Vampillia – Happiness Brought By Endless Sorrow

Sei minuti di musica riescono nell’impresa di coinvolgere in un modo sorprendente, quattro brani dove sono racchiusi i generi più importanti della musica contemporanea.

Nella misteriosa terra del sol levante si aggira un’affascinante e brutale realtà che si definisce un’orchestra, un’entità estrema composta da dieci elementi che crea musica originale e fuori dagli schemi dal 2009, anno di uscita di Spears.

Da quell’anno il monicker Vampillia ha cominciato a girare tra gli addetti ai lavori, grazie soprattutto ad altri quattro album ed una serie di collaborazioni illustri (Attila Csihar, Nadja, The Body e Yellow Swans tra gli altri).
La misteriosa e brutale orchestra, di cui non si conoscono precisamente i componenti, licenzia un ep di quattro brani per sei minuti di musica geniale intitolato Happiness Brought By Endless Sorrow.
Grindcore, post-rock, ambient, shoegaze, classica, progressive, black metal, industrial, tutti questi generi creano un sound particolare e contorto, una bestia musicale estrema che non conosce confini nè barriere, una macchina da guerra oliata e perfettamente sincronizzata, tanto che i generi, usati come acquarelli di un quadro musicale bellissimo ed inconsueto, appaiono assolutamente e precisamente incastonati in queste quattro esplosioni di arte musicale straordinaria.
Sei minuti di musica riescono nell’impresa di coinvolgere in un modo sorprendente, quattro brani dove sono racchiusi i generi più importanti della musica contemporanea.

Tracklist
1.Winter Ash
2.Back to…..
3.ggggzzgggzzz
4.Hell PM

VAMPILLIA – Facebook

Hertz Kankarok – Make Madder Music

Hertz Kankarok conferma e rafforza le impressioni destate in occasione dell’esordio, offrendo con questo nuovo ep intitolato Make Madder Music un’altra mezz’ora abbondante di sonorità fresche e imprevedibili.

Dopo un ep sorprendente come Livores, datato 2015, ritorna Hertz Kankarok con la sua proposta trasversale, inquieta e lontana dalla banalità.

Il musicista siciliano conferma e rafforza le impressioni destate in occasione dell’esordio, offrendo con questo nuovo ep intitolato Make Madder Music un’altra mezz’ora abbondante di sonorità fresche e imprevedibili, in quanto anche quando può sembrare che siano le ritmiche nervose del djent a prendere il sopravvento, in realtà troviamo sempre una linea melodica ben definita a guidarci nel labirinto musicale ideato da Hertz Kankarok, il quale, come nel precedente lavoro, si dedica esclusivamente ad una versatile interpretazione vocale lasciano ad Andrea Cavallaro (nei primi tre brani) e a Dario Laletta (nel quarto) l’onere di occuparsi dell’intera parte strumentale e degli arrangiamenti.
Per quanto anomali, questi connubi funzionano a meraviglia e questo nuovo ep si dimostra l’ulteriore sviluppo di un sound che era già apparso ampiamente evoluto in Livores: forse nel complesso la struttura dei brani è leggermente più arcigna, ma i cambi di scenario, talvolta repentini, che fanno approdare il sound su lidi molto più ariosi ed atmosferici, avvengono sempre con magistrale fluidità.
Nei quattro brani che vanno a comporre questo ep non c’è un solo momento di stasi, con i suoni che si rivelano ottimali sia quando al proscenio salgono riff secchi e taglienti sia quando il tutto assume connotati più melodici od evocativi.
Del resto, ascoltando più volte Make Madder Music, mi sono reso conto di quanto sia complesso provare a descrivere i brani, anche per la difficoltà oggettiva nell’individuare un termine di paragone o di ispirazione ben definita: volendo esemplificare al massimo, nel corso del lavoro di volta in volta si manifestano richiami che vanno  da Meshuggah a King Crimson, dai Nevermore ai Tiamat, dai Nine Inch Nails per giungere perfino ai Devil Doll, ma sono citazioni del tutto soggettive e che i,n quanto tali lasciano il tempo che trovano. Ma la cosa che maggiormente conta è il consuntivo finale, rappresentato in questo caso da un lavoro che convince e, in più di un passaggio, entusiasma, passando dalle nervose ruvidezze di una Cargo Cult alla stupefacente solennità del capolavoro Who Is Next, e con le irrequiete Deceive Yourself! e The Great Whirlpool (la cui seconda metà rappresenta la chiusura ideale per qualsiasi disco) a mostrare la capacità di cambiare veste in maniera vorticosa senza soluzione di continuità come i migliori dei trasformisti.
Hertz Kankarok per lavoro ha viaggiato molto ed ha vissuto in diversi paesi, anche extraeuropei: questa sua indole cosmopolita influisce nel suo percorso compositivo non tanto in maniera diretta, perché nella sua musica le pulsioni etniche appaiono ma non in maniera preponderante, quanto nella naturalezza con la quale i vari impulsi vengono assimilati e poi trasformati in sonorità che, pur non offrendo uno stabile punto di riferimento, non appaiono mai dispersive od ancor peggio ridondanti.
Tutto questo consente di affermare, senza tema di smentita, che questo musicista atipico è stato nuovamente in grado di offrire, a distanza di qualche anno, un’ulteriore testimonianza di una sound innovativo e progressivo nel senso più autentico del termine, con il decisivo valore aggiunto di una scrittura ficcante e sempre ben lontana da una sterile esibizione di tecnica, nonostante la possibilità di avvalersi di due compagni d’avventura di eccezionale bravura come Cavallaro e Laletta.
Resta solo da ottenere, per Hertz Kankarok, la consacrazione a questi livelli con un full length, auspicabilmente con l’aiuto decisivo di una label capace di promuoverne a dovere la musica.

Tracklist:
1. Deceive Yourself!
2. Cargo Cult
3. Who Is Next?
4. The Great Whirlpool

Line-up:
Hertz Kankarok – Vocals
Andrea Cavallaro – Guitars, bass, Synths on 1.2.3.
Dario Laletta – Guitars, bass, Synths on 4.

HERTZ KANKAROK – Facebook

Death.Void.Terror. – To the Great Monolith I

To the Great Monolith I si rivela un’esperienza sonica spiazzante o devastante, a seconda di quale sia il grado di compenetrazione di ciascuno verso questo impietoso approccio musicale.

To the Great Monolith I è la prima uscita per questo misterioso progetto musicale di provenienza probabilmente elvetica denominato Death.Void.Terror.

Siamo alle prese con un lavoro che lascia ben poco spazio ad orpelli stilistici o gradevolezze assortite: quello offerto in questo frangente è un maelstrom sonoro che si dipana in forma sperimentale partendo da una base black.
Il risultato che ne scaturisce è composto da due tracce lunghissime, per un totale di circa quaranta minuti, che devono essere affrontate con il giusto spirito per poterne cogliere quanto di valido vi è contenuto.
To the Great Monolith I si rivela infatti un’esperienza sonica spiazzante o devastante, a seconda di quale sia il grado di compenetrazione di ciascuno verso questo impietoso approccio musicale.
In buona sostanza, quella offerta dai Death.Void.Terror. è la colonna sonora di un apocalisse che, probabilmente, è già in corso dal un bel pezzo mentre noi continuiamo a suonare come l’orchestrina del Titanic mentre stiamo colando definitivamente a picco.

