Skáphe – Skáphe²

Gli Skáphe tentano di rendersi interessanti rendendosi fastidiosi: se la loro missione era di provocare all’ascoltatore una tremenda emicrania, missione compiuta

Gli Skáphe – progetto recente di quell’Alex Poole, stacanovista dell’extreme metal, che si è imposto al mondo del metal sotto lo pseudonimo Chaos Moon (oltre a Esoterica e Krieg) – prima di Skáphe² erano una delle innumerevoli band statunitensi, di Philadelphia, di discrete prospettive e aspirazioni: l’esordio nel 2014, dal titolo omonimo, difficilmente avrebbe potuto far pensare ad un secondo lavoro di questa portata, nel bene e specialmente nel male.

L’uscita di Skáphe² – una specie di black metal / horror noise dai molteplici riferimenti – è stata accompagnata da un certo hype nel mondo del metal, essendo stato arruolato per l’occasione quel D.G. dei Misþyrming (oltreché Naðra) che piuttosto bene avevano fatto nel 2015, con Söngvar elds og óreiðu.
Vi sarebbe molto di cui discutere sulla legittimità del riferirsi a quest’album di circa 36 minuti – fortunatamente per chi lo deve ascoltare il disco non è eccessivamente lungo – definendolo un album black metal, e non tanto perché i nostri facciano un uso massiccio di harsh noise, suoni dronici che sconfinano in territori pseudo-avanguardisti (ricercati specialmente tramite ritmiche squinternate), quanto perché – almeno per la prima parte del disco – non vi è la possibilità di distinguere precisamente finanche un solo riff o una qualche forma di melodia: quanto invece una pressoché completa atonalità e una mancanza di qualsivoglia senso dell’armonia. L’unica cosa che un ascoltatore percepirà durante la prima metà del disco – rinominato I, II e III – sarà un’atmosfera orrorifica ma monotona, miasmi da incubo che vorrebbero a loro modo suonare dejonghiani. Discernere la fine e l’inizio di un brano dall’altro e provare ad analizzarli singolarmente è virtualmente impossibile (tant’è che le stesse tracce sono semplicemente ordinate tramite numerazione romana, come facessero parte di una suite, da intendersi come un flusso). Un ulteriore guaio per i tre brani iniziali, da ascoltarsi preferibilmente come un unico e lungo intro, risiede nel fatto che il tutto non riesce neppure a suscitare il tanto agognato inferno esistenziale che invece manifestamente ricerca: in termini sonici il wall of sound è certamente monolitico, ma suona un po’ retorico, come se fosse più importante il concetto astratto della concreta esperienza sonora. Al punto che sembra quasi che se si prendesse una qualsiasi frazione di una traccia e la si spostasse altrove non verrebbe tolto e aggiunto pressoché nulla all’esperienza finale di ascolto: il ché non è definibile esattamente come “un risultato apprezzabile”, se parliamo di “cose black metal” e non di cose merzbowiane. Poi succede qualcosa e, superata la metà del disco, a partire da IV, il tutto magicamente si apre a ricametti, cacofonie e circolarità – finanche interessanti e non banali – post-metal, mentre in V si raggiunge il climax ritualistico del lavoro. Ma è troppo poco per impressionare: nel momento in cui comincia ad essere divertente l’album presto finisce.
Riferimenti: gli Skáphe saccheggiano un po’ da tutti e rovinano un po’ tutto, da alcune tra le cose migliori dei Deathspell Omega e dei Blut Aus Nord fino ai Portal e ai Mitochondrion, e soprattutto da un Gnaw Their Tongues appiattito e privato della sua consueta eleganza di stampo mefistofelico (eleganza manifesta anche nell’ultimo Hyms for the Broken, Swollen and Silent, questo invece, sì, un disco notevole). In conclusione: il fatto che Skáphe² risulti ermetico non significa necessariamente che sia un album profondo. L’impossibilità di cogliere – a larghi tratti – non dico significati e sensi (e “la musica” – tra la quale ovviamente anche il BM -, ricordiamolo, è o dovrebbe essere in prima istanza fondazione di significati e sensi) ma anche solamente una qualche sorta di melodia non nobilita necessariamente un disco: a tratti Skáphe² è affascinante, molto più spesso è retorico, ma alla fine resta fondamentalmente un prodotto di mera estetica, troppo superficiale, astratto e tronfio, oltreché terribilmente fastidioso all’orecchio, per poter rappresentare il futuro del black metal.

TRACKLIST:
1. I
2. II
3. III
4. IV
5. V
6. VI

LINE-UP
Alex Poole
D.G.

SKAPHE – Facebook

Ultha – Converging Sins

La band afferma di essere un blend di USBM, Scandinavian BM,doom miscelato con darkwave vocals;altamente consigliato

Nell’oscuro e multiforme mondo del black metal esistono realtà che cercano di emozionare l’ascoltatore, creando un suono che memore delle nobili radici possa evolvere in un qualcosa di personale e riconoscibile.

A mio parere questo è il caso degli Ultha, quintetto teutonico proveniente da Colonia, giunto con Converging Sins al secondo full length dopo l’esordio “Pain Cleanses Every Doubt” del 2014; band estremamente prolifica, visto che nel giro di due anni ha prodotto anche un EP e uno split di omaggio ai Bathory (le nobili radici) con il brano Raise the dead.
Gli Ultha ci propongono un album monumentale sia come lunghezza, cinque brani per sessantaquattro minuti circa, sia come varietà di suoni; non vi è nulla di sperimentale nel loro suono o di particolarmente complicato, ma è la loro capacità di miscelare diverse influenze a fare, secondo me, la differenza con altre opere: si colgono echi di Emperor, sprazzi di Wolves in the Throne Room e altre delizie che lascio all’ascoltatore che si vorrà cimentare nell’ascolto. Le atmosfere si fanno subito intriganti fin dal primo lunghissimo brano, circa diciotto minuti, che inizia in pieno clima atmospheric con un evocativo e affascinante arpeggio di chitarre doppiato da avvolgenti tastiere, per poi esplodere in una sfuriata black, sorretta da uno scream particolarmente efficace; il guitar work è sempre piuttosto creativo nell’elaborare momenti suggestivi e “melodici” per un risultato melanconico ma al contempo aggressivo. Anche la presenza , nella prima parte del secondo brano di nove minuti, di clean vocals femminili a sorreggere la struttura, non scalfisce il mood oscuro che si manifesta pienamente nella seconda parte con un disperato scream e i suoni taglienti delle chitarre. Gli altri tre brani offrono ulteriori particolarità sonore con una menzione speciale per l’ ultimo brano che presenta un intro particolarmente sinistro, lento e surreale per poi deflagrare in una cavalcata infinita. Così dovrebbe essere inteso il black metal oggi, come la possibilità di poter intessere mille idee su un genere da sempre aperto alle sperimentazioni, cosa che farà inorridire tutti i credenti del “true”, ma credo che la strada intrapresa da questa giovane band possa essere quella giusta per poter esprimere la propria personalità; mi aspetto ulteriori grandi cose da loro in futuro.

