Urza – The Omnipresence Of Loss

The Omnipresence Of Loss si rivela un lavoro senz’altro riuscito anche se, per le sue caratteristiche, la durata che supera di poco l’ora ne rende piuttosto impegnativo l’ascolto.

Di norma accogliamo sempre con grande soddisfazione l’apparizione di nuove band dedite al funeral death doom, tanto più poi se al primo full length l’etichetta che ne cura l’uscita è una garanzia come la Solitude.

I tedeschi Urza, come prevedibile, non deludono e si rendono protagonisti di un lavoro decisamente degno della fiducia a loro accordata dalla label russa.
La band berlinese, in effetti, sarebbe attiva già da alcuni anni ma come sempre la gestazione nel doom non è mai breve per definizione, per cui dopo il singolo Path Of Tombs, pubblicato lo scorso anno, arriva ora l’esordio su lunga distanza The Omnipresence Of Loss che, già nell’ultima parola del titolo, porta con sé qualche indicazione utile a inquadrare il sound visto che l’omonima band statunitense è senz’altro uno dei vari punti di riferimento per gli Urza.
Il sound offerto è aspro, dalle poche divagazioni melodiche ma comunque non troppo monolitico né rallentato, offrendo nei limiti delle coordinate del genere una certa varietà ritmica con il ricorso a qualche corrosiva accelerazione così come a più liquidi e rarefatti passaggi.
La già citata Path Of Tombs è decisamente la traccia guida dell’album grazie alla presenza di una linea melodica più definita rispetto al tetragono andamento degli altri quattro brani. D’altronde il background di gran parte degli esperti musicisti coinvolti nel progetto è soprattutto di matrice death (anche se il chitarrista Oliver Schreyer ha fatto parte della line up degli Ophis in occasione del full length d’esordio Stream Of Misery) e questo spiega in parte come il funeral degli Urza appaia più robusto e meno dolente rispetto a quanto siamo abituati ad ascoltare. The Omnipresence Of Loss si rivela un lavoro senz’altro riuscito anche se, per le sue caratteristiche, la durata che supera di poco l’ora ne rende piuttosto impegnativo l’ascolto.

Tracklist:
1 Lost In Decline
2 A History Of Ghosts
3 Path Of Tombs
4 From The Vaults To Extermination
5 Demystifying The Blackness

Line-up:
Marc Leclerc – Bass
Hannes – Drums
Oliver Schreyer – Guitar
Marcus – Guitars
Thomas – Vocals

URZA – Facebook

Red Moon Architect – Kuura

I Red Moon Architect assorbono e rielaborano il meglio della più importante scena funeral del pianeta, quella finnica, e regalano con Kuura un capolavoro destinato a segnare il genere per molto tempo. Da ascoltare più e più volte finché la brina non si scioglierà mescolandosi alle lacrime.

Nella maggior parte dei casi le band che avviano il proprio percorso artistico partendo da basi estreme tendono con il tempo ad aprirsi, sia pure in maniera minima, verso sonorità meno claustrofobiche e più fruibili.

Non che i Red Moon Architect fino ad oggi avessero proposto musica di facile ascolto, ma non c’è dubbio che il loro approdo al funeral doom più tetro e dolente costituisce parzialmente una sorpresa. Se in Return of the Black Butterflies, terzo full length di una discografia fatta di soli grandi album, la band di Saku Moilanen aveva trovato una sorta di mirabile equilibrio tra gothic, death e funeral doom, complice anche l’uso della voce della brava Anni Viljanen, in Kuura l’unica concessione al comparto vocale è il ricorso alle urla strazianti di Ville Rutanen che ben si addicono ad un sound che è pura e magistrale esibizione di sofferenza e disperazione.
La brina (kuura in finlandese, appunto) avvolge e rende impermeabile ad ogni impulso vitale un cuore che sta per arrendersi all’insostenibile pesantezza dell’essere, e gli ultimi ansiti vitali sono rappresentati dalle grida di chi utilizza le residue risorse a disposizione per comunicare al mondo l’orrore e la nausea che hanno avvelenato un’intera esistenza.
Se la prima parte è drammaticamente intensa e soffocante e la seconda è un più breve episodio di ambient rumoristica ed oscura, è nella terza e conclusiva traccia che il sound pare aprirsi ad un malinconico e commovente incedere, punteggiato da un minimale ma emozionante tocco pianistico.
Ovviamente i Red Moon Architect (che ricordiamo essere anche per 4/5 i musicisti che, con la maglia degli Aeonian Sorrow, hanno aiutato Gogo Melone a costruire un magnifico album come Into the Eternity a Moment We Are) non creano qualcosa di inedito ma assorbono e rielaborano il meglio della più importante scena funeral del pianeta, quella finnica, e regalano con Kuura un capolavoro destinato a segnare il genere per molto tempo.
Da ascoltare più e più volte finché la brina non si scioglierà mescolandosi alle lacrime.

Tracklist:
1. I
2. II
3. III

Line-up:
Saku Moilanen – Drums, Keyboards
Jukka Jauhiainen – Bass
Matias Moilanen – Guitars
Ville Rutanen – Vocals
Taneli Jämsä – Guitars

RED MOON ARCHITECT – Facebook

Ataraxie – Résignés

Il funeral death doom qui perde qualsiasi recondita connotazione consolatoria, per lasciare spazio ad un rabbioso disgusto che non rifugge del tutto aperture melodiche volte ad evocare solo disperazione piuttosto che un autoindulgente malinconia.

I francesi Ataraxie si sono ormai consolidati da tempo come una delle più efficaci ed importati band funeral doom europee, in virtù di poche ma mirate uscite disseminate nel corso del nuovo secolo.

Slow Transcending Agony e Anhedonie sono considerati, a ragione, album fondamentali nell’evoluzione del genere, così come anche il successivo in ordine di tempo, L’Être et la Nausée: con tali premesse era più che lecito attendersi una nuova esibizione di forza da parte del gruppo di Rouen.
Dopo aver sviscerato i diversi stati d’animo confluenti in un diffuso malessere esistenziale, gli Ataraxie ci raccontano oggi della rassegnazione di fronte all’ineluttabilità di una fine per certi versi anche auspicata, alla luce di una razza umana che mai come oggi sembra avviata verso una relativamente rapida (e meritata) estinzione.
Il funeral death doom qui perde qualsiasi recondita connotazione consolatoria, per lasciare spazio ad un rabbioso disgusto che non rifugge del tutto aperture melodiche volte ad evocare solo disperazione piuttosto che un autoindulgente malinconia.
People Swarming, Evil Ruling è un brano di rara durezza, grazie al quale i riff squadrati si abbattono come la mannaia del boia sugli sventurati che rassegnati attendono il loro turno, come raffigurato in copertina: la nuova formazione a tre chitarre, in tal senso, porta alle sue estreme conseguenze la potenza di un sound che a tratti assume le sembianze di un minaccioso rombo, come nella title track che sfocia in un crescendo spasmodico nel suo finale, lasciando sul terreno solo macerie bagnate da sangue e lacrime.
L’uscita del membro fondatore Sylvain Esteve ha portato in formazione altri due chitarristi, Julien Payan e Hugo Gaspar, ad affiancare Frédéric Patte-Brasseur, che con Jonathan Thery (basso e voce) e Pierre Senecal (batteria) costituisce oggi il nucleo storico della band, e ciò, se da una parte può aver rallentato il processo compositivo per il nuovo lavoro, d’altra parte ha conferito al sound una robustezza ed una solidità che rasentano la tetragonia; anche in Coronation of the Leeches, che prende avvio con più rarefatti arpeggi, è la possanza dei riff unita all’impietoso growl di Thery la costante di una struttura compositiva che concede i rari passaggi dal più dolente incedere nella conclusiva Les affres du trépas, venticinque minuti che prosciugano dal punto di vista psichico senza concedere illusori barlumi di speranza bensì ammantandosi dell’opprimente solennità che sfocia in un funeral dai connotati quanto mai disperati.
Il senso di vuoto, la rassegnazione, appunto, è tutto ciò che resta agli esseri umani, scadenti comparse di quel film dozzinale dall’impossibile lieto fine che è la loro permanenza sul pianeta: gli Ataraxie, tra i possibili dolenti cantori di questa millenaria tragedia, si confermano in assoluto tra i migliori.

