Pissboiler – In The Lair Of Lucid Nightmares

I Pissboiler possiedono un’indole irrequieta che li porta ad esplorare territori contigui al funeral con grande proprietà e fluidità.

Gli svedesi Pissboiler sono un’altra delle interessanti novità portati alla luce dalla Third I Rex.

Il trio scandinavo esordisce su lunga distanza con questi In The Lair Of Lucid Nightmares, lavoro la cui base di partenza è un funeral doom che viene ampiamente contaminato da una componente sludge, oltre che da pulsioni droniche che trovano eccellente sfogo nell’ultima traccia.
L’interpretazione dei Pissboiler  è comunque abbastanza ortodossa nell’opener Ruins of the Past, dove il sound si trascina con tutto il suo penoso carico di dolore , senza far venire meno la caratteristica principale del genere che è la reiterazione di accordi dolentemente melodici.
Questi svedesi, però, possiedono un’indole irrequieta che li porta ad esplorare territori contigui al funeral con grande proprietà e fluidità, e il tutto viene evidenziato nei disturbati dieci minuti di Pretend It Will End, nel corso dei quali i suoni si fanno più aspri ma senza che scemi l’atmosfera ottundente che avvolge l’intero lavoro.
La lunga traccia finale Cutters, come detto, è un delirio drone rumoristico che attrae e respinge allo stesso tempo, un aspetto che diviene tratto comune quando la componente claustrofobica finisce per soffocare gli sporadici spunti melodici.
Ma questo è un modo di intendere la materia funeral che non fa sconti, andando a scavare nelle carni esacerbando il dolore invece che lenirlo: i Pissboiler con In The Lair Of Lucid Nightmares dimostrano che non c’è un modo giusto od uno sbagliato di approcciare il genere, perché a fare la differenza è sempre il filo sottile, eppure ugualmente solido come quelli tessuti da un ragno, che riesce indissolubilmente a unire il sentire dei musicisti con quello degli ascoltatori.

Tracklist:
1. Ruins of the Past
2. Stealth
3. Pretend It Will End
4. Cutters
Line-up:
Pontus Ottosson – Guitars
Karl Jonas Wijk – Drums, Guitars
LG – Vocals (lead), Bass

PISSBOILER – Facebook

Sufffer In Paradise – Ephemere

I Suffer In Paradise tornano dopo circa un anno e mezzo con un nuovo lavoro che conferma ampiamente ciò che era già più di una sensazione, ovvero quella di trovarci al cospetto di una band in grado di fornire un’interpretazione superlativa del funeral doom melodico.

Dopo il bellissimo esordio su lunga distanza This Dead Is World, risalente al 2016, che riprendeva in parte il materiale edito nel demo uscito all’inizio di questo decennio, i Suffer In Paradise tornano dopo circa un anno e mezzo con un nuovo lavoro che conferma ampiamente ciò che era già più di una sensazione, ovvero quella di trovarci al cospetto di una band in grado di fornire un’interpretazione superlativa del funeral doom melodico.

Come era prevedibile, anche per l’appartenenza ad un filone musicale nel quale non si è molto inclini a soverchie variazioni sul tema (e per chi lo ama questo è pregio e non difetto), il trio russo si stabilizza sulle coordinate del precedente lavoro, prendendo quali riferimenti maestri del genere quali Ea, Skepticism e Profetus e per restare in area ex sovietica, anche i mai abbastanza rimpianti Comatose Vigil.
Ephemere si rivela così un album di rara bellezza e profondità, con i ragazzi di Voroneh che si dimostrano in grado di imprimere ad ognuna delle sei lunghe tracce (più outro) quel dolente afflato melodico che eleva il funeral a forma d’arte musicale suprema: se la title track, posta in apertura, rappresenta l’ideale manifesto musicale dei Suffer In Paradise, è affidato alla successiva My Pillory il compito di scaraventare l’ascoltatore in quegli abissi di disperazione propedeutici ad una catartica risalita.
The Swan Song of Hope inizia portando con sé il marchio dei migliori Worship, con il valore aggiunto di arrangiamenti tastieristici che sono il tratto comune fondamentale dell’intero lavoro e che, nello specifico, rende questo brano qualcosa di una bellezza a tratti insostenibile; con The Wheels of Fate il sound si inasprisce nella parte finale mentre The Bone Garden e Call Me to the Dark Side riconducono il tutto ad un piano di funesta accettazione di un dolore che, seppur latente, è compagno fedele dell’esistenza di ciascuno.
Posso solo aggiungere che, a fini statistici, è un peccato che nel suo lungo peregrinare attraverso l’Europa il cd inviato dalla Endless Winter sia arrivato solo poco prima della fine dell’anno, perché Ephemere avrebbe meritato l’inserimento nella lista delle miglior uscite del 2017, con menzione quale opera di punta del settore funeral, ma in fondo chi se ne importa: quello che importa è l’aver ricevuto la conferma che i Suffer In Paradise hanno tutti i crismi per raccogliere l’eredità dei Comatose Vigil e degli Abstract Spirit (sperando sempre che entrambe le band si rifacciano vive, prima o poi), perpetuando la tradizione di recente consolidamento del funeral doom russo.

Tracklist:
1. Ephemere
2. My Pillory
3. The Swan Song of Hope
4. The Wheels of Fate
5. The Bone Garden
6. Call Me to the Dark Side
7. Outro

Line-up:
A.V. – Guitars, Vocals
Defes Akron – Keyboards, Drum programming
R. Pickman – Bass

Monolithe – Nebula Septem

Ancora una volta i Monolithe fanno centro, dimostrando che si può conservare la propria identità anche apportando diverse variazioni al tema portante, che resta pur sempre l’ideale accompagnamento sonoro dei viaggi intrapresi dalla nostra immaginazione al di là del tempo e dello spazio.

Sono passati quindici anni da quando i Monolithe pubblicarono il proprio album  d’esordio.

Ci volle relativamente poco perché la band francese, guidata da Sylvain Bégot, si ritagliasse un suo status di culto presso gli estimatori del funeral doom, soprattutto perché a livello concettuale, invece di ripiegarsi sulle sventure terrene, tentava di elevarsi verso un sentire cosmico con risultati ugualmente angoscianti, a ben vedere.
Ogg, ad accompagnare il leader, tra i membri originari è rimasto solo l’altro chitarrista Benoît Blin, visto che per la prima volta i Monolithe non si avvalgono della voce di Richard Loudin, cosicché in Nebula Septem le parti vocali sono state registrate da Sebastien Pierre (Enshine, Cold Insight), mentre in sede live il ruolo verrà assunto dal terzo chitarrista Remi Brochard.
Come si può intuire dal titolo siamo arrivati alla settima puntata su lunga distanza per la band transalpina (alla cui discografia vanno aggiunti anche i due Interlude, importanti Ep usciti tra Monolithe II e Monolithe III) e tale numero ricorre in maniera puntuale sia nel numero dei brani che nella loro durata, ma al di là di questi aspetti, è confortante constatare come la cadenza di uscite ormai annuale non abbia per nulla scalfito la qualità degli album.
Nebula Septem per certi versi sorprende, perché se in Epsilon Aurigae certe aperture progressive potevano far presagire un ulteriore incremento della componente melodica, il suono al contrario pare addirittura inasprirsi, senza che venga comunque mai meno la propensione atmosferica e l’afflato cosmico che è tratto distintivo dei Monolithe.
Se IV resta, anche a detta dello stesso Bégot nel corso dell’interessante documentario Innersight, l’album più riuscito nella discografia dei nostri, qui andiamo molto vicini al raggiungimento di quel livello, sebbene sia da mettere subito in chiaro che, per un’assimilazione soddisfacente, sono necessari diversi ascolti, in modo da riuscire a cogliere ogni volta sfumature diverse pur se racchiuse in un “monolite” sonoro molto compatto, eretto dalle tre chitarre e sostenute da un eccellente lavoro tastierisco, dal growl magnifico di Pierre e da una base ritmica molto più attiva e in evidenza rispetto alle abitudini del genere.
Del resto la collocazione dei Monolithe nell’ambito del funeral doom appare più una convenzione che non una reale fotografia delle loro attuali sonorità, definibili più correttamente come un metal estremo cosmico e avanguardista, non troppo distante per approccio neppure da certe forme di black/space atmosferico.
Nebula Septem, per come è strutturato, va assorbito nella sua interezza, perché parlare dei singoli brani sarebbe abbastanza inutile: basti sapere comunque che almeno i primi ventotto minuti sono superlativi (dovendo scegliere mi prendo l’accoppiata Burst in the Event Horizon / Coil Shaped Volutions), mentre l’incipit da videogame di Engineering the Rip potrebbe risultare spiazzante per cui è bene dire che il tutto dura ben poco, prima che la galassia musicale denominata Monolithe ricominci ad abbattersi come di consueto sull’ascolatore, fino a chiudere i giochi con lo strumentale Gravity Flood, spruzzato di elettronica all’avvio e poi melodico e dolente come da copione doom.
Ancora una volta i Monolithe fanno centro, dimostrando che si può conservare la propria identità anche apportando diverse variazioni al tema portante, che resta pur sempre l’ideale accompagnamento sonoro dei viaggi intrapresi dalla nostra immaginazione al di là del tempo e dello spazio.