TRACKLIST
1. The Night Took Her Right Before My Eyes
2. Mirrors in a Black Room
3. Athame | Bane Emanations
4. You Will Learn About Loss
5. Fear Lights the Path (Close to Our Hearts)

LINE-UP
Chris Noir Bass, Vocals
Manuel Schaub Drums
Andy Rosczyk Electronics
Ralph Schmidt Guitars, Vocals
Ralf Conrad Guitars

ULTHA – Facebook

Æðra – Perseiderna

Un lavoro stupefacente dal primo all’ultimo secondo, grazie ad una proprietà di scrittura tipica dei fuoriclasse,, e in grado di fondere con naturalezza disarmante black e death, nelle loro versioni atmosferiche, finendo per creare l’ibrido ideale che ogni appassionato vorrebbe creare a tavolino.

Come glielo (ri)spiego, a chi non ascolta da anni un disco nuovo di una band sconosciuta, che là fuori ci sono tali e tante magnifiche realtà musicali che non basterebbe una vita intera per poter godere di ogni singola nota che viene prodotta.

Se qualcuno pensa che stia esagerando cominci a buttare un orecchio (possibilmente aperto, dopo aver fatto altrettanto con la mente) a questo gioiello di metal estremo melodico ed atmosferico marchiato Æðra.
Di questa one man band statunitense, dietro la quale c’è il talento di Erik Lagerlöf, se ne sentiva parlare bene già da un po’, fin dall’uscita del primo demo autointitolato e del full length d’esordio The Evening Red, risalente al 2011.
Tempo ne è trascorso parecchio da allora, ma Erik si fa perdonare con un lavoro stupefacente dal primo all’ultimo secondo, grazie ad una proprietà di scrittura tipica dei fuoriclasse, in grado di fondere con naturalezza disarmante black e death, nelle loro versioni atmosferiche, finendo per creare l’ibrido ideale che ogni appassionato vorrebbe creare a tavolino: un entità capace di esprimere l’impeto epico degli Amon Amarth, le trascinanti melodie dei migliori Dark Tranquillity e quel pizzico di solenne ed oscura glacialità delle band americane (Agalloch e Wolves In The Throne Room).
Perseiderna è tutto questo, e se tale affermazione può apparire eccessiva, prego gli astanti di accomodarsi all’ascolto di questo disco esaltante per freschezza ed intensità: quale ulteriore garanzia c’è il nome dell’etichetta che ha licenziato il lavoro, la Naturmacht, realtà piccola che non inflaziona certo il mercato con le sue produzioni ma che, quando propone una band o un progetto, lo fa sempre a ragion veduta.
Erik, il cui cognome tradisce in maniera evidente radici nordeuropee, si rivela anche un ottimo chitarrista, infarcendo di gustosi assoli i brani di Perseiderna, e non se la cava male nemmeno con la voce, anche se il suo screaming è il piatto meno prelibato della casa (meglio, allora, i rari passaggi in growl); in generale, comunque, funziona tutto alla perfezione, anche quando il musicista dell’Illinois si lancia in un sempre rischioso strumentale pianistico (The Shoreline’s A Starting Point …) o quando decide di chiudere l’album con una traccia di oltre un quarto d’ora di durata, ambiziosa per intento e ricca di variazioni ritmica senza far mai scemare la tensione compositiva ed esecutiva, chiudendo così idealmente il cerchio aperto con la spettacolare doppietta iniziale (la title track seguita da The Rainflower Crest).
Al di là dei prodromi emersi in passato, è innegabile che questo lavoro costituisca una sorpresa dai riflessi abbaglianti mentre, al contrario, non stupisce il fatto che ciò provenga dal nuovo mondo piuttosto che dalla vecchia Europa, patria di queste sonorità, perché proprio l’essere al di fuori di una scena dagli sviluppi piuttosto codificati può consentire di dare sfogo ad una creatività frutto di influenze immagazzinate e rielaborate con mente fresca e libera da condizionamenti di sorta.
Peccato solo che quest’album sia uscito proprio nella seconda metà di dicembre, restando inevitabilmente fuori dalle classifiche del 2016, immaginando che molti, come me, lo avranno ascoltato per la prima volta solo nell’anno nuovo, ma sinceramente è solo un problema per chi tiene alle statistiche, di certo non per quelli che ricercano come l’ossigeno musica buona e, soprattutto, inedita.

Tracklist:
1 Perseiderna
2 The Rainflower Crest
3 Tracing Luna’s Path
4 Alpenglow
5 Svartån
6 The Shoreline’s A Starting Point…
7 …For The Long Road Home

Line-up:
Erik Lagerlöf

Æðra – Facebook

Árstíðir Lífsins – Heljarkviða

L’ascolto attento di Heljarkviða è un altro passo fondamentale da compiere per chi vuole approfondire la conoscenza con musica che travalica le definizioni di genere.

Nuova uscita per una delle realtà più interessanti emerse nel decennio in corso in ambito black metal, anche se, come spesso accade, il confinare certe band al singolo genere appare riduttivo.

