Selcouth – Heart Is The Star Of Chaos

Un lavoro ambizioso che ha bisogno di essere apprezzato con la dovuta calma degli ascoltatori più attenti, un’opera che potrà piacere o meno ma indubbiamente di grande originalità.

Album affascinante e di difficilissima interpretazione, Heart Is The Star Of Chaos, debutto dei Selcouth licenziato dalla I, Voidhanger Records, si presenta come un caleidoscopio di influenze e generi musicali assemblati in un unico sound dalle mille sfumature, atmosfere e suoni,

Dietro al monicker si nasconde una multinazionale di musicisti, provenienti da vari paesi del mondo come la Finlandia, la Francia, la Spagna, la Russia e l’Argentina; infatti membri di Khanus, Smohalla, Stagnant Waters, Pryapisme, Fixions, As Light Dies, Aegri Somnia e Monje de Fuego fanno parte di questa colonia di talenti che vanno a comporre una line up interminabile.
Tutta questa abbondanza porta ad un unico risultato, sorprendere l’ascoltatore con sfumature e linee melodiche cangianti, in un’alternanza di musica senza confini , continuamente in movimento tra il bianco ed il nero, l’estremo e la melodia, ma sempre difficilmente catalogabile.
I nove brani formano una lunga jam di musica senza barriere tra l’eleganza del jazz e della fusion, l’intricata melodia del progressive più evoluto e l’irruenza del metal, con voci delle più disparate che si danno il cambio al microfono, per nulla scontate ma perfettamente inserite nelle varie atmosfere dei capitoli che formano Heart Is The Star Of Chaos.
La parola d’ordine è sorprendere e l’album è un viaggio visionario  e pieno di sorprese, dentro un vortice di musica che accoglie in sé lo spirito della musica moderna, progressivamente fuori dagli schemi.
Heart Is The Star Of Chaos è un lavoro ambizioso che ha bisogno di essere apprezzato con la dovuta calma degli ascoltatori più attenti, ed un’opera che potrà piacere o meno ma indubbiamente di grande originalità, posizionandosi a tratti tra le visionarie partiture degli Arcturus e Solefald.

TRACKLIST
1. Strange Before The Calm
2. Nightspirit
3. Gaia
4. Querencia
5. Hopes And Lost Treasures
6. Below Hope
7. Sunless Weather
8. Flying Canopies
9. Rusticus

LINE-UP
Joonas “Sovereign” Juntunen
Markus Liimatainen
Aymeric Thomas
Meltiis
Juuso Juntunen
Mikko Nuorala
Vincent “Slo” Cassar
Andres Ruiz
Oscar “Nightmarer” Martin
Ai Vihervaara
Milja Juntunen
Tuukka Myllymäki

SELCOUTH – Facebook

The Ruins Of Beverast – Exuvia

La musica dei The Ruins Of Beverast va ben oltre qualsiasi etichetta, esplicitandosi in una forma che sfida le convenzioni e la banalità, ma risultando ugualmente, per assurdo, meno ostica di quanto si potrebbe supporre.

Pochi mesi dopo l’ottimo ep Takituum Tootem, ecco giungere l’atteso nuovo full length dei The Ruins Of Beverast.

Alexander Von Meilenwald, il musicista tedesco che è dietro questo progetto, prosegue con questo suo quinto lavoro su lunga distanza l’opera di consolidamento di uno status derivante da un’espressione stilistica peculiare ed in costante evoluzione.
Rispetto all’ep vengono mantenuti i riferimenti etnici riferiti alla cultura dei nativi americani, che in più di un brano si manifestano tramite invocazioni rituali e vocalizzi femminili, il tutto all’interno di una struttura definibile black/doom solo per consentirne un’approssimativa identificazione.
In realtà, la musica dei The Ruins Of Beverast va ben oltre qualsiasi etichetta, esplicitandosi in una forma che sfida le convenzioni e la banalità, ma risultando ugualmente, per assurdo, meno ostica di quanto si potrebbe supporre, in virtù di una capacità si scrittura non comune che consente a Von Meilenwald di piazzare, in ogni traccia, passaggi chiave capaci di attrarre fatalmente l’attenzione avvinghiando l’ascoltatore senza alcuna remissione.
Ne è l’esempio più eclatante la lunga title track posta in apertura, magnifico viaggio rituale di oltre un quarto d’ora nel quale le ossessive note in sottofondo si ripetono come un mantra, mentre la musica fluttua sovrapponendosi a voci salmodianti o a quella più canonica dell’autore, che invece in altri frangenti dell’album esibisce tonalità in scream e un growl.
Il resto di Exuvia si dipana così tra sentori sperimentali, sprazzi industriali, dissonanze che difficilmente si dissolvono in melodie compiute ma che mantengono sempre elevatissimo il carico di tensione, spingendosi oltre l’ora di durata, un qualcosa di molto vicino ad un suicidio artistico per chiunque non fosse in grado di esibire la stessa chiarezza d’intenti del musicista di Aachen .
L’album va ascoltato uscendo dalla logica del track by track, perché ne verrebbe sminuito l’impatto avvolgente, ed arrivare alla nuova versione di Takitum Tootem!, posta in chiusura, risulterà impegnativo quanto gratificante.
Così, come l’exuvia (l’esoscheletro abbandonato da diverse specie di crostacei, insetti e aracnidi dopo la muta), la musica targata The Ruins Of Beverast si trasforma dopo ogni ascolto in un involucro testimone di un estro compositivo che, nello stesso momento in cui viene rilevato si sta già trasferendo altrove, pronto ad mostrare ulteriori e visionari bagliori creativi.

