Dead Summer Society – Visions From A Thousand Lives

Il grande pregio dell’album risiede nella sua apparente semplicità, espressa attraverso un sound lineare e privo di inutili barocchismi che lascia fluire, ascolto dopo ascolto, tutte le emozioni che questo genere musicale riesce a evocare.

Dead Summer Society è il progetto solista di Mist (al secolo Emiliano Santoro), conosciuto nell’ambiente per la sua militanza nella gothic-doom band How Like A Winter, autrice nell’ormai lontano 2003 dell’ottimo “…Beyond My Grey Wake”.

Dopo l’esordio nel 2010 con il demo “The Heart Of Autumnsphere”, interamente strumentale, il musicista molisano, con Visions From A Thousand Lives, introduce una novità sostanziale scegliendo di utilizzare anche le vocals, sia maschili che femminili; pur mantenendo l’impostazione della one-man band, sicuramente questa innovazione fornisce a Mist un ulteriore elemento sul quale impostare la struttura dei brani.
Diciamo subito che l’operazione riesce in maniera più che soddisfacente, sia pure con qualche riserva sull’uso della voce femminile, che a mio avviso si addice più a un gothic-doom dal carattere commerciale piuttosto che all’ambito oscuro e decadente che caratterizza quest’album, dove al contrario spicca l’ottimo growl dell’ospite Trismegisto.
Poco male, se la maggioranza della musica proposta è di altissimo livello, capace di emozionare sia attraverso i toccanti fraseggi pianistici sia quando le chitarre prendono il sopravvento mantenendo sempre e comunque vivo il senso di malinconia che pervade il lavoro.
La bravura di Mist risiede nella capacità di proporsi in un genere ormai dai confini ben definiti, senza aderire in maniera banale ai consueti modelli, cosicché il disco mostra una sufficiente varietà stilistica passando da brani contraddistinti da una vena più intimista (I Met You In Heaven And Hell, The Way) ad altri dalle sonorità prossime al death-doom più atmosferico, come la splendida Army Of Winter, nuova versione del brano incluso nel demo del 2010 e posta in chiusura dell’album.
In altre occasioni le due anime riescono a convivere in armonia senza che il risultato finale appaia simile a una convivenza forzata (Shadow I Bear, con un inquietante passaggio recitato in italiano, The King’s Alone, Down On You).
Il giudizio nei confronti di Visions From A Thousand Lives è assolutamente positivo e, chi è alla costante ricerca di atmosfere cupe e malinconiche, troverà pieno appagamento; probabilmente la decisione presa da Mist, di rinunciare a una proposta integralmente strumentale, ha fornito nuovi sbocchi al suo metodo compositivo, riuscendo del tutto ad annullare quel senso di frammentarietà che è il difetto comune alla maggior parte delle one-man band.
Il grande pregio dell’album risiede nella sua apparente semplicità, espressa attraverso un sound lineare e privo di inutili barocchismi che lascia fluire, ascolto dopo ascolto, tutte le emozioni che questo genere musicale riesce a evocare.
Dead Summer Society è un progetto che, certamente, in un prossimo futuro ci fornirà ulteriori grandi soddisfazioni; inoltre, questo lavoro acquisisce ulteriore valore se pensiamo che è stato pubblicato senza il supporto di un’etichetta, lacuna che ci auguriamo possa essere colmata al più presto.

Tracklist :
1. Explicit
2. I Met You in Heaven and Hell
3. Shadow I Bear
4. The King’s Alone
5. Down on You
6. Her White Body, From the Coldest Winter
7. Last Winter I Died
8. The Way
9. Within Your Scars
10. Unreal
11. I Fade
12. Army of Winter (March of the Thousand Voices)

Line-up :
Mist – All Instuments

Guests :
Trismegisto – Vocals
Federica Fazio – Vocals

Wedding In Hades – Misbehaviour

I Wedding In Hades confermano le buone impressioni destate con il precedente “Elements Of Disorder” approdando a un gothic-doom raffinato e perfettamente inserito nel solco della tradizione del genere

I francesi Wedding In Hades giungono alla seconda prova su lunga distanza sotto l’egida della BadMoodMan, label affiliata alla Solitude e, quindi, sinonimo di qualità assoluta.

Misbehaviour non delude le attese, presentando un band in grado di tessere trame musicali costantemente in bilico tra death-doom e gothic, sulla scia di quanto fatto dai My Dying Bride, particolarmente nella prima parte della loro carriera.
Del resto, nel commentare le nuove uscite in questo campo, il nome della band di Aaron Stainthorpe viene spesso citato, ma non sempre a proposito; in questo caso, invece, un brano come Forsaken, che apre alla grande il disco, riporta subito alle atmosfere di “As The Flower Withers”, con tanto di “growl a cappella” simile a quello presente nella magnifica “Sear Me”.
Nella successiva traccia, Men To The Slaughter, emerge una vena melodica più affine ai Saturnus, mentre Sleeping Beauty richiama in maniera evidente i Type O Negative, anche per le clean vocals dall’impostazione simile a quella del compianto Peter Steele; questo dimostra che la band transalpina non si limita affatto a ricalcare pedissequamente un solo modello stilistico, cercando invece di rielaborare in maniera tutt’altro che scontata quanto prodotto in passato dai nomi più conosciuti della scena.
Operazione che riesce alla perfezione con Dust In A Stranger’s Eyes, brano a dir poco superlativo dalle atmosfere diluite e malinconiche e Regrets, con un bellissimo pianoforte a impreziosire una trama musicale gravata di mestizia.
The One To Blame appare come l’unico momento discutibile a causa delle sue brutali accelerazioni che stridono rispetto a quanto ascoltato nel resto dell’album; le cose tornano a posto con la sognante e delicata Almost Living e con la ripresa di Men To The Slaughter, che chiude degnamente un lavoro di pregevole qualità.
I Wedding In Hades confermano le buone impressioni destate con il precedente “Elements Of Disorder” approdando a un gothic-doom raffinato e perfettamente inserito nel solco della tradizione del genere; la prova strumentale del quartetto francese è impeccabile, così come la prestazione dietro il microfono di S.Toutain è convincente sia con il growl sia quando ci cimenta con le clean vocals, anche se in quest’ultimo caso la pronuncia inglese è rivedibile a causa del persistere di un forte accento francofono.
Nulla che possa inficiare, più di tanto, un album che merita di trovare un posto di riguardo nella collezione di chi è costantemente alla ricerca di emozioni in musica.

Tracklist :
1. Forsaken
2. Men to the Slaughter
3. Sleeping Beauty
4. Dust in a Stranger’s Eyes
5. Regrets
6. The One to Blame
7. Almost Living (But Not Dead Yet)
8. Men to the Slaughter (Reprise)

Line-up :
V. Lahaeye – Drums, Backing Vocals
D. Simon – Rhythm & Lead Guitars
O. Raoult – Keyboards
S. Toutain – Vocals, Bass, Acoustic & Nylon Stings Guitars

Obsidian Sea – Between Two Deserts

“Between Two Deserts” è un album che verrà sicuramente apprezzato per la sua ortodossia da chi ama il genere

Davvero interessante la proposta di questa band esordiente proveniente dalla Bulgaria.

Gli Obsidian Sea sono un duo, attivo dal 2009, le cui sonorità attingono alla tradizione doom delle band scandinave (Candlemass, Reverend Bizarre) e d’oltreoceano (Saint Vitus); se, ovviamente, questa premessa fa intuire che non ci si debbano attendere grandi variazioni sul tema, ciò che rende apprezzabile l’operato della band balcanica sono il gusto e l’abilità nel maneggiare la materia, facendo sì che l’influenza dei nomi citati si limiti a fornire un canovaccio da seguire, senza per questo scadere in una riproposizione scolastica degli stilemi del genere.
Between Two Deserts, si presenta così, come un bel monolite di doom classico, dominato dall’efficace voce di Anton e dai suoi riff pesanti ed efficaci, pur nella loro apparente semplicità; il disco scorre in maniera fluida fin dall’opener At the Temple Doors, mettendo subito sul piatto quelle che sono le caratteristiche peculiari del disco, mentre con The Seraph i ritmi si fanno leggermente più sostenuti per quella che si presenta come la traccia dai toni meno plumbei.
I brani possiedono tutti una notevole carica evocativa e, nonostante una certa uniformità di fondo, riescono sempre a mantenere desta l’attenzione dell’ascoltatore; operazione che va a buon fine anche quando gli Obsidian Sea decidono di collocare i due episodi più lunghi e pachidermici proprio alla fine del lavoro, rivelandosi sia Beneath, sia Flaming Sword, due efficaci dimostrazioni di sonorità rallentate e avvolgenti.
Between Two Deserts è un album che verrà sicuramente apprezzato per la sua ortodossia da chi ama il genere; le residue perplessità, che potrebbero derivare dall’assenza di elementi innovativi, vengono spazzate via dalla notevole qualità della proposta nel suo insieme; inoltre, considerando che si tratta pur sempre di un esordio e che i musicisti provengono da un’area geografica che non ha alle spalle una grande tradizione in ambito doom metal (ci vengono in mente i soli Darkflight e Solarfall, ma sul versante death/funeral), abbiamo la sensazione che la band di Sofia sia solo all’inizio di un percorso musicale che si prospetta ricco di soddisfazioni.