Gli Árstíðir Lífsins li abbiamo già commentati negli anni scorsi in occasione del precedente Ep (Þættir úr sǫgu norðrs) e dello split con gli Helrunar (Fragments – A Mythological Excavation): oggi tornano, dopo il terzo full length Aldafǫðr ok munka dróttinn, con questo altro Ep piuttosto corposo, essendo composto di due lunghe tracce di venti minuti ciascuna.
Le coordinate stilistiche sono sempre quelle di una musica che spazia dal folk, all’ambient, alla musica da camera, resa minacciosa dalle eccellenti sfuriate black condotte dalla voce dell’ottimo Marsél (Marcel Dreckmann,  ben conosciuto anche per il suo operato con Helrunar e Wöljager).
L’anima degli Árstíðir Lífsins è costituita da Árni, il quale caratterizza il sound con la sua consueta maestria nell’utilizzo degli strumenti ad archi, mentre il terzetto viene completato da un altro tedesco, il chitarrista/bassista Stefan (Kerbenok).
Árstíðir Lífsins è oramai divenuto, al di là del suo reale significato in islandese (le stagioni della vita), un sinonimo di qualità e Heljarkviða non fa certo eccezione; poi, personalmente, ritengo tutti i progetti che vedono coinvolto Dreckmann un qualcosa di irrinunciabile, in grado di elevare la musica a forma d’arte sublime.
Certo, le configurazioni sono diverse per stile e per intenti, ma la cura che viene immessa anche nella stesura dei testi rende ancor più speciali tutti questi lavori: non va trascurato quindi il concept lirico qui contenuto, trattandosi di un’efficace rilettura dei temi tipici della mitologia norrena, che trovano una colonna sonora ideale nelle partiture profonde e solenni degli Árstíðir Lífsins.
Da tre musicisti di simile livello è lecito attendersi sempre il massimo, e finora tali aspettative non sono mai andate deluse: l’ascolto attento di Heljarkviða è un altro passo fondamentale da compiere per chi vuole approfondire la conoscenza con musica che travalica le definizioni di genere.

Tracklist:
1. Heljarkviða I: Á helvegi
2. Heljarkviða II: Helgrindr brotnar

Line-up:
Stefán – guitars, bass, vocals & choirs
Árni – drums, viola, keyboards, effects, vocals & choirs
Marsél – storyteller, vocals & choirs

ÁRSTÍÐIR LÍFSINS – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=QDcdtAHFLns

Misanthropic Rage – Gates No Longer Shut

Come appare chiaro dal monicker scelto, la misantropia la fa da padrone, una malinconica e rabbiosa solitudine raccontata attraverso sette brani articolati di black metal progressivo.

Debuttano, tramite la Godz Ov War Productions, gli avantgarde black metallers Misanthropic Rage, duo polacco formatosi solo lo scorso anno.

Un ep di rodaggio licenziato all’inizio dell’anno ed ora questo Gates No Longer Shut, lavoro sufficientemente ispirato per accontentare gli amanti del black metal dalle trame progressive e dalle molte parti atmosferiche.
Il duo composto da W. alla voce e dal polistrumentista AR. rientra nella schiera di gruppi che, all’approccio oscuro ed maligno del black, aggiunge soluzioni atmosferiche intimiste e buone parti in cui risalta l’uso vario delle ritmiche.
Non mancano chiaramente le classiche sfuriate chitarristiche, lo scream diabolico e le partenze a razzo, ma in generale i brani mantengono la caratteristica di piccole e varie suite dove il gruppo si lascia andare in cangianti sfumature dai colori scuri.
Come appare chiaro dal monicker scelto la misantropia la fa da padrone, una malinconica e rabbiosa solitudine raccontata attraverso sette brani articolati che vedono nelle armonie acustiche di Into The Crypt, nel violento incedere che si trasforma in una marcia doom della seguente Niehodowalny e nelle trame maligne della conclusiva I Took The Fate In My Hands, i momenti migliori di Gates No Longer Shut.
In generale l’album risulta in grado di regalare spunti interessanti, aiutato da una produzione discreta, manca forse il classico brano sopra la media che possa trainare tutti gli altri, ma si può certo considerare il lavoro dei Misanthropic Rage come una buona partenza.

TRACKLIST
1.In A Blind Dimension
2.Gates No Longer Shut
3.I, The Redeemer
4.Into The Crypt
5.Niehodowalny
6.Cross Hatred
7.I Took The Fate In My Hands

LINE-UP
W. – Vocals
AR. – Vocals, All instruments

MISANTHROPIC RAGE – Facebook

Terra – Mors Secunda

Un disco meraviglioso, che riuscirà a toccare dentro chi è ancora disposto ad emozionarsi con la musica pesante.

Ultimamente in Inghilterra c’è un gran fermento nell’ambito della musica estrema.

Stanno uscendo moltissimi bei dischi e ci sono gruppi molto validi, e ci sono anche gruppi eccezionali come i Terra, che vengono da Cambridge che fanno musica eccezionale, tra il black metal e l’atmospherical, ma più che dare definizioni è importante ascoltarli, perché in questi due pezzi di lunga durata raggiungono apici davvero notevoli. In certi momenti sembra che la sezione ritmica faccia una cosa, mentre la chitarra si fonde con un vento che porta lontani e la voce rimbomba da antichi e ancora vergini anfratti. Il risultato è di un’intensità e coinvolgimento eccezionali, si rimane attaccati ad ascoltare cosa viene dopo quel giro continuo di basso, o quella rullata che introduce qualcosa di meraviglioso. Un disco meraviglioso, che riuscirà a toccare dentro chi è ancora disposto ad emozionarsi con la musica pesante.

TRACKLIST
01. Apotheosis
02.Nadir

LINE-UP:
Luke Braddick – Drums
Olly Walton – Vocals, Bass
Ryan Saunders – Vocals, Guitars

TERRA – Facebook

Earth And Pillars – Pillars I

Si rimane attoniti e piacevolmente allibiti nell’ascoltare canzoni di oltre quindici minuti, che come un vento impetuoso ci sradicano dall’abituale sradicamento del tempo come lo conosciamo, per portarci lontano, ma anche molto vicini alla nostra anima.

Il black metal è uno dei linguaggi musicali più ricchi e vari che siano mai esistiti.

