Ankhagram – Thoughts

Resta solo da vedere in quale direzione Dead vorrà eventualmente spingere il suo progetto negli anni a venire, per ora non resta che ascoltare con piacere questo ottimo lavoro.

Avevamo lasciato Ankhagram nel 2010 alle prese con “Where Are You Now”, un buonissimo lavoro impregnato di death-doom atmosferico, che lasciava presagire interessanti sviluppi per il futuro.

Nonostante l’ancora giovane età di Dead, questo il nickname del musicista russo che è unico depositario del progetto, Thoughts è il quinto full-length pubblicato in sei anni: un intervallo di tempo già importante nel corso del quale il sound si è progressivamente evoluto, guadagnando in personalità e maturità rispetto ai primi album caratterizzati da apprezzabili slanci creativi alternati a evidenti ingenuità.
Ankhagram nel 2012 significa funeral-doom dall’accentuata componente ambient, un mix sonoro che scongiura la segregazione negli antri rumoristici del drone a vantaggio di un’indole melodica che solo di rado viene screziata dal growl di Dead.
L’opener Gates In Mind, pur essendo il brano di gran lunga più breve del lotto, risulta già indicativa dell’indirizzo stilistico dell’album, con il delicato giro di pianoforte che ci accompagna dall’inizio alla fine senza risultare, nonostante ciò, prolisso o stucchevole.
Ben più impegnativo si rivela l’ascolto di Don’t Feel This Life che ci riporta in territori funeral, sulla falsariga di Ea e Comatose Vigil, tanto per restare all’interno dell’ex-impero sovietico; i diciotto minuti di sviluppo della traccia sono pervasi, piuttosto che dalla disperazione o dal cupo nichilismo di altre uscite nello steso ambito, da un soffuso senso di malinconia che si rivela una caratteristica costante di Thoughts.
Lost In Reality è un altro bell’episodio di stampo ambient nel quale il costante sottofondo rappresentato dallo sferragliare di un treno non può che rappresentare metaforicamente lo scorrere del tempo, mentre I’m A Fake e Without Us ripropongono il funeral di stampo atmosferico che, come abbiamo visto, è nelle corde di Dead.
La title-track chiude degnamente l’album dopo quasi settantacinque minuti di ottima musica riportando alla ribalta il volto ambient della one-man band russa.
Proprio perché la componente ambientale è accompagnata da un deciso tratto melodico, l’ascolto dell’album si rivela tutt’altro che faticoso, ovviamente rapportando il tutto al genere proposto; personalmente non mi sento di muovere alcuna critica al musicista di Ekaterinburg, anzi, ritengo che Thoughts ne rappresenti il raggiungimento della definitiva maturità artistica.
Resta solo da vedere in quale direzione Dead vorrà eventualmente spingere il suo progetto negli anni a venire, per ora non resta che ascoltare con piacere questo ottimo lavoro.

Tracklist :
1. Gates in Mind
2. Don’t Feel this Life
3. Lost in Reality
4. I’m a Fake
5. Without Us
6. Thoughts

Line-up :
Dead – All instruments, Vocals

DWDY – Destroy Me

Benché la band dia la sensazione di trovarsi ancora nella fase “work in progress”, offre davvero alcuni spunti geniali che inducono a promuovere i DWDY incoraggiandoli a proseguire sulla strada appena intrapresa.

I DWDY sono un duo francese che esordisce con questo demo intitolato Destroy Me, lavoro che fin dalle premesse, costituite dalle note introduttive inviate dalla Altsphere, non lascia indifferenti.

Infatti i transalpini si autodefiniscono, in sintesi, come l’incontro di due amanti della musica e del cinema stanchi di forme artistiche precostituite; pertanto il loro scopo è quello di guidare l’ascoltatore attraverso un caleidoscopio di emozioni volto ad abbattere le barriere costituite dai generi.
Molte volte abbiamo ascoltato dichiarazioni d’intenti quantomeno ambiziose, rivelatesi poi, alla prova dei fatti, ben poca cosa: i DWDY riescono invece, se non del tutto, almeno in buona parte a raggiungere i loro scopi.
Come si può ben immaginare i due (dei quali si sa poco o nulla) fanno confluire in Destroy Me, costituito da un’unica traccia della durata di venti muniti, tutte le influenze musicali possibili, costruendo il brano effettivamente come una mini colonna sonora integrata da samples cinematografici e parti recitate (presumo dagli stessi musicisti).
Presentato così, questo demo potrebbe far pensare a un caotico calderone sonoro, mentre al contrario l’operazione viene portata a termine con un certo buon gusto e con l’opportuno raziocinio.
Mettendomi alla ricerca di un termine di paragone calzante per descrivere la musica dei DWDY, provate a immaginare un audace mix tra i Devil Doll, scremati della componente sinfonica, e i connazionali Misanthrope, in particolare nelle parti maggiormente orientate al metal; attenzione, la strada per raggiungere i livelli del progetto partorito dal genio di Mr.Doctor o della stessa band di Phillipe Courtois è ancora molto lunga e tortuosa, ma il mood di stampo cinematografico, da una parte, e il desiderio di sperimentare percorsi musicali non convenzionali, dall’altra, sono molto simili.
Come nelle magnifiche suite del maestro italo-sloveno, anche qui troviamo un bel tema portante che ricorre più volte nel corso del brano, così come sono frequenti accelerazioni repentine quanto azzeccate; a livello strumentale c’è sicuramente qualcosa da limare, soprattutto per quanto concerne le parti di chitarra solista, inoltre non sempre le diverse anime musicali si amalgamano alla perfezione.
Personalmente apprezzo molto di più i momenti nei quali i DWDY schiacciano sul pedale dell’acceleratore creando riff rocciosi e di grande spessore, mentre nei frangenti più riflessivi la composizione tende talvolta a indulgere in passaggi di scarsa incisività.
Detto questo, Destroy Me regala diversi momenti interessanti, alternando efficacemente emotività e aggressività e, benché la band dia la sensazione di trovarsi ancora nella fase “work in progress”, offre davvero alcuni spunti geniali che inducono a promuovere i DWDY incoraggiandoli a proseguire sulla strada appena intrapresa.

Track-list :
1. Destroy Me

Falling Leaves – Mournful Cry Of A Dying Sun

E’ sorprendente la maturità compositiva esibita dalla band in ogni brano, dando vita così a una raccolta di brani splendidi

I Falling Leaves arrivano dalla Giordania e, indubbiamente, nonostante il paese mediorientale abbia già regalato alla scena metal una grande band come i Bilocate, costituisce sempre e comunque una piacevole novità poter ascoltare metal proveniente da paesi tradizionalmente e culturalmente lontani da questo tipo di sonorità.