Tracklist:
1. Anechoic Aberration
2. Burst in the Event Horizon
3. Coil Shaped Volutions
4. Delta Scuti
5. Engineering the Rip
6. Fathom the Deep
7. Gravity Flood

Line-up
Benoît Blin – Guitars
Sylvain Bégot – Guitars, Keyboards, Programming
Olivier Defives – Bass
Thibault Faucher – Drums
Rémi Brochard – Guitars, Vocals
Matthieu Marchand – Keyboards

Sebastien Pierre – Vocals

MONOLITHE – Facebook

Nortt – Endeligt

Sono passati dieci anni ma Nortt sembra ancora più convinto nell’esplorare oscuri e vuoti abissi, ove non risiedono speranza ma solo morte e desolazione.

Perfetta sound track per un viaggio nell’inquietudine e nella disperazione.

Dopo dieci anni di silenzio discografico, Nortt ritorna a raggelarci con la sua arte ricolma di note funeral, black e doom perfettamente miscelate a creare una dark ambient disturbante e lugubre.
Il musicista danese, dopo “Galgenfrist” del 2007, scarnifica ulteriormente il suo suono e con poche note e suoni minimalisti offre nove composizioni lente, profonde, strazianti, da sentire nel profondo del nostro io; è musica che ci porta a un confronto continuo con noi stessi, con le nostre paure, con le nostre vite senza punti di riferimento, con un vuoto interiore difficile se non impossibile da colmare.
Il senso di morte, di abbandono, di tragicità che permeano ogni nota vanno al di là di ogni descrizione su carta, ognuno ha dentro di sé la propria interpretazione di questo mondo, che nelle note di Nortt appare maledetto e in disfacimento morale e materiale.
Pochi suoni all’interno dei brani delineano scenari di sconfinata e lugubre tragicità che raggiungono vette emozionali laceranti: in Afdo un tocco epico aggiunge splendore e magnificenza.
Le atmosfere, già terrifiche fin dall’inizio, raggiungono picchi di gelo e desolazione con il passare dei minuti e gli ultimi tre brani rilasciano segnali di morte non comuni, inerpicandosi su suoni dark ambient che non hanno nulla di umano.
Nortt afferma che negli ultimi dieci anni non ha registrato alcunché in quanto ha vissuto in un mondo dove non aveva necessità di farlo; sono passati dieci anni ma la sua arte sembra ancora più convinta nell’esplorare oscuri e vuoti abissi, ove non risiedono speranza ma solo morte e desolazione. Un grande ritorno!

Tracklist
1. Andægtigt dødsfald
2. Lovsang til mørket
3. Kisteglad
4. Fra hæld til intet
5. Eftermæle
6. Afdø
7. Gravrøst
8. Støv for vinden
9. Endeligt

Line-up
Nortt Everything

NORTT – Facebook

Nordlumo – Embraced by Eternal Night

Come spesso accade, la musica che ci giunge dalla Siberia non delude e il misterioso Nordmad riesce nell’intento di produrre un bellissimo lavoro, tramite l’esibizione di un funeral doom melodico ma al contempo molto essenziale.

Nordlumo è il nome di questa nuova one man band proveniente dalla Siberia e dedita al funeral doom.

Come spesso accade, la musica che ci giunge da quelle fredde e lontane lande non delude e il misterioso Nordmad riesce nell’intento di produrre un bellissimo lavoro, tramite un’esibizione del genere melodica ma al contempo molto essenziale.
Sono pochi gli inserti vocali mentre risultano invece pressoché nulli i momenti in cui il sound viene diluito con passaggi ambient o sperimentali: qui tutto è finalizzato alla creazione di una melodia dolente ma d’immediato impatto e, in tal senso, si rivela emblematica la prima traccia, interamente strumentale, The Autumn Fall, la quale prepara il terreno a quello che sarà il fulcro dell’album, la meravigliosa Devotion, oltre 23 minuti di sofferenza pura oltre che sicuro nutrimento per i soli adepti del genere.
E’ sempre un profondo senso di malinconia ad aleggiare per quasi la metà del brano, nel corso del quale il musicista russo mostra anche una certa eleganza nel pizzicare gli strumenti a corde, prima che l’interminabile finale ci scaraventi in un vortice di inalienabile dolore, con la reiterazione di accordi rallentati all’inverosimile.
Altro picco del lavoro è il quarto d’ora intitolato Dreamwalker, brano di chiara impronta Ea che si apre negli ultimi cinque minuti in un meraviglioso crescendo emotivo; non da meno comunque è anche il resto del lavoro, che oltre alla già citata The Autumn Fall, propone la nervosa e più cangiante Scripts e la stupenda cover di Weathered dei Colosseum, sentito e doveroso omaggio al genio musicale del compianto Juhani Palomäki.
Nordmad dimostra d’essere un musicista di grande spessore, regalando un esordio inattaccabile sotto ogni aspetto e dotato di tutti i crismi per lasciare il segno negli appassionati di funeral doom.

Tracklist:
1. The Autumn Fall
2. Devotion
3. Scripts
4. Dreamwalker
5. Millenium Snowfall
6. Weathered (Colosseum cover)

Line-up:
Nordmad – Everything

Slow – V-Oceans

Dall’Aurora alle Tenebre, dal Diluvio al Nulla, per chiudere ineluttabilmente con la Morte: giocando con i titoli dei brani è questo il percorso cosparso di lacrime lungo il quale ci conduce ancora una volta il talento di Déhà.

In occasione della riedizione in vinile e cd da parte della code666 di questo splendido album, riproponiamo la recensione pubblicata nella scorsa estate con la speranza di catturare l’attenzione di qualche nuovo estimatore della musica targata Slow.