Tracklist:
1.People Swarming, Evil Ruling
2.Résignés
3.Coronation of the Leeches
4.Les affres du trépas

Line-up:
Jonathan Thery – Bass & Vocals
Frédéric Patte-Brasseur – Guitars
Hugo Gaspar – Guitars
Julien Payan – Guitars
Pierre Senecal – Drums

ATARAXIE – Facebook

Illimitable Dolor – Leaden Light

Il death doom atmosferico degli Illimitable Dolor trova qui la sua ideale sublimazione, grazie ad un songwriting che in ogni suo frammento è finalizzato ad evocare emozioni struggenti, anteponendo l’aspetto melodico a qualsiasi altra sfumatura stilistica.

Quando gli Illimitable Dolor circa due anni fa apparvero sulla scena, nonostante il valore intrinseco del bellissimo album d’esordio, c’era la sensazione che potessero rappresentare solo un estemporaneo progetto parallelo ai The Slow Death, band che forniva buona parte della line up, in virtù anche delle motivazioni che erano alla base della loro formazione, ovvero l’omaggio a quello che fu per anni il vocalist di quella band, Greg Williamson, scomparso nel 2014.

In realtà, l’uscita di diversi singoli e lo split album con i Promethean Misery hanno mantenuto ben attivo il gruppo, cosicché questo nuovo Leaden Light non arriva inatteso ma costituisce ugualmente una piacevole sorpresa.
Infatti il death doom atmosferico degli Illimitable Dolor trova qui la sua ideale sublimazione, grazie ad un songwriting che in ogni suo frammento è finalizzato ad evocare emozioni struggenti, anteponendo l’aspetto melodico a qualsiasi altra sfumatura stilistica.
Ciò che ne deriva sono cinquanta minuti nel corso dei quali il genere viene offerto al suo massimo livello sconfinando sovente nel funeral a livello ritmico e mantenendo sempre al massimo la tensione emotiva.
Leaden Light, in fondo, dimostra che per scrivere un grande disco in ambito doom non serve fare voli pindarici ma è sufficiente incanalare l’ispirazione all’interno di una struttura ben delineata che non lascia spazio a divagazioni, volta com’è ad avvolgere l’ascoltatore in una cappa di malinconia che alla lunga diviene un confortevole approdo.
Gli Illimitable Dolor, che oggi al trio dei fondatori Stuart Prickett (chitarra e voce), Yonn McLaughlin (batteria e voce) e Dan Garcia (basso) aggiungono il tastierista Guy Moore, prendono il meglio delle band europee ed americane dedite al genere, vi inseriscono quella dose necessaria di plumbea drammaticità dei conterranei Mournful Congregaton e da tutto ciò fanno scaturire cinque tacce stupende, commoventi e cullanti, tra le quali spiccano l’opener Armed He Brings The Dawn, la traccia più lunga del lavoro, con la quale gli australiani avviluppano in maniera irrimediabile l’ascoltatore nelle loro spire per poi annichilirlo emotivamente con il capolavoro Horses Pale And Four, semplicemente una delle migliori dimostrazioni di funeral/death doom atmosferico ascoltate negli ultimi tempi.
Leaden Light è l’ennesimo grande disco che il genere sta offrendo in questo periodo e, ovviamente, chi ama simili sonorità non può fare a meno di gioire soprattutto quando proposte di tale livello non provengono dai nomi più noti e consolidati della scena, bensì da band relativamente nuove e sicuramente meno conosciute: la certezza che queste sonorità saranno il nostro consolatorio rifugio anche negli anni a venire, è una delle poche che ci restano di questi tempi, per cui teniamocela ben stretta …

Tracklist:
1. Armed He Brings The Dawn
2. Soil She Bears
3. Horses Pale And Four
4. Leaden Light Her Coils
5. 2.12.14

Line-up:
Stuart Prickett – Guitars, Vocals (The Slow Death, Horrisonous)
Yonn McLaughlin – Drums, Vocals (The Slow Death, Nazxul)
Dan Garcia – Bass (The Slow Death)
Guy Moore – Keyboards (ex-Elysium)

ILLI MITABLE DOLOR – Facebook

Maestus – Deliquesce

Un atmosferico funeral doom è quanto ci offrono gli statunitensi Maestus: imponenti squarci strumentali evocativi,intrisi di romantica oscurità.

Importante e significativa seconda opera degli statunitensi Maestus, band formatasi nel 2013 e autrice nel 2015 del buon debutto Voir Dire; la materia trattata dagli artisti di Portland non è di immediata fruizione e tanto meno veloce assimilazione.

Il funeral doom offre tanto a livello sensoriale, ma come già affermato in passato, ha bisogno di dedizione, di attenzione, di una sensibilità particolare, non è per le masse ma per chi ama ascoltare con il cuore, lasciandosi travolgere da onde emotive di alto livello siano esse nostalgiche, amare, angoscianti e intrise di “extreme darkness”. Il quintetto statunitense, tra cui spicca la figura del bassista dei Pillorian, dimostra di avere buone frecce nel suo arco e in quattro lunghi brani, in media sopra i dieci minuti, propone un suono cangiante, con molte sfumature che esprimono la voglia dei musicisti di accostarsi anche ad altri suoni siano essi black e death. La band è capace di essere aggressiva e potente, ma il lato atmosferico è prevalente, l’amalgama tra le chitarre e le tastiere, suonate magnificamente da Sarah Beaulieu, raggiunge forti livelli di intensità e maestosità mantenendo alta l’attenzione e donanodoci un lavoro significativo. Ampi squarci strumentali ci rammentano quanto sia stata importante l’opera dei seminali Shape of Despair nella formazione musicale dei musicisti; il suono del piano all’inizio e alla fine della title track dona un tocco romantico a un brano estremamente coinvolgente ed evocativo. La capacità di variare l’atmosfera all’interno delle tracce, così come la versatilità dei due fratelli vocalist impreziosisce la struttura sonora mantenendo la tensione sempre alta e ricca di interesse. I cinquanta minuti di Deliquesce rappresentano la quintessenza dell’arte di una band che sta seguendo un proprio percorso, cercando una personalità definita. In definitiva i Maestus sono da seguire con attenzione e sono certo che chi ha a cuore l’ascolto di queste sonorità non mancherà l’appuntamento con la loro arte.