Immagino che per i nostri non sia semplicissimo proporre in patria il loro raffinato gothic-doom (chi dalle nostre parti si lamenta provi a consolarsi pensando che c’è sempre chi sta peggio), ma è evidente che ciò non li ha affatto scoraggiati a giudicare dalla riuscita dell’album e, soprattutto, leggendo i prestigiosi nomi della scena che si sono mossi per contribuire alla realizzazione di Mournful Cry Of A Dying Sun.
Diciamo subito che gli ospiti di grido, da soli, non sono mai garanzia di qualità, ma i Falling Leaves dimostrano, nel corso del lavoro, di poter tranquillamente camminare con le proprie gambe.
Risulta infatti sorprendente la maturità compositiva esibita dalla band in ogni brano, dando vita così a una raccolta di brani splendidi, in particolare per la capacità di produrre atmosfere malinconicamente crepuscolari e ammantate di una morbosa eleganza.
Altro ragguaglio fondamentale per chi vorrà ascoltare il disco è la totale assenza di qualsiasi rimando alla tradizione musicale araba, a differenza di quanto fatto dai già citati Bilocate: il gothic-doom della band di Zarqa è quanto di più ortodossamente fedele alla tradizione europea si possa immaginare.
Si diceva degli ospiti: il primo a entrare in scena è Josep Brunet degli spagnoli Helevorn, che presta il suo efficace growl all’opener Reaching My Last Haven, brano che non lascia molto spazio all’ottimismo con le sue atmosfere drammatiche che accompagnano un battito cardiaco nel suo lento spegnersi.
In Blight tocca a Pim Blankenstein degli Officium Triste fornire il proprio contributo vocale a una traccia molto evocativa, mentre in Trapped Within si erge a protagonista il violino, cosa che, ovviamente non può che riportare ai capiscuola My Dying Bride.
Silence Again (Silence Pt. II), sequel del brano presente nel demo del 2010, accentua ancor più questa vicinanza ai maestri albionici, collocandosi sulla scia di quella perla di decadenza gotica che fu “For My Fallen Angel”.
Ma è con Vanished Serenity che i Falling Leaves raggiungono, a mio avviso, l’apice del disco: il brano inizia con una meravigliosa melodia di chitarra che introduce il growl del mitico Paul Kuhr (Novembers Doom); il gigantesco (sia per statura artistica che fisica) musicista americano si impadronisce letteralmente del brano regalando anche clean vocals e un recitato da brividi (no sun, no light, no hope…).
Anche quando i sei ragazzi si mettono completamente in proprio (coadiuvati solo dal prezioso violino del musicista norvegese Pete Johansen), come accade negli ultimi due brani, il livello si mantiene assolutamente inalterato e Celestial, in particolare, mette in mostra le ottime doti vocali di Abdul-Aziz oltre alle pennellate chitarristiche di Ala’a e Anas.
I quarantasette muniti del disco volano via senza momenti di noia; se vogliamo trovare il classico pelo nell’uovo (molto sottile in questo caso) non si può fare a meno di notare che, se gli ospiti, con la loro presenza, forniscono una sorta di imprimatur alla band, dall’altra spingono istintivamente la scrittura dei brani che li coinvolgono verso territori più affini ai gruppi di appartenenza.
Ma questi sono aspetti del tutto marginali quando, come nel caso di Mournful Cry Of A Dying Sun, ciò che ne scaturisce è l’ennesima perla di gothic-doom regalataci da questo ricco (purtroppo solo musicalmente parlando …) 2012.

Tracklist :
1. Reaching My Last Haven
2. Blight
3. Trapped Within
4. Silence Again (Silence Pt. II)
5. Vanished Serenity
6. Memories Will Never Fade
7. Celestial
8. Dying Sun (Outro)

Line-up :
Ala’a Swalha – Guitars
Anas Safa – Guitars
Abdul-Aziz – Assaf Vocals
Rami Mazahreh – Drums
Saif Al-Swalha – Bass
Husam Haddad – Keyboards

Graveflower – Return To The Primary Source

Chiudete gli occhi e lasciatevi cullare dalle note dolenti di My Turn, brano che dopo un intro acustica lascia spazio alle struggenti clean vocals di Aaron Stainthorpe … ; poi riapriteli e passate direttamente alle note informative relative alla band e scoprirete che il cantante in realtà risponde al nome di Vladimir Semenischev e che, come i musicisti che lo accompagnano, non proviene dalle brumose lande albioniche ma dalla ben più lontana Ekaterinburg (Russia).

Questo tipo di introduzione serve a far capire quanto il disco dei Graveflower sia debitore nei confronti del sound che i My Dying Bride hanno contribuito a creare nella prima metà degli anni ’90 e, a conti fatti, tutto questo finisce per costituirne sia il maggiore pregio sia il principale difetto.
Non c’è alcun dubbio, infatti, che la band russa riesca a riportare in vita in maniera efficace e appropriata le sonorità che hanno contraddistinto pietre miliari del doom/death come “Turn Loose The Swans” o “The Angel And The Dark River” ma, d’altra parte, l’adesione al modello originario in certi frangenti è talmente fedele da sfiorare il plagio.
Pertanto riesce difficile fornire un giudizio obiettivo e soprattutto slegato da quanto appena osservato: chi, come il sottoscritto, ama in maniera incondizionata questo genere musicale, non può evitare di farsi coinvolgere dalla bravura di Vladimir e soci nel comporre brani al rallentatore, dal mood romantico e decadente, e l’ascolto ripetuto di questo lavoro trasmette sensazioni in gran parte positive. Detto questo, e ribadito che il doom, per sua natura, non si presta a troppe divagazioni o commistioni stilistiche, è innegabile che dai Graveflower per il futuro ci si attende quanto meno uno scostamento più deciso dai canoni espressivi che la band dello Yorkshire ha dettato due decenni or sono.
Alla fine il verdetto per la band russa è di assoluzione, sia pure con tutte le riserve già esposte, con le seguenti motivazioni : 1) Return To The Primary Source, se spogliato di ogni ingombrante termine di paragone, è un bel disco, considerando tra l’altro che si tratta del passo d’esordio. 2) Se i My Dying Bride decidessero un giorno di tornare alle sonorità e all’intensità emotiva degli esordi, immagino che la cosa sarebbe accolta con favore dalla maggior parte dei fans, quindi il fatto che qualcun’altro li abbia in qualche modo anticipati non mi pare così deprecabile ….

Tracklist :
1. White Noise
2. My Turn
3. Rain in Inferno
4. Just a Moment
5. Falling Leaves
6. Autumn Within
7. Rain Without End

Line-up :
Danil Aleshin – Drums
Dimitry Solodovnikov – Guitars
Andrey Pilipishin – Guitars
Vladimir Semenischev – Vocals, Bass

Nethermost – Alpha

Certamente questo primo assaggio mostra una band dalle idee molto chiare, per quanto certo non innovative

Interessante Ep di esordio per questa band con base a Laredo (Texas), composta da John Johnston alla voce e da Cynthia e Waldo Rocha a occuparsi di tutti gli strumenti.

Alpha si compone di quattro brani nei quali viene esibito un gothic-doom influenzato dai Paradise Lost e dai primi Katatonia ; i Nethermost sono autori di una proposta molto lineare e priva di fronzoli e proprio per questo, ancora più apprezzabile.
Intanto, nonostante una presenza femminile nella line-up, viene smentito subito il clichè che in questi casi prevede la scontata dicotomia tra growl e voci angeliche, con il solo John a occuparsi delle parti vocali, mentre Cynthia con la sua chitarra tratteggia melodie malinconiche ma supportate da una base ritmica piuttosto vivace.
Certamente questo primo assaggio mostra una band dalle idee molto chiare, per quanto certo non innovative; assodato che un brano come Tower Of The Winds è un autentico gioiello, il trio dovrebbe concentrarsi sull’obiettivo di diversificare maggiormente la proposta.
Infatti, l’unica critica che si può rivolgere a un lavoro come Alpha è la sua eccessiva uniformità: le quattro tracce suonano in maniera piuttosto simile tra di loro e impostate su un classico mid-tempo, caratteristiche queste che, se non costituiscono un problema su una durata inferiore ai venti minuti, potrebbero rivelarsi controproducenti nel momento in cui i Nethermost dovessero decidere di cimentarsi sulla lunga distanza.
Comunque per ora molto bene così; considerando che l’Ep è autoprodotto, una label che volesse farsi avanti potrebbe ricavare notevoli soddisfazioni da questa band.

Tracklist :
1. Phasing Currents
2. The Untroubled Kingdom of Reason
3. Tower of the Winds
4. Dance of Burning Beasts

Line-up :
Cinthya Rocha – Lead Guitars
Waldo Rocha – Rhythm Guitars, Programming
John Johnston – Vocals

Bretus – In Onirica

Quest’album possiede secondo me, tra gli altri pregi, quello di essere appetibile anche per un pubblico non di “settore”, intendendo con questo che, anche chi non fosse avvezzo alle tipiche sonorità del doom, potrà apprezzare compiutamente la grande musica racchiusa all’interno di “In Onirica”.

