa raccolta dei primi tre dischi dei finlandesi Dark Buddha Rising è un bellissimo regalo da parte della Svart Records.

Per chi ama il metal psichedelico e rituale, un sottogenere apertamente esoterico e alienante, questa raccolta dei primi tre dischi dei finlandesi Dark Buddha Rising è un bellissimo regalo da parte della Svart Records.

Prima di accasarsi alla stessa Svart e incidere per la Neurot, gli sciamani finnici avevano rilasciato tre doppi dischi, Ritual IX del 2008, Entheomorphosis del 2009 e Abyssolute Transfinite datato 2011, sulla loro etichetta Post -RBMM con un bassa tiratura, diventando ben presto un feticcio per i collezionisti. Ora sono disponibili rimasterizzati e con una nuova veste, in doppio vinile, cd e download digitale. Inoltre c’è anche una bellissima edizione limitata in sette vinili che oltre a contenete i succitati lp ha anche al suo interno l’introvabile demo del 2007.
Definire la loro musica è molto difficile, diventa arduo anche decidere se sia musica, poiché qui gli strumenti musicali, inclusa la voce umana, sono usati per compiete rituali che aprono la mente a dimensione diverse a quella in cui viviamo. Infiniti giri di chitarra basso e batteria, che con frequenze diverse dal normale entrano nella nostra mente e grattano via le nostre idee mentali per aprirci delle porte. Ad esempio il rituale chiamato Ennethean, dal primo disco Ritual IX, ha una frequenza talmente bassa che farà vibrare tutto il vostro corpo, membra incluse. Ovviamente questa non può essere una proposta musicale per tutti: qualche curioso potrà essere un nuovo adepto di questo grandissimo gruppo, ma chi non ha la mente aperta non entri neppure qui. I Dark Buddha Rising sono uno dei pochi gruppi al mondo, inclusi i Nibiru da Torino, che fanno davvero musica rituale, ovvero un qualcosa che ci metta in contatto con mondi diversi, dentro e fuori da noi. Le coordinate spazio temporali qui perdono di significato, si viaggia per l’universo come la pallina di un flipper, oppure molto lentamente, con il terrore di incontrare gli Antichi di Lovecraft. Magia, arcaici archetipi che si fondono dentro di noi, perché ci sono sempre stati e questa musica rituale dei finlandesi li porta fuori o ce li fa semplicemente rivivere.
Un’operazione doverosa e ben condotta dalla Svart Records per riportare a galla delle gemme che si erano perse e per espandere le nostre coscienze.

Tracklist
– Ritual IX –

1.Enneargy
2.Enneanacatl
3.Enneathan
4.Enneathan

– Entheomorphosis –

1.Transperson I
2.Transperson II
3.Transcent
4.Nog Uash’Tem

– Abyssolute Transfinite –

1.Ashtakra I
2.Ashtakra II
3.Chonyidt 45
4.Sol’Yata

Line-up
V. Ajomo
M. Neuman
P. Rämänen
J. Rämänen
J. Saarivuori

DARK BUDDHA RISING – Facebook

Essenz – Manes Impetus

Gli Essenz non risparmiano sofferenze all’ascoltatore ed in quasi un’ora di furia, rallentamenti asfissianti, ambient e aperture vicine al death più morboso, regalano un’opera a tratti complessa ed ostica, ma dal raro e annichilente potenziale.

Il terzo full length dei tedeschi Essenz, a sei anni dal precedente Mundus Numen, riporta alla ribalta un grippo enigmatico e sfuggente ma di spessore non comune nella sua interpretazione della materia estrema.