Tracklist
1. Deliquesce
2. Black Oake
3. The Impotence of Hope
4. Knell of Solemnity

Line-up
SP – Guitars, Keyboards, Vocals
KRP – Bass, Vocals
NK – Guitars
SB – Keyboards
CC – Drums

MAESTUS – Facebook

Abyssic – High The Memory

Quasi un’ora e venti di musica può sembrare un’enormità, ma non lo è affatto quando viene esibita in maniera così fluida e l’audience possiede il giusto approccio al genere: ciò che meraviglia è appunto il fatto che in un lavoro di tali dimensioni non vi siano cali di tensione, specialmente nei due brani più lunghi che superano entrambi i venti minuti di durata.

Gli Abyssic sono a loro modo una novità in ambito doom, in quanto fondono in maniera mirabile l’incedere rallentato del funeral con gli spunti sinfonici del black metal norvegese.

Non è un caso, del resto, se la band vede quale fondatore Memnoch, già membro oltre che dei notevoli Susperia anche degli Old Man’s Child di Galder, dei quali ha fatto parte anche il ben noto drummer Tjodalv (Dimmu Borgir) che assieme al tastierista Andre Aaslie (Funeral), alla bassista Makhashanah (ex Sirenia) e all’altro chitarrsta Elvorn, anch’egli nei Susperia, va a completare la line-up di quello che potrebbe sembrare a prima vista una sorta di supergruppo black metal e che, invece, è autore di uno degli album più solenni e luttuosi usciti quest’anno.
Quale possibile termine paragone per l’operato degli Abyssic si potrebbe prendere l’ultima opera dei redivivi Comatose Vigil (con il suffisso A.K.) con la differenza sostanziale di un approccio molto meno soffocante, favorito da un lavoro delle tastiere che sposta il sound su un piano atmosferico piuttosto che orrorifico o funereo.
High The Memory va ad aggiungersi allo splendido esordio del 2016 A Winter’s Tale, esaltando come in quell’occasione il tocco di Aaslie e, in generale, di tutta una band composta da musicisti di spessore asserviti alla creazione di brani lunghi, avvolgenti e melodicamente ineccepibili.
Quasi un’ora e venti di musica può sembrare un’enormità, ma non lo è affatto quando viene esibita in maniera così fluida e l’audience possiede il giusto approccio al genere: ciò che meraviglia è appunto il fatto che in un lavoro di tali dimensioni non vi siano cali di tensione, specialmente nei due brani più lunghi come la title track o Where My Pain Lies, che superano entrambi i venti minuti di durata.
Gli Abyssic portano alle estreme conseguenze livello melodico il pathos che sono stati capaci di creare in passato band come gli Ea o i Monolithe; peraltro, proprio con questi ultimi, i norvegesi intraprenderanno in primavera un tour europeo che farà tappa in Italia il prossimo 18 aprile allo Slaughter di Paderno Dugnano: una serata che si preannuncia imperdibile per gli amanti di queste magnifiche sonorità.

Tracklist:
1. Adornation
2. High the Memory
3. Transition Consent
4. Where My Pain Lies
5. Dreams Become Flesh

Line-up:
Memnock – vocals, contrabass
Elvorn – guitars
Andre Aaslie – keys, orchestration
Tjodalv – drums
Makhashanah – bass, additional vocals

ABYSSIC – Facebook

 

Quercus – Verferum

Questo quarto full length dei Quercus conferma quanto di buono già offerto in passato dal gruppo ceco, rafforzandone lo status di band di valore collocabile alle spalle dei mostri sacri del funeral.

Quello con i cechi Quercus è un appuntamento che si ripete ormai da qualche anno, almeno fin dal 2014 quando ci trovammo a parlare del loro secondo full length Sfumato.

Quell’album metteva in mostra una vis sperimentale apprezzabile ma non sempre perfettamente a fuoco (indipendentemente dal titolo), mentre nel successivo Heart with Bread la band, divenuta un trio con il decisivo ingresso del tastierista Marek Pišl, spostava la barra verso un sound molto più evocativo nonché piuttosto debitore di tutte le realtà funeral dal sound improntato sui suoni di organo (quindi Skepticism, in primis).
Come già affermato all’epoca, l’utilizzo dello strumento da parte dei Quercus assume sembianze sostanzialmente liturgiche, acquisendo un tocco classico che lo differenzia in parte dal più algido tocco dei maestri finnici.
Grazie a tale fondamentale contributo, Ondřej Klášterka e Lukáš Kudrna possono sviluppare il songwriting in maniera più lineare, cercando di portare il tutto ad un livello di solennità che tocca picchi notevoli sia in Ceremony of the Night sia in Passacaglia D minor, White and Black Darkness, nella quale viene omaggiato J.S. Bach.
Le due tracce centrali, Journey of the Eyes e The Pu-erh Exhumed, appaiono leggermente più inquiete e ricche di divagazioni: nella prima anche lo stesso uso dell’organo si rivela a suo modo molto più dinamico e nell’arco di questi tredici minuti non mancano cambi di ritmo e vocalizzi disturbati che convivono con repentine aperture melodiche, mentre nella seconda le clean vocals dell’ospite Don Zaros (tastierista degli Evoken) donano al tutto un’aura pinkfloidiana all’interno di un episodio decisamente più rarefatto e, forse anche per questo meno, incisivo rispetto agli altri.
Questo quarto full length dei Quercus conferma quanto di buono già offerto in passato dal gruppo ceco, rafforzandone lo status di band di valore collocabile alle spalle dei mostri sacri del funeral: probabilmente, per scalare l’ultimo gradino, bisognerebbe che i nostri fossero in grado di esprimersi senza pause per un intero lavoro con l’intensità ed il livello di tensione di un brano come Ceremony of the Night, sorta di stato dell’arte di come va interpretato il genere quando lo strumento guida non è la chitarra bensì il sempre affascinante organo.

Tracklist:
1. Ceremony of the Night
2. Journey of the Eyes
3. The Pu-erh Exhumed
4. Passacaglia D minor, White and Black Darkness

Line-up:
Marek “Markko” Pišl – Keyboards, Pipe organ, Lyrics (tracks 1, 4)
Ondřej Klášterka – Vocals, Guitars, Drums
Lukáš Kudrna – Vocals, Bass, Additional instruments, Lyrics (tracks 2, 3)

Comatose Vigil A.K. – Evangelium Nihil

Evangelium Nihil è esattamente ciò che speravamo ci venisse nuovamente regalato prima o poi dai Comatose Vigil, indipendentemente dalla loro configurazione: questo è il funeral doom, strumento d’elezione per il raggiungimento della catarsi attraverso l’evocazione quasi fisica di un dolore che sembra impossibile poter circoscrivere.

Si vociferava da tempo di uh possibile ritorno dei Comatose Vigil, i maestri del funeral doom russo dei quali si aspettava un seguito al capolavoro Fuimus, Non Sumus…, risalente al 2011.