Giuntomi dopo un’audace quanto improbabile, fino a qualche anno fa, triangolazione Catanzaro – Donetsk – Genova, il cd dei Bretus si rivela di valore direttamente proporzionale al numero dei chilometri (reali e virtuali) percorsi.

L’esordio su lunga distanza della stoner band calabrese è l’ennesima gemma preziosa che si va ad aggiungere alla già cospicua collezione di cui si fa vanto la scena italiana in questo 2012 smentendo, almeno dal punto di vista strettamente musicale, chi da tempo ne recita il “de profundis”…
In Onirica inizia con una serie di ululati che introducono Insomnia, brano che nella sua alternanza tra doom classico e momenti più psichedelici delinea quello che sarà il tema che ci accompagnerà lungo l’intera durata dell’album: pezzi mediamente lunghi ma non prolissi, ritmi cadenzati ma non pachidermici, riff pesanti ma non monolitici, con tutti i musicisti sempre in bella evidenza e naturalmente predisposti a variazioni di tempo e di atmosfere perfettamente amalgamate al contesto.
The Dawn Breeds e Down in The Hollow si mantengono al livello qualitativo dell’opener, mentre Leaves Of Grass è un piacevole intermezzo psichedelico strumentale.
Il riffone che apre Escape ci ricorda prepotentemente che ci si muove comunque in territori doom, per quanto le sonorità care a Saint Vitus e Candlemass siano costantemente arricchite da venature psichedeliche e prog; Forest Of Pain è un ulteriore traccia di estremo valore, dall’incipit che sfiora il blues per poi dipanarsi in passaggi più rocciosi e di rara intensità.
Tutto questo basterebbe e avanzerebbe per definire In Onirica un album del tutto riuscito, ma l’autentico valore aggiunto arriva con il brano di chiusura, lo strumentale The Black Sleep, otto minuti di delirio dark-psichedelico, graziati dal prezioso contributo dell’hammond a cura dell’ospite Gabriel Gigliucci.
Un consiglio, forse superfluo, che mi sento di fornire, è quello di gustare l’album nella sua interezza, cosa tutt’altro che complessa visto che il quartetto ha contenuto la durata complessiva entro i quaranta minuti. Zagarus con la sua voce evocativa e perfetta per il genere, Ghenes e Faunus sempre incisivi alle quattro e sei corde, coadiuvati dal fondatore della band Neurot, qui in veste di ospite, e Sest con il suo efficace lavoro percussivo, compongono una squadra vincente nella quale il collettivo spicca molto più delle comunque notevoli doti dei singoli.
Quest’album possiede secondo me, tra gli altri pregi, quello di essere appetibile anche per un pubblico non di “settore”, intendendo con questo che, anche chi non fosse avvezzo alle tipiche sonorità del doom, potrà apprezzare compiutamente la grande musica racchiusa all’interno di In Onirica.

Tracklist:
1. Insomnia
2. The Dawn Bleeds
3. Down in the Hollow
4. Leaves of Grass
5. Escape
6. Forest of Pain
7. The Black Sleep

Line-up :
Zagarus – Vocals
Ghenes – Bass, Guitars
Faunus – Guitars
Sest – Drums

Darkend – Grand Guignol–Book I

Ci troviamo davanti a un disco dalla qualità inusuale che, nonostante una durata superiore all’ora, è del tutto privo di momenti morti o di tracce semplicemente interlocutorie.

Premessa: un disco come questo dovrebbe raccogliere consensi unanimi ma non è difficile presagire che qualcuno possa trovarlo eccessivamente derivativo; in effetti, se da una parte non si può negare che i Dark End traggano abbondante ispirazione dalle migliori produzioni dei maestri del genere quali Dimmu Borgir o Cradle Of Filth, dall’altra è innegabile che il black metal sinfonico proposto dal gruppo reggiano riesca ad annientare l’insieme delle uscite plastificate e ricche di forma, quanto prive di sostanza, sfornate nell’ultimo decennio non solo dai numerosi epigoni, ma anche dalle stesse band appena citate.

I nostri giungono così al terzo full-length in sei anni e, nonostante il buon valore che accomunava le precedenti uscite, la loro popolarità è sempre rimasta confinata a livello underground; Grand Guignol – Book I potrebbe e dovrebbe risultare decisivo per cambiare questo stato di cose.
Nonostante sia stato pubblicato senza il supporto di un’etichetta vera e propria, questo lavoro è stato curato dai suoi autori fin nei minimi dettagli, ivi compresi il lato grafico e quello lirico: citando la band, il disco “è la prima parte di un complesso concept filosofico riguardante le comuni radici di occultismo, spiritualismo, martirio e rituali di magia bianca e nera”
Non ritenendomi sufficientemente preparato ad affrontare in maniera approfondita tali tematiche, mi astengo dal fare del mero copia-incolla e mi limito a osservare che testi così impegnativi, pur se di non facile interpretazione, costituiscono qualcosa in più di un semplice valore aggiunto all’aspetto che più ci interessa, cioè quello musicale.
In questo senso ci troviamo davanti a un disco dalla qualità inusuale che, nonostante una durata superiore all’ora, è del tutto privo di momenti morti o di tracce semplicemente interlocutorie. Ogni brano vive di luce propria in una pirotecnica alternanza di atmosfere, ora di stampo sinfonico, ora ritmate e aggressive, in ogni caso accomunate da un gusto melodico fuori dal comune e da un contributo vocale e strumentale privo di sbavature.
A differenza di quanto accade nella stragrande maggioranza dei casi in uscite di stampo analogo, le tastiere non finiscono per saturare il disco con la loro onnipresenza, ma si rivelano una componente perfettamente amalgamata al resto della strumentazione.
Come ho già avuto occasione di affermare in altri frangenti, partendo dall’assunto che resta ben poco da inventare in ambito musicale, un’opera come quella dei Dark End colpisce per freschezza, creatività e perizia compositiva e chi la snobberà considerandola alla stregua di una stantia operazione di riciclo commetterà un grave errore di valutazione.
Quindi non si vede perchè, chi nelle nostre lande contribuisce ancora oggi a decretare il successo degli ormai inoffensivi Dimmu Borgir o degli altalenanti Cradle Of Filth, non debba concedersi la possibilità di volgere lo sguardo nei pressi per ascoltare del black sinfonico suonato con tutti i crismi e ancora in grado, nonostante tutto, di stupire.

Tracklist :
1. Descent/Ascent (II Movement)
2. Æinsoph: Flashforward to Obscurity
3. Doom: And Then Death Scythed
4. Spiritism: The Transmigration Passage
5. Bereavement: A Multitude In Martyrized Flesh
6. Grief: Along Our Divine Pathway
7. Bleakness: Of Secrecy, Haste and Shattered Crystals
8. Pest: Fierce Massive Slaying Grandeur
9. Decrepitude: One Last Laugh Beside Your Agonies
10. Dawn: Black Sun Rises

Line-up :
Valentz – Drums
Antarktica – Keyboards
Animæ – Vocals
Specter – Bass
Ashes – Guitars
Nothingness – Guitars

Krief De Soli – Munus Solitudinis

“Munus solitudinis” è un’esperienza sonora che respingerà senza alcuna misericordia chiunque vi si avvicini privo della necessaria “conoscenza” che il funeral impone, ma che, al contrario, attrarrà come una falena chi possiede la sensibilità per farsi avvolgere dalle spire di questo puro concentrato di angoscia esistenziale.

I Krief De Soli tornano sulle scene con il secondo disco che segue, a due anni di distanza, l’interessante “Procul Este, Profani…” ; la one-man band canadese (Quebec), creatura del misterioso Egregoire De Sang, continua sulla strada già tracciata proponendo un funeral doom che estremizza in senso claustrofobico quanto già concepito in passato dai capiscuola del genere.