Tracklist:
1 (——–)
2 (—-)

Malnàtt – Pianura Pagana

Musicalmente è forse l’album più maturo del collettivo, molto completo dal punto di vista compositivo, e quasi pronto per essere trasposto in una piece teatrale, perché in fondo questo dei Malnàtt è teatro con musica pesante.

Il collettivo bolognese Malnàtt è molto più di un gruppo metal, è un’idea messa in musica pesante.

L’opera del collettivo è sempre stata di alto livello qualitativo e con messaggi molto forti, e anche in questo disco l’approfondimento è notevolissimo. Pianura Pagana è la dimostrazione che il metal può essere arte che nasce dal basso e si propaga per far meglio comprendere ciò che c’è sotto la superficie, ed in questo caso di marcio ce n’è davvero molto. La proposta musicale dei Malnàtt spazia nel mondo del metal, dal black al death, passando per pezzi più prog e sfuriate quasi thrash. In questo progetto la musica è al servizio del messaggio, ma essa stessa è messaggio e da un valore aggiunto molto importante. Tutta l’opera dei bolognesi è di agitazione culturale, quasi fossero una propaggine del collettivo culturale Wu Ming in campo metal. Pianura Pagana è un disco che sa di antico, un sentire con la mente libera da preconcetti e dai tarli della nostra consumistica esistenza. Il disco è una chiara dichiarazione di intenti, un continuo carnevale in senso medioevale, poiché quando suonano questi signori diventano altro da ciò che sono tutti i giorni, come spiegato nella splendida canzone Il Collettivo Malnàtt, che illustra molto bene cosa sia questa entità davvero unica. Il cantato in italiano rende moltissimo e fa l’effetto di una messa pagana senza alcun simbolo, solo l’andare contro la comune morale cristiana e borghese, ricercando il senso della vita e la sua forza, sempre più nascoste in questo mondo di plastica. Musicalmente è forse l’album più maturo del collettivo, molto completo dal punto di vista compositivo, e quasi pronto per essere trasposto in una piece teatrale, perché in fondo questo dei Malnàtt è teatro con musica pesante. Vengono anche smascherati i nostri tic, le normali aberrazioni che ogni giorni imperano in tv, creando quel cortocircuito che nasce mentre vediamo la morte in diretta mangiando tranquillamente con i nostri familiari, sentendoci al sicuro; ma non lo siamo affatto, perché il nemico peggiore siamo noi stessi, siamo noi gli assassini, siamo noi che abbiamo affidato le nostre speranze alla gente sbagliata da più di 2000 anni. Pianura Pagana va ascoltato nota per nota, parola su parola, immagine per immagine, perché è un piccolo capolavoro di coscienza, come li faceva una volta Pasolini; infatti qui i Malnàtt mettono in musica Alla Mia Nazione, e lì dentro c’è tutto.

Tracklist
1. Almanacco pagano
2. Io ti propongo
3. Il Collettivo Malnàtt
4. E lasciatemi divertire
5. Cadaverica nebbia
6. Alla mia nazione
7. Intervallo pagano
8. Qualche parola su me stesso
9. Posso
10. Chiese chiuse
11. Dialogo di marionette

MALNATT – Facebook

Lychgate – The Contagion in Nine Steps

La terza opera della band albionica incute soggezione, non tanto per la mole quanto per la grande quantità di idee, di personalità, di suoni presenti nei sei brani; un vortice di atmosfere vincolate a un suono funeral e black molto personale, cangiante e che non ha eguali nell’attuale scena musicale.

La terza opera della band albionica incute soggezione, non tanto per la mole quanto per la grande quantità di idee, di personalità, di suoni presenti nei sei brani; un vortice di atmosfere vincolate a un suono funeral e black molto personale, cangiante che non ha eguali nell’attuale scena musicale. Sono attivi dal 2013 con l’omonima opera e nel 2015 avevano rifinito la loro idea di musica con Antidote for the Glass Pills, ma ora con questa opera raggiungono un ulteriore livello di arte.

Tutti i testi e la musica sono opera di Vortigern (J.C.Young), drummer in un vecchio progetto black greco, i The One, autori nel 2008 di un buon lavoro come I,Master, che ora suona la chitarra, mentre le vocals sono appannaggio di un grande artista come Greg Chandler (mastermind degli Esoteric); l’unione tra questi due artisti ha generato una creatura sinistra e affascinante che con questa terza opera ci lascia attoniti di fronte alla grandeur, alla magnificenza del loro suono che si nutre di tanti ingredienti per mostrare la propria forza: aromi gotici, heavy-progressive, funeral doom, black impregnano tutti i brani che sono scritti con grande ispirazione. L’uso dell’organo, del piano e del mellotron aggiunge grande potenza, maestosità e teatralità fino dall’opener Republic (per un gioco di suggestioni l’inizio mi ha ricordato il film horror del 1971 – L’abominevole dr. Phibes, con un grande Vincent Price) che incede lenta squarciata dal growl di Chandler a rivaleggiare con il suono oppressivo dell’organo. Un sound stratificato, avanguardistico, permea Unity of Opposites dove oscure linee di basso conducono la danza e permettono all’organo di ricamare suoni in sottofondo; il tocco romantico e lunare dei riff di chitarra accende Atavistic Hypnosis (brano magnifico), che si snoda per quasi nove minuti, coinvolgendo fortemente in un’atmosfera oscura e surreale. Ispirato dal libro The Invincible di Stanislaw Lew (anche i russi Below the Sun sono stati ispirati da questo autore con lo splendido Alien World del 2017) l’opera procede con gli strali dark di Hither Comes the Swarm, altro brano dove giganteggia l’organo e nel quale si assiste all’unica breve sfuriata black nel senso classico del termine, e con The Contagion, dai toni aspri e personali. La più breve Remembrance con toni corali e con una melodia carica di spiritualità chiude un’opera d’arte di gran livello, il cui ascolto è necessario per nutrire il proprio spirito di grandi sensazioni.

Tracklist
1. Republic
2. Unity of Opposites
3. Atavistic Hypnosis
4. Hither Comes the Swarm
5. The Contagion
6. Remembrance

Line-up
A.K. Webb – Bass
S.D. Lindsley – Guitars
T. J. F. Vallely – Drums
J. C. Young “Vortigern” – Guitars
Greg Chandler – Vocals

LYCHGATE – Facebook

Gnaw Their Tongues – Gendocidal Majesty

L’olandese Mories sforna sempre cose interessanti e potentissime, visioni allucinate di un tempo sospeso dove tutto è possibile, un’esperienza che vale la pena fare, tenendo sempre presente che non si tratta di musica, ma un canale dimensionale.

Musica estrema e realmente disturbante, fatta per dare fastidio ed irritare, non certo per intrattenere o altre facezie.