Come in un laboratorio si possono acquisire elementi e conoscenze standard per poi fare qualcosa di completamente nuovo, una fotografia di un angolo ancora sconosciuto. Gli Earth And Pillars fanno proprio questo, inventano un qualcosa che non c’era prima, seppur usando elementi conosciuti. Si potrebbe definire per facilità il loro black metal come atmosferico, mentre sarebbe più appropriato dire che lo suonano nell’atmosfera, poiché la loro musica porta lontano, molto lontano. Pillars I è un disco di valore assoluto, incredibile dalla prima all’ultima nota, contenente un miliardo di emozioni, di lacrime e voli radenti su foreste innevate, ma soprattutto di libertà, sia di creare che di immaginare. Il gruppo fa una musica che è in parte suono, ma in gran parte sentimento, un sentire diverso rispetto a quello che possiamo provare. Nelle loro lunghe canzoni si alternano sfuriate e pezzi quasi elettro ambient, per poi riprendere il viaggio, mischiando sudore, freddo e morte. L’atmosfera che pervade il disco, il suo nucleo più nascosto è un magma che brucia incessantemente, un continuo cercare, un sublimare il nostro destino di sofferenza. Da molto tempo non si ascoltava un disco come Pillars I in ambito black metal atmosferico, come in altri ambiti. Si rimane attoniti e piacevolmente allibiti nell’ascoltare canzoni di oltre quindici minuti, che come un vento impetuoso ci sradicano dall’abituale sradicamento del tempo come lo conosciamo, per portarci lontano, ma anche molto vicini alla nostra anima. Ognuno qui deve aggiungere qualcosa di suo, lasciando il suo io, perché qui c’è di meglio. Tastiere, chitarre distorte, caverne e radure incontaminate.
Chiudere gli occhi ed ascoltare.
Stupefacente, sognante e tremendamente vivo.

TRACKLIST
1.Pillars
2.Myth
3.Solemnity
4.Penn

EARTH AND PILLARS – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Mesarthim – .- -… … . -. -.-. .‬

Difficile fare meglio per chi si cimenta con il black metal atmosferico, anche se è evidente che l’impatto melodico del lavoro potrebbe risultare eccessivo per chi predilige il genere nella sua veste più cruda

E’ triste rendersi conto d’essersi quasi del tutto dimenticati un qualcosa che si era imparato molto bene (anche se in maniera un po’ coercitiva) qualche decennio fa …

Quando ho visto quella sfilza di punti e trattini che rappresentano il titolo del nuovo disco dei Mesarthim mi sono chiesto, senza rifletterci più di tanto, che diavolo significasse, finché, dopo qualche giorno, in un anfratto del mio sempre più ristretto hard disk interno è balenato un ricordo del passato coincidente con il periodo del servizio di leva in marina, quando conoscevo alla perfezione l‘alfabeto Morse, in quanto radiotelegrafista …
Già: ti-taa taa-ti-ti-ti e via discorrendo, in questo caso significa Absence, un titolo ed un mezzo per veicolarlo che si addicono al modus operandi dei Mesarthim, misterioso duo australiano del quale avevo già avuto modo di parlare in occasione del precedente full length Isolate.
Se, all’epoca, avevo espresso alcune perplessità derivante da un approccio gradevole ma non particolarmente incisivo, devo ammettere che stavolta i due “puntini” (che, seguendo la logica del Morse, equivalgono ad E) hanno fatto un deciso passo avanti.
Absence‬, infatti, offre quasi quaranta minuti di black atmosferico molto meglio definito ed efficace: le linee melodiche disegnano scenari cosmici in cui prevale un aspetto sognante che blast beat e screaming vocals non riescono più di tanto a screziare.
Le tastiere, soprattutto, tracciano un percorso lungo il quale l’ascoltatore viene trasportato facendolo sentire a proprio agio ma senza lesinargli, comunque, un senso di inquietudine derivante dalla riproposizione di schemi non dissimili dal depressive, benché molto meno oscuri ed urticanti nella loro espressione.
Il lavoro è davvero molto bello, con picchi rinvenibili un po’ in tutti brani, ma con menzione particolare per quello conclusivo (-…., ovvero 6), laddove il contrasto tra la voce e le ariose armonie si fa più intenso e ficcante.
Difficile fare meglio per chi si cimenta con il black metal atmosferico, anche se è evidente che l’impatto melodico del lavoro potrebbe risultare eccessivo per chi predilige il genere nella sua veste più cruda; anche per questo, Absence è un disco che mi sentirei di consigliare proprio a chi volesse approcciarsi per le prima volta a sonorità gravitanti nell’universo metal.

Tracklist:
1.
.—-
2.
..—
3.
…–
4.
….-
5.
…..
6.
-….

Line-up:
. – Vocals
. – Other

MESARTHIM – Facebook

Urfaust – Empty Space Meditation

Empty Space Meditation è un lavoro davvero convincente: profondo ma non per questo troppo ostico da recepire, da parte di un nome magari poco noto ma in grado di ritagliarsi uno spazio importante tra gli estimatori di sonorità metalliche meno scontate.

Il duo olandese Urfaust è attivo da oltre un decennio e, nel corso di questo arco temporale, ha prodotto un numero elevato di uscite dal minutaggio ridotto (ep e split album) e tre full length, tra i quali l’ultimo è questo Empty Space Meditation.

L’etichetta di atmospheric black ambient che accompagna la musica IX e VRDRBR è piuttosto appropriata ma, tutto sommato, anche riduttiva, visto che il sound è decisamente composito e volto alla creazione di passaggi ariosi ed evocativi, a volte screziati da violente accelerazioni alle quali fanno da contraltare pulsioni droniche che, comunque, non appesantiscono affatto il lavoro nel suo complesso.
Empty Space Meditation è composto da sei brani intitolati Meditatum, numerati da I a VI, e ci fornisce l’idea di un album che, comunque, va ascoltato come un unico flusso sonoro nel quale convergono sensazioni svariate e spesso contrastanti, laddove spiritualità e nichilismo vanno di pari passo senza elidersi a vicenda.
Da tutto questo ne viene fuori una quarantina di minuti di enorme spessore, nei quali l’emotività deriva dal un incedere atmosferico e sovente rallentato ai confini del doom, con l’accento posto su un’interpretazione vocale da parte di IX magari non sempre ortodossa, ma dalle indubbie doti comunicative.
A brano simbolo eleggo il sulfureo srotolarsi di Meditatun IV, con il suo procedere quasi tetragono, accompagnato dai vocalizzi di IX che si fanno via via più sgraziati e disperati: questi sono gli Urfaust nella loro espressione meno immediata ed accomodante, in grado di puntellare ulteriormente un disco eccellente con V, brano che sembra a tratti una rielaborazione in veste metallica di Bauhaus e Christian Death dei tempi d’oro, e con la conclusiva, magnifica, VI, nella quale è il sitar che dona un’aura davvero particolare ad atmosfere già di loro sufficientemente introspettive.
Detto d IX, che si occupa praticamente di tutto il lavoro strumentale e vocale, va rimarcato il fondamentale operato di VRDRBR alla batteria, un aspetto spesso sottovalutato nei lavoro di matrice prevalentemente solista, venendo affidato ad una più fredda drum machine.
L’elemento umano qui si sente e fa la differenza, conferendo varietà e ritmiche non banali ad un sound che veleggia ispirato e dotato di un’oggettiva peculiarità.
Empty Space Meditation è un lavoro davvero convincente: profondo ma non per questo troppo ostico da recepire, da parte di un nome magari poco noto ma in grado di ritagliarsi uno spazio importante tra gli estimatori di sonorità metalliche meno scontate.