Quinto atto per uno dei mille progetti del multiforme Déhà, un artista che non teme rivali stante l’elevatissimo rapporto tra la debordante quantità della musica proposta e la sua sempre stupefacente qualità.
Oceans non viene meno alle aspettative, stavolta, però, facendo esattamente quanto un estimatore del musicista belga si sarebbe aspettato, ovvero dare alle stampe con il monicker Slow qualcosa di molto vicino al disco funeral doom atmosferico definitivo, tramite il quale obbligare ciascuno ad esibire senza alcuna maschera il proprio turbamento ed il dolore sordo e latente che accompagna anche l’esistenza più spensierata.
Senza farsi aiutare in questa occasione dal suo grande amico Daniel Neagoe (ma i due hanno in serbo perle irrinunciabili delle quali parleremo prossimamente), Déhà mette in scena quasi un’ora di note in cui il genere viene sviscerato nella sua veste più toccante, con la lenta e costante reiterazione delle linee melodiche che vanno man mano a modificarsi in maniera impercettibile, per poi arricchirsi di nuovi apporti, strumentali e vocali, prima di esplodere in autentiche tempeste emozionali.
Se in Mythologiae il sound, a tratti, risultava più etereo e, di conseguenza, meno intenso, Oceans ritorna alle sonorità più drammatiche e, se vogliamo, più dirette di Gaia, toccando le vette melodiche alle quali Déhà ci ha abituato nel corso di questi anni.
Il concept verte sull’elemento acquatico per il quale, altra novità in tal senso, Déhà ha delegato la composizione delle liriche alla giovane connazionale Lore Boeykens; l’album scorre appunto fluido come un liquido e privo di interruzioni tra i cinque lunghi brani, portandosi appresso dalla prima all’ultima nota quel marchio musicale che accomuna, al di là delle differenze di genere, progetti come Imber Luminis, Yhdarl, We All Die (Laughing), Deos, Vaer e Maladie, solo per citare quelli dal maggiore potenziale evocativo.
Appare così inutile parlare dei singoli brani, anche se non si può ugualmente fare a meno di notare come nei tredici minuti intitolati Déluge si raggiungano vertici di lirismo inimmaginabili per potenza e drammaticità, amplificati da un growl che non viene mai abbandonato nel corso del lavoro, conducendo l’ascoltatore tra lo stupore provocato da atmosfere basate su tastiere e chitarra e e percosse da una base ritmica tutt’altro che appiattita solo su ritmi bradicardici.
Dall’Aurora alle Tenebre, dal Diluvio al Nulla, per chiudere ineluttabilmente con la Morte: giocando con i titoli dei brani è questo il percorso cosparso di lacrime lungo il quale ci conduce ancora una volta il talento di Déhà, unico nel suo saper trasformare il dolore e lo sgomento in una forma superiore di arte musicale.

Tracklist:
1.Aurore
2.Ténèbres
3.Déluge
4.Néant
5.Mort

Line up:
Déhà – All instruments, Vocals

SLOW – Facebook

Bell Witch – Mirror Reaper

Opera magnifica intrisa di dolore, disperazione e desolazione.

La prova del terzo disco è sempre un esame difficile per molte band e gli statunitensi di Seattle, Bell Witch, vi giungono con l’animo colmo di disperazione e dolore dopo la dipartita del drummer e vocalist Adrian Guerra, avvenuta nel 2016.

La band, da sempre un duo, è attiva dal 2011 con l’omonimo demo e ha sempre proposto un personale e peculiare funeral doom molto intenso incentrato sul suono del basso suonato da Dylan Desmond, ora accompagnato da Jesse Shreibman alla batteria; chi ha seguito la loro carriera musicale avrà apprezzato le grandi capacità compositive e la grande inventiva riversata nei precedenti due dischi (Longing del 2012 e Four Phantoms del 2015), dove il suono del basso magistralmente suonato riempie totalmente gli spazi e crea lunghi brani molto affascinanti. Ora questo monumentale Mirror Reaper sposta il loro concetto di suono sondando ulteriori orizzonti; due brani, As Above e So Below per un totale di circa 84 minuti di musica, dall’alto contenuto emotivo, dove i temi trattati riguardano la vita e la morte, la desolazione e la disperazione. I paesaggi creati dai due musicisti rappresentano il dolore opprimente che pervade la loro anima lacerata dalla perdita del collega e amico. Non è un disco difficile, non ha nulla di sperimentale o avanguardistico, ma ha bisogno di tempo per entrare sottopelle, per invadere l’animo con la sua essenza spirituale. Il suono si dipana lento, introspettivo, meditativo con il basso che disegna poche note angosciose e opprimenti, con un’alternanza di pieni e vuoti sapientemente condotta. La prima parte dell’opera As Above si sviluppa come un ricordo di note che si alternano e si spengono una dietro l’altra in mezzo a una nebbia plumbea, dove non esiste una meta certa perché’ tutto si è interrotto in mezzo a dolenti lamenti; la tristezza è tangibile, si aprono varchi in altre dimensioni spirituali come specchi riflettenti un io diverso. Suoni di organo in sottofondo (novità per la band) diffondono strati di sofferenza e vuoto incolmabile caricando il viaggio di tensione e passione. Qui si evidenzia l’essenza del puro suono doom dove tutto si muove ma nel contempo appare immoto, dove tutto procede lentamente ma rimane carico di tensione; l’alternanza di growl e clean vocals, molto presenti nella seconda parte So Below, la presenza di alcuni chorus mantengono alta la tensione rendendo tutto oltremodo interessante, gli arabeschi del basso che germoglia poche lunghe note suonate col cuore, sviluppano una esperienza unica nel funeral doom. Il duo può ricordare a tratti gli Skeptcism o gli Shape of Despair per la capacità di aprire nella mente scenari e paesaggi di enorme desolazione ma la capacità di riuscire a farlo con una cosi parca strumentazione è unica. In definitiva un’ opera magnifica impreziosita da una mirabile e suggestiva cover dell’artista polacco Mariusz Lewandowski.

Tracklist
1.Mirror Reaper (As Above)
2.Mirror Reaper (So Below)

Line-up
Dylan Desmond Bass, Vocals
Jesse Shreibman Drums, Vocals, Organ

BELL WITCH – Facebook

Luna – Swallow Me Leaden Sky

Swallow Me Leaden Sky regala quasi tre quarti d’ora di buon funeral death doom atmosferico, che ben difficilmente non farà breccia negli estimatori del genere.

Su quest’ultimo lavoro della one man band ucraina Luna avei potuto più o meno fare un copia incolla di quanto scritto nelle precedenti occasioni: DeMort, titolare del progetto, continua imperterrito a sfornare un buon funeral doom atmosferico interamente strumentale e che trae ispirazione in maniera piuttosto marcata dal sound degli Ea, anche se Swallow Me Leaden Sky mostra una progressione importante, se non dal punto di vista dall’originalità, sicuramente da quello prettamente qualitativo.

D’altronde, come già detto parlando di Ashes to Ashes e On the Other Side of Life, i due full length usciti rispettivamente nel 2014 e nel 2015, il rifarsi al sound tipico della misteriosa band americana non è certo da considerarsi deprecabile, specialmente se si apprezza in toto questa espressione musicale che qui viene riproposta con competenza e buona ispirazione.
Il permanere della struttura interamente strumentale resta pur sempre un limite, anche se forse in questo genere lo è meno che in altri; d’altro canto, però, in questo ultimo lavoro, non si può fare a meno di notare che alcuni degli elementi di discontinuità inseriti nel bellissimo ep There Is No Tomorrow Gone Beyond Sorrow Under a Sheltering Mask, uscito a cavallo tra i primi due full length, vengono ripresi dal musicista ucraino riuscendo cosi a conferire al tutto un’aura più drammatica e solenne, specialmente nella seconda delle due lunghe tracce, la title track. E’ proprio qui che il sound acquista parecchi punti in personalità e profondità rispetto al pur buono brano iniziale Everything Becomes Dust, con l’aggiunta di una sorta di vocalizzo campionato che si fa gradevolmente ossessivo nella seconda metà della traccia: la chitarra diviene finalmente protagonista soppiantando le tastiere nel ruolo preponderante assunto fino ad allora, spostando il tutto su un piano più cosmico affine a quello dei Monolithe, altra importante fonte di ispirazione per la musica marchiata Luna.
Grazie a questo l’operato di DeMort acquista quello spessore che era mancato talvolta nei lavori precedenti, assurgendo ad una forma decisamente compiuta e ben diversa da quella di buon surrogato del già esistente, definizione che sembrava essere fino ad oggi quella più calzante per la one man band di Kiev.
Swallow Me Leaden Sky regala così quasi tre quarti d’ora di buon funeral death doom atmosferico, che ben difficilmente non farà breccia negli estimatori del genere.