Gnaw Their Tongues, aka Maurice “Mories” De Jong, l’uomo che sta dietro al progetto, è una firma affermata nel panorama estremo ed è un nome che ha un fortissimo e fedelissimo seguito, che ne ama le intemperie. Non è nemmeno esatta la definizione di ascolto per la musica di Gnaw Their Tongues, perché queste frequenze che producono sono un qualcosa che va ben oltre i comuni stilemi musicali, è un’esperienza sonora da vivere fisicamente. Il nostro stomaco e le nostre orecchie vengono messe sottosopra da questo dispiegamento di demoni in forma sonora, come se si aprisse un varco fra noi ed un dimensione differente, non propriamente benevola. Non si può affrontare facilmente Genocidal Majesty, e non è nemmeno nelle intenzioni dell’autore. Questa musica, se così si può definire, non è per tutti né vuole esserlo, la sua missione è far provare paura e smarrimento, non certo piacere o empatia, anzi qui è consigliabile non provare nessuna empatia sennò si impazzisce. Ogni lavoro di Gnaw Their Tongues è un ritorno al passato ancestrale e primitivo dell’uomo, dove la paura era un motore primo del nostro cervello, e ciò ci viene ricordato dal nostro cervello rettile. Genocidal Majesty è la colonna sonora di un massacro, lacerazioni e morte, una dimensione dove i demoni sono finalmente liberi. L’olandese Mories sforna sempre cose interessanti e potentissime, visioni allucinate di un tempo sospeso dove tutto è possibile, un’esperienza che vale la pena fare, tenendo sempre presente che non si tratta di musica, ma un canale dimensionale.

Tracklist
1.Death Leaves the World
2.Spirits Broken by Swords
3.Genocidal Majesty
4.Ten Bodies Hanging
5.The Doctrine of Paranoid Seraphims
6.Cold Oven
7.The Revival of Inherited Guilt
8.To Bear Witness to the Truth
9.Void Sickness

Line-up
Mories: all sounds

GNAW THEIR TONGUES – Facebook

Arkheth – 12 Winter Moons Comes the Witches Brew

Ormai le sperimentazioni in ambito black metal si palesano con tale frequenza che rischiano quasi non stupire più.

Proprio per questo, chi si cimenta sulle vie aperte da qualche audace pioniere nel passato, per ottenere la giusta attenzione ed un meritato riscontro non deve limitarsi a gettare nel calderone qualsiasi elemento gli frulli per la testa, bensì provare a farlo mantenendo ugualmente un equilibrio atto a garantire il mantenimento di un filo logico al proprio operato.
L’australiano Tyraenos appartiene alla categoria, invero non cosi numerosa, di chi è riuscito tutto sommato a raggiungere tale risultato: questo terzo full length in quindici anni targato Arkheth rappresenta la focalizzazione di una visione musicale non comune, alla quale il nostro è pervenuto attraverso un percorso lungo e sicuramente senza fretta, considerando che il precedente lavoro, IX & I: The Quintessence of Algaresh, risale al 2010 e vedeva un inizio di distacco dalle sonorità symphonic black che, invece, erano ben presenti nell’esordio Hymns of a Howling Wind.
12 Winter Moons Comes the Witches Brew è l’approdo ad una forma di black che sicuramente ha molte più possibilità di portare all’attenzione dall’audience il nome Arkheth, benché sia per forza di cose molto meno accattivante rispetto a quella praticata in precedenza: è emblematica in tal senso la traccia iniziale Trismegistus, vero e proprio delirio nel quale il musicista aussie immette pulsioni di qualsiasi genere, con un elemento peculiare quale il sax (suonato dall’ospite Glen Wholohan) ad impazzare in lungo e in largo lungo questi sette minuti che, volendo ricondurre il tutto a qualcosa di conosciuto, ci porta dalle parti di efficaci sperimentatori del black quali gli A Forest Of Stars, specialmente nella magnifica parte conclusiva.
Appare più dissonante e definibile a buon titolo post black un brano come Dark Energy Equilibrium, ugualmente ricco di brillanti intuizioni che si palesano andando a scompaginare un sempre precario andamento rettilineo; è invece una sghemba psichedelia a caratterizzare l’avvio di Where Nameless Ghouls Weep, episodio a tratti forse un po’ troppo cervellotico rispetto al resto del contesto, come si può dire anche della successiva The Fool Who Persists in His Folly, con un sempre notevole contributo del sax.
A Place Under the Sun chiude in maniera relativamente più pacata un lavoro complesso e che lascia sensazioni discordanti: Tyraenos mette molta carne al fuoco, a tratti anche troppa, e nell’inseguire modelli musicali dediti al black avanguardistico, come per esempio Ihsahn, li sorpassa in curva con il rischio di finire talvolta fuori strada.
Il lavoro mostra comunque ben più luci che ombre, con queste ultime rappresentate, oltre che da una naturale frammentarietà, da una produzione non proprio ottimale per un tipo di offerta simile ed uno screaming un po’ inespressivo; rimane però tutto il molto di buono che è rinvenibile all’interno di 12 Winter Moons Comes the Witches Brew, album che rappresenta un ascolto impegnativo ma non privo di soddisfazioni per gli ascoltatori più attenti.

Tracklist:
1. Trismegistus
2. Dark Energy Equilibrium
3. Where Nameless Ghouls Weep
4. The Fool Who Persists in His Folly
5. A Place Under the Sun

Line-up:
Tyraenos – All instruments

Guest/Session
Glen Wholohan – Saxophone

ARKHETH – Facebook

Âqen – Méditation Astrale

Il black metal di Âqen è un qualcosa che va oltre il genere, ci si muove nelle vicinanze dell’atmospheric, ma ci sono anche intarsi di folk, perché la poetica del francese deve molto all’occulto, al mondo che sta oltre e dentro di noi.

Seconda prova per questa one man band francese da Cambrai, Nord – Pas -De Calais. Dopo la prima convincente uscita del 2015, L’Etrange Chemin vers l’Univers Occulte, arriva l’attesa seconda prova, ed è una sicura conferma di quanto espresso in nuce nella prima.

Il black metal di Âqen  è un qualcosa che va oltre il genere, ci si muove nelle vicinanze dell’atmospheric, ma ci sono anche intarsi di folk, perché la poetica del francese deve molto all’occulto, al mondo che sta oltre e dentro di noi. I brani sono delle composizioni che vivono una vita lunga e hanno diversi livelli, partono in una maniera e si concludono in un’altra, praticamente senza ritornello, in una maniera che potrebbe essete definita progressive, ma è più un consapevole flusso di coscienza. Il lavoro di  che sta dietro a tutti gli strumenti è davvero notevole, e la composizione raggiunge livelli orchestrali, ogni singolo momento di canzone è un risvolto importante di una storia che non è cominciata né qui né ora, ma in qualche eone lontano, o solo un secondo fa a due centimetri da noi. Il suono è molto ricco, il disco è quello che vuole essere fin dal titolo, ovvero una meditazione che ha come scopo quello di trascendere il corpo nella sua dimensione astrale e viaggiare lontano. Chiunque abbia raggiunto anche solo per un secondo questo stato lo ricorda come una beatitudine, e questo viaggio forgiato nel black metal lo rammenta molto bene. Il disco è da sentire tutto più e più volte, anche perché ha momenti davvero notevoli ed è un’opera che si degusta meglio se ascoltata attraverso le cuffie. La produzione è eccellente e permette a questa musica di esprimersi al meglio. Addirittura in alcuni passaggi è grande l’influenza di un gruppo come i Behemoth, perché vi sono dei momenti altamente epici che si possono ricondurre allo stile dei polacchi. Magnificenza mai fine a se stessa, perché qui la peculiarità maggiore è quella di progredire sempre attraverso la conoscenza occulta e la meditazione, appunto. Black metal come strumento di meditazione, può sembrare strano, ma per chi ama questo genere sa che non lo è affatto, e questo disco lo dimostra in ogni suo secondo.