Tracklist:
1. Meditatum I
2. Meditatum II
3. Meditatum III
4. Meditatum IV
5. Meditatum V
6. Meditatum VI

Line-up:
VRDRBR – Drums
IX – Guitars, Vocals

URFAUST – Facebook

Karg – Weltenasche

Il black metal avrà sempre un senso e, soprattutto, vita ancora molto lunga, finché verrà interpretato da chi possiede la sensibilità compositiva di V. Wahntraum.

Karg è la creatura solista di V. Wahntraum, conosciuto anche come J.J. all’interno degli ottimi Harakiri For The Sky: un progetto travagliato nel suo decennale snodarsi, così come la personalità del musicista che lo conduce e che, tra varie vicissitudini,anche personali, pare aver trovato oggi una sua nuova dimensione con l’uscita di questo bellissimo Weltenasche.

Dopo i primi dischi , contraddistinti da un black metal dalle ampie sfumature ambient prima, e depressive poi, il musicista austriaco è approdato ad una forma che solo apparentemente si può considerare più canonica ma che, semmai, è solo maggiormente efficace e capace di colpire nel segno senza dover percorrere vie traverse.
E’ difficile, infatti, imbattersi nel genere in un lavoro così lungo eppure privo di momenti di stanca o di riempitivi: anche quando il nostro rallenta o varia la velocità di crociera, abbandonandosi a momenti acustici o più rarefatti, tutto appare perfettamente inserito in un disegno compositivo focalizzato su un costante scambio emotivo tra musicista ed ascoltatore.
D’altronde è percepibile dall’intensità di brani che, ad eccezione dell’acustica Spuren im Schnee, sono marchiati da un crescendo di pathos, mix tra rabbia, disperazione e rassegnazione, quanto in Weltenasche non ci sia nulla di costruito essendo ogni nota il naturale sbocco della creatività di un’anima tormentata.
Talvolta pare addirittura di ascoltare una versione dall’impatto più esasperato dei primi lavori degli Alcest, laddove melodie sognanti si sposano fluidamente con le sfuriate in blast beat (Solange das Herz schlägt…), in altri momenti è un afflato poetico a prendere la scena (MMXVI/Weltenasche) ma è soprattutto una reazione liberatoria ad un disagio interiore che prepara il terreno a brani splendidi come Crevasse, Alles wird in Flammen stehen e …und blicke doch mit Wut zurück.
Non è certo il genere musicale a fare il musicista, ma semmai il contrario, ed il black metal avrà sempre un senso e, soprattutto, vita ancora molto lunga, finché verrà interpretato da chi possiede la sensibilità compositiva di V. Wahntraum.

Tracklist:
1. Crevasse
2. Alles wird in Flammen stehen
3. Le Couloir des Ombres
4. Tor zu tausend Wüsten
5. Spuren im Schnee
6. Solange das Herz schlägt…
7. …und blicke doch mit Wut zurück
8. (MMXVI/Weltenasche)

Line-up:
V. Wahntraum Guitars, Vocals

KARG – Facebook

Atom – Spectra

Rispetto ad altri progetti di stampo simile, Atom mantiene ben salde le radici nel black metal, genere che viene sviscerato un po’ in tutte le sue sfumature

Per la one man band Atom, l’ep Spectra arriva due anni dopo Horizons, un buon full length del quale avevo avuto l’occasione di parlare su IYE.

Rispetto a quel lavoro le coordinate stilistiche non cambiamo ma, semmai, vedono una valorizzazione dei loro aspetti migliori: il black metal atmosferico proposto da Fabio, musicista cesenate che è dietro il monicker Atom, è piuttosti diretto non perché banale, ma in quanto raggiunge lo scopo senza indulgere in tentazioni avanguardistiche o sperimentali.
Sia nelle parti più aspre, con le consuete accelerazioni ritmiche, sia in quelle più riflessive, il filo conduttore melodico è sempre in primo piano, rendendo questa mezz’ora scarsa di musica un’altra buona dimostrazione di capacità compositive.
Rispetto ad altri progetti di stampo simile, Atom mantiene comunque ben salde le radici nel black metal, genere che viene sviscerato un po’ in tutte le sue sfumature, operazione che avviene in maniera efficace in Night Sleeper, dove in un lasso di temo relativamente breve scorrono pulsioni depressive, postblack, epic e vocals che spaziano da evocative parti corali a stentorei passaggi pulite per arrivare, poi, al consueto screaming.
Proprio questo, come nel precedente lavoro, continua ad essere un aspetto dolente, rivelandosi di qualità inferiore al contesto strumentale nel quale viene inserito: talvolta viene esasperato in stile DSBM (Spectra), in altri momenti diviene più canonico ma stranamente risulta un po’ troppo effettato e relegato sullo sfondo a livello di produzione (Dasein).
Come in Horizons si rivela molto efficace il lavoro chitarristico nelle sue diverse sembianze, il che impreziosisce un album che denota un ulteriore passo avanti per un progetto in possesso di tutti i crismi per ritagliarsi un minimo di spazio vitale in un settore congestionato come non mai e nel quale, nonostante molti la pensino diversamente, il livello medio si sta decisamente alzando.

Tracklist:
1. Spectra
2. Night Sleeper
3. Dasein

Line-up:
Fabio – Vocals, Guitars, Drum programming

ATOM – Facebook

Oniricide – Revenge Of Souls

Un concentrato di sinfonie orchestrali e riff prettamente metal che, fondendosi tra di loro, creano atmosfere e nuovi mondi in cui immergersi.