Tracklist:
1.Everything Becomes Dust
2.Swallow Me Leaden Sky

Line-up
DeMort

Aphonic Threnody – Of Loss and Grief

Il death doom regala un’altra perla nel 2017 con il secondo full length degli Aphonic Threnody, band capace di raggiungere notevoli vette di lirismo e di emozioni.

Una delicata melodia ci introduce al secondo full length degli Aphonic Threnody e diventa subito complicato esprimere a parole il profondo senso di smarrimento di cui queste note si nutrono; la disperazione, l’abbattimento, il viaggio verso una profonda depressione che permeano i settantatré minuti di Of Loss and Grief  rappresentano uno specchio in cui l’ascoltatore deve riflettersi per catturare appieno l’arte della band, attiva dal 2013 con l’EP First Funeral.

Una creatura internazionale comprendente musicisti italiani, cileni e inglesi che, in questo disco, si circondano di ospiti provenienti da alcune tra le migliori band del settore (My Shameful, Worship, Mournful Congregation, Ataraxie, Alunah) per dare “vita” a un’opera intensa, affascinante e debitrice del migliore death doom degli anni 90 ammantato di oscurità funeral.
Il disagio emozionale è grande, così come è importante la capacità creativa dei musicisti che trovano sempre il “quid” giusto in ogni brano per farci intraprendere un viaggio carico di disperazione e dolore; non si inventa nulla di nuovo, ma colpisce la sensibilità e l’intensità della’arte espressa.
Il growl espressivo, presente in tutti i brani, colpisce profondamente e l’alternarsi con female vocals in All I’ve Loved dà un’ulteriore sapore tragico al brano, che pur iniziando con una melodia più limpida si inabissa in lidi doom di gran livello e in liriche di tristezza sconfinata … all I’ve loved is lost.
Brani lunghi con punte di circa venti minuti (Lies) in cui il suono si dipana lento, maestoso quando le chitarre erigono muri melodici ricchi di sfumature, sfrangiandosi talvolta in intarsi acustici e madrigaleschi molto suggestivi per poi lasciarsi andare in parti soliste cariche di lirismo e forza.
Nei sei brani non ci sono riempitivi, tutto è frutto di una vera e sentita ispirazione per il lato oscuro della vita che è in ognuno di noi e di cui l’ascoltatore del doom si alimenta costantemente. Le idee e i suoni fluiscono naturalmente, non vi è nulla di manieristico: questi brani raccontano un viaggio nelle miserie umane, nella perdita di ogni speranza, e un interminabile brano come Lies deve trovare l’ascoltatore predisposto verso questa forma d’arte che, in un mondo frenetico e spesso inconcludente, ha bisogno di essere metabolizzata lentamente per poter penetrare a fondo nell’anima. Disco perfetto per le fredde e umide serate novembrine.

Tracklist
1. Despondency
2. Life Stabbed Me Once Again
3. All I’ve Loved
4. Lies
5. Red Spirits in the Water
6. A Thousand Years Sleep

Line-up
Roberto Mura – vocals
Riccardo Veronese – bass\guitars
Juan Escobar – keys\vocals

APHONIC THRENODY – Facebook

Profundum – Come, Holy Death

Ogni attimo è finalizzato al completamento di un percorso che porta verso una fine più invocata che temuta, con la tensione che non viene mai lasciata scemare.

I Profundum sono una di quelle misteriose band che periodicamente sbucano da qualche oscuro anfratto esibendo in maniera magnifica sonorità disperatamente malsane e funeree.

Come spesso avviene in questi casi, tra l’altro, le uniche notizie certe sono la provenienza statunitense (San Antonio), il fatto che Come, Holy Death sia il loro full length d’esordio che segue l’ep dello scorso anno What No Eye Has Seen, e che si tratta di un duo formato dai misteriosi LR e R, anche se diversi indizi mi fanno ragionevolmente ritenere che quest’ultimo sia, in effetti, il Ryan Wilson titolare del pregevole monicker The Howling Void.
Inoltre, le note promozionali ci fanno sapere che i Profundum traggono la loro ispirazione dai fondamentali primi lavori degli Emperor per poi sviluppare un’idea di musica oscura, ferale e nel contempo maestosa.
Indubbiamente, chi ha ben presente le sonorità di In The Nightside Eclipse può trovarsi d’accordo con tale affermazione, fermo restando che il sound dei californiani propende in maniera decisiva verso il funeral doom, lasciando che le sfuriate di matrice black siano solo una delle componenti del sound e non quella preponderante.
Fatte le debite premesse, si può tranquillamente dichiarare Come, Holy Death come una delle sorprese dell’anno quando si parla di sonorità in grado di evocare un senso di struggimento misto ad angoscia e ottundente dolore: mi spingo oltre, affermando che forse mai nessuno, almeno nell’ultimo decennio, è riuscito a realizzare con tale efficacia il connubio atmosferico tra il black metal ed il funeral.
L’album non è particolarmente lungo, con i suoi otto brani dalla durata media di cinque minuti ciascuno che vanno a creare, però, un flusso unico nel corso del quale soffocanti rallentamenti si legano in un abbraccio mortale alle repentine accelerazioni grazie alla solennità delle tastiere: la voce di LR è un growl che sovente si tramuta in uno screaming mai troppo esasperato, comunque restando sempre nei limiti di una certa intelligibilità.
Come, Holy Death, proprio per tutte queste caratteristiche,  non possiede picchi né punti deboli, perché non c’è un solo secondo sprecato indugiando in passaggi interlocutori: qui ogni attimo è finalizzato al completamento di un percorso che porta verso una fine più invocata che temuta, con la tensione che non viene mai lasciata scemare. Obbligato a scegliere un brano emblematico, opto per Unmoved Mover, abbellito da un misurato tocco pianistico, ma ribadisco che anche le altre sette tracce non sono affatto da meno.
Profundum è un altro nome da segnare con il circoletto rosso in egual misura, sia per per gli appassionati di black atmosferico sia per quelli di funeral doom.

Tracklist:
1. Sentient Shadows
2. Unmoved Mover
3. Antithesis
4. Tunnels to the Void
5. Storms of Uncreation
6. Into Silences Ever More Profound
7. I Have Cast A Fire Upon The World
8. Illuminating The Abyss

Line-up:
LR – vocals
R – all instruments

PROFUNDUM – Facebook

Woe Unto Me – Among The Lightened Skies The Voidness Flashed

Gli Woe Unto Me confermano comunque la loro bravura proponendosi come una delle band di riferimento del funeral doom est europeo.

Tre anni dopo l’ottimo esordio intitolato A Step into the Waters of Forgetfulness ritornano, con un nuovo album, i bielorussi Woe Unto Me, indiscussi portabandiera del verbo funeral doom del loro paese.