Tracklist :
1. At the Temple Doors
2. Mountain Womb
3. The Seraph
4. Impure Days
5. Curse of the Watcher
6. Absence of Faith
7. Second Birth
8. Beneath
9. Flaming Sword

Line-up :
Anton – Vocals, Guitar, Bass
Bozhidar – Drums

The Foreshadowing – Second World

Continua inarrestabile l’ascesa dei The Foreshadowing che, con Second World, pubblicano il disco della definitiva consacrazione.

Continua inarrestabile l’ascesa dei The Foreshadowing che, con Second World, pubblicano il disco della definitiva consacrazione.

Già con l’esordio “Days Of Nothing” e con il successivo, splendido, “Oionos”, la band romana aveva gettato le basi per imporsi come uno dei nomi di punta della scena nostrana: chiunque avesse assistito a un loro concerto aveva potuto facilmente verificare le potenzialità di un gruppo al quale la dimensione underground stava decisamente stretta.
Questo lavoro, mixato e masterizzato da Dan Swanö agli Unisound Studios, riesce in maniera stupefacente a fondere le due anime che, nei dischi passati, talvolta lottavano per prendere il sopravvento l’una sull’altra: il cupo death-doom e il dark raffinato trovano il loro punto d’incontro in un gothic che prende il meglio da entrambe le matrici senza rinnegarle in alcun modo.
Marco Benevento rinuncia del tutto alle asprezze del passato, stabilizzandosi sulle sue tonalità calde e profonde, vicine a vocalist come Dave Gahan e Sven Friedrich (Dreadful Shadows, chi se li ricorda ascolti con attenzione Noli Timere), mentre anche il resto della band si esprime a livelli stellari grazie a un suono pulito ed energico allo stesso tempo.
Il disco, dal punto di vista lirico è un concept incentrato sulla ribellione della natura nei confronti dell’umanità, tematica magari non inedita ma trattata con la dovuta profondità, mentre sotto l’aspetto musicale, se nella prima metà sono racchiusi i brani più energici, la seconda parte viene riservata invece agli episodi dalle atmosfere più rarefatte senza perdere comunque un’oncia di intensità.
Le dieci tracce sono altrettante gemme incastonate all’interno di quest’opera, ma nonostante ciò alcune risultano ancora più brillanti: Outcast, un brano gothic-doom come non se ne sentivano da tempo, ovvero “quando gli allievi superano i maestri”, The Forsaken Son, dall’incedere drammatico e caratterizzata da un chorus di rara bellezza, Reverie Is A Tyrant, plumbea nei suoi ritmi rallentati e chiusa da un magnifico assolo di chitarra, e soprattutto Aftermaths, letteralmente indimenticabile per le melodie vocali e per la letale chiusura che fa presagire sfracelli quando sarà proposta dal vivo.
Second World è stato pubblicato quasi contemporaneamente a “Tragic Idol”, che viene surclassato, lo dico a malincuore visto l’amore sconfinato che nutro da sempre per i Paradise Lost, in virtù della freschezza compositiva e del livello di perfezione raggiunto dalla band romana, pur senza dimenticare che chiunque affronti questo genere non può prescindere da quanto composto in passato da Gregor Mackintosh e soci.
Ovviamente, proprio per questo, ci saranno sempre i soliti incontentabili che avranno da ridire sull’originalità della proposta: di fronte ad affermazioni di questo tenore l’unica replica possibile viene presa in prestito dal Sommo Poeta: “non ti curar di lor ma guarda e passa”.
A chi, molto più prosaicamente, si “accontenta” di ricercare emozioni nella musica che ascolta, i The Foreshadowing hanno regalato un autentico capolavoro …

Tracklist :
1. Havoc
2. Outcast
3. The Forsaken Son
4. Second World
5. Aftermaths
6. Ground Zero
7. Reverie Is a Tyrant
8. Colonies
9. Noli Timere
10. Friends of Pain

Line-up :
Jonah Padella Drums
Andrea Chiodetti Guitars
Alessandro Pace Guitars
Francesco Sosto Keyboards, Backing Vocals
Marco Benevento Vocals
Francesco Giulianelli Bass

Evadne – The Shortest Way

Un autentico gioiello che gli appassionati del genere non devono lasciarsi sfuggire per alcun motivo.

Il secondo album degli iberici Evadne trova nella Solitude un’etichetta in grado finalmente di valorizzarlo e distribuirlo come merita, dopo la sua iniziale uscita come autoproduzione alla fine dello scorso anno.

Per valutare i progressi della band di Valencia può rivelarsi utile fare un raffronto con il precedente “The 13th Condition”, risalente al 2007, lavoro che, pur denotando ottimi spunti e collocandosi ad un livello più che discreto, denotava diverse imperfezioni sul versante della produzione oltre ad un sound orientato al gothic più canonico con l’inflazionato ricorso a voce femminile, violino e tastiere
Quattro anni non sono trascorsi invano e The Shortest Way lo dimostra pienamente: intanto la resa sonora del disco è stata affidata alle cure di Dan Swanö, un nome che sotto quest’aspetto è sinonimo di qualità, mentre i cliché tipici del gothic sono pressoché scomparsi lasciando spazio ad un death-doom che coniuga, in maniera esemplare, il senso di ineluttabile rovina dei My Dying Bride con le meste armonie dei Swallow The Sun.
Ad integrare un aspetto musicale di primissima qualità vanno evidenziati anche i testi intrisi di drammaticità che rendono l’album, di fatto, un concept legato alla morte della persona amata e alla conseguente incapacità di sopravvivere alla perdita subita da parte di chi resta. Mai come in questo caso si può affermare che le tematiche trattate siano in perfetta sintonia con il monicker della band, ispirato ad un personaggio della mitologia greca: Evadne, infatti, successivamente all’uccisione del marito Capaneo per mano di Zeus, si gettò sulla sua pira funebre decidendo di morire con lui.
Questa dimostrazione d’amore tragica quanto estrema viene adeguatamente descritta sia a livello lirico che musicale: il growl di Albert, migliorato in maniera esponenziale in questi anni, si rivela efficace nell’ergersi sulle melodie cupe e pregne di disperazione dei suoi compagni d’avventura.
Si fatica a individuare un brano che si stagli sugli altri in questo splendido album : dovendo proprio fare una scelta citerei Dreams in Monochrome, per la magnifica linea di chitarra che rappresenta alla perfezione la sensazione di sconcerto e turbamento evocata nel testo e All I Will Leave Behind, brano davvero commovente e poetico, nel corso del quale la disperazione del protagonista raggiunge il suo culmine con la decisione, comunicata a familiari e amici, di togliersi la vita pur di raggiungere la persona amata; con quali esiti, lo lascio scoprire a voi, ma è facile intuire che non ci sarà un lieto fine …
Gli Evadne con questo lavoro confermano, assieme a Helevorn e In Loving Memory, la vitalità della scena spagnola, dimostrando, se ce ne fosse stato bisogno, che il death-doom non è prerogativa solo delle fredde lande nordiche, ma trova terreno fertile pure in corrispondenza delle assolate latitudini mediterranee.
Un autentico gioiello che gli appassionati del genere non devono lasciarsi sfuggire per alcun motivo.

Tracklist :
1. No Place For Hope
2. Dreams In Monochrome
3. This Complete Solitude
4. One Last Dress For One Last Journey
5. All I Will Leave Behind
6. The Wanderer
7. Further Away The Light
8. Gloomy Garden

Line-up :
Albert – vocals
Josan – guitars
Jose – bass
Ifrit – drums
Marc – guitars

Ravenscry – One Way Out

Sarebbe un peccato mortale pensare che i Ravenscry siano niente più che una grande cantante con un gruppo che si limita ad assecondarne le doti eccelse.

La proliferazione indiscriminata di produzioni discografiche, spesso di dubbio valore, ha tra le sue conseguenze peggiori non tanto l’inevitabile abbassamento qualitativo della proposta musicale nel suo complesso, quanto il rischio di non riuscire a dare la giusta evidenza alle uscite che lo meritano.