Tracklist
1. L’oubli
2. Sinistre cauchemar
3. Terreur intérieure
4. La tempête
5. Dialogue sidéral
6. Abandon
7. Souvenirs perdus

Line-up
Â: Guitars, Vocals, Synth
Kain: Bass
Dévoreur: Drums

AQEN – Facebook

Hardcore Anal Hydrogen – Hypercut

Hypercut è un album che magari si farà fatica ad ascoltare dalla prima all’ultima nota, ma può rivelarsi molto interessante per chi ritiene terribilmente scontata la musica, per così dire, “normale” …

Benché il Principato di Monaco sia da secoli a tutti gli effetti uno stato autonomo, è difficile comunque non considerarlo a tutti gli effetti parte della Francia, non solo geograficamente ma anche culturalmente.

E’ anche per questo, forse, che uno dei rari esempi di metal proveniente dall’incantevole enclave posizionata tra la Costa Azzurra ed il confine italiano, rappresentato dal duo denominato Hardcore Anal Hydrogen, mostra in tutto e per tutto quelle caratteristiche di totale e schizofrenica follia di gruppi transalpini come 6:33 o Pryapisme (solo per citarne due nei quali ho avuto occasione di imbattermi).
In Hypercut non sorprende, quind,i il vedere bandita ogni idea di forma canzone a favore di un espressione sonora volta alla totale imprevedibilità e alla più libera sperimentazione.
All’interno degli undici brani presenti nell’album possiamo trovare frammenti di qualsiasi genere musicale conosciuto, posizionati senza apparente logica né soluzione di continuità: è evidente che un lavoro di queste caratteristiche non potrà mai avere quale sua principale caratteristica l’omogeneità, per cui la maniera ideale per godere dei suoi contenuti è quella di provare ad indovinare da dove possano provenire tutte le pulsioni che si accavallano vorticosamente sullo spartito (che immagino preveda un notevole sforzo mnemonico degli stessi musicisti per non perdere il filo del discorso).
Vista l’impossobilità materiale di scrivere per filo e per segno il contenuto delle singole tracce, proviamo ad individuare alcuni passaggi salienti posizionati nel corso dell’album, utili a far capire cosa ci si debba attendere dall’ascolto di Hypercut: partendo dall’inizio, Jean-Pierre è forse l’unico brano che abbia una vaga idea di forma canzone, almeno nel suo srotolarsi a velocità folle nella prima parte, come in una sorta di punk hardore psicotico che viene successivamente sommerso da un rumorismo elettronico, tratto comune dell’album, che a tratti fa pensare essere stati catapultati in un folle video game, tutto questo non prima di regalare un bellissimo finale a suo modo melodico ed atmosferico.
La roche et le rouleau è, invece, una traccia che più di altre fa riferimento ai già citati 6:33 (autori con Deadly Scenes di uno dei migliori album del decennio), grazie al suo rock’n’roll sghembo e malato , mentre il primo minuto di Murdoc sembra provenire addirittura da Tarkus degli ELP … Capite bene che qui l’unico approccio dell’ascoltatore può essere quello improntato alla massima apertura mentale e, in tal caso, le gratificazioni non mancano perché Sascha e Martyn non mollano mai la presa e soprattutto non si stancano di mutare stili ed umori con la stessa velocità con la quale cambia abito in scena un trasformista
Hypercut è un album che magari si farà fatica ad ascoltare dalla prima all’ultima nota, ma può rivelarsi molto interessante per chi ritiene terribilmente scontata la musica, per così dire, “normale” …

Tracklist:
1. Jean-Pierre
2. Coin coin
3. La roche et le rouleau
4. Paul
5. Blue Cuts
6. Charme oriental
7. Phillip
8. Murdoc
9. Entropie Maximum
10. Sproutch
11. Daube carotte
12. Automne 1992
13. Bontemmieu
14. Alain, l’homme télévitré (Finale)

Line-up:
Sacha Mouk : Vocals, Programming
Martyn Circus : Guitars, Programming

HARDCORE ANAL HYDROGEN – Facebook

Ophe – Litteras Ad Tristia Maestrum Solitude

Nonostante quella targata Ophe sia una forma di avanguardismo quanto mai estrema, l’album possiede una sua logica, per quanto a tratti destrutturata, riuscendo così ad attrarre piuttosto che respingere ogni tentativo d’approccio.

Dopo aver accolto gli ottimi Område, duo francese dedito ad una forma di black metal decisamente poco convenzionale, la My Kingdom cattura anche gli Ophe, che di quella band sono una diretta emanazione trattandosi del progetto solista di Bargnatt XIX.

Parlando l’anno scorso di Nåde, avevo evidenziato come gli Område, pur nella loro vis sperimentale, riuscivano a mantenere il tutto nell’alveo di una forma canzone che rendeva l’ascolto sicuramente non semplice ma neppure eccessivamente cervellotico.
Ben diverso è il discorso da farsi per questo Litteras Ad Tristia Maestrum Solitude, con il quale il musicista lascia sfogare ogni sua pulsione senza porsi particolari limiti stilistici o compositivi, consentendo ad elementi musicali teoricamente alieni al black metal quali il jazz o il noise di arricchire e allo stesso tempo di avvelenare ulteriormente un’atmosfera già abbondantemente malata.
Ne scaturisce così un lavoro non troppo lungo ma intenso e sfidante per le capacità di assimilazione dell’ascoltatore medio: eppure, nonostante quella targata Ophe sia una forma di avanguardismo quanto mai estrema, l’album possiede una sua logica, per quanto a tratti destrutturata, riuscendo così ad attrarre piuttosto che respingere ogni tentativo d’approccio.
Con Litteras Ad Tristia Maestrum Solitude, Bargnatt XIX si spinge anche oltre la tradizione del black sperimentale transalpino ben rappresentata da band come Deathspell Omega e Blut Aus Nord, alzando l’asticella dell’incomunicabilità per raggiungere l’illogica schizofrenia di una band come i Fleurety; però, al contrario del duo norvegese, gli Ophe non illudono l’ascoltatore con passaggi più fruibili per poi quasi deriderlo con momenti a loro modo sconcertanti, ma ne mantengono la testa sempre ben al di sotto della linea di galleggiamento consentendo che un’effimera bolla di ossigeno si palesi solo con la conclusiva Cadent, le cui dissonanze acustiche e la voce carezzevole riescono parzialmente ad edulcorare l’impatto squassante di gran parte del lavoro.
Personalmente ritengo i folli sei minuti di XVIIII l’emblema di Litteras Ad Tristia Maestrum Solitude, con le riminiscenze zorniane che vanno a sovrapporsi all’ottimo lavoro chitarristico del musicista francese, ma anche l’ossessivo mantra recitato sottovoce di Decem Vicibus non è da meno, andando a formare una coppia di tracce più brevi che fungono quasi da spartiacque tra il black metal deviato di Somnum Sempiternum e la cacofonia di Missive Amphibologique D’Une Adynamie A La Solitude.
In buona sostanza, se black metal avanguardista deve esserci, questa è la strada maestra, proprio perché l’operato di Bargnatt XIX non si disperde in mille rivoli di breve gittata, ma rimane nell’alveo in un discorso musicale coerente, per quanto possa apparire nell’immediato inquieto e scostante.