La band guidata dal talentuoso Artem Serdyuk, con questo Among The Lightened Skies The Voidness Flashed fa le cose in grande, rischiando a mio avviso anche qualcosina nell’offrire agli appassionati un doppio cd per oltre due ore complessiva di musica dalle coordinate ben distinte tra i due supporti magnetici: se, infatti, il primo regala un’interpretazione più ortodossa, anche se come vedremo non proprio in tutti i frangenti, il secondo è invece all’insegna di una vena acustica ed intimista dai risultati alterni.
Sinceramente, da vecchio adoratore del funeral, ritengo che solo i primi lunghi cinque brani rappresentino l’album vero e proprio, derubricando le sette canzoni contenute nella seconda parte ad una sorta di pur valido bonus cd , alla luce anche del suo oggettivo scostamento dalle linee guida del genere.
Partiamo quindi dall’opener Triptych: Shiver, Shelter, Shatter, uno dei piatti forti del lavoro, non fosse altro che per la presenza di diversi ospiti, alcuni illustri (Daniel Neagoe e Jon Aldarà ), altri meno (Patryk Zwoliński): il brano, bellissimo, cambia umore di volta in volta con l’avvicendarsi dei diversi vocalist, risultando prima cupo e drammatico, con il solito terrificante growl di Neagoe, per poi farsi più aspro in coincidenza con le harsh vocals di Zwoliński e raggiungendo infine  il proprio picco emotivo quando la meravigliosa voce del faroese Aldarà spinge il brano su un piano irresistibilmente evocativo.
Un’altrettanto valida Of Life That Never Showed Its Face inaugura la parte del disco in cui l’alternanza tra il growl di Serdyuk e le clean vocals di Oleg Vorontsov diviene pressoché sistematica, aprendo peraltro sbocchi compositivi in passato inesplorati dagli Woe Unto Me, con una parte in odore di ambient con tanto di utilizzo dei fiati che prelude ad uno splendido finale.
I Come To Naught si apre in maniera alquanto cupa per poi aprirsi improvvisamente in passaggi ariosi che ricordano non poco i Dark Suns del loro capolavoro Existence: anche qui il sax diviene un interessante elemento di discontinuità in un brano senz’altro originale se rapportato al genere offerto e, di conseguenza, decisamente intrigante.
Breath Of A Grief, se si eccettua un bell’incremento emotivo nella sua parte finale, nonostante resti comunque un brano di buono spessore rappresenta il momento meno scintillante del primo cd, forse anche perché subito dopo arriva la vera perla dell’album, Drawn By Mourning, magnifico e drammatico esempio di come si suona il funeral doom nelle lande ex sovietiche, con il suo dolente incedere punteggiato dal lamento della chitarra ed uno sviluppo sempre improntato alla ricerca di sonorità toccanti ma non scontate.
Il secondo cd, come detto, sposta tutto su un piano molto più rarefatto che, alla fine, finisce per rendere un po’ troppo omogenei i contenuti: questo non impedisce alla band bielorussa di regalare brani splendidi come In A Stranglehold e Fall-Dyed Lament, che si vanno a collocare stilisticamente tra gli Anathema ed di Novembers Doom acustici, o come Leave Me To My Sorrows, che si rifà al pathos recitativo di Thomas Jensen negli album dei Saturnus ma, nel complesso, l’impatto e l’intensità non raggiungono quello del cd, per così dire, canonico.
Posto che il funeral è genere anticommerciale per definizione, la scelta degli Woe Unto Me è doppiamente coraggiosa, anche se questa separazione netta tra le due anime dell’album non giova all’economia dell’intero lavoro, nel senso che, pur mantenendo la versione con duplice supporto, mescolando il tutto ed alleggerendo di 2-3 brani il fatturato complessivo, Among The Lightened Skies The Voidness Flashed si sarebbe reso probabilmente più accessibile ad ascolti completi. Infatti, ritengo che molti potrebbero alla lunga accantonare la parte acustica per privilegiare l’eccellente vis compositiva esibita da Serdyuk nei primi cinque brani.
Il voto, per quel che vale, è la media matematica tra il 9 del primo cd ed il 7 del secondo ma, con la soluzione da me auspicata in precedenza, la valutazione avrebbe potuto raggiungere anche un mezzo punto in più.
Poco cambia, se non per le statistiche, visto che gli Woe Unto Me confermano comunque la loro bravura proponendosi come una delle band di riferimento del funeral doom est europeo.

Tracklist:
CD1:
1.Triptych: Shiver, Shelter, Shatter
2.Of Life That Never Showed Its Face
3.I Come To Naught
4.Breath Of A Grief
5.Drawn By Mourning

CD2:
1.In A Stranglehold
2.Leave Me To My Sorrows
3.Along Came The Imminence
4.Fall-Dyed Lament
5.A Year-Long Waiting
6.My Joy Lies Behind
7.The Snide Sun

Line up:
Dzmitry Shchyhlinski – guitars
Artyom Serdyuk – guitars, growl vocals
Oleg Vorontsov – clean vocals
Olga Apisheva – keyboards
Ivan Skrundevskiy – bass
Pavel Shmyga – drums

WOE UNTO ME – Facebook

Profetus – Coronation of the Black Sun/Saturnine

Coronation of the Black Sun in questa nuova veste diventa appetibile anche per chi già ne conosce il funesto contenuto, grazie all’allargamento della tracklist ai brani che facevano parte di Saturnine, demo d’esordio dei Profetus.

L’attiva label giapponese Weird Truth, specializzata nelle forme più catacombali del doom, con un roster che comprende tra gli altri Ataraxie, Mournful Congregation e Worship, immette sul mercato questa eccellente riedizione di una delle migliori espressioni del funeral doom fnlandese più recente, ovvero Coronation of the Black Sun, primo full length dei Profetus, pubblicato originariamente nel 2009.

La band di Tampere, che ha all’attivo anche un altro album si lunga distanza, l’ottimo …to Open the Passages in Dusk, fin da subito è apparsa l’ideale trait d’union tra le due seminali band del funeral, non solo in ambito finnico, Thergothon e Skepticism, prendendo l’abissale e depressivo incedere dei primi e le solenni atmosfere punteggiate dall’organo dei secondi.
Pur essendo un lavoro da consigliare a chi volesse far propria una selezione ristretta di una ventina di dischi funeral, ai fini di una full immersion in un genere fino a quel momento sconosciuto, Coronation of the Black Sun in questa nuova veste diventa appetibile anche per chi già ne conosce il funesto contenuto, grazie all’allargamento della tracklist ai brani che facevano parte del demo Saturnine, risalente al 2007 ed edito all’epoca solo in cassetta (il che equivale di fatto alla sua attuale irreperibilità).
Tutto ciò non riveste esclusivamente un valore storico, visto che i due brani aggiunti, Skull Of Silence e Winter Solstice, sono perfettamente allineati per caratteristiche e qualità alle altre tre litanie funebri costituite da The Eye of Phosphorus, Coalescence of Ashen Wings e il capolavoro Blood of Saturn, riproposto in coda alla tracklist anche in versione live, in occasione di un concerto tenuto dai Profetus a Kuopio.
In particolare, Winter Solstice appare davvero come una perla che sarebbe stato delittuoso non riportare alla luce, trattandosi di un brano di struggente e terribile bellezza che rappresenta, fondamentalmente, la quintessenza del funeral doom, con le sue atmosfere soffocanti e allo stesso tempo commoventi.
Spesso la riedizione di album relativamente recenti si rivela poco incisiva se non superflua, ma non è certo questo il caso, proprio perché, al di là del valore intrinseco del lavoro in questione, sono proprio i contenuti aggiuntivi a fare la differenza, rendendo la scelta della Weird Truth meritevole di un plauso incondizionato.