Il black metal offerto dalla band berlinese (nella quale confluiscono membri dei Drowned e degli Early Death) è piuttosto lontano dall’ortodossia del genere, se andiamo e vederne la forma, ma molto più vicino al momento di consuntivare il risultato finale, in quanto il carico di misantropica cupezza che i nostri scaricano in Manes Impetus è davvero moto elevato.
Il sound, per certi versi, può essere assimilabile ad una versione avantgarde del black più francese che tedesca (parliamo quindi di sperimentatori estremi come Blut Aus Nord o Deathspell Omega, ma anche dei vicini di casa Darkspace) ma non è difficile rinvenire il tentativo, spesso riuscito, di coinvolgere l’ascoltatore in maniera più diretta, grazie ad un incedere sovente cadenzato che spinge il tutto dalle parti di un doom deviato.
Il mondo prefigurato dagli Essenz è un luogo nel quale l’ossigeno scarseggia, sia quando si corre a perdifiato sia nei momenti in cui il passo rallenta e il sound si dilata; la solennità che contraddistingue il black metal germanico non viene certo meno ma qui viene messo al servizio di un incedere claustrofobico all’ennesima potenza, con quelle cavalcate in doppia cassa che paiono non vedere mai la fine, in particolare nelle lunghissime Peeled & Released e Randlos Gebein, ideali manifesti sonori dell’album.
Gli Essenz non risparmiano sofferenze all’ascoltatore ed in quasi un’ora di furia, rallentamenti asfissianti, ambient e aperture vicine al death più morboso (Ecstatic Sleep, per la parte che arriva dopo l’iniziale prolungamento della sperimentale Sermon To The Ghosts), regalano un’opera a tratti complessa ed ostica, ma dal raro e annichilente potenziale.
Non tragga in inganno il riferimento alle band avanguardiste fatto in precedenza: nonostante un certa contiguità a simili suoni, in realtà Manes Impetus si rivela paradossalmente più scorrevole , a patto di non opporre resistenza alle reiterazioni ritmiche ed al rombo, sovrastato dal ringhio di g.st., che si materializza all’interno di un lavoro che, per i suoi contenuti, non dovrebbe per nessun motivo essere trascurato.

Tracklist:
1. Peeled & Released
2. Unfolding Death
3. Amortal Abstract
4. Randlos Gebein
5. Apparitional Spheres
6. Sermon To The Ghosts
7. Ecstatic Sleep

Line-Up:
g.st. – vocals, lyrics, bass
d.rk – guitar
t.ngl – drums
d.bf – noise

ESSENZ – Facebook

Pensées Nocturnes – Grotesque

Nuovi stili musicali, nuove avanguardie, influenzano positivamente o inquinano irrimediabilmente il black metal? Un quesito per tutti coloro che approcciano album come Grotesque, della one-man band francese Pensées Nocturnes. A voi l’estrema decisione.

Quello che non manca sicuramente alla one-man band francese dei Pensées Nocturnes è il coraggio.