Gli Oniricide sono una band metal nata e cresciuta a Torino da qualche anno: il loro nuovo album Revenge Of Souls è un concentrato di sinfonie orchestrali e riff prettamente metal che, fondendosi tra di loro, creano atmosfere e nuovi mondi in cui immergersi e restare così sospesi a mezz’aria già dal primo ascolto.

All’interno dei dieci brani è possibile ascoltare, infatti, prog e power metal, il tutto contornato da orchestrazioni sinfoniche, ispirate a musiche dei film e videogiochi, senza dimenticare la notevole influenza della musica classica. Si possono trovare, inoltre, influenze più marginali come il folk di Becoming A Different Man, il pop-rock della ballad The Illusion of The Abyss, per finire nel rock-blues in alcuni assoli di chitarra.
Revenge Of Souls, uscito a febbraio 2016, si presenta come una buona opera che indica ben delineate traiettorie di crescita e che, senza ombra di dubbio, sarà un ottimo antipasto per tutto ciò che verrà dopo.

TRACKLIST
1. Oneiros
2. Revenge of Souls
3. Noxy
4. Vision from the Mirror
5. Gipsy and the Cards
6. A Good Place to Die
7. The Illusion of the Abyss
8. The Beast
9. Mother of Pain
10. Becoming a Different Man

LINE-UP
Luca Liuk Abate – Bass
Daniele Pelliccioni – Drums, Keyboards
Andrea Pelliccioni – Guitars
Mara Cek Cecconato – Vocals

ONIRICIDE – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=lZKJlDjb96Y

Solitvdo – Hierarkhes

DM possiede la capacità di ammantare ogni brano di un’aura solenne e al contempo malinconica

Dopo l’ottimo esordio su lunga distanza con Immerso in Un Bosco di Querce, del 2014, il musicista sardo DM si ripresenta con un nuovo lavoro targato Solitvdo.

Hierarkhes, questo è il titolo, segna un ulteriore passo in avanti nel percorso musicale di questo progetto che prende le mosse dal black per contaminarlo con sonorità epiche e magniloquenti.
Rispetto al suo predecessore cambiano le tematiche trattate, sicché la poetica elegiaca di cui erano intrise le varie tracce di quel lavoro viene sacrificata a favore di testi inneggianti al valore e all’eroismo, con ampi riferimenti alla storia dell’antica Roma (anche se i testi, nonostante i titoli dei brani, sono integralmente in italiano).
Devo ammettere che per indole non sono un grande estimatore di questo tipo di scelte liriche, ma se il tutto viene inserito in un’opera dello spessore musicale di Hierarkhes, questo diviene un mero dettaglio: DM possiede la capacità di ammantare ogni brano di un’aura solenne e al contempo malinconica, senza far ricorso a particolari virtuosismi, ma lasciando che soprattutto le tastiere si assumano l’onere di condurre il suono laddove egli predilige.
E’ anche vero che le tematiche spesso corrispondono all’umore dei brani, per cui Hierarkhes, Aristokratia e la notevole Fides, Pietas, Gravitas, Virtus spiccano appunto per la lor solennità, mentre il lato più meditabondo ed introspettivo trova il suo naturale sfogo nello strumentale Devotio – Marco Curzio e nella conclusiva Il Silenzio, che riporta i testi su un piano più filosofico-esistenziale, del tutto in sintonia con l’afflato melodico di una traccia invero magnifica.
Hierarkhes consolida così lo status del nome Solitvdo quale ennesima espressione di una scena black atmosferica che nel nostro paese sta offrendo diversi frutti prelibati.
L’album è disponibile sia in cd (Naturmacht Productions) che in musicassetta (Eremita Produzioni).

Tracklist:
1. Hierarkhes
2. Aristokratia
3. Devotio – Marco Curzio
4. Fides, pietas, gravitas, virtus
5. Il silenzio

Line-up:
DM All instruments, Vocals

SOLITVDO – Facebook

Ars Moriendi – Sepelitur Alleluia

Ars Moriendi è un black metal davvero differente, essendo il black solo un punto fermo di partenza, poiché qui dentro troviamo tantissimo, soprattutto una trama compositiva molto vicina al jazz.

Nel medioevo, non quello che stiamo vivendo ma l’altro, quello migliore, e fino al diciassettesimo secolo, la sera della Septuagesima, ovvero la settantesima sera prima della pasqua cristiana, il coro della chiesa seppelliva simbolicamente l’Alleluia durante un funerale simbolico.

Ciò perché l’Alleluia nella liturgia cristiana rappresenta la gioia, per cui il suo seppellimento indicava l’inizio di un duro periodo di meditazione e di pentimento, dove non vi era spazio per gioia e felicità, il tutto nel più pieno spirito medioevale.
Come si poteva esprimere questi sentimenti se non con del black metal, come quello di Arsonist, l’uomo dietro a Ars Moriendi? Questo disco è costruito intorno ad un accadimento liturgico, per espandersi come il ghiaccio nelle fredde notti d’inverno. Il seppellimento dell’Alleluia è il preteso per ricercare con un atmospheric black all’interno dell’animo medioevale la ragione per questa lunga penitenza, indagano un volta di più il nostro male oscuro, che è peggiorato da quando c’è il cristianesimo. Ars Moriendi è poi un black metal davvero differente, essendo il black solo un punto fermo di partenza, poiché qui dentro troviamo tantissimo, soprattutto una trama compositiva molto vicina al jazz. Grazie a tutti questi elementi il disco funziona benissimo, ed è un notevole documento sonoro, una dimostrazione che con il black si possono fare grandi cose, poiché riesce a descrivere benissimo alcuni stati d’animo che si legano chimicamente alle ombre, che sono dentro e fuori di noi. Il mondo di Ars Moriendi è perduto per la maggior parte degli umani, ma chi ascolterà questo disco con uno certo spirito, ritroverà molte cose importanti. Il metal viene percorso per gran parte, con alcuni riff che ci riportano al vero metal anni ottanta, per poi arrivare addirittura ad inserti trip hop. Varietà ma non confusione, ed una grande forza compositiva per un album molto bello, moderno ma antico nello stesso tempo.