Tracklist:
1.Exuvia
2.Surtur Barbaar Maritime
3.Maere (On A Stillbirth´s Tomb)
4.The Pythia´s Pale Wolves
5.Towards Malakia
6.Takitum Tootem (Trance)

Line up:
Alexander Von Meilenwald

THE RUINS OF BEVERAST – Facebook

Below the Sun – Alien World

Spesso il secondo disco può nascondere insidie ma la band siberiana, traendo linfa vitale da un masterpiece della fantascienza, crea un viaggio affascinante e misterioso.

DOOM, profondamente doom con intense venature “progressive” e sfumature death il secondo lavoro dei siberiani Below the Sun a due anni di distanza dall’esordio Envoy; il misterioso quartetto si ripresenta con un’opera difficile, con un concept tratto dal masterpiece Solaris del 1961 del grande scrittore polacco Stanislaw Lem, libro affascinante di fantascienza filosofica trasposto cinematograficamente dal regista russo Tarkovskij.

I musicisti russi raccolgono la sfida e in otto lunghi brani ci impressionano con un lavoro cangiante, ricco di suoni e idee creando una immaginifica “colonna sonora”, un viaggio carico di emozioni, di introspezione, di ricerca interiore; opera non facile da comprendere, sono necessari molti ascolti per apprezzare appieno il labirinto di suoni che la band crea senza utilizzare alcun synth o keyboard: ciò è stupefacente perché chi ascolta non può non rimanere rapito di fronte agli ampi spazi strumentali concepiti all’interno dei vari brani.
L’opener Blind Ocean nei suoi dieci minuti di durata esplora lo spazio fin dall’inizio per poi porci di fronte alla grandezza di una forma aliena, l’oceano intelligente che ricopre completamente la superficie del pianeta Solaris, creando un mix di emozioni che vanno dallo stupore alla paura, fino al lirismo intenso della parte finale dove la chitarra solista intesse trame fitte, ricche, romantiche e molto introspettive. Suoni post-metal avvolgono e rendono le altre composizioni cariche di mutevole fascino come in Giants Monologue dove una cadenza pesante e lenta crea una atmosfera di misteriosa attesa che lentamente si richiude in sé stessa. Un sentito plauso alla band perché sicuramente l’idea del concept ha stimolato molto l’inventiva dei musicisti e li ha suggestionati nell’elaborare e comporre un disco veramente bello, maestoso e misterioso.

TRACKLIST
1. Blind Ocean
2. Mirrors
3. Giant Monologue
4. Dawn for Nobody
5. Release
6. Dried Shadows
7. Black Wave
8. In Memories

LINE-UP
Void Drums, Vocals
Vacuum Guitars
Quasar Guitars, Vocals
Lightspeed Bass

BELOW THE SUN – Facebook

Område – Nåde

Gli Område ribaltano le abitudini di buona parte del metal rock avanguardista, dando la priorità alla sostanza più che all’apparenza.

Due anni dopo l’ottimo Edari si ripresenta il duo francese Område, sempre sotto l’egida della My Kingdom.