Al giorno d’oggi, le mille sfumature che ha assunto il black metal, hanno reso il genere sicuramente più accessibile; molti – probabilmente – che in passato aborrivano questa lato estremo del metal, hanno iniziato ad avvicinarsi al genere, anche grazie alla moltitudine di album di sottogeneri, che oggi invadono gli scaffali dei negozi di dischi (o meglio i siti internet, vista la repentina e triste scomparsa del classico negozietto sotto casa).
In Grotesque, album uscito nel 2010 e riedito in vinile quest’anno da Les Acteurs de l’Ombre Productions, oggetto di questa recensione, il genere proposto da Vaerohn si potrebbe definire avantgarde post black metal con sfumature barocco/neoclassiche(!), cantato in francese.
Ma andiamo per gradi. Il primo pezzo Vulgum Pecus, dopo un desolante inizio da marcia funebre, procede senza che, in alcun modo, qualcuno possa identificarne una band black metal. Pezzi orchestrali maestosi, pomposi, legni, ottoni ed archi che sostituiscono i più “tradizionali” strumenti del genere, quali chitarre zanzarose e bassi distorti, in assenza totale di drumming ritmico (blast beat) e parti vocali (scream). La parte terminale accoglie persino un sottofondo di applausi stile Scala di Milano, quasi a voler sottolineare che ciò che andremo ad ascoltare non sarà un semplice album, bensì un vero e proprio concerto sinfonico.
Se non fosse per la durata del pezzo (più di tre minuti) avrei pensato ad un (bellissimo) intro. A questo punto, cresce l’attesa e la curiosità, per il secondo pezzo, Paria, che, dopo alcuni secondi di cacofonica introduzione di batteria e basso, mostra il suo vero intento: struggere l’ascoltatore, deprimerlo sino a condurlo al suicido, annichilendolo al punto da renderlo completamente abulico ed indolente. Un lamento angosciante, costruito su accelerazioni scoordinate e momenti soporiferi, scanditi da batteria e piatti, e da sprazzi di gorgheggi vocali più accostabili ad un tenore, intervallati da urla strazianti (tra lo scream e il growl). Senza soluzione di continuità tra gli strumenti (quasi sempre si ha l’impressione che le basi ritmiche facciano a pugni e che tutto sia improvvisato), il genere proposto da Vaerohn, vacilla tra uno stile che vuole essere estremo, ma che non lo è almeno nel senso letterale del termine, ed un’opera sinfonica, un funeral depressive doom di matrice classica, sostenuto da una base quasi jazzata (ma nel senso disarmonico del termine). Come nella successiva Rahu che, addirittura, sotto ad un vero cantato scream (finalmente) quasi trascende, nelle sue seppur brevi accelerazioni, uno speed metal, inaspettato, e forse mai ascoltato prima. Malinconici arpeggi, accompagnati da violoncelli, fagotti, clavicembali – e chi più ne ha più ne metta – da orchestra barocca, sempre quasi sembrando in disaccordo tra loro, con una voce in bilico tra un lamentoso clean e uno straziante scream/growl , sono ciò che ci si può aspettare, acquistando questo album. Eros è un pezzo più shoegaze inglese che metal vero e proprio, che non fa altro che acutizzare la ferita oramai aperta, per chi si aspettava un album black, o estasiare chi invece era alla ricerca di nuove sperimentazioni sonore. Anche in questa traccia, dopo il classico riff monocorde tipico del genere, diciamo in drone style, si percepisce l’amore smisurato del francese per la musica classica (la parte terminale è un trionfo di trombe e tromboni). Monosis, è il momento più funebre dell’album. Una voce sempre tra il clean, nella sua espressione più lirica, e uno scream strozzato e straziante, che mostra quanto il nostro, più che cantare, voglia esternarci la sua disperazione per la vita terrena. Suoni più da Bladerunner danno un tocco sci-fi al pezzo, subito seguiti da una parentesi folkeggiante – quasi gypsy – da festa di Santa Sara (patrona di tutti i Gitani), che sfocia poi irrimediabilmente nel caos sonoro di ritmiche sparate alla velocità della luce, in completa disarmonia tra loro.
Se qualcuno avesse ancora dubbi sul fatto che Mr.Vaerohn volesse sconvolgerci in qualche modo, ecco che arrivano Hel e la successiva Thokk (depressive cacophonic classic black metal?) emblematici esempi di ciò che abbiamo ascoltato sinora; in Hel qualche inserto di xilofono da film dell’orrore ci ottenebra la mente, ci vaporizza quel poco di luce interiore che ancora ci era rimasta, mentre l’organo da chiesa di Thokk, fa piazza pulita di quel che ci resta di ancora umano.
L’ultima track (un teatralmente tragico pezzo di pianoforte) è Suivante (Seguente), che chiude un drammatico capitolo musicale, quasi sicuramente capolavoro per chi ama la sperimentazione sonora e queste nuove forme artistiche, un deludente (ed inquinante) nuovo approccio al black, per i tradizionalisti.
Il voto 6, deriva dalla media tra 7, per il coraggio e la ricerca di nuovi suoni, e 5 per l’aver voluto inserire la parola black in questo contesto.
Ultima nota di colore, tanto per prenderci ancor più alla sprovvista: face painting d’ordinanza per il nostro, ma più che Abbath pare un misto tra Pennywise e il Joker … Bambini, paura!

Tracklist
1.Vulgum Pecus
2.Paria
3.Râhu
4.Eros
5.Monosis
6.Hel
7.Thokk
8.Suivant

Line-up
Vaerohn – Vocals, all instruments, songwriting, lyrics

PENSEES NOCTURNES – Facebook

Death.Void.Terror. – To the Great Monolith I

To the Great Monolith I si rivela un’esperienza sonica spiazzante o devastante, a seconda di quale sia il grado di compenetrazione di ciascuno verso questo impietoso approccio musicale.

To the Great Monolith I è la prima uscita per questo misterioso progetto musicale di provenienza probabilmente elvetica denominato Death.Void.Terror.

Siamo alle prese con un lavoro che lascia ben poco spazio ad orpelli stilistici o gradevolezze assortite: quello offerto in questo frangente è un maelstrom sonoro che si dipana in forma sperimentale partendo da una base black.
Il risultato che ne scaturisce è composto da due tracce lunghissime, per un totale di circa quaranta minuti, che devono essere affrontate con il giusto spirito per poterne cogliere quanto di valido vi è contenuto.
To the Great Monolith I si rivela infatti un’esperienza sonica spiazzante o devastante, a seconda di quale sia il grado di compenetrazione di ciascuno verso questo impietoso approccio musicale.
In buona sostanza, quella offerta dai Death.Void.Terror. è la colonna sonora di un apocalisse che, probabilmente, è già in corso dal un bel pezzo mentre noi continuiamo a suonare come l’orchestrina del Titanic mentre stiamo colando definitivamente a picco.