Tracklist:
1. Skull of Silence
2. The Eye of Phosphorus
3. Coalescence of  Ashen Wings
4. Blood of Saturn
5. Saturnine Night
6. Winter Solstice
7. Blood of Saturn (Kuopio live)

Line-up:
V. Kujansuu – Drums
Eppe Kuismin – Guitars
A. Mäkinen – Guitars, Vocals
S. Kujansuu – Keyboards

PROFETUS – Facebook

Mesmur – S

S è un’opera magnifica, che si propone come la migliore per distacco del 2017 in ambito funeral.

Attendevo da tempo un nome nuovo che andasse ad arricchire con la propria presenza la scena funeral doom, stante il prolungato fermo negli ultimi anni di gran parte delle band storiche.

I Mesmur giungono a colmare questo momentaneo vuoto con un’opera monumentale come S, non solo confermando quanto di buono avevano già fatto con l’omonimo album d’esordio ma addirittura perfezionando e focalizzando al meglio le caratteristiche del genere.
Il questo d’ora di Singularity profuma già di capolavoro, con il funeral che ascende alle vette sulle quali stanno assise band come Esoteric, Evoken, Ea, Mournful Congregation, Monolithe e Worship, dalle quali i Mesmur attingono il meglio per tessere il loro dolente disegno musicale.
Il fondatore e compositore principale della band, lo statunitense Jeremy Lewis, con il suo lavoro alla chitarra e alle tastiere delinea un incedere sofferto ma carico di emotività, almeno nella traccia d’apertura e nell’altrettanto lunga e successiva Exile: qui la sei corde produce un lamento lancinante prima che il growl dell’australiano Chris G, vocalist anche degli ottimi Orphans Of Dusk, prenda il sopravvento scaraventando il sound in un abisso di oscurità.
Il gruppo è completato da una coppia ritmica decisamente incisiva ed altrettanto dinamica (se rapportata al genere, ovviamente) formata dal batterista John Devos (assieme a Lewis nei blacksters DallaNebbia) e dal bassista italiano Michele Mura (ex Lightless Moor): un’internazionalità che conferma per i Mesmur lo status di progetto (almeno per ora) esclusivamente da studio (del resto anche nel precedente album il basso era affidato ad un musicista residente nel vecchio continente, nella persona del norvegese Aslak Karlsen Hauglid).
Distension, terza traccia che viaggia sempre sul quarto d’ora abbondante di durata, mostra maggiori dissonanze e, se possibile, si trascina in maniera ancor più sofferta rispetto ai precedenti brani, ritrovando uno struggente barlume melodico nella sua part finale.
S = k ln Ω chiude questo splendido lavoro con sei minuti strumentali in cui l’ambient drone iniziale si stempera in note intrise di una malinconia cosmica, tratto preponderante di un’opera magnifica che si propone come la migliore per distacco del 2017 in ambito funeral, salvo auspicabili smentite in questi ultimi mesi.

Tracklist:
1. Singularity
2. Exile
3. Distension
4. S = k ln Ω

Line up:
Jeremy Lewis – Guitars/Synth
John Devos – Drums
Michele Mura – Bass
Chris G – Vocals

MESMUR – Facebook

Usnea – Portals into Futility

Magnifico disco degli statunitensi che raggiungono il loro apice creativo: funeral, sludge e death fusi in modo magistrale.

A tre anni da un ottimo lavoro come Random Cosmic Violence la band statunitense di Portland si ripresenta con una magnifica opera, sempre su Relapse Records.

La band raggiunge, forse, il suo apice creativo, mantenendo il proprio trademark improntato su un suono dove si mescolano funeral-doom, death, sludge e aromi black: gli Usnea non sono i primi a cimentarvisi, ma  lo fanno con grande passione e importante conoscenza della materia; il songwriting è di alto livello e la capacità della band di creare suggestive atmosfere e melodie sempre su una base molto heavy, li fanno primeggiare. I cinque brani, tutti di lungo minutaggio, com’è giusto per il genere proposto, non sono particolarmente complessi ma sono ricchi di idee compositive sempre adeguate e la band si permette di suggerire la lettura di alcune opere distopiche e sci-fi, per meglio metabolizzare la struttura dei brani: ad esempio il brano Demon haunted world, disperato, cupo e opprimente è legato strettamente all’ omonimo libro di Carl Sagan del 1996. Altri scrittori noti e importanti come Frank Herbert (Dune) e Philip Dick (Valis) rappresentano suggestioni importanti per addentrarsi in cangianti brani come Pyrrhic Victory e A crown of desolation: nel primo la pesantezza del suono, l’alternarsi di vocals in scream e growl e l’atmosfera disperata si sfalda lentamente, nella parte centrale, in note cosmiche dove oscure dimensioni creano incubi in cui si smarrisce la memoria di sé. Nel brano finale A crown of desolation, mostro di abbondanti sedici minuti, si sublima la profondità emotiva della band, la devastante disperazione prende il sopravvento e un “io” travolto da minacce arcane perde completamente la speranza di ritrovare fragili equilibri; le vocals urlate, sgraziate accompagnate da un oscuro coro delineano scenari in cui la mente si spegne ed esplode come un nero cristallo impazzito.
Veramente un lavoro magnifico da assaporare lentamente, nota per nota, lasciandosi coinvolgere dalla notevole arte degli Usnea.

Tracklist
1. Eidolons and the Increate
2. Lathe of Heaven
3. Demon Haunted World
4. Pyrrhic Victory
5. A Crown of Desolation

Line-up
Joel Williams Bass, Vocals
Zeke Rogers Drums
Johnny Lovingood Guitars
Justin Cory Guitars, Vocals, Piano

USNEA – Facebook

Theta – Obernuvshis’

Pur essendo di natura totalmente strumentale, se si fa eccezione per le voci campionate che si susseguono nei diversi brani, l’album non possiede alcuna delle controindicazioni che sovente accompagnano tale scelta: qui la musica si prende la scena con decisione ed il rischio di vederla scivolare via senza lasciare alcuna traccia è scongiurato.

Prima prova su lunga distanza per Theta, progetto solista del musicista lombardo Mattia Pavanello, dopo l’uscita di un ep intitolato LXXV che aveva anticipato le coordinate sonore di una delle realtà più inquietanti in ambito musicale tricolore.

Pavanello è conosciuto per la sua militanza in band come Heavenfall e Furor Gallico, oltre che per una collaborazione illustre con i Folkstone, quindi sorprende in qualche modo ritrovarlo alle prese con un sound decisamente antitetico come il funeral doom dai tratti dronici e sperimentali offerto in Obernuvshis’.
Pur essendo di natura totalmente strumentale, se si fa eccezione per le voci campionate che si susseguono nei diversi brani, l’album non possiede alcuna delle controindicazioni che sovente accompagnano tale scelta: qui la musica si prende la scena con decisione ed il rischio di vederla scivolare via senza lasciare alcuna traccia è scongiurato: Mattia dimostra di conoscere alla perfezione il genere senza però seguirne le coordinate pedissequamente, consentendo alla sua ispirazione di incanalarsi di volta in volta in flussi differenti che vedono la componente funeral preponderante, ma arricchita ed integrata da ambient, drone, sludge e qualche venatura di post metal.
Del resto Theta nasce come progetto in grado di incanalare le diverse pulsioni compositive di Pavanello verso un sound oscuro, privo di lampi di positività ma non per questo scevro di un buon impatto melodico: in poco più di tre quarti d’ora, Obernuvshis’ riesce a scuotere menti intorpidite dall’ascolto di dischi prodotti con il pilota automatico, grazie a soluzioni per nulla scontate.
Come già accennato, però, il punto di forza di un album come questo è il suo essere ascoltabile, pur essendo di fatto costruito su un’impalcatura atta ad evidenziare il lato oscuro dell’esistenza: a tale proposito il nostro evita di rifugiarsi nella cripticità sovente fine a sé stessa del rumorismo, per provare invece a creare un coinvolgimento, anche emotivo, ma è chiaro che la fruibilità di cui si accennava poc’anzi è strettamente connessa al background musicale di chi si accosta all’operato di Theta, rivolto soprattutto ad estimatori del doom dalla comprovata dimestichezza con il genere.
Come avviene spesso in questi casi, la suddivisione in tracce lascia il tempo che trova, sicché l’album va ascoltato e sviscerato nel suo complesso, con picchi qualitativi rinvenibili un po’ in tutti gli episodi fino al bellissimo epilogo di Concrete And Foundation, dove Pavanello dimostra le sue doti di chitarrista anche con un dolente ed ispirato assolo che chiude nel migliore dei modi un’opera di grandissimo pregio.