Per meglio chiarire le sonorità presenti in Munus Solitudinis, si potrebbe dire che questo lavoro, come già il suo predecessore, si pone come un’ideale evoluzione di quel monumento alla mestizia quale fu “Tides Of Awakening”, rimasto l’unico parto su lunga distanza dei Tyranny.
Evidentemente, pur non essendo il funeral certamente musica per tutti, questa sua particolare espressione si rivela, se possibile, ancora più ostica e di tormentata assimilazione; in gran parte dei suoi quasi settanta minuti, il disco si presenta come un inaccessibile monolite sonoro che, alla stregua di una processione di dannati, procede con lentezza esasperante verso una fine che pare non giungere mai.
Il growl di Egregoire è una sorta di rantolo che ben si addice alle atmosfere presenti nel lavoro, come si evince dalla prima traccia, che chiarisce subito gli intenti del nostro sia per il suo titolo, Nascentes Morimur, che per la sua durata superiore ai venti minuti.
Vita Memoriae – Exordium Sanctus è un breve (se rapportato al resto del disco) strumentale che rappresenta una pausa all’interno dell’ineluttabile cammino verso il nulla.
Ma è con Vita Memoriae – Apogaeus Rerum Vitae che il musicista canadese raggiunge il suo apice compositivo: partendo dalle medesime atmosfere della traccia iniziale, il brano si apre progressivamente verso un barlume di luce, un’illusoria speranza descritta con uno stile meno apocalittico e molto vicino al malinconico incedere dei magnifici Ea; la chitarra tratteggia pochi ma toccanti accordi e il senso di soffocamento lascia finalmente spazio alla commozione per ciò che non è stato e, sopratutto, per ciò che mai sarà …
Deo Volente… Caelo Tegi riporta il disco alle atmosfere soffocanti che tornano così a raffigurare quelli che potrebbero essere gli estremi ansiti di vita (ammesso che una vita ci sia mai stata), mentre Sanguis Et Umbra Sumus è dolore puro portato a livelli parossistici tanto che, quando si giunge all’ultima nota, non si capisce se si tratti di una liberazione o se questa sorta di catarsi purificatrice, per compiersi, debba continuare all’infinito.
Munus Solitudinis è un’esperienza sonora che respingerà senza alcuna misericordia chiunque vi si avvicini privo della necessaria “conoscenza” che il funeral impone, ma che, al contrario, attrarrà come una falena chi possiede la sensibilità per farsi avvolgere dalle spire di questo puro concentrato di angoscia esistenziale.

Tracklist :
1. Nascentes Morimur
2. Vita Memoriae – Exordium Sanctus
3. Vita Memoriae – Apogaeus Rerum Vitae
4. Deo Volente… Caelo Tegi
5. Sanguis Et Umbra Sumus

Line-up :
Egregoir de Sang

Ecnephias – Inferno

“Inferno” possiede tutto ciò che servirebbe per fare breccia anche in una parte di pubblico non di settore: tracce dallo straordinario impatto emotivo, contraddistinte da melodie evocative e inserite in un tessuto sonoro all’altezza di grandi nomi del metal mediterraneo

Anche se con colpevole ritardo è d’obbligo dedicare il giusto spazio a quella che, a mio modesto parere, è stata in assoluto una delle migliori uscite in ambito metal del 2011.

Gli Ecnephias, con un disco come Inferno, si cimentano nell’ardua impresa di incrinare il muro di indifferenza eretto dall’ambiente musicale nei confronti di tutto ciò che non risulta convenzionale o rassicurante; purtroppo, in un paese sempre più ostaggio delle cariatidi sanremesi e dei polli d’allevamento dei reality show, appare sempre più improbabile un’apertura di credito nei confronti di chi riesce a offrire prodotti di qualità spinto solo da un’etichetta indipendente, da qualche volonterosa webzine e dalle poche riviste specializzate. Certo, se Mancan e soci invece che a Potenza fossero nati a Oslo o a Helsinki, probabilmente questo lavoro veleggerebbe in buona posizione nelle classifiche di vendita di quei paesi e i pezzi trainanti passerebbero con la dovuta frequenza nei programmi radiofonici e televisivi; al contrario, nella nostra italietta musicale, ci si guarda bene dal fornire a brani penetranti e provocatori, come A Satana e Chiesa Nera, l’opportunità di scandalizzare i benpensanti tramite i consueti canali di comunicazione. Eppure Inferno possiede tutto ciò che servirebbe per fare breccia anche in una parte di pubblico non di settore: per esempio tracce dallo straordinario impatto emotivo, contraddistinte da melodie evocative e inserite in un tessuto sonoro all’altezza di grandi nomi del metal mediterraneo come Rotting Christ, Moonspell e Septic Flesh. In particolare, la band di Sakis funge anche da riferimento per quanto riguarda l’uso promiscuo della lingua madre e dell’inglese, cosa peraltro già sperimentata nel precedente “Ways Of Descention” ma che, in questo caso, avviene in maniera ancor più convinta e incisiva, vista la maestria con la quale vengono maneggiati i testi in italiano; ne è la riprova un brano come Chiesa Nera, inserito come bonus-track, che risulta molto più efficace del suo corrispondente anglofono In My Black Church. Gli Ecnephias non fanno occultismo di bassa lega, i loro testi spesso traggono spunto da monumenti della letteratura come Carducci o Blake, passando con disinvoltura da momenti caratterizzati da una sarcastica provocazione ad altri carichi di oscuro e tetro lirismo. Chi ama le band citate in precedenza, non può e non deve ignorare brani come A Satana (da vedere assolutamente il video), con il suo accattivante ritornello che ti ritrovi a canticchiare senza accorgertene (con tutte le possibili conseguenze del caso …), la trascinante Buried In The Dark Abyss, la magnifica Voices Of Dead Souls esaltata da un chorus intenso come pochi, l’evocativa Secret Ways, la poetica Lamia (dall’intensità emotiva vicina a un omonimo brano datato 1974 …) e l’eretica Chiesa Nera. Con un quadro complessivo di simile valore cosa impedisce, dunque, agli Ecnephias di raggiungere livelli di notorietà più consoni al loro valore? Di certo non viene richiesto un cambiamento né a Mancan né agli ottimi musicisti che lo affiancano nella band, semmai questo dovrebbe riguardare il contesto musicale e culturale in cui sono costretti, loro malgrado, a muoversi: sarà anche vero che “nemo propheta in patria est” ma gli Ecnephias possiedono sia la giusta attitudine sia il necessario talento per provare a sovvertire questa situazione.

Tracklist :
1. Naasseni
2. A Satana
3. A Stealthy Hand of an Occult Ghost
4. Buried in the Dark Abyss
5. Fiercer than any Fear
6. Voices of Dead Souls
7. Secret Ways
8. In my Black Church
9. Lamia
10. Chiesa Nera

Line-up :
Mancan – Vocals, Guitars, Programming
Sicarius Inferni – Keyboards
Demil – Drums
Nikko – Guitars

Process Of Guilt – Fæmin

Paradossalmente l’unico autentico problema dei Process Of Guilt è che, dopo un album di questa levatura, riuscire a fare meglio sarà pressoché impossibile : un cruccio che molte band vorrebbero avere …

Avevamo lasciato nel 2009 i Process Of Guilt alle prese con “Erosion”, lavoro nel quale erano state gettate le basi per una trasformazione del sound in qualcosa di diverso dal pur valido death-doom degli esordi.