Così un autentico gioiello come questo One Way Out degli italiani Ravenscry, rischia seriamente di restare confinato a livello underground, nonostante l’ottimo lavoro promozionale svolto dalla WormHoleDeath, invece di trovarsi a competere con le ultime uscite di Nightwish e Lacuna Coil nelle classifiche di vendita.
Sto esagerando ? Provate ad ascoltare con la dovuta attenzione e senza la prevenzione nei confronti delle band con voce femminile derivante dal surplus produttivo di cui sopra: scoprirete una cantante come Giulia Stefani che, a mio avviso, ha pochi eguali nel suo campo, capace com’è di passare con disinvoltura tra mille diverse tonalità, senza scadere mai nel virtuosismo vocale fine a se stesso.
Se a una vocalist di questo livello, che ridicolizza con la sua performance tutti questi pseudo fenomeni festivalieri sfornati dai reality show, aggiungiamo una band che ci ricorda in ogni momento che quello che stiamo ascoltano è metal e non un pop sporcato ogni tanto da qualche riff più pesante, ecco la spiegazione
per un giudizio così entusiastico.
Dato per scontato che nel genere gothic-alternative è difficile se non impossibile portare degli elementi di novità, ciò che si richiede alle band che vi si cimentano è di proporre un sound fresco e, per quanto possibile, dotato di un’impronta personale o di qualche elemento distintivo in grado di rendere speciale la propria musica.
Questo avviene puntualmente con brani come Nobody, con la sua componente elettronica e i riff squadrati a dettare il tempo mentre Giulia libera le sue tonalità più alte, Redemption I – Rainy, semplicemente da brividi, This Funny Dangerous Game, dal piglio molto più metallico con chitarre quasi alla Rammstein e My Bitter Tale, con la sua delicata intro per piano e voce, che chiude alla grande un disco privo di punti deboli.
Senza negare, ovviamente, le inevitabili affinità che mi sento di ravvisare, sia dal punto di vista strumentale sia da quello vocale, con una band sottovalutata come furono gli After Forever di Floor Jansen piuttosto che con i soliti nomi, sarebbe un peccato mortale pensare che i Ravenscry siano niente più che una grande cantante con un gruppo che si limita ad assecondarne le doti eccelse; no, qui non c’è un semplice “supporting cast” ad accompagnare la voce di Giulia, e anche se questo risulta necessariamente il primo elemento che resta impresso, il lavoro preciso e allo stesso tempo fantasioso degli altri quattro musicisti è un ingrediente altrettanto fondamentale per la riuscita di One Way Out.
Resta solo da augurarsi che il lavoro della label, unito ai consensi pressoché unanimi ricevuti in sede recensione e al passa-parola in rete, consenta a quest’album di varcare i confini del genere collocando i Ravenscry nelle posizioni che spettano loro di diritto.

Tracklist :
1. Calliope
2. Elements Dance
3. Nobody
4. A Starless Night
5. Redemption I – Rainy
6. Redemption II – Reflection
7. Redemption III – Far Away
8. Embrace
9. Journey
10. Back To Hell
11. This Funny Dangerous Game
12. My Bitter Tale

Line-up :
Giulia Stefani Vocals
Paul Raimondi Guitar
Mauro Paganelli Guitar
Andrea Fagiuoli Bass
Simon Carminati Drums

When Nothing Remains – As All Torn Asunder

La band riesce a mantenere sempre un eccellente equilibrio, evitando da una parte di cadere nel’immobilismo di certo funeral e dall’altra di farsi attrarre irrimediabilmente dalla faciloneria di molte proposte gothic-doom.

I When Nothing Remains sono l’ennesima ottima espressione del doom scandinavo estratta dal magico cilindro della Solitude.

La band svedese è di recente formazione anche se i due musicisti coinvolti, Peter Laustsen e Jon Sallander, non sono certo alle prime armi; in particolare il primo è stato fino allo scorso anno una colonna portante dei validi gothic-doomsters Nox Aurea.
Come spesso mi trovo a sostenere in queste occasioni, il fatto che la proposta musicale non presenti particolari variazioni sul tema, non esclude a priori la possibilità di ascoltare un lavoro di qualità rilevante.
E’ questo il caso di All Torn Asunder, disco che attinge certamente a piene mani da quanto già prodotto dalle band che hanno fatto la storia del death-doom, ma con un gusto e una sensibilità compositiva davvero encomiabile.
In effetti, il sound dei nostri si presenta da subito come un riuscito mix tra Swallow The Sun e My Dying Bride (inevitabili quando si parla di death-doom), con un certo sbilanciamento però a favore dei primi.
Infatti, molti brani riportano alla mente le prime uscite della band finlandese, con l’uso di sonorità malinconiche contrappuntate da uno splendido lavoro di tastiera e dall’uso di un growl molto efficace; alcuni spunti melodici si rifanno alla migliore produzione dei Draconian, e forse non è un caso che Johan Ericson, che di questi ultimi è chitarrista e compositore, sia stato chiamato a produrre l’album e a prestare le proprie clean vocals.
Il disco, pur nella sua lunghezza che supera abbondantemente l’ora complessiva di durata, mantiene sempre viva l’attenzione dell’ascoltatore, anche perché , pur mantenendo il mood malinconico che è il marchio di fabbrica del genere, ogni brano denota una certa varietà presentando break melodici con clean vocals, come nella coda dell’opener Embrace Her Pain, oppure ricorrendo ad riff granitici quanto efficaci (esemplare in questo senso la splendida The Sorrow Within); nel complesso si può tranquillamente affermare che la band riesce a mantenere sempre un eccellente equilibrio, evitando da una parte di cadere nel’immobilismo di certo funeral e dall’altra di farsi attrarre irrimediabilmente dalla faciloneria di molte proposte gothic-doom.
Il lavoro non presenta alcuna traccia più debole, quella che fa venire voglia di premere il tasto “skip”; ogni brano riesce a imporsi grazie alla capacità del duo nel creare atmosfere maliconiche e ricche di melodie memorabili: dovendo fare una scelta, davvero difficile in questa occasione, estrapolerei Mourning Of The Sun con una splendida linea chitarristica a far da guida nei suoi quasi nove minuti di durata, Her Lost Life, “swallowiana” più che mai, e la title-track, intrisa di drammaticità fin dall’intro tastieristico e dai rallentamenti ai confini del funeral.
I testi, come si può immaginare già dai titoli di ogni traccia, non trattano di elfi e dragoni o di epiche battaglie, ma sono intrisi di un lirismo cupo e privo di ogni barlume di speranza (… we have come to the final moment…)
Insomma, un album sul quale veramente non c’è nulla da eccepire e che cresce a ogni ascolto svelando ogni volta un nuovo interstizio ricolmo di struggente amarezza.
Ritengo che la proposta dei When Nothing Remains sia superiore per qualità e pathos rispetto a quanto già fatto dai Nox Aurea, pur battendo questi ultimi territori chiaramente più orientati al gothic; grazie alla scelta di Peter Laustsen, da oggi i malati di doom hanno un altro magnifico progetto sul quale fare affidamento.

Tracklist:
1. Embrace Her Pain
2. The Sorrow Within
3. A Portrait of the Dying
4. Mourning of the Sun
5. Solaris
6. Her Lost Life
7. In Silence I Conceal the Pain
8. As All Torn Asunder
9. Outro: Tears

Line-up :
Peter Laustsen – Vocals, All Instruments
Jon Sallander – Vocals, All Instruments

Angellore – Errances

Gli Angellore con “Errances” dimostrano di saper maneggiare con la dovuta maestria la materia gothic-doom offrendoci un disco di valore elevatissimo.

Prendete la dolente malinconia delle chitarre dei Saturnus, il gusto melodico e l’uso delle voci dei Draconian, lo struggente violino dei My Dying Bride prima maniera e una spruzzata di post-metal alla Alcest; mescolate con cura et voilà, il piatto contenente un perfetto gothic-doom è servito.