Tracklist:
1 (——–)
2 (—-)

Malnàtt – Pianura Pagana

Musicalmente è forse l’album più maturo del collettivo, molto completo dal punto di vista compositivo, e quasi pronto per essere trasposto in una piece teatrale, perché in fondo questo dei Malnàtt è teatro con musica pesante.

Il collettivo bolognese Malnàtt è molto più di un gruppo metal, è un’idea messa in musica pesante.

L’opera del collettivo è sempre stata di alto livello qualitativo e con messaggi molto forti, e anche in questo disco l’approfondimento è notevolissimo. Pianura Pagana è la dimostrazione che il metal può essere arte che nasce dal basso e si propaga per far meglio comprendere ciò che c’è sotto la superficie, ed in questo caso di marcio ce n’è davvero molto. La proposta musicale dei Malnàtt spazia nel mondo del metal, dal black al death, passando per pezzi più prog e sfuriate quasi thrash. In questo progetto la musica è al servizio del messaggio, ma essa stessa è messaggio e da un valore aggiunto molto importante. Tutta l’opera dei bolognesi è di agitazione culturale, quasi fossero una propaggine del collettivo culturale Wu Ming in campo metal. Pianura Pagana è un disco che sa di antico, un sentire con la mente libera da preconcetti e dai tarli della nostra consumistica esistenza. Il disco è una chiara dichiarazione di intenti, un continuo carnevale in senso medioevale, poiché quando suonano questi signori diventano altro da ciò che sono tutti i giorni, come spiegato nella splendida canzone Il Collettivo Malnàtt, che illustra molto bene cosa sia questa entità davvero unica. Il cantato in italiano rende moltissimo e fa l’effetto di una messa pagana senza alcun simbolo, solo l’andare contro la comune morale cristiana e borghese, ricercando il senso della vita e la sua forza, sempre più nascoste in questo mondo di plastica. Musicalmente è forse l’album più maturo del collettivo, molto completo dal punto di vista compositivo, e quasi pronto per essere trasposto in una piece teatrale, perché in fondo questo dei Malnàtt è teatro con musica pesante. Vengono anche smascherati i nostri tic, le normali aberrazioni che ogni giorni imperano in tv, creando quel cortocircuito che nasce mentre vediamo la morte in diretta mangiando tranquillamente con i nostri familiari, sentendoci al sicuro; ma non lo siamo affatto, perché il nemico peggiore siamo noi stessi, siamo noi gli assassini, siamo noi che abbiamo affidato le nostre speranze alla gente sbagliata da più di 2000 anni. Pianura Pagana va ascoltato nota per nota, parola su parola, immagine per immagine, perché è un piccolo capolavoro di coscienza, come li faceva una volta Pasolini; infatti qui i Malnàtt mettono in musica Alla Mia Nazione, e lì dentro c’è tutto.

Tracklist
1. Almanacco pagano
2. Io ti propongo
3. Il Collettivo Malnàtt
4. E lasciatemi divertire
5. Cadaverica nebbia
6. Alla mia nazione
7. Intervallo pagano
8. Qualche parola su me stesso
9. Posso
10. Chiese chiuse
11. Dialogo di marionette

MALNATT – Facebook

Lychgate – The Contagion in Nine Steps

La terza opera della band albionica incute soggezione, non tanto per la mole quanto per la grande quantità di idee, di personalità, di suoni presenti nei sei brani; un vortice di atmosfere vincolate a un suono funeral e black molto personale, cangiante e che non ha eguali nell’attuale scena musicale.

La terza opera della band albionica incute soggezione, non tanto per la mole quanto per la grande quantità di idee, di personalità, di suoni presenti nei sei brani; un vortice di atmosfere vincolate a un suono funeral e black molto personale, cangiante che non ha eguali nell’attuale scena musicale. Sono attivi dal 2013 con l’omonima opera e nel 2015 avevano rifinito la loro idea di musica con Antidote for the Glass Pills, ma ora con questa opera raggiungono un ulteriore livello di arte.