TRACKLIST
01. Sepeliture
02. Ecce homo
03. A La Vermine
04. Je Vois Des Mortes
05. Fleau Francais

ARS MORIENDI – Facebook

Nox Formulae – The Hidden Paths to Black Ecstasy

The Hidden Paths to Black Ecstasy si snoda tra parti più riuscite ed atmosferiche ed altre in cui la parte black avrebbe bisogno di una spinta maggiore e di un lavoro più certosino in sala d’incisione.

The Hidden Paths To Black Ecstasy è il debutto dei Nox Formulae, black metal band greca dal concept esoterico e magico.

Il nome del gruppo si ispira d una formula di magia nera, il gruppo si presenta come una setta esoterica dalle connotazioni luciferine e la musica proposta richiama non poco un’aura messianica, una lunga liturgia satanica pregna di atmosfere oscure e diaboliche.
Il quintetto proveniente da Atene si poggia su una base estrema dalle connotazioni black ispirate alla scena mediterranea: atmosfere magiche ed evocative, il sound non si spinge mai verso l’estremismo musicale del genere, anche se le ritmiche mantengono a tratti una relativa velocità, ma punta tutto su sfumature dark metal, impregnando il sound di un’oscurantismo sonoro black/doom.
Tre voci, tra cui lo scream ed un recitato messianico, ci conducono davanti all’altare ricoperto da un drappo nero dove si consuma la cerimonia in nome di Lucifero; il black metal atmosferico del combo riesce a tratti a coinvolgere, ma sono le parti metalliche che fanno perdere punti all’opera, specialmente quelle più estreme mal supportate da una produzione scadente.
I Nox Formulae danno il meglio quando rallentano le operazioni per convogliare la propria musica in una terrificante lode al maligno, così che l’album può regalare attimi di raggelante musica nera e d evocativa.
Hidden Clan NXN, divisa in due parti, risulta il brano più coinvolgente, valorizzato da un riff ripetuto e drammatico, una cavalcata oscura che mantiene alta la tensione e su cui il recitato diabolico ha una presa pazzesca sull’ascoltatore.
Luci ed ombre per questo esordio, The Hidden Paths to Black Ecstasy si snoda tra parti più riuscite ed atmosferiche ed altre in cui la parte black avrebbe bisogno di una spinta maggiore e di un lavoro più certosino in sala d’incisione.
Non manca certo la convinzione e la band risulta credibile, specialmente nel concept che si porta dietro, perciò se siete affascinati dal mondo oscuro ed esoterico della musica estrema, l’album potrebbe essere di vostro gradimento.

TRACKLIST
1. NOXON
2. The Shadow Smoke
3. Nahemoth Death Plane
4. Voudon Lwa Legba
5. The Dark Brother
6. Yezidic NOX Formula
7. O.D. Dominion
8. Hidden Clan NXN – Pt a. Eleven Rays of Sorat, Pt b. Black Magic Assault
9. XONOX

LINE-UP
Wolfsbane 1.1: Guitars
Monkshood 333: Voice
Nightshade: Voice
Kurgasiaz: Voice
Mezkal: Drums

NOX FORMULAE – Facebook

SwampCult – The Festival

Un tuffo nell’abisso estremo dove l’oscurità regna sovrana dall’inizio dei tempi

Un altro centro per l’ormai lanciatissima label Transcending Obscurity, che si assicura le creazioni musicali del duo estremo olandese Swampcult, combo dal concept Lovecraftiano e devoto al mito di Cthulhu.

The Festival è il loro secondo lavoro in tre anni di attività, opera che segue il primo vagito An Idol Carved of Flesh uscito due anni fa.
La band è composta da due misteriosi musicisti: A (batteria, voce e flauto) e D (chitarra, basso, piano e organo).
Musicalmente parlando The Festival si sviluppa in otto movimenti (più l’epilogo) che svariano tra il black atmosferico ed il doom, lenti andamenti dove si raccontano le vicende legate alle opere dello scrittore statunitense.
I tempi si mantengono cadenzati, l’album è interpretato più che cantato, tra narrazione e scream black ad aiutare l’atmosfera fantasy/horror che il duo crea con buon talento per sonorità davvero inquitanti.
Per gli amanti del genere l’album non manca di offrire buoni spunti con le parti doom che conferiscono al sound un’aura funerea e di autentico terrore, potenziate da chitarre sature di watt e con in sottofondo rumori di caverne dimenticate dal mondo, dove l’orrore trova la sua massima espressione.
La durata (una quarantina di minuti) facilita non poco l’ascolto per intero di The Festival, che ad un primo passaggio riesce a conquistare con una serie di brani estremi ma molto coinvolgenti.
The Festival rimane un’opera Black/Doom da ascoltare senza interruzioni per riuscire a non perdere la concentrazione sulle orrorifiche atmosfere che il duo imprime ai brani, un tuffo nell’abisso estremo dove l’oscurità regna sovrana dall’inizio dei tempi.

TRACKLIST
1. Chapter I – The Village
2. Chapter II – The Old Man
3. Chapter III – Al-Azif Necronomicon
4. Chapter IV – Procession
5. Chapter V – The Rite
6. Chapter VI – The Flight
7. Chapter VII – The Dawning
8. Chapter VIII – The Madness
9. IX – Epilogue – Betwixt Dream and Insanity

LINE-UP
A – Drums, Vocals, Flutes
D – Guitars, Bass, Piano, Organ, Narration

SWAMPCULT – Facebook

Old Graves – Long Shadows

Old Graves non tradisce quanto evocato dal monicker, regalando con Long Shadows un disco da ascoltare senza tentennamenti

Long Shadows è il primo full length per Old Graves, progetto solista del musicista canadese Colby Hink.