Facile, direte voi; mica tanto, aggiungo io : abbiamo perso il conto delle band che in questi anni, pur avendo a disposizione i giusti ingredienti hanno prodotto pietanze insipide o, ancor peggio, immangiabili, pubblicando album che, nella migliore delle ipotesi, risultavano copie sbiadite degli originali.
Per fortuna questo non è il caso degli Angellore, che con Errances dimostrano di saper maneggiare con la dovuta maestria la materia offrendoci un disco di valore elevatissimo che, pur pagando inevitabilmente dazio alle band sopra citate, dribbla con disinvoltura il possibile rischio di apparire un banale copia-incolla.
Il duo francese, composto da Walran e Rosarius, è attivo dal 2007 e in questa sua prima uscita su lunga distanza ha ripreso e rielaborato gran parte dei brani presenti nei vari demo, Ep e split-album pubblicati fino ad oggi; per l‘occasione la line-up è stata completata con l’ingresso in pianta stabile del batterista Ronnie e con l’ausilio di ospiti alla voce femminile e al violino.
L’album si apre con Dans Les Vallées Éternelles che, dopo poche note, non lascia dubbi riguardo alla naturale predisposizione della band a creare scorci di opprimente malinconia e, così come la successiva Tears Of Snow, costituisce una sorta di manifesto musicale della band.
I Am The Agony è un brano in puro Draconian-style, nel quale il tipico contrasto tra partiture estreme e growl e momenti più rilassati con clean vocals, anche femminili, appare tutt’altro che scontato grazie alla maestria che dimostrano i ragazzi francesi nel creare melodie accattivanti e mai banali, mentre Weeping Ghost è, in ordine temporale, il primo brano della band ad essere stato pubblicato e forse, proprio per questo, risente di una certa mancanza di fluidità nel passaggio tra le parti acustiche e quelle elettriche.
Errance è un breve intermezzo semi-acustico che introduce …Where Roses Never Die… che, essendo l’unica traccia inedita a comparire nel disco, ci consente di fotografare in quale modo si sia evoluto il sound degli Angellore dagli esordi fino ad oggi: il pezzo mostra un orientamento verso una forma di dark più rarefatto soprattutto nella sua coda con un interessante uso delle voci.
Shadow Of Sorrow chiude alla grande il lavoro, ripresentando in maniera più decisa le influenze post-metal già disseminate in precedenza e amalgamandole in maniera superba, lasciandoci con la piacevole sensazione di aver scoperto un’altra band in grado di regalarci grandi soddisfazioni.
Come già detto, non solo in occasione di questo lavoro, ma anche per molte altre uscite in campo doom, la ricerca del nuovo ad ogni costo si rivela un esercizio stucchevole quando ci si trova di fronte a composizioni appaganti per chi apprezza questo genere costruito su note ammantate di malinconica mestizia.
Di certo questo è il tipo di album che avrei voluto ascoltare dai Draconian dopo “The Burning Halo”, proprio perché in Errances non si indulge in soluzioni più fruibili ma dal minore impatto emotivo come invece ha scelto di fare con le uscite più recenti la band svedese.
Considerata l’ancora giovane età dei nostri e il potenziale espresso in questa raccolta di brani è lecito attendersi dagli Angellore, già con la prossima uscita, una conferma delle doti già esibite e, perché no, un ulteriore salto di qualità : la concorrenza è forte e numerosa ma le qualità per sbaragliare il campo ci sono tutte.

Tracklist :
1. Dans les Vallées Éternelles
2. Tears of Snow
3. I Am the Agony
4. Weeping Ghost
5. Errance
6. …Where Roses Never Die…
7. Shades of Sorrow

Line-up :
Rosarius – Guitars, bass, clean & extreme vocals, keyboards
Walran – Extreme & clean vocals, keyboards
Ronnie – Drums

Secrets Of The Moon – Seven Bells

Benché il genere proposto resti sempre e comunque prerogativa di un numero relativamente ristretto di ascoltatori, un lavoro di questa portata dovrebbe essere apprezzato indistintamente da tutti coloro che prediligono il lato oscuro del metal

Tre anni dopo l’ottimo “Privilegivm” tornano i Secrets Of The Moon, con un altro album destinato ad arricchire ulteriormente una discografia che li ha visti protagonisti negli ultimi dieci anni di una progressione costante e inarrestabile.

La band tedesca già nel 2006 con “Anthitesis” aveva iniziato a distaccarsi dal black metal inteso in senso classico spostando i propri orizzonti verso una vena più avanguardistica da un lato e verso parti più melodiche e darkeggianti dall’altro, aspetti sviscerati in maniera ancor più approfondita con il già citato album del 2009. In Seven Bells il sound scaturisce da un equilibrato mix tra gli spunti migliori dei Samael di “Passage”, il gothic metal dei Moonspell, l’ombrosità del black metal di scuola teutonica e le fosche melodie del doom. Con tutto ciò, i riferimenti più evidenti nella proposta della band di Osnabruck sono i Celtic Frost di “Monotheist” e i più recenti Tryptikon ma, dove le creature di Tom Gabriel Fischer (mi scuso per il possibile reato di lesa maestà) finivano spesso per avvitarsi in una proposta dai toni invariabilmente claustrofobici, i nostri riescono a puntellare i loro brani con partiture più ariose e maggiormente fruibili; anche quando le tracce si allungano non si avverte mai stanchezza nell’ascolto, persino nei momenti nei quali i suoni vanno a lambire territori ambient (come nel finale di Nyx). Quattro colpi di campana introducono la title-track che, dopo un incipit di stampo doom, si dipana in un tipico mid-tempo accompagnato dalle vocals abrasive di sG; Goathead, al contrario, si avvia con ritmi più accelerati per poi arrivare a una rarefazione del suono che qui assume timbri di un’oscurità assoluta ai confini del funeral. Serpent Messiah invece è una cavalcata gothic-dark dotata di un eccellente gusto melodico, mentre Blood Into Wine possiede un ammaliante flavour epico che viene sferzato da una sfuriata di stampo black nella sua parte centrale. Questi quattro brani, già da soli farebbero la fortuna di qualsiasi disco ma il meglio deve ancora venire: infatti, il trittico finale Worship, Nyx, The Three Beggars, dalla durata complessiva superiore alla mezz’ora, si rivela un autentico caleidoscopio di emozioni, nel quale sG e soci riversano tutto il loro background musicale. La track conclusiva, in particolare, è incredibilmente coinvolgente sia dal punto di vista sonoro sia da quello lirico, proponendosi come una sorta di manifesto del pensiero religioso della band. I Secrets Of The Moon del 2012 sono una band alla quale l’etichetta black sta decisamente stretta; il loro sound si è evoluto in una forma pressoché perfetta di quello che, in senso lato, andrebbe definito più correttamente come dark metal: una configurazione musicale dove riescono a convivere in piena armonia le svariate influenze inglobate nel corso di una carriera dalla durata già significativa; ogni brano è caratterizzato da diversi cambi di ritmo e i break melodici si amalgamano in maniera sempre adeguata alle ruvidezze di stampo più estremo. Benché il genere proposto resti sempre e comunque prerogativa di un numero relativamente ristretto di ascoltatori, un lavoro di questa portata dovrebbe essere apprezzato indistintamente da tutti coloro che prediligono il lato oscuro del metal e se non sarà questo disco a consacrare definitivamente i Secrets Of The Moon, viene da chiedersi quando ciò potrà mai verificarsi. Metal estremo senza barriere.

Tracklist:
1. Seven Bells
2. Goathead
3. Serpent Messiah
4. Blood Into Wine
5. Worship
6. Nyx
7. The Three Beggars

Line-up:
sG – Lead Vocals, Guitar, Bass
Ar – Vocals, Guitar
Thelemnar – Drums

The Way Of Purity – Equate

Lungi dall’essere un semplice fenomeno da baraccone, i The Way Of Purity difficilmente raggiungeranno il grande pubblico a causa di una proposta ideologicamente troppo estrema e tutt’altro che di facciata.

Come si può facilmente intuire da queste note presenti all’interno del booklet, i The Way Of Purity non fanno nulla per essere ammiccanti o tranquillizzanti:
Sole, Fuoco, Vento, Acqua, Terra, Demoni, Natura, Fasi Lunari, Anime dei Primi Umani e Malattie si uniranno per riequilibrare il mondo con un unico scopo: Animali e Natura governeranno nuovamente il pianeta con la loro integrità, la razza umana sarà brutalmente sterminata, le menzogne antropocentriche avranno fine e gli umani vedranno la terrificante immagine dell’orrore che hanno inflitto agli animali per anni.
L’umanità è malata, contaminata dal peggior morbo chiamato Specismo