Di fronte a un certo immobilismo stilistico, sia pure tutt’altro che sgradito, da parte della maggioranza delle band dedite al genere, l’evoluzione costante del gruppo portoghese appare ancora più strabiliante, alla luce del risultato che scaturisce da questo disco.
In Fæmin, infatti, la malinconia e la rassegnazione, che erano il tratto distintivo delle produzioni precedenti, sono accantonate per lasciare spazio alla rabbia e all’aggressività rappresentate da sonorità che, riportando al post-metal dei Neurosis, all’industrial claustrofobico dei Godflesh, ma anche ai primi lavori dei sottovalutati Disbelief, vengono esibite con una personalità sorprendente, pur senza abiurare l’attitudine monolitica del doom.
Il disagio esistenziale e il rifiuto di una realtà sempre più alienante, si manifestano tramite brani pachidermici, paragonabili a schiacciasassi che con il loro lento incedere travolgono tutto ciò che incontrano sul loro percorso, in maniera inarrestabile.
La voce di Hugo, parallelamente al sound della band, ha abbandonato il growl profondo che conoscevamo e si è trasfigurata in un ringhio, un urlo carico d’odio proveniente dagli abissi più reconditi della psiche umana; la piattaforma sonora su cui poggia è costituita da riff plumbei e ossessivi e da una base ritmica che martella in maniera pressoché incessante.
I brani presenti sono cinque, ma il fatto che siano collegati tra di loro rende, di fatto, Fæmin un corpo unico, un incubo sonoro che, per le nostre convenzioni spazio-temporali, dura solo quaranta minuti, ma che in realtà sembra non doversi arrestare mai; un’esperienza sonora che annichilisce per la sua intensità e che, per quanto ci si possa provare, le parole non riescono a descrivere in maniera esaustiva.
Paradossalmente l’unico autentico problema dei Process Of Guilt è che, dopo un album di questa levatura, riuscire a fare meglio sarà pressoché impossibile : un cruccio che molte band vorrebbero avere …

Tracklist :
1. Empire
2. Blindfold
3. Harvest
4. Cleanse
5. Fæmin

Line-up:
Custódio Rato – Bass
Gonçalo Correia – Drums
Nuno David – Guitars
Hugo Santos – Vocals, Guitars

PROCESS OF GUILT – Facebook

SaturninE – SaturninE

Le SaturninE hanno deciso di esplorare il lato oscuro dell’universo musicale e l’hanno fatto con la giusta attitudine unita a una certa dose di talento

Le SaturninE sono cinque ragazze italiane che, invece di inseguire improbabili sogni di fama e ricchezza in campo musicale mettendo in gioco la propria dignità nella melensaggine dei talent-show, hanno deciso, per fortuna, di sfogare la loro creatività formando una band sludge-doom; dico “per fortuna”, anche perché ciò che ne scaturisce è un lavoro davvero sorprendente per pathos e intensità, il tutto considerando inoltre che ci troviamo di fronte ad una autoproduzione.

Il sound prodotto è una miscela esplosiva di dark e doom metal e, pur attingendo ovviamente ai grandi nomi del passato, mostra costantemente una freschezza invidiabile riuscendo nell’impresa di non apparire eccessivamente derivativo.
Le chitarre erigono un roccioso muro sonoro senza disdegnare efficaci passaggi solistici, il supporto ritmico è puntuale, mentre la voce di Laura è il classico growl femminile, più abrasivo che profondo, forse perfettibile (come del resto l’intera resa strumentale) con l’ausilio di una migliore produzione, ma efficace in ogni passaggio.
Nella mezz’ora di musica proposta, i brani vivono spesso dell’alternanza tra parti rallentate e violente accelerazioni, aspetto che non fa mai venire meno la tensione emotiva all’interno di un lavoro nel quale spicca prepotentemente una traccia come Orgy Of Blood, che regala sette minuti abbondanti di cupe emozioni; degno di nota anche l’omaggio ai Bathory con la riuscita cover di Call From The Grave.
Le SaturninE hanno deciso di esplorare il lato oscuro dell’universo musicale e l’hanno fatto con la giusta attitudine unita a una certa dose di talento; possiamo solo augurare loro di trovare un’etichetta lungimirante che abbia voglia di puntare su una band dotata di un simile potenziale.

Tracklist :
1. Intro
2. Abyss
3. Death Reaper
4. Orgy Of Blood
5. Stench Of Decay
6. Call From The Grave
7. Outro

Line-up :
Jex – Bass
Angelica – Drums
Silvia – Guitars
Giulia – Guitars
Laura – Vocals

Valkiria – Here The Day Comes

Una piacevole scoperta per chi non conosceva i Valkiria e una conferma dello stato di salute di una scena come quella nostrana che, pur tra ogni genere di avversità, appare in grado di sfornare con buona continuità lavori di livello assoluto come “Here The Day Comes”

Gli ultimi mesi ci stanno regalando diverse uscite davvero magnifiche provenienti dal versante più oscuro del metal; un piacere che aumenta in maniera esponenziale e che ci rende (finalmente) orgogliosi visto che alcune di queste sono ad opera di band italiane.

Infatti, dopo gli imperdibili lavori degli Ecnephias di Mancan (che in passato ha collaborato proprio con i Valkiria) e dei The Foreshadowing, tocca ora alla creatura di Valkus dare alle stampe un’autentica perla che riporta in vita il gothic-death doom nella sua essenza più pura, quando album come “The Silent Enigma”, “Dance Of December Souls” e “Turn Loose The Swans” dettavano i canoni stilistici di un genere capace di regalare emozioni come pochi altri.
Here The Day Comes è un concept, che, come si può evincere dal titolo dei brani, è incentrato sul racconto dei diversi momenti della giornata, visti come metafora dell’intera esistenza; il disco, che si avvale della preziosa collaborazione di Giuseppe Orlando alla batteria, si rivela fin dall’iniziale Dawn un commovente compendio di arte tetra e malinconica; Sunrise (da vedere lo splendido video) e Morning trasportano l’ascoltatore attraverso le loro atmosfere cupe e decadenti mentre, da Sunset in poi, il mood si fa ancor più fosco e opprimente in ossequio al calare delle tenebre.
Questa è la tipica opera che richiede un ascolto integrale per favorire una migliore assimilazione e la lunghezza non eccessiva aiuta molto in questo senso; dal canto loro, i Valkiria sfuggono al rischio di risultare una copia sbiadita dei campioni del passato grazie alla sensibilità compositiva e all’imponente impatto emotivo infuso in Here The Day Comes nella sua interezza.
Difficile trovare qualcosa che non funzioni nella proposta di Valkus e Mike: volendo cercare il classico pelo nell’uovo, forse sarebbe stato preferibile l’utilizzo del growl in vece dello screaming che, personalmente, reputo più adatto al black metal, ma anche così non viene mai meno il senso di fatale rassegnazione che aleggia nel disco al cospetto dell’ineluttabile scorrere del tempo.
Una piacevole scoperta per chi non conosceva i Valkiria e una conferma dello stato di salute di una scena come quella nostrana che, pur tra ogni genere di avversità, appare in grado di sfornare con buona continuità lavori di livello assoluto come Here The Day Comes.

Tracklist :
1. Dawn
2. Sunrise
3. Morning
4. Afternoon
5. Sunset
6. Evening
7. Night

Line-up :
Valkus Valkiria – Vocals, All Instruments
Mike – Guitars
Giuseppe Orlando – Drums

Dead Summer Society – Visions From A Thousand Lives

Il grande pregio dell’album risiede nella sua apparente semplicità, espressa attraverso un sound lineare e privo di inutili barocchismi che lascia fluire, ascolto dopo ascolto, tutte le emozioni che questo genere musicale riesce a evocare.

Dead Summer Society è il progetto solista di Mist (al secolo Emiliano Santoro), conosciuto nell’ambiente per la sua militanza nella gothic-doom band How Like A Winter, autrice nell’ormai lontano 2003 dell’ottimo “…Beyond My Grey Wake”.