Tracklist:
1. Somnum Sempiternum
2. Decem Vicibus
3. XVIIII
4. Missive Amphibologique D’Une Adynamie A La Solitude
5. Cadent

Line-up:
Bargnatt XIX

OPHE – Facebook

Greyfell – Horsepower

Qui si degustano i fiori del male, come diceva un connazionale dei Greyfell, e il tutto è pervaso da un dolce incantesimo malvagio, che vive di groove pesante e voli nelle varie sfere grazie alle tastiere e synth.

Un’avanguardia, per sua definizione, è un qualcosa che va avanti, marca il sentiero per chi da dietro la vuol seguire, fa nascere cose che ancora non c’erano.

I francesi Greyfell fanno questo e tanto altro, con un suono composto da elementi conosciuti ed usati ma totalmente rielaborati in una sintesi davvero molto efficace. Prendete per quanto riguarda le chitarre un suono ribassato ma non lentissimo, uno sludge doom tanto per intenderci, aggiungete un cantato molto alla Pentagram a volte basso a volte possente, un basso sgusciante, una batteria psichedelica e tastiere che permeano l’atmosfera che vi circonda, e sarete forse arrivati ad un decimo del suono di questi francesi. Il loro particolare impasto sonoro è una psichedelia profondamente altra, dove tutto non è ciò che sembra, e lo scenario muta in continuazione. Certamente vi sono elementi riconoscibili e tutto l’impianto non è totalmente inedito, ma è il tocco dei Greyfell che lo rende una cavalcata davvero senza freni in mezzo agli dei serpenti generati dal grembo di funghi allucinogeni. Non è tanto la potenza, che è tanta, ma è la saturazione mentale che generano nell’ascoltatore, i Greyfell ti catturano la mente e ti fanno volare lontano, ti scagliano per spiegarla meglio. Il disco che esce per Argonauta Records è totalmente fato in autonomia, e il suono è costruito molto bene, in maniera molto chiara e sequenziale come fosse un film. Qui si degustano i fiori del male, come diceva un connazionale dei Greyfell, e il tutto è pervaso da un dolce incantesimo malvagio, che vive di groove pesante e voli nelle varie sfere grazie alle tastiere e ai synth, aggiunti in questo disco, una scelta che ha pagato moltissimo. Molto intenso, molto etereo, una prova di vera avanguardia.

Tracklist
1. The People’s Temple
2. Horses
3. No Love
4. Spirit of the Bear
5. King of Xenophobia

Line-up
Boubakar – Bass
Thierry – Drums
Clément – Guitars
Hugo – Vocals

GREYFELL – Facebook

Monolithe – Nebula Septem

Ancora una volta i Monolithe fanno centro, dimostrando che si può conservare la propria identità anche apportando diverse variazioni al tema portante, che resta pur sempre l’ideale accompagnamento sonoro dei viaggi intrapresi dalla nostra immaginazione al di là del tempo e dello spazio.

Sono passati quindici anni da quando i Monolithe pubblicarono il proprio album  d’esordio.

Ci volle relativamente poco perché la band francese, guidata da Sylvain Bégot, si ritagliasse un suo status di culto presso gli estimatori del funeral doom, soprattutto perché a livello concettuale, invece di ripiegarsi sulle sventure terrene, tentava di elevarsi verso un sentire cosmico con risultati ugualmente angoscianti, a ben vedere.
Ogg, ad accompagnare il leader, tra i membri originari è rimasto solo l’altro chitarrista Benoît Blin, visto che per la prima volta i Monolithe non si avvalgono della voce di Richard Loudin, cosicché in Nebula Septem le parti vocali sono state registrate da Sebastien Pierre (Enshine, Cold Insight), mentre in sede live il ruolo verrà assunto dal terzo chitarrista Remi Brochard.
Come si può intuire dal titolo siamo arrivati alla settima puntata su lunga distanza per la band transalpina (alla cui discografia vanno aggiunti anche i due Interlude, importanti Ep usciti tra Monolithe II e Monolithe III) e tale numero ricorre in maniera puntuale sia nel numero dei brani che nella loro durata, ma al di là di questi aspetti, è confortante constatare come la cadenza di uscite ormai annuale non abbia per nulla scalfito la qualità degli album.
Nebula Septem per certi versi sorprende, perché se in Epsilon Aurigae certe aperture progressive potevano far presagire un ulteriore incremento della componente melodica, il suono al contrario pare addirittura inasprirsi, senza che venga comunque mai meno la propensione atmosferica e l’afflato cosmico che è tratto distintivo dei Monolithe.
Se IV resta, anche a detta dello stesso Bégot nel corso dell’interessante documentario Innersight, l’album più riuscito nella discografia dei nostri, qui andiamo molto vicini al raggiungimento di quel livello, sebbene sia da mettere subito in chiaro che, per un’assimilazione soddisfacente, sono necessari diversi ascolti, in modo da riuscire a cogliere ogni volta sfumature diverse pur se racchiuse in un “monolite” sonoro molto compatto, eretto dalle tre chitarre e sostenute da un eccellente lavoro tastierisco, dal growl magnifico di Pierre e da una base ritmica molto più attiva e in evidenza rispetto alle abitudini del genere.
Del resto la collocazione dei Monolithe nell’ambito del funeral doom appare più una convenzione che non una reale fotografia delle loro attuali sonorità, definibili più correttamente come un metal estremo cosmico e avanguardista, non troppo distante per approccio neppure da certe forme di black/space atmosferico.
Nebula Septem, per come è strutturato, va assorbito nella sua interezza, perché parlare dei singoli brani sarebbe abbastanza inutile: basti sapere comunque che almeno i primi ventotto minuti sono superlativi (dovendo scegliere mi prendo l’accoppiata Burst in the Event Horizon / Coil Shaped Volutions), mentre l’incipit da videogame di Engineering the Rip potrebbe risultare spiazzante per cui è bene dire che il tutto dura ben poco, prima che la galassia musicale denominata Monolithe ricominci ad abbattersi come di consueto sull’ascolatore, fino a chiudere i giochi con lo strumentale Gravity Flood, spruzzato di elettronica all’avvio e poi melodico e dolente come da copione doom.
Ancora una volta i Monolithe fanno centro, dimostrando che si può conservare la propria identità anche apportando diverse variazioni al tema portante, che resta pur sempre l’ideale accompagnamento sonoro dei viaggi intrapresi dalla nostra immaginazione al di là del tempo e dello spazio.