Tracklist:
1.Travel Far Into The Black Hole Depths
2.Ruins Of Inari
3.Butterfly’s Cycle
4.Harshness Of A
5.Concrete And Foundation

Line-up:
Mattia Pavanello – Guitars, Bass, Drum Programming, Synths and Sampling

THETA – Facebook

Loss – Horizonless

Un bel ritorno, dopo “Despond” del 2016, con un lavoro ispirato, ricco di suggestioni e sfumature.

Gli statunitensi Loss giungono finalmente, dopo ben sei anni dall’ esordio in full con Despond, a farci riascoltare la loro arte con un bel secondo lavoro, Horizonless, per la mai troppo lodata Profound Lore.

Nel genere proposto dal quartetto, il funeral doom, bisogna aver pazienza, saper attendere la giusta ispirazione, essere nel mood adatto  sia per chi propone tale arte sia anche per chi la ama ascoltare: il songwriting della band è ispirato, ben lavorato sui suoni delle due chitarre che ricercano con gusto sopraffino atmosfere dolenti, intense e coinvolgenti fino dall’ opener The joy of all who sorrow dove un growl disperato e convincente accompagna il lento incedere del brano; il viaggio prosegue con altri brani significativi, ricchi di sfumature, aiutati anche da un notevole drummin,g abbastanza vario e non solo ancorato agli stilemi classici.
Intermezzi brevi dai tratti ambient (Moved Beyond Murder) e noise-acustici con mandolino (I.O.) stemperano in parte la tensione aprendo per brani suggestivi come All Grows on Tears (titolo che è un programma) dove il lirismo tocca, nel suo maestoso incedere, vette veramente di primo livello (…bury me in a lonely place and plant thorns on my grave…); struggente l’inizio di Naught dove la melodia (chitarra e piano) crea un mondo notturno e lontano dove si staglia il growl pieno e melanconico del singer Michel Meacham ricordando in parte i magnifici Mornful Congregation. Altre delizie attendono chi si vorrà avventurare in questo piccolo intarsio di arte, dall’andatura simil liturgica di The End Steps Forth, con un cupo organo all’immane muro della title track dove il growl si inasprisce in un acido scream, per poi stemperarsi in un madrigalesco gioco di chitarre accompagnato infine da clean vocal suggestive. Ultima nota di menzione per il closing di When Death Is All, dove la band dà un ulteriore prova della forza della sua ispirazione, facendo salire il suo suono su chitarre che creano un fiume in piena introspettivo e melanconico … veramente magnifico!
In definitiva un ottimo ritorno che conferma la buona salute del funeral doom nel 2017 … cari Loss prendetevi tutto il tempo che volete, se i frutti sono cosi carichi e buoni.

Tracklist
1. The Joy of All Who Sorrow
2. I.O.
3. All Grows on Tears
4. Moved Beyond Murder
5. Naught
6. The End Steps Forth
7. Horizonless
8. Banishment
9. When Death Is All

Line-up
John Anderson – Bass
Jay LeMaire – Drums
Timothei Lewis – Guitars
Mike Meacham – Vocals, Guitars

LOSS – Facebook

Tchornobog – Tchornobog

La musica che Soroka riversa in questo lavoro rappresenta il suo personale calice, un contenitore al cui interno trovano spazio tutte lo forme di metal estremo avvinghiate tra loro in un mortale abbraccio e rese in maniera convulsa, dissonante, ossessiva e, in definitiva, terribilmente inquietante.

Assolutamente in linea con la non convenzionalità di tutte le uscite targate I, Voidhanger, Tchornobog è il passo d’esordio dell’omonimo progetto solista di Markov Soroka, relativamente già noto per il suo operato con altri due monicker di sua esclusiva competenza, Aureole e Slow (quest’ultimo ovviamente da non confondersi con l’omonima creatura di Déhà).

Tchornobog è una traslitterazione di Chernobog, misconosciuta divinità slava, la cui unica testimonianza va ricercata nelle Chronica Slavorum, scritte nel XII secolo dal religioso tedesco Helmold: al riguardo pare che le popolazioni “devote” a tale culto fossero solite mettersi in cerchio e passarsi una sorta di calice, all’interno del quale venivano scagliate le maledizioni che sarebbe state appunto convogliate ed indirizzate nella giusta direzione da questo misterioso “dio nero”.
La musica che Soroka riversa in questo lavoro rappresenta il suo personale calice, un contenitore al cui interno trovano spazio tutte lo forme di metal estremo avvinghiate tra loro in un mortale abbraccio e rese in maniera convulsa, dissonante, ossessiva e, in definitiva, terribilmente inquietante.
In quattro brani che superano abbondantemente l’ora di durata come fatturato complessivo il giovane musicista di origine ucraine, ma di stanza negli Stati Uniti, esibisce senza troppe mediazioni una forma di doom che poggia su basi funeral, sferzata da brusche accelerazioni di stampo black death, e quasi del tutto priva di qualsiasi parvenza melodica, stante l’ossessivo incedere della strumentazione, in gran parte ad opera di Soroka che, saggiamente, si fa aiutare da diversi ospiti tra i quali spiccano l’ottimo Magnús Skúlason alla batteria ed il guru del doom più oscuro e temibile Greg Chandeler, alla voce in The Vomiting Tchornobog e Non-existence’s Warmth. Proprio quest’ultima traccia pare offrire un minimo di tregua all’incessante evocazione del dolore e del male che gli strumenti e le voci minacciose paiono lanciare senza soluzione di continuità, e ciò è appunto il cardine del lavoro: un’inesorabile opera di erosione psichica che, mai come in questo caso, vive in simbiosi con uno stile musicale difficilmente definibile.
Tchornobog è un’opera di intensità spasmodica, che annichilisce e percuote, attraendo fatalmente quando con la mente si cerca invece, razionalmente, di sottrarsi al suo letale abbraccio: un ascolto complesso e che chiaramente non riscuoterà favori in maniera univoca, ma non c’è dubbio che il bravo Markov abbia messo sul piatto un lavoro che non potrà lasciare indifferenti.

Tracklist:
1.I: The Vomiting Tchornobog (Slithering Gods of Cognitive Dissonance)
2.II: Hallucinatory Black Breath of Possession (Mountain-Eye Amalgamation) 12:32
3.III: Non-existence’s Warmth (Infinite Natality Psychosis)
4.IIII: Here, At The Disposition of Time (Inverting A Solar Giant)

Line-up:
Markov Soroka – all instruments, concepts and vocals
Magnús Skúlason – percussion & acoustic drums

With:
Greg Chandler – additional vocals on I & III
Sofia Hedman – saxophone on III
Hannar Gretarson – trumpet and cello
Lillian Liu – grand piano on III
Elizabeth Barreca & Markov Soroka – the Vomiting Choir

TCHORNOBOG – Facebook

DeRais – Of Angel’s Seed and Devil’s Harvest

Il funeral doom è la base di questo lavoro che offre circa tre quarti d’ora di musica strumentale, disturbata dal ricorso a voci registrate che appaiono predominanti nelle due lunghe tracce centrali

Quando di una band si sa poco o nulla, nonostante gli sforzi per ottenere al riguardo una minima informazione, al di là del fatto di condividere o meno questa scelta, non resta che parlare della musica, che alla fine è pur sempre quello che maggiormente ci interessa.