Dopo l’esordio nel 2010 con il demo “The Heart Of Autumnsphere”, interamente strumentale, il musicista molisano, con Visions From A Thousand Lives, introduce una novità sostanziale scegliendo di utilizzare anche le vocals, sia maschili che femminili; pur mantenendo l’impostazione della one-man band, sicuramente questa innovazione fornisce a Mist un ulteriore elemento sul quale impostare la struttura dei brani.
Diciamo subito che l’operazione riesce in maniera più che soddisfacente, sia pure con qualche riserva sull’uso della voce femminile, che a mio avviso si addice più a un gothic-doom dal carattere commerciale piuttosto che all’ambito oscuro e decadente che caratterizza quest’album, dove al contrario spicca l’ottimo growl dell’ospite Trismegisto.
Poco male, se la maggioranza della musica proposta è di altissimo livello, capace di emozionare sia attraverso i toccanti fraseggi pianistici sia quando le chitarre prendono il sopravvento mantenendo sempre e comunque vivo il senso di malinconia che pervade il lavoro.
La bravura di Mist risiede nella capacità di proporsi in un genere ormai dai confini ben definiti, senza aderire in maniera banale ai consueti modelli, cosicché il disco mostra una sufficiente varietà stilistica passando da brani contraddistinti da una vena più intimista (I Met You In Heaven And Hell, The Way) ad altri dalle sonorità prossime al death-doom più atmosferico, come la splendida Army Of Winter, nuova versione del brano incluso nel demo del 2010 e posta in chiusura dell’album.
In altre occasioni le due anime riescono a convivere in armonia senza che il risultato finale appaia simile a una convivenza forzata (Shadow I Bear, con un inquietante passaggio recitato in italiano, The King’s Alone, Down On You).
Il giudizio nei confronti di Visions From A Thousand Lives è assolutamente positivo e, chi è alla costante ricerca di atmosfere cupe e malinconiche, troverà pieno appagamento; probabilmente la decisione presa da Mist, di rinunciare a una proposta integralmente strumentale, ha fornito nuovi sbocchi al suo metodo compositivo, riuscendo del tutto ad annullare quel senso di frammentarietà che è il difetto comune alla maggior parte delle one-man band.
Il grande pregio dell’album risiede nella sua apparente semplicità, espressa attraverso un sound lineare e privo di inutili barocchismi che lascia fluire, ascolto dopo ascolto, tutte le emozioni che questo genere musicale riesce a evocare.
Dead Summer Society è un progetto che, certamente, in un prossimo futuro ci fornirà ulteriori grandi soddisfazioni; inoltre, questo lavoro acquisisce ulteriore valore se pensiamo che è stato pubblicato senza il supporto di un’etichetta, lacuna che ci auguriamo possa essere colmata al più presto.

Tracklist :
1. Explicit
2. I Met You in Heaven and Hell
3. Shadow I Bear
4. The King’s Alone
5. Down on You
6. Her White Body, From the Coldest Winter
7. Last Winter I Died
8. The Way
9. Within Your Scars
10. Unreal
11. I Fade
12. Army of Winter (March of the Thousand Voices)

Line-up :
Mist – All Instuments

Guests :
Trismegisto – Vocals
Federica Fazio – Vocals

Wedding In Hades – Misbehaviour

I Wedding In Hades confermano le buone impressioni destate con il precedente “Elements Of Disorder” approdando a un gothic-doom raffinato e perfettamente inserito nel solco della tradizione del genere

I francesi Wedding In Hades giungono alla seconda prova su lunga distanza sotto l’egida della BadMoodMan, label affiliata alla Solitude e, quindi, sinonimo di qualità assoluta.

Misbehaviour non delude le attese, presentando un band in grado di tessere trame musicali costantemente in bilico tra death-doom e gothic, sulla scia di quanto fatto dai My Dying Bride, particolarmente nella prima parte della loro carriera.
Del resto, nel commentare le nuove uscite in questo campo, il nome della band di Aaron Stainthorpe viene spesso citato, ma non sempre a proposito; in questo caso, invece, un brano come Forsaken, che apre alla grande il disco, riporta subito alle atmosfere di “As The Flower Withers”, con tanto di “growl a cappella” simile a quello presente nella magnifica “Sear Me”.
Nella successiva traccia, Men To The Slaughter, emerge una vena melodica più affine ai Saturnus, mentre Sleeping Beauty richiama in maniera evidente i Type O Negative, anche per le clean vocals dall’impostazione simile a quella del compianto Peter Steele; questo dimostra che la band transalpina non si limita affatto a ricalcare pedissequamente un solo modello stilistico, cercando invece di rielaborare in maniera tutt’altro che scontata quanto prodotto in passato dai nomi più conosciuti della scena.
Operazione che riesce alla perfezione con Dust In A Stranger’s Eyes, brano a dir poco superlativo dalle atmosfere diluite e malinconiche e Regrets, con un bellissimo pianoforte a impreziosire una trama musicale gravata di mestizia.
The One To Blame appare come l’unico momento discutibile a causa delle sue brutali accelerazioni che stridono rispetto a quanto ascoltato nel resto dell’album; le cose tornano a posto con la sognante e delicata Almost Living e con la ripresa di Men To The Slaughter, che chiude degnamente un lavoro di pregevole qualità.
I Wedding In Hades confermano le buone impressioni destate con il precedente “Elements Of Disorder” approdando a un gothic-doom raffinato e perfettamente inserito nel solco della tradizione del genere; la prova strumentale del quartetto francese è impeccabile, così come la prestazione dietro il microfono di S.Toutain è convincente sia con il growl sia quando ci cimenta con le clean vocals, anche se in quest’ultimo caso la pronuncia inglese è rivedibile a causa del persistere di un forte accento francofono.
Nulla che possa inficiare, più di tanto, un album che merita di trovare un posto di riguardo nella collezione di chi è costantemente alla ricerca di emozioni in musica.

Tracklist :
1. Forsaken
2. Men to the Slaughter
3. Sleeping Beauty
4. Dust in a Stranger’s Eyes
5. Regrets
6. The One to Blame
7. Almost Living (But Not Dead Yet)
8. Men to the Slaughter (Reprise)

Line-up :
V. Lahaeye – Drums, Backing Vocals
D. Simon – Rhythm & Lead Guitars
O. Raoult – Keyboards
S. Toutain – Vocals, Bass, Acoustic & Nylon Stings Guitars

Obsidian Sea – Between Two Deserts

“Between Two Deserts” è un album che verrà sicuramente apprezzato per la sua ortodossia da chi ama il genere

Davvero interessante la proposta di questa band esordiente proveniente dalla Bulgaria.

Gli Obsidian Sea sono un duo, attivo dal 2009, le cui sonorità attingono alla tradizione doom delle band scandinave (Candlemass, Reverend Bizarre) e d’oltreoceano (Saint Vitus); se, ovviamente, questa premessa fa intuire che non ci si debbano attendere grandi variazioni sul tema, ciò che rende apprezzabile l’operato della band balcanica sono il gusto e l’abilità nel maneggiare la materia, facendo sì che l’influenza dei nomi citati si limiti a fornire un canovaccio da seguire, senza per questo scadere in una riproposizione scolastica degli stilemi del genere.
Between Two Deserts, si presenta così, come un bel monolite di doom classico, dominato dall’efficace voce di Anton e dai suoi riff pesanti ed efficaci, pur nella loro apparente semplicità; il disco scorre in maniera fluida fin dall’opener At the Temple Doors, mettendo subito sul piatto quelle che sono le caratteristiche peculiari del disco, mentre con The Seraph i ritmi si fanno leggermente più sostenuti per quella che si presenta come la traccia dai toni meno plumbei.
I brani possiedono tutti una notevole carica evocativa e, nonostante una certa uniformità di fondo, riescono sempre a mantenere desta l’attenzione dell’ascoltatore; operazione che va a buon fine anche quando gli Obsidian Sea decidono di collocare i due episodi più lunghi e pachidermici proprio alla fine del lavoro, rivelandosi sia Beneath, sia Flaming Sword, due efficaci dimostrazioni di sonorità rallentate e avvolgenti.
Between Two Deserts è un album che verrà sicuramente apprezzato per la sua ortodossia da chi ama il genere; le residue perplessità, che potrebbero derivare dall’assenza di elementi innovativi, vengono spazzate via dalla notevole qualità della proposta nel suo insieme; inoltre, considerando che si tratta pur sempre di un esordio e che i musicisti provengono da un’area geografica che non ha alle spalle una grande tradizione in ambito doom metal (ci vengono in mente i soli Darkflight e Solarfall, ma sul versante death/funeral), abbiamo la sensazione che la band di Sofia sia solo all’inizio di un percorso musicale che si prospetta ricco di soddisfazioni.