Chi apprezza quella variante atmosferica e struggente del black metal nella quale in molti si cimentano, spesso con ottimi risultati (in Italia ricordiamo Chiral, mentre a livello assoluto non si può non citare l’ultimo magnifico lavoro targato ColdWorld), non potrà che trovare soddisfazione in questa cinquantina di minuti in cui un sentore malinconico aleggia anche nei momenti apparentemente più aspri.
Niente di nuovo, certo, ma il tutto viene eseguito con competenza e soprattutto, una notevole ispirazione, in grado di rendere ogni passaggio del lavoro funzionale all’esito finale.
L’opener Sumas è sufficiente per farci innamorare di questa nuova realtà proveniente da oltreoceano, in particolare da un Canada che si rivela terra particolarmente fertile allorché si ricercano sonorità di questo tipo, forse anche in virtù della maestosità di una natura del tutto affine a quella che ha ispirato in passato i lavori dei musicisti scandinavi.
Escludendo una pecca piccola, quanto consueta in simili occasioni, a livello di produzione, ovvero una voce che nei momenti più convulsi viene fagocitata dagli altri strumenti, non c’è davvero nulla da eccepire sulla riuscita di Long Shadows: ogni brano possiede linee melodiche che si insinuano nella mente dell’ascoltatore rifuggendo la banalità; l’operato di Colby Hink si esalta soprattutto nel lavoro chitarristico, dove il nostro eccelle sia nelle fasi acustiche sia nei lineari ma efficaci assoli elettrici.
Da segnalare, oltre ad un altro brano bellissimo come To Die, or Bear the Burden of Death, il magnifico strumentale Walpurgisnacth, esempio perfetto di come, tutto sommato, in questo genere il ricorso a parti vocali si riveli meno necessario che in altri.
Old Graves non tradisce quanto evocato dal monicker, regalando con Long Shadows un disco da ascoltare senza tentennamenti, specie per chi ama una band come gli Agalloch, con la quale sono riscontrabili diverse affinità sia quando il sound si apre in senso atmosferico, sia nei passaggi che riconducono ad un folk dai tratti piuttosto cupi.

Tracklist:
1. Sumas
2. Aethernaut I
3. To Die, or Bear the Burden of Death
4. Slave to the Boiler That Heats the Baths
5. Walpurgisnacht
6. Teeth Pulled from Gnashing Jaws
7. Aethernaut II

Line-up:
Colby Hink Everything

https://www.facebook.com/oldgraves

Morphinist – Terraforming

Questi trentacinque minuti intensi ed convincenti mettono il nome Morphinist tra quelli da cerchiare con circoletto rosso, nel novero di coloro che si muovono nello stesso ambito musicale.

Abituati ad esaminare dischi pubblicati da band o musicisti che fanno trascorrere anni tra un’uscita e l’altra, fa sempre un certo effetto trovarsi al cospetto di un tipo come il tedesco Argwohn, che con il suo progetto solista Morphinist, ha già prodotto 10 full length a partire dal 2013 (!), senza contare le restanti band in cui, da solo o in compagnia, è attualmente coinvolto

Difficile, quindi, immaginare il nostro alle prese quotidianamente con qualcosa che non sia uno strumento musicale, anche se dobbiamo ammettere che una tale prolificità di solito fa pensare a una possibile dispersione di energie a discapito della qualità complessiva.
Proprio a causa di questo pregiudizio e non conoscendo il pregresso dei Morphinist, (anche perché ci vorrebbe qualche settimana per ascoltare tutto il materiale partorito …) devo dire che sono rimasto davvero sorpreso da un lavoro come Terraforming, il nono della serie (infatti, il mese scorso, lo stakanovista di Amburgo ha già dato alle stampe il successivo Giants …) che non lascia nulla per strada in quanto ad intensità e focalizzazione a livello compositivo.
Quello che viene proprosto nell’album in questione è il cosiddetto post black, ovvero una versione molto atmosferica e dalle ampie derive ambient doom del genere nato in Norvegia nei primi ’90, con il quale di fatto i legami sono rinvenibili a livello vocale e per le accelerazioni ritmiche in blast beat ; sia a livello grafico che di sonorità appare evidente un’ispirazione di matrice cosmica, che nelle parti rallentate può avvicinarsi persino ai Monolithe (questo avviene soprattutto in Terraforming I), e tutto ciò rende oltremodo intrigante l’operato di Argwohn, il quale dimostra lungo tutto il disco di possedere anche un notevole gusto melodico.
Terraforming è, infatti, un lavoro che, scremato dei suoi momenti più ruvidi, si lascia ascoltare con un certo agio, contraddistinto da passaggi liquidi e di pregevole esecuzione (splendido per esempio l’incipit della terza parte); questi trentacinque minuti intensi ed convincenti mettono il nome Morphinist tra quelli da cerchiare con circoletto rosso, nel novero di coloro che si muovono nello stesso ambito musicale.
A questo punto sono curioso di ascoltare che cosa Argwohn abbia escogitato in occasione di Giants che, al contrario di Terraforming, non pare godere dello stesso dono della sintesi, visto che consta di ben quattro brani di circa venti minuti ciascuno.
Vi faremo sapere …

Tracklist:
1. Terraforming I
2. Terraforming II
3. Terraforming III

Line-up:
Argwohn – Everything

MORPHINIST – Facebook

Ljáin – Endasalmar

Roba del Demonio. Sono rari i gruppi che esordiscono in tal modo nella scena musicale, qualsiasi genere si prenda in considerazione.

Dalla fredda e vulcanica Islanda esordiscono i Ljáin con una demo che non vede alcuna speranza di salvezza. L’unico riferimento da considerare è Moon (dagli antipodi Australiani) che con Chaduceus Calice aveva dato un seguito ai primi dischi di Xasthur. Si sente l’odore di freddo, sudore e mura ovattate di una sala prove, in cui la registrazione grezza e violenta sbatte corpi ovunque. E’ una sinfonia cacofonica, suonata con distorsioni, urla possedute da chissà quale entità e batteria suonata con coltelli invece di bacchette. Raw-hostile e brutal black metal senza citare alcun virtuosismo satanico, non ce n’è bisogno. Una intro che abbassa le tende e mette tutti a tacere (Eilíf þjáning) prima di dare voce ad una malattia sonora che con Hlekkir holdsins ci riporta a”De Mysteriis… e alle perversioni vocali di Pelle. Alcuni attimi di apparente tregua a metà traccia e torniamo sotto la maledizione di Endasálmar che dà il titolo alla demo, iniziando contorta per chiudere in un doom degno di nota. Acquisto decisamente consigliato da mettere in un altarino, non appena un’etichetta si farà sotto per questo promettente gruppo. Qual’ è il voto massimo? Aggiudicato …

TRACKLIST
1.Eilíf þjáning
2.Svartigaldur
3.Hlekkir holdsins
4 Endasálmar