In effettim nel 2014 c’era stata una reunion che aveva portato la band ad esibirsi in qualche data dal vivo ma lo scioglimento , apparentemente definitivo, era stato annunciato inesorabile dopo qualche tempo.
Anche senza conoscere a fondo le dinamiche all’interno della band il motivo di tutto questo lo si è intuito allorché sono letteralmente, iniziati a volare gli stracci sui social tra Alexander “ViG’iLL” Orlov e Andrey “A.K. iEzor” Karpukhin; nulla di inedito in ambito musicale, fondamentalmente, e anche se la torta da spartire è molto più esigua il doom non è certo esente da questi eventi: certo è che ritrovarci ora con due entità aventi lo stesso nome, la prima appannaggio di Orlov e la seconda, con il suffisso A.K. , di Karpukhin, in tale ambito fa pur sempre uno strano effetto.
Ma tant’è, noi che amiamo questo tip di musica e quindi una band come quella moscovita, non possiamo che esultare di fronte a questo nuovo Evangelium Nihil, album d’esordio dei Comatose Vigil con l’estensione A.K., che vedono il vocalist avvalersi dell’aiuto del talentuoso musicista georgiano David Unsaved dei magnifici Ennui, il quale si occupa magistralmente di tutta la strumentazione esclusa la batteria, affidata allo statunitense John Devos degli emergenti Mesmur.
Va detto subito che il sound offerto non tradisce in alcun modo lo spirito originario del monicker: il sound si muove drammatico e maestoso, incentrato su un tappeto di tastiere sul quale si abbatte una ritmica bradicardica e il growl impietoso di A.K. iEzor.
C’è quindi una spiccata continuità rispetto a quanto avvenne con Fuimus, non Sumus…, anche se quell’opera era forse ancor più minimale e meno avvolgente: per quasi un’ora e un quarto i quattro lunghi brani si rovesciano sulla psiche dell’ascoltatore, costringendolo in una vischiosa bolla all’interno del quale la vacuità dell’esistenza è dipinta in maniera così ipnotica e diluita da rendere impossibile qualsiasi reazione, allorché la realtà si manifesta in tutto il suo orrore dinanzi agli occhi
Evangelium Nihil si snoda ossessivo, senza lasciare tregua pur trascinandosi penosamente per oltre tre quarti d’ora di funeral sublime, prima di infliggere il colpo definitivo con i meravigliosi venti minuti finali di The Day Heaven Fell, vera e propria quintessenza del genere nella sua veste più atmosferica.
Se qualcuno si dovesse lamentare dell’eccessiva uniformità stilistica è bene invitarlo a dedicarsi a generi a lui più consoni: qui il passo è esattamente lo stesso dal primo al settanduesimo minuto e quando arriva l’unico elemento di discontinuità, sotto forma di una sorta di interferenza radio piazzata a metà della title track, si rivela fondamentalmente solo un elemento di disturbo.
Evangelium Nihil è esattamente ciò che speravamo ci venisse nuovamente regalato prima o poi dai Comatose Vigil, indipendentemente dalla loro configurazione: questo è il funeral doom, strumento d’elezione per il raggiungimento della catarsi attraverso l’evocazione quasi fisica di un dolore che sembra impossibile poter circoscrivere.

Tracklist:
1. Evangelium Nihil
2. Comatose Vigil
3. Deus Sterilis
4. The Day Heaven Fell

Line-up:
David Unsaved – Bass, Keyboards, Guitars
John Devos – Drums
A.K. iEzor – Vocals

COMATOSE VIGIL A.K. – Facebook

Who Dies in Siberian Slush – Intimate Death Experience

Convincente ritorno, a sei anni dall’ultimo full length, di una delle più influenti band della scena doom moscovita, gli Who Dies in Siberian Slush di Evander Sinque.

A sei anni dall’ultimo full length We Have Been Dead Since Long Ago… torna una delle più influenti band della scena doom moscovita, gli Who Dies in Siberian Slush di Evander Sinque.

Quel lavoro, seppure di buna fattura, non aveva comunque raggiunto il ragguardevole livello dell’esordio Bitterness of the Years That Are Lost del quale erano state mantenute sostanzialmente le principali linee guida, sotto forma di un funeral death doom a tratti dissonante e poco incline alla melodia.
Intimate Death Experience, in tal senso, conferma invece il cambio di direzione giù mostrato nei due brani presenti nello split The Symmetry Of Grief (in coppia con il finnici My Shameful) , facendo intuire fin dall’inizio che il sound non sarà affatto scevro di malinconici passaggi, per lo più chitarristici ma anche delineati dalla tastiera.
Inoltre, a fornire quella peculiarità che è sempre la benvenuta purché non si tramuti in un un elemento spiazzante, troviamo l’interessante contributo del flauto e soprattutto del trombone, uno strumento che più di altri, utilizzato in un simile contesto, restituisce la sensazione di trovarsi al cospetto della banda che accompagna il defunto nel suo ultimo viaggio.
Va detto che i due brani presenti nello split album citato, And It Will Pass e The Tomb of Kustodiev, li ritroviamo anche in quest’occasione, sebbene riarrangiati, il che non è un male perché trattasi di tracce decisamente buone, ma non si può fare a meno di notare al contempo che la musica inedita presente in Intimate Death Experience ammonta a poco meno di venti minuti.
Poco male, però, quando i due brani di nuovo conio, al netto dell’intro Through the Heavens e del breve recitato Solace, si rivelano alcune delle cose migliori offerte dagli Who Dies in Siberian Slush nella loro storia: infatti Remembrance e, soprattutto, On Different Sides lasciano finalmente sfogo ad un indole melodica che, comunque, non finisce per sopraffare lo stie sempre un po’ naif e originale dei moscoviti.
In particolare la traccia che chiude il lavoro è davvero splendida, nel suo tragico e doloroso crescendo conclusivo che mette in mostra quello che a mio avviso è il lato migliore della band di Evander Sinque, come sempre autore di un’interpretazione vocale di grande intensità.
Il ritorno, quasi contemporaneo, di due dei nomi più pesanti della scena doom russa come gli Who Dies in Siberian Slush ed i Comatos Vigil (sia pure con il suffisso A.K. causa beghe tra gli ex membi originari) riporta ala luce un movimento che negli ultimi anni era stato messo in ombra da altre stimolanti realtà provenienti dalle nazioni dell’area ex-sovientica; non è stato facile per Evander ripartire, specialmente dopo la prematura e dolorosa scomparsa di Gungrind, ma i risultati che scaturiscono da Intimate Death Experience sono oltremodo convincenti.

Tracklist:
1. Through the Heavens
2. And It Will Pass
3. Remembrance
4. The Tomb of Kustodiev
5. Solace
6. On Different Sides

Line-up:
Igor T. – Drums
E.S. – Vocals
Flint – Guitars (lead)
A. Kraev – Bass
A.Z. – Flute
L.K. – Keyboards, Trombone
Alexey K. – Guitars, Vocals (backing), Synthesizer

WHO DIES IN SIBERIAN SLUSH – Facebook

Rigor Sardonicous – Ridenti Mortuus

Il funeral, nell’interpretazione del duo di Long Island, è quanto mai essenziale e minimale ed è rivolto perciò a chi apprezza il genere nella sua versione più ottundente e meno atmosferica.

I Rigor Sardonicous sono una delle realtà più longeve in ambito funeral doom sul suolo statunitense, considerando che il loro primo demo è datato 1994, anche se il primo dei loro sei full length ha visto la luce (si fa per dire…) solo nel 1999.