Abbigliati come gli attivisti dell’Animal Liberation Front (del quale in pratica sono il braccio musicale) , i componenti della band predicano e auspicano la rivincita degli animali e della natura sugli uomini fino al definitivo annientamento di questi ultimi e neppure l’ingresso in formazione di una splendida ragazza come Tiril Skaardal (unica a volto scoperto) ne migliorerà più di tanto l’appeal sul pubblico, dato che appena l’angelica creatura inizierà a vomitare il suo impressionante growl, ogni possibile intento rassicurante verrà vanificato.
Gli animali quindi sono privi di ragione e di coscienza e non provano dolore; anche quando sembrano manifestare sofferenza, in realtà reagiscono meccanicamente ad una stimolazione materiale come quando toccando una molla dell’orologio le sue lancette si muovono” : questa teoria di Cartesio ha dato il via libera a quattro secoli di sevizie di ogni genere perpetrate a danno degli animali in nome di una pseudo-ricerca scientifica e i nostri gli “dedicano”, non a caso, il brano più violento del disco, recante un titolo eloquente come Eternal Damnation to Renè Descartes.
Chiaramente tutto ciò che sta dietro i The Way Of Purity, l’estremismo ideologico, un ideale religioso che identifica Dio con una natura pronta alla rivalsa sull’umanità che la violenta, la provocazione attraverso immagini crude come quelle che li ha visti protagonisti nel cortometraggio diretto da Susy Medusa Gottardi, non riesce certo a farli passare inosservati suscitando, come sempre avviene in questi casi, sentimenti contrastanti da parte del pubblico e della critica.
Noi non siamo la band che loro vorrebbero che fossimo, non siamo puliti e belli come tutti i musicisti là fuori: lo abbiamo detto sin dall’inizio. Stiamo solo lavorando per distruggere la malattia peggiore dell’umanità, che si chiama specismo, che riteniamo pari al nazismo”.
Ovviamente, chi ama gli animali e la musica metal, non può che schierarsi istintivamente dalla parte della band, sia se si ritiene che lo sterminio indiscriminato di migliaia di esseri viventi sia un crimine a tutti gli effetti perpetrato dalla specie che si è arrogata il diritto di monopolizzare e, probabilmente, di distruggere il pianeta, sia perché l’impatto della proposta musicale non può e non deve essere ignorato.
Qui troviamo un deathcore/black che spesso lascia spazio a interi brani dal sapore gothic, in un’alternanza di stili che, come per il loro modo d’essere, espone i The Way Of Purity, a critiche provenienti da schieramenti opposti tra loro, risultando inevitabilmente troppo violenti per chi si nutre del metalcore più zuccheroso e troppo morbidi per i deathsters/blacksters più intransigenti .
Eppure proprio nell’apparente schizofrenia della loro proposta risiede il vero valore aggiunto, quando per esempio, nell’opener Artwork Of Nature, tra le vocals efferate di Tiril e un blast beat furioso si fa largo una splendida melodia di tastiera, oppure quando nella track-list, tra due autentiche mazzate deathcore come Death Abound Everywhere e la già citata Eternal Damnation to René Descartes viene piazzata Eleven, traccia degna dei migliori Lacuna Coil (grazie anche all’ottima performance vocale di Giulia dei nostri Ravenscry). Il lavoro chitarristico in Keep Dreaming è da urlo e in For All Who Trieved Unheard la singer norvegese mostra prima il suo lato angelico per poi ritornare nelle sue consuete vesti di alter ego di Angela Gossow.
Anche The Last Darkest Night potrebbe apparire un innocuo e orecchiabile brano gothic-pop se non fosse letteralmente brutalizzato nella sua parte centrale, mentre A Time To Be Small, splendida cover del brano degli Interpol, pur mantenendosi abbastanza allineata alla melodia originale, viene ugualmente screziato da parti in growl.
Lijty Cristy chiude in maniera piuttosto cruda, così com’era iniziato, un album dai molti contenuti compressi nei suoi trentasette minuti scarsi.
Lungi dall’essere un semplice fenomeno da baraccone, i The Way Of Purity difficilmente raggiungeranno il grande pubblico a causa di una proposta ideologicamente troppo estrema e tutt’altro che di facciata; questo è un vero peccato perché l’aspetto che come recensori ci deve interessare maggiormente, cioè quello musicale, è di primissimo piano risultando di gran lunga superiore a band molto più reclamizzate ma dall’impatto visivo e ideologico rassicurante.
You wear my skin as a monument of wealth”.

Tracklist :
1. Artwork Of Nature
2. Death Abound Everywhere
3. Eleven
4. Eternal Damnation To René Descartes
5. Keep Dreaming
6. For All Who Thrive Unheard
7. The Mighty Fall
8. The Last Darkest Night
9. A Time To Be So Small
10. Lijti Crjsty

Line-up :
Tiril Skardal – Vocals
Without Name – Bass
Jeffrey – Guitar
Wod – Drums
Deathwish – Guitar, Keyboards

THE WAY OF PURITY – Facebook

Frailty – Melpomene

I Frailty ci regalano più di un’ora e un quarto di death-doom di primissima qualità.

I Frailty giungono con Melpomene (nella mitologia greca, la musa della Tragedia) alla seconda prova su lunga distanza e non deludono le attese che si erano create dopo la pubblicazione dell’esordio “Lost Lifeless Light” del 2008 e dei successivi EP “Frailty” e “Silence Is Everything …”.

La band lettone con la sua proposta musicale si colloca sui territori death-doom già battuti in modo lusinghiero in questo spicchio di 2012 dagli iberici In Loving Memory; analogamente a questi ultimi i Frailty mostrano la loro spiccata attitudine nel comporre brani nei quali convivono in perfetta armonia aggressività e melodia.
A livello di ispirazione i nostri hanno rivolto lo sguardo verso le altre sponde del Baltico dove i riferimenti sono i Saturnus su quella danese, per quanto riguarda i brani risalenti all’EP del 2010, e i Swallow The Sun su quella finlandese, per i brani più recenti composti appositamente per questo disco.
In questo senso appare sorprendente la traccia d’apertura Wendigo che, con le sue sonorità più aspre rispetto alle produzioni precedenti dei lettoni, si avvicina ai brani di maggiore impatto dei Novembers Doom, anche se l’aspetto melodico non viene trascurato grazie ad uno splendido break a metà del brano.
Già la successiva Cold Sky, che inaugura un trittico di brani maestosi, sin dalle prime note chiarisce eventuali dubbi sorti su un possibile sbilanciamento delle composizioni verso il death, caratterizzandosi per il magnifico lavoro alla chitarra di Edmunds, capace di tratteggiare melodie sognanti e melanconiche allo stesso tempo; segue Desolate Moors che, nonostante i suoi quattordici minuti, non accusa cali di tensione con le sue ritmiche pachidermiche ben coadiuvate dalla tastiera di Ivita, per un risultato degno dei migliori Saturnus.
Underwater chiude l’ideale prima parte del disco ed è un brano semplicemente grandioso che racchiude in sé tutte le caratteristiche essenziali del death-doom: grandi riff, melodie dolcemente ammantate di mestizia e un growl proveniente dagli abissi più reconditi.
Onegin’ s Death è una traccia strumentale acustica che funge come introduzione di altro magnifico trittico di brani, partendo da The Doomed Hall Of Damnations, che lambisce territori funeral con le sue atmosfere soffocanti, per passare da Eternal Emerald, che ci riporta ad un clima decisamente più arioso, e concludendo con Thundering Heights, che è l’altra perla del disco, con Edmunds sugli scudi grazie a un memorabile assolo di chitarra nella parte finale.
Melpomene, pubblicato dall’attiva label ucraina Arx Productions, si chiude degnamente con un altro brano strumentale, The Cemetery Of Colossus, lasciando appagato chi sperava di trovare conferma alle potenzialità in precedenza espresse dalla band.
Andando alla ricerca del classico pelo nell’uovo, si nota una lieve discontinuità tra i brani meno recenti e quelli nuovi, cosa che normalmente accade quando nel pubblicare un full-length si includono anche pezzi già editi in demo, singoli o EP.
Nulla che possa influire sul giudizio finale, sia chiaro, soprattutto quando una band come i Frailty ci regala più di un’ora e un quarto di death-doom di primissima qualità, con un vocalist dal growl terrificante, un chitarrista dal tocco personale e dal grande gusto melodico e altri quattro ottimi musicisti che forniscono il loro contributo preciso ed essenziale alla riuscita di un bellissimo album.

Tracklist:
1. Wendigo
2. Cold Sky
3. Desolate Moors
4. Underwater
5. Onegin’s Death
6. The Doomed Halls of Damnation
7. Eternal Emerald
8. Thundering Heights
9. The Cemetery of Colossus

Line-up:
Lauris Polinskis – Drums
Edmunds Vizla – Guitars, Vocals
Ivita Puzo – Keyboards
Martins Lazdāns – Vocals
Jānis Jēkabsons – Bass
Jēkabs Vilkārsis – Guitars (rhythm)

Ea – Ea

Il male di vivere negli Ea è un evento catartico, dove il triste incedere delle melodie tratteggia il lento consumarsi dell’esistenza fino al suo estremo commiato e le note ne raccontano il melanconico fluire lasciando una sensazione di soffusa malinconia piuttosto che di sconforto e di costernazione.

Non è facile parlare in maniera obiettiva di qualcosa o qualcuno che in una certa fase della propria vita ha contrassegnato o accompagnato i momenti più belli oppure i più difficili.