Nulla è cambiato nella approccio musicale di Arsenic e Bargnatt XIX e questo è solo un bene, anche perché chi interpreta la materia musicale con tale ispirazione ed originalità non potrà mai apparire né scontato né ripetitivo: infatti, il particolare insieme di stili che aveva favorevolmente impressionato nella precedente occasione viene riproposto con uguale freschezza.
Il viaggio che l’ascoltatore deve compiere attraverso le striature dell’album non è semplice né privo di controindicazioni, specie se non si è disposti naturalmente ad accogliere tutte le contaminazioni provenienti da generi che, normalmente, esulano dalle sfere di competenza del metal e del rock, con il trip hop, l’elettronica più soffusa o il jazz a recitare un ruolo fondamentale.
Tanto per fornire un parametro puramente indicativo, chi apprezza il percorso tortuoso ma affascinante tracciato dagli Ulver avrà di che nutrirsi in abbondanza, alla luce di una profondità che non viene mai meno a livello di contenuti, e di un connubio tra tecnica esecutiva e produzione che esalta ogni singolo momento di Nåde, questo anche perché il duo ricorre ad una manciata di ospiti in grado di fornire un valore aggiunto con il loro apporto strumentale.
Gli otto brani che compongono l’album sono tutti belli e degni di menzione, certo però che le linee melodiche di Styrking Leið si fanno ricordare, così come il trip hop dell’opener Malum costituisce l’ideale porta d’accesso al lavoro, con la delirante The Same For The Worst, con tromba e tastiere ad impazzare sovrastando uno screaming alternato a vocalizzi femminili, a suggellare un lavoro che impressiona nuovamente per qualità.
Perché la bravura degli Område sta proprio in un aspetto in cui falliscono spesso gli sperimentatori, ovvero nel riuscire a conferire ad ogni brano la forma canzone, eliminando del tutto passaggi che non siano funzionali all’economia di ogni brano.
In buona sostanza, questi due francesi ribaltano le abitudini di buona parte del metal rock avanguardista, dando la priorità alla sostanza più che all’apparenza: un senso melodico sempre ben radicato nel sound ed una chiarezza d’intenti che si percepisce anche nei passaggi più intricati sono le chiavi di lettura che rendono Nåde un altro ottimo esempio di musica genialmente obliqua.

Tracklist:
1. Malum
2. XII
3. Enter
4. Hänelle
5. Styrking Leið
6. The Same For The Worst
7. Baldar Jainko
8. Falaich

Line Up:
Arsenic (Jean-Philippe Ouamer): Drums, Electronics & Keys
Bargnatt XIX (Christophe Denhez): Guitars & Vocals

Special Guest:
Bass guitar by Julien ‘Jiu’ Gebenholtz
Additional vocal on “The Same For The Worst” by L. Chuck D
Additional guitar on “XII” by Bernard-Yves Querel
Additional guitar on “Styrking Leið” & “Falaich” by Edgard Chevallier
Clarinet on “Hänelle” by Jonathan Maronnier
Sax on “XII” & “The Same For The Worst” by Leo Sors

OMRADE – Facebook

Hteththemeth – Best Worst Case Scenario

Best Worst Case Scenario è un album che ha le carte in regola per trovare molti estimatori anche nel resto d’Europa, trattandosi di un’opera sorprendente per versatilità e creatività.

Hteththemeth è un progetto musicale che ha mosso i suoi primi passi alla fine del secolo scorso, per volere di Läo Kreegan and Jamm Klirk.