Ridenti Mortuus è un ep che rompe un silenzio lungo sei anni e l’occasione, colta peraltro da molte altre band in ambito metal, è stata quella di pubblicare un lavoro collegato alla ricorrenza del centenario della fine della prima guerra mondiale.
Il funeral, nell’interpretazione del duo di Long Island, è quanto mai essenziale e minimale ed è rivolto perciò a chi apprezza il genere nella sua versione più ottundente e meno atmosferica: del resto il genere in questo frangente non assume sembianze consolatorie ma semmai è volto a ribadire come in generale la vita sia quello schifo che molti pensano, con l’inclusione di una (in)sana dose di misantropia ad appesantire il tutto anche a livello concettuale.
Ridenti Mortuus non lascia respiro, schiaccia ed opprime senza soluzione di continuità e a nulla valgono le rare rarefazioni del sound per sfuggire alla morsa; poi, paradossalmente, l’album si chiude con l’incremento ritmico di Intereo Parum Infantia, primo ed unico elemento di discontinuità di un lavoro che offre oltre mezz’ora di growl catacombali e suoni ribassati all’inverosimile.
Chi è pronto a subire tutto questo, troverà anche più di un perché nell’ascolto di questo ritorno dei Rigor Sardonicous che racchiude, in qualche modo, la quintessenza del funeral nella sua forma più primitiva e priva di alleggerimenti di sorta.

Tracklist:
1. The Smiling Dead
2. The Hound
3. The Unsepulchered Dead
4. Intereo Parum Infantia

Line-up:
Glenn Hampton – Bass
Joseph J. Fogarazzo – Vocals, Guitars

RIGOR SARDONICOUS – Facebook

Skepticism – Stormcrowfleet

Una simile pietra miliare deve essere venerata come le compete da chi l’ha conosciuta in passato, mentre chi volesse approcciarsi con il genere potrebbe cominciare proprio da questo, che è il punto più vicino a quello da cui tutto è iniziato.

Parlare della ristampa di Stormcrowfleet è necessario non tanto per raccontarne contenuti che ogni appassionato di funeral doom che si rispetti conoscerà alla perfezione, quanto per rimarcare come questo album segni in maniera indelebile la storia del genere in quanto, pur essendo arrivato poco dopo Stream from the Heavens dei Thergothon, mostra le linee guida essenziali della variabile più melodica ed atmosferica del genere grazie all’uso di un organo che resta inimitabile, nonostante svariati tentativi di riproporre tali sonorità da parte di diversi epigoni.

Inoltre, rispetto ai seminali conterranei disgregatisi dopo l’uscita del loro unico full length, il quartetto di Riihimäki ha dato continuità alla propria inimitabile carriera, anche se, magari, a molti cinque full length in oltre vent’anni di attività possono sembrare (con qualche ragione) troppo pochi.
La coerenza degli Skepticism la si riscontra facilmente grazie ad un sound rimasto pressoché immutabile, tanto che ascoltando di seguito Stormcrowfleet e l’ultimo Ordeal, usciti a ventidue anni di distanza l’uno dall’altro, non si capisce se sia il primo ad essere un passo avanti rispetto alla sua epoca o il secondo ad emergere da un remoto passato, ma forse sono vere entrambe le cose, nel senso che la proposta possiede caratteristiche talmente uniche da essere pressoché impossibile da collocare a livello temprale.
Tra le varie ristampe delle quali il lavoro è stato fatto oggetto nel corso degli anni, questa ad opera dell Svart Records è senz’altro la più interessante essendo frutto del remix dei brani presi direttamente dal nastro originale con la supervisione della band, e presentando, oltre alla versione in cd, anche quella in doppio vinile a tiratura limitata; per il resto c’è poco da dire, salvo che una simile pietra miliare deve essere venerata come le compete da chi l’ha conosciuta in passato, mentre chi volesse approcciarsi con il genere potrebbe cominciare proprio da questo, che è il punto più vicino a quello da cui tutto è iniziato.

Tracklist:
1. Sign of a Storm
2. Pouring
3. By Silent Wings
4. The Rising of the Flames
5. The Gallant Crow
6. The Everdarkgreen
7. Outro

Line-up:
Lasse Pelkonen – Drums
Jani Kekarainen – Guitars
Eero Pöyry – Keyboards
Matti Tilaeus – Vocals

SKEPTICISM – Facebook

Fordomth – I.N.D.N.S.L.E. – In Nomine Dei Nostri Satanas Luciferi Excelsi

I Fordomth portano un contributo importante al genere con un disco di notevole spessore, all’interno del quale la materia doom viene trattata in maniera oculata, senza eccessi né in senso melodico né sperimentale.

L’album di debutto di questa band catanese, come spesso accade ai lavori appartenenti alla cerchia del funeral doom, ha avuto una gestazione molto lunga, nel caso specifico quasi tre anni al termine dei quali finalmente I.N.D.N.S.L.E. (In Nomine Dei Nostri Satanas Luciferi Excelsi) viene immesso sul mercato dall’etichetta specializzata russa Endless Winter.

Partendo dal presupposto che dalle nostre parti il genere non è frequentato in maniera assidua come avviene nel nord Europa o nei paesi ex sovietici, i Fordomth portano un contributo importante con un disco di notevole spessore, all’interno del quale la materia viene trattata in maniera oculata, senza eccessi né in senso melodico né sperimentale.
Abbiamo così per le mani un’opera che segue canoni consolidati e piuttosto corposa per la sua durata di quasi un’ora, della quale gran parte viene occupata dalla lunghissima Chapter III – Eternal Damnation.
Già da queste coordinate si intuisce come il lavoro sia dedicato a chi maneggia certe sonorità in maniera assidua e non si fa certo respingere al primo approccio dall’incedere rallentato e caliginoso al quale la band siciliana rinuncia di rado, ora a favore di passaggi più delicati ed evocativi (Chapter IV – Interlude) ora consentendosi qualche ragionata accelerazione come nella conclusiva title track.
Nonostante i Fordomth citino quali possibili fonti di ispirazione band come Ahab ed Evoken, in realtà il loro sound possiede quell’impronta mediterranea che si esplicita sotto forma di un sound mai troppo aspro né algido, lasciando che sia l’aspetto emotivo a dominare anche quando è l’impietoso growl di Gabriele Catania a dominare la scena.
Indubbiamente il fulcro del lavoro è appunto Chapter III – Eternal Damnation, brano che da solo fattura venticinque minuti di doom rituale guidato da un notevole lavoro chitarristico che detta una linea melodica ben definita: è proprio in questi momenti, quando il suono si fa più rarefatto, oppure quando l’interpretazione vocale diviene più drammatica, che affiorano reminiscenze dei Cultus Sanguine, seminale band la cui eredità non è mai stata del tutto raccolta, mentre la chiusura dell’album rimanda ad una realtà più gotica come furono i portoghesi Desire.
Il fatto che queste band siano ormai defunte, o comunque inattive da tempo dal punto di vista discografico, è sintomatico di un’interpretazione del genere molto genuina, dai contenuti importanti rivestiti da una produzione efficace proprio perché restituisce suoni molto novantiani, aumentando così il fascino di un bellissimo album.
Dalle note biografiche si evince che la crescita dei Fordomth è stata in parte ostacolata dai consueti problemi di line-up, e non a caso della formazione che ha registrato I.N.D.N.S.L.E. oggi restano solo Gabriele Catania e Gianluca Buscema; c’è solo da sperare che la band trovi, in tal senso, l’opportuna stabilità, alla luce delle capacità dimostrate con un lavoro in grado di condurre l’ascoltatore in quei meandri dell’esistenza in cui molti amano perdersi, accompagnati da queste oscure  e dolenti partiture.