Tracklist:
1. Anechoic Aberration
2. Burst in the Event Horizon
3. Coil Shaped Volutions
4. Delta Scuti
5. Engineering the Rip
6. Fathom the Deep
7. Gravity Flood

Line-up
Benoît Blin – Guitars
Sylvain Bégot – Guitars, Keyboards, Programming
Olivier Defives – Bass
Thibault Faucher – Drums
Rémi Brochard – Guitars, Vocals
Matthieu Marchand – Keyboards

Sebastien Pierre – Vocals

MONOLITHE – Facebook

Almyrkvi – Umbra

L’operato di Jónsson colpisce per maturità e qualità e, laddove l’aggettivo atmosferico rischia d’essere utilizzato a sproposito, sicuramente l’interpretazione del genere targata Almyrkvi è molto lontana da quella tradizionale.

Il black metal proveniente dall’Islanda continua ad assumere sempre più importanza di pari passo alle varie sfaccettature che ogni band o progetto solista finisce per esibire.

Almyrkvi è uno degli ultimi frutti di una terra apparentemente arida ed ostile, ma terribilmente ricca dal punto di vista artistico: la band nasce da una costola dei già noti Sinamara, il cui chitarrista Garðar S. Jónsson si fa carico di tutto il comparto compositivo e strumentale, con l’eccezione dalla batteria affidata al già collaudato compagno d’avventura Bjarni Einarsson.
Anche la definizione black metal sta assumendo via via significati differenti a seconda dell’angolazione da cui lo si guardi e, forse, talvolta finisce per apparire addirittura riduttiva: in Umbra, infatti, si rinvengono pulsioni cosmiche e sperimentali che possono rimandare ai Blut Aus Nord ma anche ai più recenti Monolithe (che sicuramente black metal non suonano), il tutto però fatto in maniera così avvincente e personale da raccomandare chi legge a prendere queste citazioni solo come un’indicazione di massima del tipo di sonorità contenute nel lavoro.
L’operato di Jónsson colpisce per maturità e qualità e, laddove l’aggettivo atmosferico rischia d’essere utilizzato a sproposito, sicuramente l’interpretazione del genere targata Almyrkvi è molto lontana da quella tradizionale: qui aleggia costantemente un sentore di gelida minaccia che, quando pare acquietarsi, improvvisamente prorompe in esplosioni repentine, quasi il flusso sonoro corrispondesse a quelle meravigliose anomalie naturalistiche che sono i geyser così diffusi lungo l’irrequieto suolo vulcanico dell’isola.
Parlare delle singole tracce è un esercizio al quale mi sottraggo, ritenendo che Umbra sia un lavoro da ascoltare come se fosse un unico lunghissimo brano; mi limiterò a dire che l’opener Vaporous Flame è forse il momento più morbido e accessibile di un album che, a partire dalla successiva Forlorn Astral Ruins, si trasforma in una terrificante colata di nera lava, alla quale contribuisce il notevole growl di Jónsson, musicista sopraffino al quale il buon Einarsson non fa certo mancare un decisivo supporto ritmico.
Una delle più belle sorprese dell’anno, peccato solo l’aver ascoltato quest’album a classifiche già stilate, perché, per quel che può valere, avrebbe trovato posto davvero molto in alto.

Tracklist:
1. Vaporous Flame
2. Forlorn Astral Ruins
3. Severed Pillars of Life
4. Stellar Wind of the Dying Star
5. Cimmerian Flame
6. Fading Hearts of Umbral Nebulas

Line-up:
Garðar S. Jónsson – All compositions & instruments
Bjarni Einarsson – Drums

ALMYRKVI – Facebook

Minipony – Imago

Dischi come questo mostrano quante potenzialità ancora inesplorate ci siano nella musica pesante, un viaggio che continua.

I Minipony sono un duo formatosi a Bologna nel 2012, composto da Amadeus Galiano alla chitarra ed Emilia Moncayo alla voce, campionamenti e rumore.

La loro musica è uno strano e devastante ibrido di metal sperimentale, unito ad una dose di djent e qualcosa del thrash. Infatti il thrash doveva essere il genere prescelto come indirizzo sonoro, ma alla fine è prevalsa la curiosità e la voglia di percorrere sconosciuti sentieri sonori. Il loro suono è molto all’avanguardia, un attacco sonoro con linee musicali simili a quelle dei Meshuggah, per intenderci, spesso a ritroso nel tempo, con un’aggressività notevole e molto forte. Ci sono momenti nei quali si rimane sospesi come nei dischi del gruppo svedese, anche se qui si parla di qualcosa di maggiormente influenzato da generi dalle coordinate molto tecniche. Il fatto che siano solo in due non è per nulla limitante, anzi si rivelano un piccolo esercito metallico che avanza noncurante creando stati mentali differenti. Le voci maschili e femminili si alternano in maniera molto adeguata, creando un valore aggiunto. Il mondo che questo disco di esordio va a comporre è fatto di tante storie diverse, il tutto raccontato con una musica davvero devastante e completa sotto ogni punto di vista. Lavori come questo mostrano quante potenzialità ancora inesplorate ci siano nella musica pesante, un viaggio che continua. Attualmente i Minipony si sono trasferiti in Ecuador per la composizione e produzione di un altro disco e stanno preparando anche uno spettacolo da portare in giro per il mondo.

Tracklist
1.Intro
2.MilkWithSilk
3.Finish Hanging Drain Big Red Space
4.Gatos
5.Imago
6.The Meeting
7.Dragònprincesa
8.Human Centipede
9.Elephants Walking Over Spider Webs
10.Minipony Meat

Line-up
Amadeus Galiano – guitars, drums programming
Emilia Moncayo – lyrics, vocals, sampling

MINIPONY – Facebook

Urarv – AURUM

Aldrahn, il carismatico leader, afferma “we’re traveling to remote regions of metal music and mental space with this music”. Sono sicuramente sulla buona strada!

La faccia moderna del black metal è quella mostrata dai norvegesi Urarv che esordiscono, dopo un demo del 2016, con Aurum per la Svart Records: band nuova, ma capitanata da una “vecchia” conoscenza come Aldrahn, con illustre passato alle vocals e alle chitarre in Thorns, Dodheimsgard di Kronet Till Longe, Monumental Possession, A Umbra Omega senza dimenticare gli Zyklon-B.