Proprio per questo per me recensire un album degli Ea è sempre piacevole da un lato e tremendamente complesso da un altro, in considerazione del fatto che non posso nascondere il mio amore sconfinato per ogni nota composta da questa band. Quindi con questa recensione non posso fare altro che cercare di trasmettere le stesse sensazioni a chi mi leggerà, con la speranza di spingere più persone possibili all’ascolto di questa misteriosa band.
Evidentemente, al di là dell’aspetto affettivo non è certo per piaggeria che si può lodare l’operato di un gruppo del quale non si conosce l’identità dei componenti e che non possiede un sito internet, una pagina su Facebook o MySpace, nulla di nulla che possa far sperare il povero recensore di ricevere il minimo feedback …
Quel poco che sappiamo da voci ufficiose è che si dice siano musicisti russi (ma la stessa Solitude che in quelle lande ha la propria sede non accredita questa tesi), che Ea è il nome di una divinità della mitologia accadico-babilonese e che sia i testi sia la lingua utilizzata fanno riferimento a queste antiche civiltà.
Ma questi in fondo sono aspetti marginali perché gli Ea in realtà non sono una band, bensì una sensazione che penetra nell’anima, che si insinua nella mente con le sue note malinconiche guidate ora da efficaci linee di tastiera ora da una chitarra dal timbro desolatamente dilatato.
Il sound di questi anonimi cantori del dolore, infatti, non possiede i tratti disperatamente claustrofobici e l’attitudine nichilista dei Worship o il senso di ineluttabile tragedia che si annida dietro ad ogni nota composta dai Colosseum.
Il male di vivere negli Ea è un evento catartico, dove il triste incedere delle melodie tratteggia il lento consumarsi dell’esistenza fino al suo estremo commiato e le note ne raccontano il melanconico fluire lasciando una sensazione di soffusa malinconia piuttosto che di sconforto e di costernazione.
Questo episodio della loro discografia, il quarto in sei anni, è la logica prosecuzione dei precedenti, anche se per intensità emotiva si avvicina più a “Ea II” che non a “Ea Taesse” e “Au Ellai”: il piccolo elemento di novità risiede nell’aver scelto di presentare un unico brano di quarantotto minuti anziché suddividere come di consueto la musica composta in due o tre tracce.
Quello che impressiona realmente è la capacità che esibiscono questi musicisti nel toccare le giuste corde dell’emozione senza ricorrere a particolari virtuosismi e nemmeno esibendo una tecnica fuori dal comune. La grandezza della band si esalta proprio nell’estrema semplicità compositiva, quella che porta alcune frange della critica a snobbarli perché artefici di soluzioni non sufficientemente cervellotiche per chi si diletta nell’esercizio dello snobismo intellettuale.
Gli Ea hanno creato una via del tutto personale al funeral doom, battuta di recente pure dagli ottimi Comatose Vigil con il loro splendido “Fuimus … Non Sumus”, anche se non sarebbe onesto ignorare che tutti quelli che si cimentano con questo genere devono fare i conti con le inevitabili influenze dei Thergothon prima e degli Skepticism poi.
Questa musica non è certo per chi ricerca avanguardistiche novità o rumorismi assortiti spacciati come la nuova frontiera della musica estrema; al contrario è nutrimento essenziale per chi si “accontenta” di commuoversi al cospetto della malinconica colonna sonora di un’esistenza inevitabilmente destinata all’oblio.

Tracklist:
1. Ea

Sick Monkey – Anatomia Dell’Essere

Le sensazioni che restano impresse dopo l’ascolto di “Anatomia dell’Essere” sono del tutto positive e per questo motivo contiamo di poterci gustare al più presto un album intero degli ottimi Sick Monkey.

Potente, ruvido e genuino: tre aggettivi che servono per inquadrare il sound dei Sick Monkey, alle prese con il loro primo EP Anatomia Dell’Essere.

La band, proveniente dalla sponda orientale del lago di Garda, nasce nel 2007 e musicalmente, come ci informano le note biografiche, trae linfa dallo stoner in stile Kyuss senza precludersi eventuali escursioni in altri generi.
Lo testimonia la title-track posta in apertura che, dopo un avvio cadenzato come ci si aspetterebbe, si sposta in certi frangenti su ritmiche più spedite che lambiscono territori hardcore pur mantenendo complessivamente l’impatto e le chitarre lisergiche dei maestri del desert rock.
Già a partire dalla successiva Entiende il sound si fa più sempre più viscoso e le chitarre più distorte, mentre con la terza traccia Ruggine il quartetto veneto esprime al massimo le proprie potenzialità grazie a quello che sembra essere un vero marchio di fabbrica: riff granitici, una base ritmica spaccaossa e testi mai banali che raccontano i disagi e le problematiche della quotidianità.
Senza Testo (che, nonostante il titolo non è un brano strumentale) rinsalda l’ottimo lavoro svolto dai Sick Monkey chiudendo un EP nel quale si riscontrano sicuramente molte luci e pochissime ombre: a tale proposito è da valutare quanto possa essere funzionale alla riuscita del lavoro l’utilizzo della lingua italiana che, se da una parte consente ai nostri di comporre i testi in maniera più diretta ed efficace, dall’altra potrebbe costituire un ostacolo al tentativo di donare in futuro un respiro internazionale alla loro musica.
Ma, al di là di questa annotazione, le sensazioni che restano impresse dopo l’ascolto di Anatomia Dell’Essere sono del tutto positive e per questo motivo contiamo di poterci gustare al più presto un album intero degli ottimi Sick Monkey.

Line-up:
Marco Fila – Batteria
Antonio Bonizzato – Voce, Basso
Claudio Luce – Chitarra Solista
Pierpaolo Modena – Voce, Chitarra

1. Anatomia dell’Essere
2. Entiende
3. Ruggine
4. Senza Testo

Les Discrets – Ariettes Oubliées

Sicuramente le emozioni che dà questo rock virato shoegaze sono notevoli, e questo doppio cd è un’opera che crea dipendenza

Progetto di Fursy Teyssier attivo dal 2003, arriva a farsi notare nello split del 2007 con gli Alcest, con cui i Les Discrets condividono la visione sonora, ovvero quel rock sognante e depresso, incline allo shoegaze, ma con profonde radici nel black metal, di cui diviene un’evoluzione possibile.

Teyssier, il fulcro del gruppo, ha militato negli Amesoeurs che furono il luogo d incontro di musicisti molto interessanti, com Neige, già nei Peste Noire, formazione black metal transalpina tra le migliori nel suo genere, e Winterhalter, batterista anch’egli già nei Peste Noire e poi negli Alcest e altri. C’è un forte interscambio tra questi gruppi, e si può osservare la maturazione di musicisti che, cominciato con il black metal, si spostano su altri lidi, trovando nello shoegaze o comunque nel black dai toni ambient la loro vera vocazione. Ad esempio i compagni di etichetta dei Les Discrets, gli Alcest, nel loro ultimo album sono andati decisamente su atmosfere rock, salendo un ulteriore gradino nella scala della loro maturazione. I Les Discrets fanno shoegaze, o comunque musica decadente, decadenza intesa in senso di abbandono alla vita, con predilezione per un stanca contemplazione degli affanni umani. Personalmente la trovo una musica perfetta per la meditazione, poiché stimola molti pensieri, ci guarda dentro. I Les Discrets sono uno dei gruppi francesi che stanno portando avanti un discorso molto originale e particolare, con destinazione ancora ignota. Non è musica commerciale ma vende, non è musica facile, ma ha un grosso seguito in questi tempi bui. Sicuramente le emozioni che dà questo rock virato shoegaze sono notevoli, e questo doppio cd è un’opera che crea dipendenza, poichè le sue soffuse carezze e il senso di cullamento che troviamo qui è qualcosa di ancestrale in certi animi umani, che sono profondamente convinti che alla fine la vita sia un inutile affanno. Molto meglio la musica e l’assenzio.

LES DISCRETS – Facebook

Lunar Aurora – Hoagascht

Raggiungere i livelli stellari di “Andacht” era già in partenza un’impresa oggettivamente ardua, nonostante questo però, il lavoro dei Lunar Aurora si dimostra di qualità eccelsa, perché alla band tedesca non è venuta meno la magistrale capacità di forgiare sonorità oscure ed emozionanti.

Uno dei ritorni più attesi in questo 2012 era sicuramente quello dei Lunar Aurora dopo cinque anni di silenzio seguiti alla pubblicazione di “Andacht”, per chi scrive uno dei migliori album black metal di sempre.