Tracklist:
1. Chapter I – Intro
2. Chapter II – Abyss of Hell
3. Chapter III – Eternal Damnation
4. Chapter IV – Interlude
5. Chapter V – I.N.D.N.S.L.E.

Line-up:
Gabriele Catania – vocals
Federico ‘Fano’ Indelicato – vocals
Giuseppe Virgillito – lead guitar
Riccardo Cantarella – rhythm guitar
Gianluca ‘Vacvvm’ Buscema – bass
Mario Di Marco – drums

Guests:
Federica Catania – violin on “Chapter IV – Interlude”
Salvatore Calamarà – vocals “Chapter V – I.N.D.S.L.E.”

FORDOMTH – Facebook

Evoken – Hypnagogia

Monumentale e struggente opera di funeral doom per la band americana che non smette di stupire per l’ispirazione, la competenza e la sincerità.

La Grande Guerra, la Prima Guerra Mondiale, è l’ispirazione per il ritorno sulle scene di una della migliori band funeral doom americane e non solo.

Attivi dal 1994 con il demo Shades of Night Descending, gli Evoken, giunti ora per Profound Lore al sesto album, hanno realizzato nella loro lunga carriera, quasi un quarto di secolo, opere assolutamente meritevoli e di gran livello: tutti lavori assolutamente ispirati, splendidamente suonati e completamente coinvolgenti. La musica funeral non ha fretta, ha bisogno di essere composta con i giusti tempi e fruita con la dovuta sensibilità e attenzione, come nel caso di questa opera molto introspettiva. Gli Evoken non ricercano spettacolarizzazione o passaggi di immediato effetto ma scavano con note intense e atmosfere desolate solchi duraturi nelle fibre muscolari del nostro cuore; anche l’argomento trattato, per la prima volta un concept, è duro da digerire, trattandosi di un diario di un soldato che resosi conto della grande inutilità della guerra attende solitario la morte. Argomento perfetto per una narrazione in musica e gli Evoken con una monumentale opera riescono a portarci nell’animo disilluso e infranto del soldato. Otto brani di una intensità rara, schivi ma allo stesso modo attraenti fino dall’opener raggelante con le sue note tastieristiche e la potenza atmosferica evocata; gli inserti di violino sono assolutamente ispirati e funzionali all’interno di quasi tutti i brani aggiungendo note disperate e infrangendo ogni piccola speranza. Si capisce con gli ascolti, vivendo l’opera, che gli Evoken sono di un’altra caratura, con un lavoro chitarristico e di drumming fenomenale; ogni brano coinvolge, immergendoci in una atmosfera triste, quasi al di là della umana comprensione e difficile da descrivere a parole. Ogni ascoltatore di queste sonorità non potrà non rimanere estasiato di fronte alla capacità narrativa e suggestiva quando queste note entreranno sottopelle e si fonderanno con i nostri sensi. La maestosità e l’afflato melodico di Too Feign Ebullience attanaglia il cuore, l’inaspettato inserto death di Valorous Consternation mostra che la rabbia è presente in questa narrazione, ma poi è sopita dal disincanto. E’ un viaggio nelle miserie dell’animo umano che si rende conto della inutilità della guerra ma anche è disilluso perché sa cheé impossibile sottrarvisi; le note apparentemente rasserenanti all’inizio dei dieci minuti di The Weald of Perished Men si infrangono lentamente sulla tristezza del growl di John Paradiso e sulla potenza di magnifiche tastiere che ci portano con infinita desolazione e senso di sconfitta all’ultima affermazione: …it’s here, the end. Please let me go, please let me… go. Opera emozionalmente intensa, monumentale, che insieme ai dischi di Hamferd e Yob chiude una triade di altissimo livello nel corso del 2018 .

Tracklist
1. The Fear After
2. Valorous Consternation
3. Schadenfreude
4. Too Feign Ebullience
5. Hypnagogia
6. Ceremony of Bleeding
7. Hypnopompic
8. The Weald of Perished Men

Line-up
Vince Verkay – Drums
John Paradiso – Vocals, Guitars
Don Zaros – Keyboards
David Wagner – Bass
Chris Molinari – Guitars

EVOKEN – Facebook

Funeral Tears – The Only Way Out

L’appuntamento con il nuovo lavoro targato Funeral Tears si rivela come di consueto gradito, in virtù dell’operato di un musicista che regala agli appassionati di funeral melodico esattamente ciò che avrebbero voluto ascoltare.

Quarto full length per il progetto funeral death doom Funeral Tears di Nikolay Seredov; a solo un anno di distanza da Beyond The Horizon, il musicista russo propone The Only Way Out, con l’intento di confermare i ragguardevoli livelli raggiunti con il precedente lavoro.

Diciamo subito che l’obiettivo viene raggiunto brillantemente dal nostro, il quale ha ormai acquisito quella padronanza del genere che caratterizza i migliori interpreti: l’album mostra un songwriting brillante e maturo, aggettivo che non deve far pensare ad un approccio di maniera, perché ciò in ambito doom costituirebbe una sorta di peccato mortale.
Seredov presenta un lavoro che si attesta sui tre quarti d’ora di durata, con quattro lunghi brani da dieci minuti di media più un outro: il sound è quello che abbiamo imparato a conoscere in questi anni, quindi quello che bisogna attendersi è un funeral melodico, atmosferico, fluido e a suo modo orecchiabile, nonché accompagnato da un’ottima interpretazione vocale.
L’iniziale Become the God non lascia spazio a fraintendimenti: Funeral Tears è sinonimo di sonorità dolenti, malinconiche ma non disperate, in virtù di un sound avvolgente e basato prevalentemente da un lavoro chitarristico pulito, lineare ma capace di lasciare il segno a livello emotivo.
Bellissima è anche Be Humane cosi come lo è, in misura ancora superiore, Look in the Mirror, vero fulcro dell’album e traccia in cui il lavoro compositivo di Nikolay appare focalizzato al meglio sul versante dell’evocatività.
La successiva title track appare leggermente meno intensa, forse perché la tensione viene attenuata da qualche passaggio interlocutorio di troppo, ma è un peccato veniale perché anche qui le corde dell’emotività vengono vellicate a sufficienza.
L’appuntamento con il nuovo lavoro targato Funeral Tears si rivela come di consueto gradito, in virtù dell’operato di un musicista che regala agli appassionati di funeral melodico esattamente ciò che avrebbero voluto ascoltare.

Tracklist:
1. Become the God
2. Be Humane
3. Look in the Mirror
4. The Only Way Out
5. Outro

Line-up:
Nikolay Seredov – Everything

FUNERAL TEARS – Facebook

Riven – Hail To The King

Trattandosi della prima uscita con il marchio Riven,  Hail To The King strappa una comoda sufficienza, non solo di stima ma anche per le valide intuizioni, sicuramente da sviluppare in futuro, disseminate nei primi due brani.

Esordio per la one man band Riven, creatura del musicista belga Zeromus (Tom Mesens).