Tracklist :
1. At the Temple Doors
2. Mountain Womb
3. The Seraph
4. Impure Days
5. Curse of the Watcher
6. Absence of Faith
7. Second Birth
8. Beneath
9. Flaming Sword

Line-up :
Anton – Vocals, Guitar, Bass
Bozhidar – Drums

The Foreshadowing – Second World

Continua inarrestabile l’ascesa dei The Foreshadowing che, con Second World, pubblicano il disco della definitiva consacrazione.

Continua inarrestabile l’ascesa dei The Foreshadowing che, con Second World, pubblicano il disco della definitiva consacrazione.

Già con l’esordio “Days Of Nothing” e con il successivo, splendido, “Oionos”, la band romana aveva gettato le basi per imporsi come uno dei nomi di punta della scena nostrana: chiunque avesse assistito a un loro concerto aveva potuto facilmente verificare le potenzialità di un gruppo al quale la dimensione underground stava decisamente stretta.
Questo lavoro, mixato e masterizzato da Dan Swanö agli Unisound Studios, riesce in maniera stupefacente a fondere le due anime che, nei dischi passati, talvolta lottavano per prendere il sopravvento l’una sull’altra: il cupo death-doom e il dark raffinato trovano il loro punto d’incontro in un gothic che prende il meglio da entrambe le matrici senza rinnegarle in alcun modo.
Marco Benevento rinuncia del tutto alle asprezze del passato, stabilizzandosi sulle sue tonalità calde e profonde, vicine a vocalist come Dave Gahan e Sven Friedrich (Dreadful Shadows, chi se li ricorda ascolti con attenzione Noli Timere), mentre anche il resto della band si esprime a livelli stellari grazie a un suono pulito ed energico allo stesso tempo.
Il disco, dal punto di vista lirico è un concept incentrato sulla ribellione della natura nei confronti dell’umanità, tematica magari non inedita ma trattata con la dovuta profondità, mentre sotto l’aspetto musicale, se nella prima metà sono racchiusi i brani più energici, la seconda parte viene riservata invece agli episodi dalle atmosfere più rarefatte senza perdere comunque un’oncia di intensità.
Le dieci tracce sono altrettante gemme incastonate all’interno di quest’opera, ma nonostante ciò alcune risultano ancora più brillanti: Outcast, un brano gothic-doom come non se ne sentivano da tempo, ovvero “quando gli allievi superano i maestri”, The Forsaken Son, dall’incedere drammatico e caratterizzata da un chorus di rara bellezza, Reverie Is A Tyrant, plumbea nei suoi ritmi rallentati e chiusa da un magnifico assolo di chitarra, e soprattutto Aftermaths, letteralmente indimenticabile per le melodie vocali e per la letale chiusura che fa presagire sfracelli quando sarà proposta dal vivo.
Second World è stato pubblicato quasi contemporaneamente a “Tragic Idol”, che viene surclassato, lo dico a malincuore visto l’amore sconfinato che nutro da sempre per i Paradise Lost, in virtù della freschezza compositiva e del livello di perfezione raggiunto dalla band romana, pur senza dimenticare che chiunque affronti questo genere non può prescindere da quanto composto in passato da Gregor Mackintosh e soci.
Ovviamente, proprio per questo, ci saranno sempre i soliti incontentabili che avranno da ridire sull’originalità della proposta: di fronte ad affermazioni di questo tenore l’unica replica possibile viene presa in prestito dal Sommo Poeta: “non ti curar di lor ma guarda e passa”.
A chi, molto più prosaicamente, si “accontenta” di ricercare emozioni nella musica che ascolta, i The Foreshadowing hanno regalato un autentico capolavoro …

Tracklist :
1. Havoc
2. Outcast
3. The Forsaken Son
4. Second World
5. Aftermaths
6. Ground Zero
7. Reverie Is a Tyrant
8. Colonies
9. Noli Timere
10. Friends of Pain

Line-up :
Jonah Padella Drums
Andrea Chiodetti Guitars
Alessandro Pace Guitars
Francesco Sosto Keyboards, Backing Vocals
Marco Benevento Vocals
Francesco Giulianelli Bass

Evadne – The Shortest Way

Un autentico gioiello che gli appassionati del genere non devono lasciarsi sfuggire per alcun motivo.

Il secondo album degli iberici Evadne trova nella Solitude un’etichetta in grado finalmente di valorizzarlo e distribuirlo come merita, dopo la sua iniziale uscita come autoproduzione alla fine dello scorso anno.

Per valutare i progressi della band di Valencia può rivelarsi utile fare un raffronto con il precedente “The 13th Condition”, risalente al 2007, lavoro che, pur denotando ottimi spunti e collocandosi ad un livello più che discreto, denotava diverse imperfezioni sul versante della produzione oltre ad un sound orientato al gothic più canonico con l’inflazionato ricorso a voce femminile, violino e tastiere
Quattro anni non sono trascorsi invano e The Shortest Way lo dimostra pienamente: intanto la resa sonora del disco è stata affidata alle cure di Dan Swanö, un nome che sotto quest’aspetto è sinonimo di qualità, mentre i cliché tipici del gothic sono pressoché scomparsi lasciando spazio ad un death-doom che coniuga, in maniera esemplare, il senso di ineluttabile rovina dei My Dying Bride con le meste armonie dei Swallow The Sun.
Ad integrare un aspetto musicale di primissima qualità vanno evidenziati anche i testi intrisi di drammaticità che rendono l’album, di fatto, un concept legato alla morte della persona amata e alla conseguente incapacità di sopravvivere alla perdita subita da parte di chi resta. Mai come in questo caso si può affermare che le tematiche trattate siano in perfetta sintonia con il monicker della band, ispirato ad un personaggio della mitologia greca: Evadne, infatti, successivamente all’uccisione del marito Capaneo per mano di Zeus, si gettò sulla sua pira funebre decidendo di morire con lui.
Questa dimostrazione d’amore tragica quanto estrema viene adeguatamente descritta sia a livello lirico che musicale: il growl di Albert, migliorato in maniera esponenziale in questi anni, si rivela efficace nell’ergersi sulle melodie cupe e pregne di disperazione dei suoi compagni d’avventura.
Si fatica a individuare un brano che si stagli sugli altri in questo splendido album : dovendo proprio fare una scelta citerei Dreams in Monochrome, per la magnifica linea di chitarra che rappresenta alla perfezione la sensazione di sconcerto e turbamento evocata nel testo e All I Will Leave Behind, brano davvero commovente e poetico, nel corso del quale la disperazione del protagonista raggiunge il suo culmine con la decisione, comunicata a familiari e amici, di togliersi la vita pur di raggiungere la persona amata; con quali esiti, lo lascio scoprire a voi, ma è facile intuire che non ci sarà un lieto fine …
Gli Evadne con questo lavoro confermano, assieme a Helevorn e In Loving Memory, la vitalità della scena spagnola, dimostrando, se ce ne fosse stato bisogno, che il death-doom non è prerogativa solo delle fredde lande nordiche, ma trova terreno fertile pure in corrispondenza delle assolate latitudini mediterranee.
Un autentico gioiello che gli appassionati del genere non devono lasciarsi sfuggire per alcun motivo.

Tracklist :
1. No Place For Hope
2. Dreams In Monochrome
3. This Complete Solitude
4. One Last Dress For One Last Journey
5. All I Will Leave Behind
6. The Wanderer
7. Further Away The Light
8. Gloomy Garden

Line-up :
Albert – vocals
Josan – guitars
Jose – bass
Ifrit – drums
Marc – guitars

Ravenscry – One Way Out

Sarebbe un peccato mortale pensare che i Ravenscry siano niente più che una grande cantante con un gruppo che si limita ad assecondarne le doti eccelse.