Oggi il gruppo è ridotto a un duo, costituito da Aran, in questa occasione privo del supporto fraterno di Sindar, e da Whyrd, rientrato nella line-up dopo esserne uscito in occasione dell’ultimo disco. E’ inevitabile chiedersi, ogni qual volta una band ritorna sulle scene dopo un lungo silenzio, se tale decisione derivi da una ritrovata vena artistica o piuttosto da semplici motivi commerciali. Per dirimere simili dubbi, già fugati in parte dallo stile dei nostri che è lontano anni luce da qualsiasi tentazione “di classifica”, può bastare la scelta di comporre i testi in dialetto bavarese, cosa che peraltro rende ulteriormente complicato ottenere qualche informazione relativa ai contenuti lirici del disco. Fatte le debite premesse, l’annunciato ritorno sulle scene della band tedesca ha indubbiamente provocato notevoli aspettative da parte dei suoi fedeli estimatori anche se, spesso, le attese eccessive finiscono per compromettere un’analisi obiettiva dei nuovi lavori, poiché la mente e il cuore vanno istintivamente a cercare raffronti con il passato piuttosto che focalizzarsi sul presente. Così le prime 2-3 prese di contatto con Hoagascht si sono rivelate particolarmente ostiche proprio perché mancavano quegli spunti più immediati che avevano caratterizzato l’album precedente. Ma, semmai ce ne fosse stato bisogno, ancora una volta ha ragione chi sostiene che siano necessarie, per apprezzare pienamente l’arte compositiva, sia un’adeguata dedizione sia, soprattutto, molta pazienza. Infatti, dopo ripetuti ascolti, nel corso dei quali di volta in volta il disco svelava quasi con ritrosia i propri lati più nascosti, Hoagascht si è palesato finalmente in tutta la sua affascinante bellezza. Raggiungere i livelli stellari di “Andacht” era già in partenza un’impresa oggettivamente ardua, nonostante questo però, il lavoro dei Lunar Aurora si dimostra di qualità eccelsa, perché alla band tedesca non è venuta meno la magistrale capacità di forgiare sonorità oscure ed emozionanti. Cos’è cambiato dunque rispetto alla precedente opera ? E’ vero che, probabilmente, non si raggiungono i picchi emotivi che trovavano la loro sublimazione in brani come “Findling” o “Gluck” ma, per contro, va detto che Aran e Whyrd con Hoagascht hanno cercato di veicolare in maniera diversa le consuete atmosfere alternando maggiormente rispetto al passato l’impatto dei riff chitarristici a passaggi più rarefatti o sperimentali. Una naturale trasformazione che dimostra, pur senza apportare straordinari stravolgimenti, quanto i Lunar Aurora, con il loro ritorno, abbiano cercato innanzi tutto di non restare arroccati sulle posizioni di “Andacht”. Proprio l’elevato livello che accomuna tutte le tracce rende difficile citarne qualcuna in particolare: dovendo proprio fare una scelta evidenzierei Nachteule, che possiede un’impronta simile per certi aspetti a Der Pakt, o Beachgliachda, brano dall’andamento altalenante contraddistinto da parti lentissime ai confini del doom e brusche accelerazioni caratterizzate da un originale lavoro di tastiera; ma anche Sterna con le sue armonie malinconiche e Håbergoaß, che si distingue come l’episodio più cadenzato del lotto, non sono affatto da meno. Accompagnati da una produzione all’altezza, in grado di valorizzare ogni strumento ma anche di enfatizzare quei caratteristici suoni che talvolta sembrano provenire da una dimensione onirica, i Lunar Aurora del 2012 padroneggiano con disinvoltura la materia perdendo qualcosa in immediatezza ma guadagnando in pulizia ed eleganza compositiva; di sicuro con questo lavoro mantengono e consolidano le peculiarità chi li hanno resi unici all’interno della scena (un loro brano è immediatamente riconoscibile tra altri 1.000, non so per quante altre band si possa dire lo stesso). Probabilmente a causa della provenienza da una nazione dove il black metal non è un genere così radicato, al contrario di quanto avviene in Scandinavia, i bavaresi non hanno mai raccolto un successo comparabile alla straordinaria qualità espressa nei propri lavori; augurandoci che questa possa essere la volta buona, accogliamo con estrema soddisfazione il ritorno sulla scena di una di una band storica, sperando solo di non dover attendere un altro lustro per ascoltare nuovo materiale.

Tracklist:
1. Im Gartn
2. Nachteule
3. Sterna
4. Beagliachda
5. Håbergoaß
6. Wedaleichtn
7. Geisterwoid
8. Reng

Line-up:
Aran – All Instruments, Vocals
Whyrd – Vocals

Dreams After Death – Embraced By The Light

Andras Illes è un giovane musicista ungherese che con questo suo esordio discografico si annuncia come il nuovo talento emergente del funeral doom.

Andras Illes è un giovane musicista ungherese che con questo suo esordio discografico si annuncia come il nuovo talento emergente del funeral doom.

Il suo progetto Dreams After Death, alla resa dei conti, si va a collocare non lontano da coloro che hanno segnato, con la loro arte funerea, gli ultimi due decenni.
Qui, come già detto in altre occasioni, nulla si crea e nulla si distrugge, l’unico scopo è di tradurre in musica, in maniera onesta e sentita, la malinconia, la tristezza e il dolore che talvolta ci accompagnano nelle diverse fasi della nostra esistenza.
Tra le note di Embracing By The Light troviamo naturali riferimenti a tutti i numi tutelari di Andras, dai progenitori Thergothon agli altri totem del movimento finlandese come Colosseum, Skepticism e Shape Of Despair, passando dagli Ea, per il tappeto sonoro delineato dall’andamento dolente delle tastiere e dagli Worship, per la loro opprimente lentezza .
Il polistrumentista ungherese riesce nella non facile impresa di assimilare queste influenze e amalgamarle presentandole in una forma del tutto personale e senza apparire mai derivativo.
Se spesso le one-man band risentono di diversi sbalzi qualitativi a livello strumentale e compositivo, qui non c’è proprio nulla da eccepire : ogni strumento è suonato con la dovuta perizia, il growl, pur se usato con parsimonia, è sempre all’altezza della situazione e la produzione riesce a valorizzare degnamente il tutto.
Tra i sei brani, tutti di una lunghezza standard per il genere proposto, spicca in particolare il trittico iniziale : Genesis, che con le sue atmosfere a metà strada tra Ea e Comatose Vigil è l’ideale introduzione al senso di angoscia e disperazione che il musicista magiaro vuole rappresentare; Funeral, che fin dal titolo si presenta come il manifesto musicale di Andras, e Meeeting With The Ancestors, certamente il brano cardine del disco con i suoi 11 minuti intrisi d’intensa drammaticità e caratterizzati da azzeccate linee melodiche.
The Endless Time inizia a mostrare un altro aspetto dei Dreams After Death, ovvero quello ambient, decisamente efficace e mai fine a se stesso come spesso accade, mentre in From Time Immemorial Andras libera il suo probabile retaggio classico con alcuni passaggi che potrebbero apparire come una rilettura in versione doom delle composizioni di Bela Bartok.
L’album si chiude con il delicato e malinconico strumentale Outer Space lasciandoci l’impressione di aver scoperto un’artista che già ora merita un posto di rilievo in ambito funeral doom e che, in un futuro prossimo, potrebbe ambire a eguagliare se non superare i propri maestri.

Tracklist:
1. Genesis
2. Funeral
3. Meeting With The Ancestors
4. The Endless Time
5. From Time Immemorial
6. Outer Space

Line-up:
Andras Illes – vocals, all instruments

(EchO) – Devoid Of Illusions

Esiste, anche se poco pubblicizzata, un’Italia diversa da quella degli schettini, dei buffoni di corte e di tutte quelle “squallide figure che attraversano il paese” ; gli (EchO) sono qui a dimostrarcelo.

Devoid Of Illusions è il miglior esordio discografico che mi sia capitato di ascoltare da diverso tempo a questa parte.

I bresciani (EchO) sono l’ennesima pietra preziosa che, con la consueta lungimiranza, la Solitude Productions (tramite la sub-label BadMoodman) lancia nella scena doom mondiale; anche se, in effetti, racchiuderli in maniera semplicistica all’interno del genere appare riduttivo.
Infatti i nostri, pur muovendosi chiaramente nell’ambito di competenza dell’etichetta con sede a Orel (Russia), riescono a fornire al loro sound una serie di sfumature e di influenze che spaziano dal gothic/doom più classico fino ad un progressive dalla tonalità darkeggianti.
Tale progetto riesce alla perfezione grazie alle innegabili capacità tecniche della band e a un vocalist come Antonio Cantarin in grado di passare con disinvoltura dal growl più catacombale a clean vocals evocative e prive di qualsiasi sbavatura.
In un quadro di questo genere la classica ciliegina sula torta è costituita da una produzione che valorizza al massimo le sonorità dell’album a cura di un autentico mostro sacro del doom metal, ovvero Greg Chandler, mastermind degli Esoteric.
In Devoid Of Illusions tutto funziona alla perfezione, ciascun brano possiede un’impronta che lo rende memorizzabile e distinguibile dagli altri, benché certamente non si stia parlando di musica di facile presa.
Del resto, proprio ciò che ad un primo impatto potrebbe costituire il punto debole del lavoro, ovvero l’eterogeneità stilistica che si manifesta anche all’interno delle singole tracce, in realtà finisce per rivelarsi il valore aggiunto dato che l’alternanza tra atmosfere apparentemente discordanti tra loro avviene magicamente in maniera del tutto naturale e spontanea.
Prendendo in esame alcune dei brani, The Coldest Land vive sull’avvicendamento tra arpeggi delicati prossimi ai Katatonia ed un’irresistibile melodia chitarristica contrassegnata da un growl impetuoso, mentre Omnivoid si caratterizza per un riff pesantissimo che improvvisamente si dissolve per lasciare spazio a sonorità prossime al depressive metal.
Disclaiming My Fault è un’altra delle tante perle dell’album, un brano che nasce con un’impronta prog alla Porcupine Tree che viene trasfigurata nel finale da un furioso death metal; Once Was A Man invece risalta come un’eccezione nel contesto dell’album poiché, se come la precedente traccia si muove inizialmente su territori contigui alla band di Steve Wilson, finisce per confluire in passaggi degni dei Cure di “Disintegration”; in sintesi : splendido !
Sounds From Out Of Space chiude alla grande il lavoro con la partecipazione dello stesso Greg Chandler che, con la sua voce e la sua chitarra, finisce inevitabilmente per “esoterizzare” il brano, ma questo non è certo un male, anzi …
Proprio il contrasto tra il cupo funeral doom introdotto dall’illustre ospite e le caratteristiche aperture post metal che, giunti alla fine dell’album, abbiamo imparato a conoscere ed apprezzare, si erge a simbolo dell’intero lavoro e dimostra quanto il talento degli (EchO) renda naturale la convivenza tra sonorità apparentemente incompatibili.
Non c’è molto altro da aggiungere se non l’esortazione nei confronti di chi ama la buona musica (non solo il metal) affinché supporti questa magnifica realtà nostrana.
Esiste, anche se poco pubblicizzata, un’Italia diversa da quella degli schettini, dei buffoni di corte e di tutte quelle “squallide figure che attraversano il paese” ; gli (EchO) sono qui a dimostrarcelo.