Quello offerto in Hail To The King è un funeral doom piuttosto minimale ma apprezzabile, anche se la distanza qualitativa rispetto ai modelli ai quali Mesens si rifà resta decisamente marcata.
Skepticism, Thergothon, Evoken and Ahab vengono indicati quali fonti di ispirazione in sede di presentazione, ma in realtà sono le due band finlandesi a contribuire in maniera pressoché totale all’idea compositiva messa in campo per l’occasione.
Dei primi troviamo sicuramente il ricorso all’organo, strumento che offre sempre aspetti peculiari all’interno dei lavori in cui viene utilizzato in maniera più corposa, mentre dei secondi si rinviene soprattutto un certo minimalismo sia a livello compositivo che di produzione.
I tre lunghi brani, tutti della durata di poco inferiore al quarto d’ora, si snodano così come ce li si sarebbe aspettati:  lenti, solenni ma anche fin tropo lineari in certi frangenti; uno dei problemi dell’album è che l’intensità va a scemare man mano che si procede lungo la tracklist e così, mentre The Plague e The Bells Sound Once More sono tutto sommato buone tracce nella quali Mesens lascia trasparire in maniera più decisa la propria devozione agli Skepticism (cosa che non può mai essere nociva, per forza di cose), la title track si trascina senza mai decollare a livello di coinvolgimento emotivo.
Insomma, ci sono diverse cose da rivedere, sia per quanto riguarda il comparto esecutivo, sia per l’equilibrio dei suoni (in particolare quelli della batteria) ma, trattandosi della prima uscita con il marchio Riven,  Hail To The King strappa una comoda sufficienza, non solo di stima ma anche per le valide intuizioni, sicuramente da sviluppare in futuro, disseminate nei primi due brani.

Tracklist:
1. The Plague
2. The Bells Sound Once More
3. Hail to the King

Line-up:
Tom Mesens (aka Zeromus): All instruments and vocals

RIVEN – Facebook

Ivan – Memory

Memory è un lavoro che gli appassionati dovrebbero sicuramente provare ad ascoltare perché molti potrebbero restarne folgorati, a differenza di altri che saranno spinti ad archiviarlo dopo uno o due passaggi.

Ecco un’opera che mette a dura prova anche chi con il doom ha a che fare quotidianamente e che sicuramente non si fa scoraggiare né dalla lunghezza dei brani né, tanto meno, dal loro lento e penoso incedere.

Quello che rende oggettivamente complesso l’ascolto di Memory, terzo full length in tre anni per gli australiani Ivan, è la scelta di affidare in toto lo sviluppo melodico al violino, ottenendo risultati contrastanti e che, in quanto tali, dovrebbero ricevere riscontri di diversa natura.
Se è indubbiamente affascinante la soluzione adottata dal duo di Melboune, non si può altresì negare che questo, alla lunga, testa in maniera probante anche la resistenza degli ascoltatori più allenati, questo perché a mio parere il violino è uno strumento che in ambito doom metal andrebbe utilizzato sempre con un dosaggio molto oculato (come i primi My Dying Bride hanno insegnato).
I due lunghissimi brani, che vanno a sommare una durata vicina ai cinquanta minuti, sono praticamente simili, con lo strumento ad arco a delineare le sue laceranti linee melodiche, un growl che in sottofondo ci racconta tutta la propria riprovazione nei confronti dell’esistenza umana, e le chitarre che sostanzialmente delineano assieme alla base ritmica il battito di un cuore in procinto di fermarsi per sempre; fanno eccezione gli ultimi minuti di Time Is Lost, quando il connubio tra violino e chitarra diviene tangibile ed equilibrato, rendendo questa parte del lavoro la più evocativa e coinvolgente.
La sensazione straniante deriva dal fatto che in certi momenti il disco appare qualcosa di meravigliosamente struggente, mentre in altri affiora un’inevitabile stanchezza senza che, di fatto, intervengano elementi di discontinuità a provocare impressioni così discordanti.
Ascoltando Memory nelle sue parti iniziali sembra quasi d’essere al cospetto ad una versione funeral doom dei Dark Lunacy, ma soprattutto il termine di paragone più naturale potrebbero essere gli Ea, con la chitarra collocata però in secondo piano da un violino nettamente preponderante su tutto il resto.
Ed è così, comunque,che gli Ivan ottengono ciò che probabilmente si erano prefissati, ovvero quello di apparire una sorta di dolente orchestra che accompagna il defunto alla sua ultima dimora.
Tutte queste considerazioni mi spingono, a livello di consuntivo, ad apprezzare senz’altro quest’opera, mantenendo però più di una riserva sulla possibilità che possa essere oggetto di molti ascolti ininterrotti dalla prima all’ultima nota; in sintesi, le dolenti pennellate chitarristiche restano sempre la soluzione più indicata per indurre emozioni in ambito funeral/death doom.
Va anche aggiunto, a favore degli Ivan, che la ricerca di soluzioni maggiormente peculiari va a loro merito, tanto più che i progressi rispetto alle recedenti opere appaiono sensibili, per cui Memory è un lavoro che gli appassionati dovrebbero sicuramente provare ad ascoltare perché molti potrebbero restarne folgorati, a differenza di altri che saranno spinti ad archiviarlo dopo uno o due passaggi: io mi colloco a metà strada, ritenendo il tutto molto intrigante ma decisamente migliorabile nell’equilibrio delle sue componenti strumentali.

Tracklist:
1 Visions
2 Time Is Lost

Line-up:
Brod Wellington
Joseph Pap

IVAN – Facebook

Ennui – End of the Circle

La scena funeral doom dell’est europeo ha una capacità incredibile di creare opere d’arte di alto livello;il quarto disco degli Ennui ci trasporta in territori disperati, rassegnati e onirici.

Nelle note del booklet interno, il duo di Tbilisi ringrazia Greg Chandler e gli albionici Esoteric per la loro musica, l’influenza e l’ispirazione che hanno permesso agli Ennui di ritagliarsi un’importante spazio all’interno della scena funeral doom europea.

Fondata nel 2012 da David Unsaved e Serj Shengelia, la band georgiana ha proposto ben quattro full length (compreso ora End of the Circle) marchiati nel più puro suono funeral doom, serio, incompromissorio, diventando un nome di culto all’interno della fertile scena dell’est europeo. Per ogni cultore di questa arte difficile ma ricca di emozioni e atmosfera, gli Ennui sono una garanzia: nessuna loro opera mi ha mai deluso e ho sempre ritrovato le stimmate tipiche del suono funeral e anche in questo monumentale lavoro, fatto di tre brani per 74 minuti, ognuno troverà intensi minuti di piacere estremo. Bisogna, come noto, riuscire a trovare il tempo giusto per staccarsi dal mondo circostante e immergersi in un universo parallelo, dove le emozioni fluiscono pure e stimolano le nostre terminazioni nervose, verso momenti di piacere assoluto. Ascolto sicuramente impegnativo ma estremamente appagante e sono sicuro che chi segue la scena avrà già assaporato le note della mastodontica title track (oltre 30′) con la quale si raggiunge il perfetto equilibrio tra evocativi soundscapes, condotti da liquide tastiere e telluriche stratificazioni doom; questa alternanza, peraltro condotta in modo naturale e senza manierismi, mantiene alta la tensione del brano conducendoci in zone oniriche della nostra psiche, in cui la voglia di abbandonarsi e lasciarsi trasportare in altre dimensioni prende il sopravvento. Brano magnifico che nonostante l’immane lunghezza si vorrebbe non finisse mai. Gli Ennui, dopo averci ipnotizzato con queste note cariche di un’amara disperazione, ci danno il colpo di grazia con gli altri quaranta minuti di The Withering, divisa in due parti, che ci porta in territori maggiormente oscuri e cupi; le keyboards mantengono un profilo più defilato e le chitarre con la loro metodica e lenta marcia tracciano una strada colma di disperazione e “sadness”. Al di là della potenza espressa dal duo, bisogna cogliere le varie sfumature nelle melodie, nei toni del growl sempre molto espressivo, nell’evolversi del viaggio che ci viene proposto e che intraprendiamo… ogni nota crea un’atmosfera unica e l’ispirazione non manca: l’affresco creato è profondo e maestoso. Sicuramente tra i dischi funeral del 2018.