Tutte band di alto livello alle prese con le diverse sfaccettature del black, dall’avantgarde all’ industrial e anche il nuovo progetto proclama con fierezza che l’arte nera ha sempre e ancora molto da dire. Opera potente, a suo modo visionaria, che in otto brani devastanti mostra sotto la superficie tante particolarità che possono essere colte dopo ripetute frequentazioni del disco; i ritmi martellanti carichi di tensione di Ancient DNA fanno da impalcatura per le linee melodiche nervose e spigolose della chitarra e le vocals, vero trademark, passano da veri e propri ululati a scenari deliranti, scagliando invettive piene di sinistro odio. Aldrahn ha un suo particolare stile, non è uno scream classico, ha una capacità interpretativa magnetica che identifica e rende peculiare ogni brano; in Broken Wand le linee vocali sono malevole e per niente rassicuranti, trascinando l’ascoltatore verso un abisso profondo, mentre la musica prodotta dal trio (Sturt al basso e Trish alla batteria) cavalca impetuosa per ricercare “uncharted territories”.
L’ inizio terremotante di Guru, nel suo impressionante divenire, scaglia proiettili incandescenti che annichiliscono il non prudente ascoltatore; le atmosfere gelide di Valens Tempel ricordano pagine indelebili del miglior black nordico, ma proiettano anche il suono verso spazi inesplorati, con vocals istrioniche e cangianti.
I nove minuti della finale Red Circle sublimano la ricerca sonora della band, con un suono teso, carico, dove la linea melodica si deve ricercare nel profondo della struttura e non affiora mai in superficie.
Band strana al di fuori dei normali canoni del genere, ma affascinante nella sua ricerca di un suono personale: credo però che il meglio debba ancora arrivare!

Tracklist
1. Forvitringstid
2. Ancient DNA
3. The Retortion
4. Broken Wand
5. Guru
6. Valens Tempel
7. Fancy Daggers
8. Red Circle

Line-up
Aldrahn – Guitars, Vocals
Sturt – Bass
Trish – Drums

URARV – Facebook

Blut Aus Nord – Deus Salutis Meæ

Chapeau a Vindsval, unica mente dei Blut Aus Nord che, dopo venti anni di musica estrema, dimostra una creatività senza pari, presentandoci un’opera breve ma intensa e ricca di stimoli emozionali.

Creatura mutevole i transalpini Blut Aus Nord, attivi ormai sulla scena black metal dal lontano 1995 con “Ultima Thulee”; da qualche album (la trilogia 777) tutto è nelle mani e nel multiforme ingegno di Vindsval, che dimostra anche in questa opera, Deus salutis meae, una grande capacità compositiva ed esecutiva sempre alla ricerca di sensazioni forti.

Nella loro lunga carriera discografica i Blut Aus Nord hanno sempre cercato di rielaborare il verbo black, allargando i confini della musica estrema; non si sono mai persi in derive convenzionali e con un un sacro fuoco interiore hanno dato vita a opere estreme sempre varie e di alta qualità, spingendo l’ascoltatore a continue sfide uditive ed emozionali. E’ il caso anche di questa opera, breve nei suoi trentatré minuti, ma molto intensa e densa nel definire un sound quasi alieno nel fondere death, aromi doom e black nella sua forma più industrial e meno raw; dieci brani, compresi tre intermezzi dai titoli in greco carichi di sonorità dark ambient. Fin dal primo vero brano, Chorea Macchabeorum, il suono è intrigante, sorprendente, distruttivo con fredde linee di synth, taglienti e potente drum machine; le linee vocali, non preponderanti in tutto l’album, sono sommerse dagli strumenti e fuoriescono sinistre e demoniache intessendo raggelanti litanie (Impius). Il suono ha qualcosa di alieno e demoniaco allo stesso tempo, il blend sonoro creato da Vindsval è unico ed è difficile a un primo ascolto, cogliere le tante sfumature nei brani, tutto è fuso in modo vitale e ha un qualcosa di allucinogeno; brani come Apostasis, violenti, carichi di suoni dissonanti ed obliqui, dimostrano che la musica estrema ha ancora molto da dire; i ritmi incalzanti si “ammorbidiscono” in Abisme e lambiscono territori doom titanici e carichi di tensione, dove non vi è alcuna speranza per il genere umano. Le traiettorie sonore che si intersecano in ogni brano danno un tocco avanguardistico, le lobotomizzanti schegge chitarristiche invitano alla catarsi e dimostrano una ricerca non comune, distante dalle recenti opere della band. Una cover virata su varie tonalità di grigio e nero, ad opera della artista ucraina Anna Levytska, dà un tocco visionario alla grande energia dell’opera. Vindsval offre un’ulteriore prova della sua grande vitalità artistica, che è lungi dall’essere esaurita, visto che sono annunciati la IV parte di Memoria Vetusta e un misterioso progetto a nome La lumiere sous le monde. Opera da ascoltare e metabolizzare con molta calma.

Tracklist
1. δημιουργός
2. Chorea Macchabeorum
3. Impius
4. γνῶσις
5. Apostasis
6. Abisme
7. Revelatio
8. ἡσυχασμός
9. Ex Tenebrae Lucis
10. Métanoïa

Line-up
W.D. Feld – Drums, Electronics, Keyboards
Vindsval – Guitars, Vocals
GhÖst – Bass
Thorns – Drums

BLUT AUS NORD – Facebook

Fleurety – The White Death

I Fleurety continuano bellamente a fregarsene di ogni convenzione e riversano sull’ascoltatore un groviglio di suoni che trovano una loro effettiva ragione d’essere nelle sole occasioni in cui la forma canzone prende realmente corpo.

Un disco dei Fleurety è un qualcosa destinato a produrre reazioni contraddittorie: così troveremo chi ne esalterà il coraggio e la vis sperimentale e chi, invece, lo derubricherà ad una meno nobile “cagata pazzesca” di fantozziana memoria.

Normalmente, nell’affrontare opere di questo genere, tendo a non assumere una posizione definita, in un senso o nell’altro, non tanto per rifugiarmi in un comodo cerchiobottismo, quanto perché spesso, a spunti effettivamente geniali, fanno da contraltare momenti sinceramente difficili da digerire.
The White Death è il terzo full lenght degli avanguardisti norvegesi, ed arriva ben diciassette anni dopo il precedente: uno spazio temporale che equivale ad una vita, discograficamente parlando, riempita parzialmente da diversi ep confluiti poi nella compilation Inquietum, uscita qualche mese fa.
Passati ai servizi della Peaceville, Svein Egil Hatlevik e Alexander Nordgaren continuano bellamente a fregarsene di ogni convenzione e riversano sull’ascoltatore un groviglio di suoni che trovano una loro effettiva ragione d’essere solo quando esibiscono una vena poetica vicina al migliore Tony Wakeford (stonature incluse), nelle uniche due occasioni in cui la forma canzone prende realmente corpo (The Ballad of Copernicus e Future Day, oggettivamente entrambe molto belle); il resto è un susseguirsi di dissonanze inframmezzate talvolta dalla viziosa voce di Linn Nystadnes (interessante specialmente in Ambitions of the Dead) , approdando in quella scomoda terra di nessuno nella quale è davvero difficile capire se il risultato che ne scaturisce sia frutto di un’irrefrenabile genialità o di semplice mancanza di idee e di talento.
Personalmente, pur essendo propenso ad ascolti che esulano dai normali canoni, fatico non poco ad entrare in sintonia con il duo norvegese, anche perché, come dimostrano ampiamente i brani citati, la capacità di produrre musica tutt’altro che convenzionale ma di grande impatto, anche emozionale, è senz’altro nelle corde dei Fleurety; nonostante ciò i nostri, invece, continuano pervicacemente a cercare forzature con il solo risultato di annoiare o, comunque, a rendere The White Death un ascolto tutt’altro che agevole, probabilmente anche per gli stessi propugnatori del “famolo strano”, al di là delle dichiarazioni di facciata.
Detto questo, ognuno faccia le proprie valutazioni al riguardo: la mia, semplicemente, è che questo nuovo lavoro dei dei Fleurety ripasserà di rado nel mio lettore.