Tutti i testi e la musica sono opera di Vortigern (J.C.Young), drummer in un vecchio progetto black greco, i The One, autori nel 2008 di un buon lavoro come I,Master, che ora suona la chitarra, mentre le vocals sono appannaggio di un grande artista come Greg Chandler (mastermind degli Esoteric); l’unione tra questi due artisti ha generato una creatura sinistra e affascinante che con questa terza opera ci lascia attoniti di fronte alla grandeur, alla magnificenza del loro suono che si nutre di tanti ingredienti per mostrare la propria forza: aromi gotici, heavy-progressive, funeral doom, black impregnano tutti i brani che sono scritti con grande ispirazione. L’uso dell’organo, del piano e del mellotron aggiunge grande potenza, maestosità e teatralità fino dall’opener Republic (per un gioco di suggestioni l’inizio mi ha ricordato il film horror del 1971 – L’abominevole dr. Phibes, con un grande Vincent Price) che incede lenta squarciata dal growl di Chandler a rivaleggiare con il suono oppressivo dell’organo. Un sound stratificato, avanguardistico, permea Unity of Opposites dove oscure linee di basso conducono la danza e permettono all’organo di ricamare suoni in sottofondo; il tocco romantico e lunare dei riff di chitarra accende Atavistic Hypnosis (brano magnifico), che si snoda per quasi nove minuti, coinvolgendo fortemente in un’atmosfera oscura e surreale. Ispirato dal libro The Invincible di Stanislaw Lew (anche i russi Below the Sun sono stati ispirati da questo autore con lo splendido Alien World del 2017) l’opera procede con gli strali dark di Hither Comes the Swarm, altro brano dove giganteggia l’organo e nel quale si assiste all’unica breve sfuriata black nel senso classico del termine, e con The Contagion, dai toni aspri e personali. La più breve Remembrance con toni corali e con una melodia carica di spiritualità chiude un’opera d’arte di gran livello, il cui ascolto è necessario per nutrire il proprio spirito di grandi sensazioni.

Tracklist
1. Republic
2. Unity of Opposites
3. Atavistic Hypnosis
4. Hither Comes the Swarm
5. The Contagion
6. Remembrance

Line-up
A.K. Webb – Bass
S.D. Lindsley – Guitars
T. J. F. Vallely – Drums
J. C. Young “Vortigern” – Guitars
Greg Chandler – Vocals

LYCHGATE – Facebook

Arkheth – 12 Winter Moons Comes the Witches Brew

Ormai le sperimentazioni in ambito black metal si palesano con tale frequenza che rischiano quasi non stupire più.

Proprio per questo, chi si cimenta sulle vie aperte da qualche audace pioniere nel passato, per ottenere la giusta attenzione ed un meritato riscontro non deve limitarsi a gettare nel calderone qualsiasi elemento gli frulli per la testa, bensì provare a farlo mantenendo ugualmente un equilibrio atto a garantire il mantenimento di un filo logico al proprio operato.
L’australiano Tyraenos appartiene alla categoria, invero non cosi numerosa, di chi è riuscito tutto sommato a raggiungere tale risultato: questo terzo full length in quindici anni targato Arkheth rappresenta la focalizzazione di una visione musicale non comune, alla quale il nostro è pervenuto attraverso un percorso lungo e sicuramente senza fretta, considerando che il precedente lavoro, IX & I: The Quintessence of Algaresh, risale al 2010 e vedeva un inizio di distacco dalle sonorità symphonic black che, invece, erano ben presenti nell’esordio Hymns of a Howling Wind.
12 Winter Moons Comes the Witches Brew è l’approdo ad una forma di black che sicuramente ha molte più possibilità di portare all’attenzione dall’audience il nome Arkheth, benché sia per forza di cose molto meno accattivante rispetto a quella praticata in precedenza: è emblematica in tal senso la traccia iniziale Trismegistus, vero e proprio delirio nel quale il musicista aussie immette pulsioni di qualsiasi genere, con un elemento peculiare quale il sax (suonato dall’ospite Glen Wholohan) ad impazzare in lungo e in largo lungo questi sette minuti che, volendo ricondurre il tutto a qualcosa di conosciuto, ci porta dalle parti di efficaci sperimentatori del black quali gli A Forest Of Stars, specialmente nella magnifica parte conclusiva.
Appare più dissonante e definibile a buon titolo post black un brano come Dark Energy Equilibrium, ugualmente ricco di brillanti intuizioni che si palesano andando a scompaginare un sempre precario andamento rettilineo; è invece una sghemba psichedelia a caratterizzare l’avvio di Where Nameless Ghouls Weep, episodio a tratti forse un po’ troppo cervellotico rispetto al resto del contesto, come si può dire anche della successiva The Fool Who Persists in His Folly, con un sempre notevole contributo del sax.
A Place Under the Sun chiude in maniera relativamente più pacata un lavoro complesso e che lascia sensazioni discordanti: Tyraenos mette molta carne al fuoco, a tratti anche troppa, e nell’inseguire modelli musicali dediti al black avanguardistico, come per esempio Ihsahn, li sorpassa in curva con il rischio di finire talvolta fuori strada.
Il lavoro mostra comunque ben più luci che ombre, con queste ultime rappresentate, oltre che da una naturale frammentarietà, da una produzione non proprio ottimale per un tipo di offerta simile ed uno screaming un po’ inespressivo; rimane però tutto il molto di buono che è rinvenibile all’interno di 12 Winter Moons Comes the Witches Brew, album che rappresenta un ascolto impegnativo ma non privo di soddisfazioni per gli ascoltatori più attenti.