Tracklist:
1. Intro
2. Summoning the Crimson Soul .
3. Unforgiven March
4. The Coldest Land
5. Internal Morphosis
6. Omnivoid
7. Disclaiming My Faults
8. Once Was a Man
9. Sounds From Out of Space

Line-up:
Antonio Cantarin – Vocals
Mauro Ragnoli – Guitars
Simone Saccheri – Guitars
Simone Mutolo – Piano, Keyboards
Agostino Bellini – Bass
Paolo Copeta – Drums

In Loving Memory – Negation Of Life

Gli In Loving Memory ottengono il nostro plauso incondizionato per la consistenza della loro proposta e per la capacità di fornire un’ora abbondante di musica emozionante.

Gli In Loving Memory costituiscono, assieme a Helevorn, Evadne ed Autumnal, la massima espressione in ambito death-doom della penisola iberica.

I doomsters spagnoli nascono come band nel 2005 ed un anno dopo pubblicano un primo demo influenzato da uno dei trend dell’epoca , ovvero il gothic- doom con voce femminile.
La scelta di virare verso sonorità più robuste, oltre a quella di affidare le vocals al chitarrista Juanma, si rivela vincente e già in “Tragedy & Moon” del 2008 vengono messe in mostra le qualità che ritroviamo in Negation Of Life , lavoro che presenta una band in grande spolvero e focalizzata sull’obiettivo di produrre un sound pesante e malinconico come il genere esige.
A tale proposito, posiamo collocare gli In Loving Memory nel solco stilistico tracciato, ad altre latitudini, dagli Swallow The Sun in particolare, ma senza che per questo la band rinunci ad esprimere la necessaria personalità
L’album è caratterizzato da riff robusti, solos malinconici, un growl corrosivo ed un lavoro di tastiere efficace senza essere mai invadente, il tutto supportato da una produzione encomiabile. Grazie a queste caratteristiche ed all’ottimo bilanciamento tra parti aggressive e momenti melodici tutti i brani si lasciano ascoltare senza alcun affanno.
La traccia iniziale, Even A God Can Die è forse quella che concede meno spazio alle melodie, riservando solo a qualche breve inserto pianistico il compito di contrastare la pesantezza delle chitarre e della base ritmica, ma già dalla successiva Skilled Nihilism la proposta degli iberici si fa più immediata ed accattivante.
Adversus Pugna Tenebra parte con un arpeggio delicato ed una voce sussurrata per poi sfociare in un riff melodico che ricorda un’altra grande band mediterranea come i greci Nightfall.
La title-track è un altro splendido episodio che, per le sue atmosfere malinconiche, non avrebbe affatto sfigurato in un capolavoro come The Morning Never Came, mentre November Cries e Through a Raindrop si rivelano più coinvolgenti nel finale quando la chitarre di Jorge e Juanma costruiscono linee melodiche struggenti.
Shimmering Divinity emerge come uno dei picchi dell’album grazie ad una seducente armonia chitarristica che lascia successivamente spazio ad un break di chiara matrice death per poi abbandonarsi a quelle atmosfere dolenti che, con la loro presenza, caratterizzano l’intero lavoro.
Celestial costituisce l’episodio più acustico del lotto, mentre Nulla Religio, Solum Veritas chiude l’album così come era iniziato, all’insegna di una rabbiosa malinconia tratteggiata da testi pervasi da una sconfinata amarezza .
La Solitude Prod. (qui tramite la sublabel BadMoodMan) continua a proporci band relativamente nuove ma tutte di elevato livello e gli In Loving Memory non fanno eccezione, ottenendo il nostro un plauso incondizionato per la consistenza della loro proposta e per la capacità di fornire un’ora abbondante di musica emozionante.

Tracklist:
1. Even a God Can Die
2. Skilled Nihilism
3. Adversus Pugna Tenebras
4. Negation of Life
5. November Cries
6. Shimmering Divinity
7. Through a Raindrop
8. Celestial
9. Nulla Religio, Solum Veritas

Line-up:
Raúl Arauzo – Bass
Jorge Araiz – Guitars
Juanma Blanco – Vocals, Guitars
Mauricio C. – Drums
Alberto O. – Keyboards

IN LOVING MEMORY – Facebook

The Wounded Kings – In The Chapel Of The Black Hand

The Wounded Kings con il terzo album della carriera esprimono il massimo delle loro potenzialità realizzando un lavoro che li inserisce di diritto tra le band di riferimento del doom metal.

The Wounded Kings con il terzo album della carriera esprimono il massimo delle loro potenzialità realizzando un lavoro che li inserisce di diritto tra le band di riferimento del doom metal.

Il gruppo britannico , già autore dell’ottimo “The Shadow of Atlantis”, trae nuova linfa dal rivoluzionamento della line-up compiuto, suo malgrado, dal talentuoso polistrumentista Steve Mills; il cambiamento più rilevante riguarda l’avvicendamento tra una voce maschile, quella del co-fondatore della band, George Birch, ed una femminile, a cura di Sharie Neyland.
Una trasformazione certo non di agevole assimilazione al primo impatto, dato che il particolare timbro dell’ammaliante Sharie è quanto di più lontano possa esserci dalle vocals stentoree ed evocative del suo predecessore. In realtà, il salmodiare tutt’altro che rassicurante di quella che potrebbe essere sia una strega alle prese con un rito sabbatico sia una novella Cassandra nell’atto di pronunciare le proprie nefaste previsioni , diventa il vero valore aggiunto al tessuto sonoro creato da Mills.
Il doom proposto dai The Wounded Kings si può certamente definire di stampo tradizionale, con ampi riferimenti a quelle band che negli anni ’70 hanno arricchito la propria musica con elementi esoterici; ciò che rende unico questo lavoro è proprio la capacità di fondere le atmosfere del passato con un sound evoluto benché monolitico e, soprattutto, mai derivativo.
L’iniziale The Cult Of Souls viene introdotta da un Hammond che, in simbiosi con la voce della Neyland, ci accompagna nel suo inesorabile percorso alla scoperta di mondi atavici popolati da entità spaventose, mentre nel finale il brano viene caratterizzato da una irresistibile quanto conturbante melodia, con la chitarra solista che va a lambire sonorità di stampo floydiano.
The Gates Of Oblivion, dove la traccia precedente concedeva tenui spiragli di luce, stende invece un ulteriore velo di oscurità e rende ancora più opprimente e corrosiva l’atmosfera del disco.
Return Of The Sorcerer è un breve (se comparato agli altri tre brani che hanno una durata superiore ai 10 minuti) episodio strumentale che ha la funzione tutt’altro che marginale di introdurre degnamente la mastodontica title-track, brano che chiude il disco facendoci sprofondare definitivamente negli abissi della mente umana e delle sue paure ancestrali.
Un’opera, In the Chapel Of The Black Hand, che non potrà lasciare indifferenti coloro che apprezzano atmosfere tipicamente lovecraftiane trasportate in ambito musicale; la citazione del “solitario di Providence” non è casuale, provate a capovolgere la copertina : esaminando attentamente la scritta posta sulla fronte del teschio, si potrà leggere distintamente parte della famosa invocazione a Cthulhu (Ia! Ia! Cthulhu fhtagn).

“In his house at R’lyeh dead Cthulhu lies dreaming”…

Tracklist:
1. The Cult of Souls
2. Gates of Oblivion
3. Return of the Sorcerer
4. In the Chapel of the Black Hand

Line-up:
Steve Mills – Guitars, Hammond organ, Keyboards, Slide guitar
Sharie Neyland – Vocals
Alex Kearney – Guitars
Mike Heath – Drums
Jim Willumsen – Bass