Ben venga dunque la tabula rasa su identità e quant’altro (salvo la nazionalità tedesca) dei DeRais se poi ne scaturisce un lavoro impressionante come Of Angel’s Seed and Devil’s Harvest, autentica gemma di arte musicale oscura e destabilizzante.
Il funeral doom è la base di questo lavoro che offre circa tre quarti d’ora di musica strumentale, disturbata dal ricorso a voci registrate che appaiono predominanti nelle due lunghe tracce centrali, Hellbless e White Night.
Nel primo brano troviamo campionamenti di voci salmodianti assieme ad altre distorte, che fanno pensare comunque ad un contenuto di natura antireligiosa, inserito all’interni di una scrittura musicale di primo livello, con i suoi tratti soffocanti, ossessivi, ma che nella parte conclusiva si apre in un crescendo magnifico; il secondo, invece, riveste musicalmente le registrazioni che testimoniano gli ultimi momenti dei tragici avvenimenti che portarono alla morte in Guyana degli oltre 900 seguaci del famigerato Jim Jones.
Tale artificio in effetti non è una novità, visto che solo qualche anno fa fecero lo stesso gli statunitensi Shadow Of The Tortuter, con una prova altrettanto impressionante e capace di restituire al meglio la tensione drammatica di quei frangenti: i DeRais sottolineano gli eventi con funeral altrettanto asfissiante, che di tanto in tanto viene rilanciato nel suo incedere da veementi rullate di batteria, un particolare rinvenibile anche in Hellbless.
Le due tracce più brevi sono il degno corollario in apertura e chiusura del lavoro, e depongono a favore della conoscenza della materia espressa dai DeRais, i quali, in ossequio al’efferato serial killer quattrocentesco dal quale presumibilmente prendono il nome, paiono osservare le brutture dell’umanità con un occhio tra il cinico ed il compiaciuto, rivelandosi sicuramente impietosi nel loro riversare sull’ascoltatore una forma di funeral di sorprendente qualità.

Tracklist:
1. Angel’s Seed
2. Hellbless
3. White Night
4. Devil’s Harvest

Vin de Mia Trix – Palimpsests

Inattesa, ma di gran valore, seconda opera della band ucraina… un blend di doom, funeral e death doom ricco di intuizioni e magnifiche emozioni.

Una buona annata, il 2017, per le sonorità doom e funeral doom!

Dopo l’opera molto valida dei Funeralium e quella eccellente dei Fuoco Fatuo, senza dimenticare altre belle cose (Facade, Mourning Dawn, etc), arriva del tutto inatteso il secondo full dei Vin de Mia Trix, quartetto ucraino attivo dal 2009, autore di una buona prima prova nel 2013 per Solitude Productions; ora la band realmente esplode con un enorme opus doppio, di soli quattro brani per la canadese Hypnotic Dirge; stupisce che l’etichetta russa Solitude Production si sia lasciata sfuggire questa gemma di grande musica dove si fondono in modo naturale e fluido derive funeral, aromi death doom, meraviglie doom adagiate su partiture ambient e post metal. Mettetevi comodi perché le tracce sono lunghissime, come deve essere un suono funeral che si rispetti, ma come dicevo sono anche molto naturali e non ci sono forzature e difficoltà nell’ascolto.
La band ha grandi capacità di songwriting e riesce ad amalgamare in modo sopraffino tante influenze creando qualcosa di abbastanza unico; l’ascolto è stimolante, ci sono sempre idee che mantengono vivo l’ interesse e in pezzi della durata media di oltre 20′ non è per niente facile.
Il suono elaborato dalle due chitarre è semplicemente maestoso, deciso, possente ma anche fortemente dolente e melanconico, sempre alla ricerca della atmosfera particolare; la band con questo concept intende tramandare, riscrivendole, le storie e gli archetipi che sono presenti nell’inconscio collettivo e nelle varie culture e mitologie di molti popoli.
Anche i titoli dei quattro brani hanno un sapore misterioso (Matarisvan, Pharmakos, Fuimus e Noe) e gli inizi ambient dei primi due brani non fanno che offrire un substrato particolare al tutto e la buonissima produzione con tutti gli strumenti ben equilibrati confeziona un “lavoro” veramente notevole; tutti i brani sono un lungo viaggio in cui  tutti gli ingredienti sono magicamente fusi:  ad esempio in Matarisvan, il primo brano, l’introspettivo incipit ambient si modula in atmosfere death doom e post rock debitrici del suono delle migliori band in questo settore.
Non vi è nulla di opprimente nel suono dei Vin De Mia Trix, e l’alternarsi di clean e harsh vocal (black e death) daà un ulteriore quid al tutto: questa forma d’arte, che sia doom, funeral o death doom ha sempre la capacità, quando viene manipolata da band dotate di sensibilità fuori dal comune, di scrivere pagine incommensurabili ed emozionanti.

Tracklist
1. Matarisvan
2. Pharmakos
3. Fuimus
4. Noe

Line-up
Serge Pokhvala – Guitars
Andrew Tkachenko – Vocals
Alex Vynogradoff – Bass, Vocals, Guitars, Piano
Igor Babaev – Drums

VIN DE MIA TRIX – Facebook


Descrizione Breve

Sektarism – La Mort de l’Infidèle

Pur non essendo e non volendo essere facile, La Mort De L’Infidele è un disco che colpirà al cuore gli amanti del funeral doom e della musica rituale, quindi chi segue i Dark Buddha Rising, i nostri Nibiru, perché la linea è quella, usare la musica come era utilizzata nell’antichità, ad esempio nei riti orfici.

I Sektarism non sono solo un gruppo musicale, ma usano la musica come tramite per celebrare il Signore, facendo dei veri e propri riti sia su disco che dal vivo.

Questi estremisti francesi provengono dalle fila della fratellanza chiamata Apostles of Ignominy, una setta assai misteriosa. Nel 2012 dopo tre ep demo arriva il primo disco Le Son Des Stigmates, che è paradigmatico di cosa vogliono fare. La loto intenzione è di indurre il pubblico e loro stessi in una trance, per portare ad un livello ancora più alto il loro messaggio. Per fare ciò usano un doom molto funeral, ma questa è soprattutto musica rituale, poiché sono molti i passaggi che sono declamati con una jam sotto a spaziare. Come detto poc’anzi qui la musica è un mezzo per produrre qualcosa di superiore ad essa, e in maniera ancora più importante i Sektarism non fanno intrattenimento ma anzi vogliono dare una vera esperienza a chi li si avvicina. Il disco quindi è molto particolare ed affascinante, ed è di per stesso un rito, come lo sarà il concerto, dato che la produzione fonografica è appunto il punto di partenza del rito. Pur non essendo e non volendo essere facile, La Mort de l’Infidèle è un disco che colpirà al cuore gli amanti del funeral doom e della musica rituale, quindi chi segue i Dark Buddha Rising, i nostri Nibiru, perché la linea è quella, usare la musica come era utilizzata nell’antichità, ad esempio nei riti orfici. I pezzi sono lunghissimi e ci si deve immergere dentro e ovviamente non è musica per tutti, ma chi riconosce cosa è questo lavoro lo apprezzerà moltissimo.

TRACKLIST
1.Ô Seigneur
2.Brûle L’Hérétique
3.Conscience, Révolte, Perte de Moi

SEKTARISM – Facebook