Tracklist:
1. Trismegistus
2. Dark Energy Equilibrium
3. Where Nameless Ghouls Weep
4. The Fool Who Persists in His Folly
5. A Place Under the Sun

Line-up:
Tyraenos – All instruments

Guest/Session
Glen Wholohan – Saxophone

ARKHETH – Facebook

Ophe – Litteras Ad Tristia Maestrum Solitude

Nonostante quella targata Ophe sia una forma di avanguardismo quanto mai estrema, l’album possiede una sua logica, per quanto a tratti destrutturata, riuscendo così ad attrarre piuttosto che respingere ogni tentativo d’approccio.

Dopo aver accolto gli ottimi Område, duo francese dedito ad una forma di black metal decisamente poco convenzionale, la My Kingdom cattura anche gli Ophe, che di quella band sono una diretta emanazione trattandosi del progetto solista di Bargnatt XIX.

Parlando l’anno scorso di Nåde, avevo evidenziato come gli Område, pur nella loro vis sperimentale, riuscivano a mantenere il tutto nell’alveo di una forma canzone che rendeva l’ascolto sicuramente non semplice ma neppure eccessivamente cervellotico.
Ben diverso è il discorso da farsi per questo Litteras Ad Tristia Maestrum Solitude, con il quale il musicista lascia sfogare ogni sua pulsione senza porsi particolari limiti stilistici o compositivi, consentendo ad elementi musicali teoricamente alieni al black metal quali il jazz o il noise di arricchire e allo stesso tempo di avvelenare ulteriormente un’atmosfera già abbondantemente malata.
Ne scaturisce così un lavoro non troppo lungo ma intenso e sfidante per le capacità di assimilazione dell’ascoltatore medio: eppure, nonostante quella targata Ophe sia una forma di avanguardismo quanto mai estrema, l’album possiede una sua logica, per quanto a tratti destrutturata, riuscendo così ad attrarre piuttosto che respingere ogni tentativo d’approccio.
Con Litteras Ad Tristia Maestrum Solitude, Bargnatt XIX si spinge anche oltre la tradizione del black sperimentale transalpino ben rappresentata da band come Deathspell Omega e Blut Aus Nord, alzando l’asticella dell’incomunicabilità per raggiungere l’illogica schizofrenia di una band come i Fleurety; però, al contrario del duo norvegese, gli Ophe non illudono l’ascoltatore con passaggi più fruibili per poi quasi deriderlo con momenti a loro modo sconcertanti, ma ne mantengono la testa sempre ben al di sotto della linea di galleggiamento consentendo che un’effimera bolla di ossigeno si palesi solo con la conclusiva Cadent, le cui dissonanze acustiche e la voce carezzevole riescono parzialmente ad edulcorare l’impatto squassante di gran parte del lavoro.
Personalmente ritengo i folli sei minuti di XVIIII l’emblema di Litteras Ad Tristia Maestrum Solitude, con le riminiscenze zorniane che vanno a sovrapporsi all’ottimo lavoro chitarristico del musicista francese, ma anche l’ossessivo mantra recitato sottovoce di Decem Vicibus non è da meno, andando a formare una coppia di tracce più brevi che fungono quasi da spartiacque tra il black metal deviato di Somnum Sempiternum e la cacofonia di Missive Amphibologique D’Une Adynamie A La Solitude.
In buona sostanza, se black metal avanguardista deve esserci, questa è la strada maestra, proprio perché l’operato di Bargnatt XIX non si disperde in mille rivoli di breve gittata, ma rimane nell’alveo in un discorso musicale coerente, per quanto possa apparire nell’immediato inquieto e scostante.

Tracklist:
1. Somnum Sempiternum
2. Decem Vicibus
3. XVIIII
4. Missive Amphibologique D’Une Adynamie A La Solitude
5. Cadent

Line-up:
Bargnatt XIX

OPHE – Facebook