Tracklist
1. End of the Circle
2. The Withering Part I – Of Hollow Us
3. The Withering Part II – Of Long-Dead Stars

Line-up
Serj Shengelia Guitars, Bass
David Unsaved Guitars, Vocals

ENNIU – Facebook

Sektarism – Fils de Dieu

L’unica maniera per ascoltare la musica dei Sektarism senza essere respinti con perdite è quella di cogliere, innanzitutto, il senso della loro proposta dal punto di vista concettuale: compreso questo, ovvero il fatto che la band transalpina mette in scena un sorta di autoflagellazione musicale, allora si può tentare di aprire questo terrificante libro e sfogliarne la pagine.

C’è chi considera già le forme, per così dire, canoniche del funeral doom un qualcosa di totalmente alieno alla propria concezione di musica.

Bene, si sappia allora che si può anche andare ben oltre una straziante evocazione del dolore e del senso della caducità umana, come avviene per esempio con l’opera dei Sektarism, combo francese giunto con Fils de Dieu al proprio terzo full length.
Questa sorta di confraternita del dolore formata da musicisti gravitanti nella ben conosciuta ed oblique scena black metal francese, in circolazione da circa un decennio e molto attiva in particolare negli ultimi tre anni, ha ripreso a martellare impietosamente l’audience per ribadire con forza l’ignominia dell’esistenza umana.
Quello dei Sektarism è un vero e proprio rituale, che si perpetra attraverso album registrati dal vivo ed esibizioni che, immagino, siano quanto di più lontano si possa immaginare da un canonico concerto; il sound solo a tratti assume le sembianze di un funeral doom deviato, ma per lo più è segnato delle invocazioni del vocalist Eklezjas’Tik Berzerk che si stagliano incessanti su un substrato dronico/rumoristico che rifugge ogni parvenza di forma canzone.
Detto questo, l’unica maniera per ascoltare la musica dei Sektarism senza essere respinti con perdite è quella di cogliere, innanzitutto, il senso della loro proposta dal punto di vista concettuale: compreso questo, ovvero il fatto che la band transalpina mette in scena un sorta di autoflagellazione musicale, allora si può tentare di aprire questo terrificante libro e sfogliarne la pagine provando a lasciarsi ferire le carni dai dieci minuti di urla strazianti di Oderint Dum Metuant, che altro non sono poi che una sorta di lunga introduzione al secondo brano Sacrifice, oltre mezz’ora di disperazione sonora che ci precipita nella più assoluta oscurità.
Fils de Dieu è un lavoro per stomaci forti ed orecchie ben allenate, ma pensare di sfuggire ai Sektarism è un vano tentativo; in fondo tutti noi dovremmo cominciare a ragionare sull’opportunità di espiare, prima o poi, la colpa di esistere, perché quando ne saremo chiamati a rispondere sarà inevitabilmente troppo tardi.

Tracklist:
1.Oderint dum metuant
2.Sacrifice

Line-up:
Shamaanik B. – Drums
Messiatanik Armrek – Guitars
Eklezjas’Tik Berzerk – Vocals
Kristik A.K. – Bass

Pantheist – Seeking Infinity

Un grande ritorno: l’attesa non è stata vana e il leader Kostas ci riporta alle radici del suo personale funeral facendoci immergere in zone della nostra anima completamente prive di luce.

Sette lunghi anni ci separano dall’ultimo segnale mandato dalla creatura di Kostas Panagiotu, dall’ultimo controverso e forse non completamente a fuoco album omonimo del 2011.

Ora Kostas, che è stato impegnato in molteplici progetti nel frattempo (Toward Atlantis Light, Aphonic Threnody e Clouds tra gli altri), forte dell’appoggio di nuovi musicisti, tra cui Daniel Neagoe (Eye of Solitude, Clouds e mille altri) “on drums”, ci dona un’ora di musica dal forte e antico fascino. Cover estremamente suggestiva cosi come il titolo, Seeking Infinity l’opera ci riporta alle radici del loro funeral doom incorporando al meglio le derive atmosferiche e progressive presenti nei due precedenti lavori del 2008 (Journey through the lands unknown) e del 2011 (Pantheist). Già nel 2016 Kostas aveva iniziato a lavorare sulla attuale opera, pubblicando un EP di futuristic space doom, Chapters (ora sold out), per autofinanziarsi e scrivendo un racconto, Events, che rappresenta il concept del nuovo album: il professore Losaline viaggia nel tempo cercando di capire come mai l’umanità corra verso l’autodistruzione e trovando, come unica risposta, la totale irresponsabilità del genere umano che non trae mai insegnamento dai propri errori. L’opera è assolutamente ispirata, con un interplay tra pianoforte, tastiere e chitarre che raggiunge livelli notevoli, ricordandoci l’unicità del suono della band, nata in Belgio ma ora londinese; brani lunghi, ricchi di suggestioni e atmosfere dilanianti fin dall’opener Control & fire, dove un intenso suono di basso ci accompagna lungo undici minuti incantevoli. Per 500 B.C to 30 A.D- The Enlightened Ones esiste anche un video assolutamente consigliato, per immergervi in un funeral dal sapore antico e misterioso; il piano cesella le melodie, mentre l’atmosfera si appesantisce, portandoci in spazi doom vigorosi e tesi  e ricordandoci che ”you can run but you can’t hide from the quiet flow of time and the dark tentacles of fate push you towards your destiny“. Storia a sé stante sono i sei abbondanti minuti di 1453: An Empire Crumbles in cui la narrazione della caduta di Costantinopoli, ultimo baluardo dell’ Impero Romano d’ Oriente, è condotta su un base d’organo creata ad hoc per celebrare un antico rituale; un brano che, pur usando ingredienti diversi, raggiunge livelli atmosferici superbi. Le ultime due tracce, per un totale di circa ventisette minuti, nella loro maestosità doom sublimano un’opera nella quale l’ incessante dialogo tra piano e chitarre ci conduce in luoghi dove si distilla la forma più pura di funeral doom e la solitudine e la disperazione accompagnano le gesta di ogni uomo. Un grande ritorno, la lunga attesa non è stata vana.

Tracklist
1. Eye of the Universe
2. Control and Fire
3. 500 B.C. to 30 A.D. – The Enlightened Ones
4. 1453: An Empire Crumbles
5. Emergence
6. Seeking Infinity, Reaching Eternity

Line-up
Kostas Panagiotou – Vocals, Keyboards
Aleksej Obradović – Bass
Frank Allain – Guitars
Daniel Neagoe – Drums

PANTHEIST – Facebook