La proliferazione indiscriminata di produzioni discografiche, spesso di dubbio valore, ha tra le sue conseguenze peggiori non tanto l’inevitabile abbassamento qualitativo della proposta musicale nel suo complesso, quanto il rischio di non riuscire a dare la giusta evidenza alle uscite che lo meritano.

Così un autentico gioiello come questo One Way Out degli italiani Ravenscry, rischia seriamente di restare confinato a livello underground, nonostante l’ottimo lavoro promozionale svolto dalla WormHoleDeath, invece di trovarsi a competere con le ultime uscite di Nightwish e Lacuna Coil nelle classifiche di vendita.
Sto esagerando ? Provate ad ascoltare con la dovuta attenzione e senza la prevenzione nei confronti delle band con voce femminile derivante dal surplus produttivo di cui sopra: scoprirete una cantante come Giulia Stefani che, a mio avviso, ha pochi eguali nel suo campo, capace com’è di passare con disinvoltura tra mille diverse tonalità, senza scadere mai nel virtuosismo vocale fine a se stesso.
Se a una vocalist di questo livello, che ridicolizza con la sua performance tutti questi pseudo fenomeni festivalieri sfornati dai reality show, aggiungiamo una band che ci ricorda in ogni momento che quello che stiamo ascoltano è metal e non un pop sporcato ogni tanto da qualche riff più pesante, ecco la spiegazione
per un giudizio così entusiastico.
Dato per scontato che nel genere gothic-alternative è difficile se non impossibile portare degli elementi di novità, ciò che si richiede alle band che vi si cimentano è di proporre un sound fresco e, per quanto possibile, dotato di un’impronta personale o di qualche elemento distintivo in grado di rendere speciale la propria musica.
Questo avviene puntualmente con brani come Nobody, con la sua componente elettronica e i riff squadrati a dettare il tempo mentre Giulia libera le sue tonalità più alte, Redemption I – Rainy, semplicemente da brividi, This Funny Dangerous Game, dal piglio molto più metallico con chitarre quasi alla Rammstein e My Bitter Tale, con la sua delicata intro per piano e voce, che chiude alla grande un disco privo di punti deboli.
Senza negare, ovviamente, le inevitabili affinità che mi sento di ravvisare, sia dal punto di vista strumentale sia da quello vocale, con una band sottovalutata come furono gli After Forever di Floor Jansen piuttosto che con i soliti nomi, sarebbe un peccato mortale pensare che i Ravenscry siano niente più che una grande cantante con un gruppo che si limita ad assecondarne le doti eccelse; no, qui non c’è un semplice “supporting cast” ad accompagnare la voce di Giulia, e anche se questo risulta necessariamente il primo elemento che resta impresso, il lavoro preciso e allo stesso tempo fantasioso degli altri quattro musicisti è un ingrediente altrettanto fondamentale per la riuscita di One Way Out.
Resta solo da augurarsi che il lavoro della label, unito ai consensi pressoché unanimi ricevuti in sede recensione e al passa-parola in rete, consenta a quest’album di varcare i confini del genere collocando i Ravenscry nelle posizioni che spettano loro di diritto.

Tracklist :
1. Calliope
2. Elements Dance
3. Nobody
4. A Starless Night
5. Redemption I – Rainy
6. Redemption II – Reflection
7. Redemption III – Far Away
8. Embrace
9. Journey
10. Back To Hell
11. This Funny Dangerous Game
12. My Bitter Tale

Line-up :
Giulia Stefani Vocals
Paul Raimondi Guitar
Mauro Paganelli Guitar
Andrea Fagiuoli Bass
Simon Carminati Drums

When Nothing Remains – As All Torn Asunder

La band riesce a mantenere sempre un eccellente equilibrio, evitando da una parte di cadere nel’immobilismo di certo funeral e dall’altra di farsi attrarre irrimediabilmente dalla faciloneria di molte proposte gothic-doom.

I When Nothing Remains sono l’ennesima ottima espressione del doom scandinavo estratta dal magico cilindro della Solitude.

La band svedese è di recente formazione anche se i due musicisti coinvolti, Peter Laustsen e Jon Sallander, non sono certo alle prime armi; in particolare il primo è stato fino allo scorso anno una colonna portante dei validi gothic-doomsters Nox Aurea.
Come spesso mi trovo a sostenere in queste occasioni, il fatto che la proposta musicale non presenti particolari variazioni sul tema, non esclude a priori la possibilità di ascoltare un lavoro di qualità rilevante.
E’ questo il caso di All Torn Asunder, disco che attinge certamente a piene mani da quanto già prodotto dalle band che hanno fatto la storia del death-doom, ma con un gusto e una sensibilità compositiva davvero encomiabile.
In effetti, il sound dei nostri si presenta da subito come un riuscito mix tra Swallow The Sun e My Dying Bride (inevitabili quando si parla di death-doom), con un certo sbilanciamento però a favore dei primi.
Infatti, molti brani riportano alla mente le prime uscite della band finlandese, con l’uso di sonorità malinconiche contrappuntate da uno splendido lavoro di tastiera e dall’uso di un growl molto efficace; alcuni spunti melodici si rifanno alla migliore produzione dei Draconian, e forse non è un caso che Johan Ericson, che di questi ultimi è chitarrista e compositore, sia stato chiamato a produrre l’album e a prestare le proprie clean vocals.
Il disco, pur nella sua lunghezza che supera abbondantemente l’ora complessiva di durata, mantiene sempre viva l’attenzione dell’ascoltatore, anche perché , pur mantenendo il mood malinconico che è il marchio di fabbrica del genere, ogni brano denota una certa varietà presentando break melodici con clean vocals, come nella coda dell’opener Embrace Her Pain, oppure ricorrendo ad riff granitici quanto efficaci (esemplare in questo senso la splendida The Sorrow Within); nel complesso si può tranquillamente affermare che la band riesce a mantenere sempre un eccellente equilibrio, evitando da una parte di cadere nel’immobilismo di certo funeral e dall’altra di farsi attrarre irrimediabilmente dalla faciloneria di molte proposte gothic-doom.
Il lavoro non presenta alcuna traccia più debole, quella che fa venire voglia di premere il tasto “skip”; ogni brano riesce a imporsi grazie alla capacità del duo nel creare atmosfere maliconiche e ricche di melodie memorabili: dovendo fare una scelta, davvero difficile in questa occasione, estrapolerei Mourning Of The Sun con una splendida linea chitarristica a far da guida nei suoi quasi nove minuti di durata, Her Lost Life, “swallowiana” più che mai, e la title-track, intrisa di drammaticità fin dall’intro tastieristico e dai rallentamenti ai confini del funeral.
I testi, come si può immaginare già dai titoli di ogni traccia, non trattano di elfi e dragoni o di epiche battaglie, ma sono intrisi di un lirismo cupo e privo di ogni barlume di speranza (… we have come to the final moment…)
Insomma, un album sul quale veramente non c’è nulla da eccepire e che cresce a ogni ascolto svelando ogni volta un nuovo interstizio ricolmo di struggente amarezza.
Ritengo che la proposta dei When Nothing Remains sia superiore per qualità e pathos rispetto a quanto già fatto dai Nox Aurea, pur battendo questi ultimi territori chiaramente più orientati al gothic; grazie alla scelta di Peter Laustsen, da oggi i malati di doom hanno un altro magnifico progetto sul quale fare affidamento.

Tracklist:
1. Embrace Her Pain
2. The Sorrow Within
3. A Portrait of the Dying
4. Mourning of the Sun
5. Solaris
6. Her Lost Life
7. In Silence I Conceal the Pain
8. As All Torn Asunder
9. Outro: Tears

Line-up :
Peter Laustsen – Vocals, All Instruments
Jon Sallander – Vocals, All Instruments

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