Tracklist:
1. The White Death
2. The Ballad of Copernicus
3. Lament of the Optimist
4. Trauma
5. The Science of Normality
6. Future Day
7. Ambitions of the Dead
8. Ritual of Light and Taxidermy

Line-up
Svein Egil Hatlevik – Drums, Vocals (lead)
Alexander Nordgaren – Guitars

Guests:
Krizla – Flute
Flipz – Vocals (backing)
Carl-Michael Eide – Bass, Vocals
Linn Nystadnes – Vocals

FLEURETY – Facebook

Bushi – Bushi

Bushi è un disco originale e un tentativo di cambiare le coordinate della ricerca musicale in campo pesante, perché qui è usato ad esempio con molta intelligenza anche il pop.

Bushi è un nome nuovo nel panorama rumoristico italiano, ed è nato da un’idea di Alessandro Vagnon,i membro di Bologna Violenta, ex Dark Lunacy ed ex Infernal Poetry, che ha curato le musiche, i testi e e grafiche del disco.

Ad accompagnarlo in questa nuova avventura nei territori del sonicamente inesplorato sono Davide Scode, ex Kingfisher, e Matteo Sideri, militante nei Ronin, negli Above The Tree & E Side e Maria Antonietta. Il disco si ispira all’etica samurai, e soprattutto descrive la distanza tra essa e la nostra società attuale. Musicalmente l’orizzonte è vario e multiforme, e si rimane piacevolmente stupiti dalla costruzione musicale, dato che non troviamo molto di estremo, mentre invece c’è un grande ricerca di una struttura musicale magniloquente ed in grado di accompagnare l’ascoltatore. I testi sono haiku, un metro poetico giapponese che riesce a far convivere potenza immaginativa e brevità in maniera inconsueta per noi gaijin. Il disco è prog metal nella concezione che potrebbe avere un Les Claypool, perché c’è un gusto di prog molto diverso, come poteva essere almeno concettualmente quello dei Coheed And Cambria, nel senso di ricerca altra di un tecnicismo espressivo. Le canzoni sono corpose e hanno una struttura ben definita e nulla viene lasciato al caso, soprattutto per quanto riguarda la fusione della voce con la musica. Bushi è un disco originale e un tentativo di cambiare le coordinate della ricerca musicale in campo pesante, perché qui è usato ad esempio con molta intelligenza anche il pop. Bushi è una piacevole sorpresa, essendo un disco che può assumere forme diverse, e dal vivo sarà ancora un’altra cosa. Vagnoni ha confezionato davvero un qualcosa che durerà nel tempo e che sarà apprezzato da chi ama la musica pe(n)sante. Continua l’ottimo lavoro nel sottobosco della Dischi Bervisti, che per qualità e cura fa musica artigianato.

Tracklist
1.Rolling Heads
2.The Cherry Tree
3.A Well-Aimed Blow Of Naginata
4.Runaway Horses
5.The Book Of Five Rings
6.Typhoons
7.Hidden In Leaves
8.Death Poems

Line-up
Alessandro Vagnoni
Davide Scode
Matteo Sideri

BUSHI – Facebook

In Human Form – Opening of the Eye by the Death of the I

Quella degli In Human Form è un’espressione musicale oggettivamente elevata quanto ambiziosa, ma rivolta inevitabilmente ad un’audience molto ristretta, che corrisponde appunto a chi apprezza in toto tutto quanto sia sperimentale ed avanguardista.

Gli americani In Human Form appartengono a quella categoria di band che, indubbiamente, non hanno tra le loro priorità quella di suonare musica accattivante allo scopo di ricevere consensi immediati.

Il progressive black offerto dal gruppo del Massachusetts è quanto di più ostico e dissonante sia possibile immaginare e non stupisce più di tanto, quindi, il fatto che sia finito nell’orbita di un’etichetta come la I,Voidhanger.
Patrick Dupras, con il suo screaming aspro, strepita le proprie liriche su un’impalcatura musicale nella quale solo apparentemente ogni strumento sembra andare per proprio conto ma, in realtà, appare evidente che cosi non è, anche se in più di un passaggio sembra di cogliere le stimmate di un’improvvisazione che tale resta a livello di fruibilità, per quanto evoluta.
La stessa struttura dell’album, con tre tracce della durata media attorno al quarto d’ora, inframmezzate da altrettanti brevi iintermezzi strumentali, conferma, semmai ce ne fosse stato bisogno, la volontà di lasciar fluire senza alcun limite un’ispirazione obliqua che, oggettivamente, se respinge al mittente ogni tentativo di approccio benevolo all’opera, pare aprirsi leggermente non dico ad una forma canzone, che resta un idea lontana anni luce dall’immaginario degli In Human Form, almeno a passaggi che vengono resi meno criptici da lampi melodici.
Sia Zenith Thesis, Abbadon Hypothesis che Through an Obstructionist’s Eye, infatti, sono ampie dimostrazioni di quanto i nostri abbiano la capacità di rendere meno ostica la loro proposta in ogni frangente, ma facendolo perfidamente in maniera ben più che sporadica: nel primo troviamo passaggi meditati assieme a sfuriate di stampo black più canoniche, ma è chiaro che, comunque, il sound resta inquieto e cangiante anche se in questo frangente sembra aprirsi più di un varco nelle spesse recinzioni sonore erette dalla band, mentre nel secondo, posto in chiusura dell’album, trova posto persino un bell’assolo di chitarra, strumento che nell’arco del lavoro viene offerto con un’impronta per lo più jazzistica.
Per quanto mi riguarda, nel lavoro ho riscontrato in eguale misura passaggi davvero eccellenti assieme altri eccessivamente cervellotici e, contrariamente a quanto affermo solitamente, qui la voce appare sovente un elemento di disturbo piuttosto che un completamento del lavoro strumentale.
Quella degli In Human Form è un’espressione musicale oggettivamente elevata quanto ambiziosa, ma rivolta inevitabilmente ad un’audience molto ristretta, che corrisponde appunto a chi apprezza in toto tutto quanto sia sperimentale ed avanguardista, caratteristiche che certo non fanno difetto a Opening of the Eye by the Death of the I.

Tracklist:
1. Le Délire des Négations
2. All is Occulted by Swathes of Ego
3. Apollyon Synopsis
4. Zenith Thesis, Abbadon Hypothesis
5. Ghosts Alike
6. Through an Obstructionist’s Eye

Line up:
Nicholas Clark – Guitars, bass guitar, alto saxophone, keyes, backup vocals
Rich Dixon – Drums, percussion, guitars
Patrick Dupras – Vocals, lyrics

IN HUMAN FORM – Facebook