Risale al 1999, infatti, l’unico full length realizzato dal gruppo fino al 2016, anche se di fatto l’album di cui parleremo ora, Best Worst Case Scenario, ha iniziato a prendere vita nel 2000 per essere poi progressivamente completato e rifinito solo in questo decennio, quando Kreegan, perso per strada l’iniziale compagno di avventura, si è attorniato di un gruppo di validi e giovani musicisti.
Ciò ha consentito alla band rumena di farsi un nome in patria, suonando con una certa continuità dal vivo e partecipando con successo a diversi contest di prestigio (ultimo dei quali quello che ha consentito loro di salire sul palco di Wacken l’anno scorso).
Best Worst Case Scenario è un album che ha le carte in regola per trovare molti estimatori anche nel resto d’Europa, trattandosi di un’opera sorprendente per versatilità e creatività, in quanto spazia senza smarrirsi tra generi che, a tratti, si potrebbero considerare antitetici.
Il lavoro assume le sembianze di un concept, che è poi la soluzione più logica per giustificare i costanti cambi di tempo, stile ed umore che lo permeano: se la base del sound può essere ricondotta al prog metal, l’introduzione repentina di umori blues, soprattutto, spesso spariglia le carte senza che il tutto finisca per apparire frammentario.
Il racconto, così come la genesi della band ed il suo stesso impronunciabile monicker,  pare sia stato ispirato da un sogno fatto da Kreegan e verte sulle diverse fasi di un’esistenza che, progressivamente, da un’apparente perfezione giunge infine alla rovina: è sempre difficile interpretare tutto quanto abbia natura onirica, di certo però aiuta non poco ad immergersi nel clima del lavoro l’ottimo art work, visionario quanto la musica in esso contenuta.
Best Worst Case Scenario possiede così tutti i crismi per una messa in scena teatrale, che corrisponde  a quella proposta sia su disco sia dal vivo da Kreegan, che non è un vocalist con doti fuori dal comune ma riesce, comunque, a conferire il giusto pathos alla propria interpretazione: volendo fare un parallelismo un po’ azzardato si potrebbe considerare il vocalist di Brasov una sorta di Jon Oliva rumeno, sia fisicamente, sia per la timbrica da crooner che utilizza soprattutto nelle parti blues.
E sicuramente i Savatage, o ancor più forse la Transiberian Orchestra, appaiono quali naturali punti di riferimento iniziali per gli Hteththemeth, anche se l’album trova un accostamento ancor più logico ed attuale con il magnifico Maestro degli israeliani Winterhorde, sia pure collocandosi ancora un gradino sotto rispetto ad un simile capolavoro.
Una prima parte notevole, ma per certi versi più lineare, nella quale spiccano le ampie melodie di Light Truths e il prog metal nervoso di They Will Not Believe What I Will Say, viene letteralmente sovvertita da The Romantic Side of Paris, brano che in avvio sembra provenire da Cafè Bleu degli Style Council (ma cantato dal Mountain King invece che da Paul Weller) per poi trasformarsi in un torrido blues, nel quale un profondo segno viene lasciato da un hammond assassino, il tutto replicato poi dalla delirante Olga’s Little Secret, nella quale la commistione linguistica tra il rumeno e l’inglese si rivela del tutto vincente.
You Are My Last Girlfriend è il brano di punta dell’album, essendo dotato di spunti melodici difficili da rimuovere dalla mente, con tanto di splendido assolo di chitarra finale; da qui in poi l’album parrebbe riprendere un andamento più “normalmente progressivo” che viene nuovamente rivoltato da una I Get and I Give but I Never Forget and I Never Forgive all’interno della quale scorrono diverse sfumature musicali di ogni tipo senza che tutto ciò, incredibilmente, possa apparire illogico.
La bravura degli Hteththemeth è, paradossalmente, proprio quelle di preparare fin da subito l’ascoltatore al procedere caleidoscopico dell’album, facendo sì che ogni cambiamento di “scenario” (migliore o peggiore che sia, parafrasandone il titolo) non appaia qualcosa di inatteso, bensì di assolutamente naturale e strettamente connaturato ad un racconto delirante.
In definitiva, Best Worst Case Scenario si rivela un lavoro convincente dalla prima all’ultima nota: la “unhuman music” (come la ama definire Kreegan) viene eseguita dalla band con notevole perizia, andando ad aggiungere una nuova freccia all’arco di una scena metal rumena sempre più vivace. Considerando che gli Hteththemth hanno finalizzato solo oggi un lavoro che aveva preso vita praticamente all’inizio del secolo, prendendo slancio dai buoni riscontri ottenuti in patria potrebbero essere spinti, in un prossimo futuro, a produrre nuovo materiale altrettanto interessante: sicuramente, chi non ama complicarsi la vita mettendo paletti ovunque, troverà di che divertirsi con questo stimolante album.

Tracklist:
1. The Prophecy
2. They Will Not Believe What I Will Say
3. Light Lies
4. Light Truths
5. Happy to Be Sad
6. The Romantic Side of Paris
7. Best Worst Case Scenario
8. Olga’s Little Secret
9. You Are My Last Girlfriend
10. The Calm Before the End
11. I’m in Hate
12. I Get and I Give but I Never Forget and I Never Forgive
13. The Romantic Side of Perish
14. They Will Not Believe What I Have Done
15. Epiclogue

Line up:
Lao Kreegan – Vocals
Robert Cotoros – Guitars, Vocals (backing)
Costea Codrut – Drums
Lucian Popa – Guitars
Vlad Andrei Onescu – Keyboards
Koldr – Bass

HTETHTHMETH – Facebook

Diĝir Gidim – I Thought There Was the Sun Awaiting My Awakening

Da un luogo “sconosciuto” notevole esordio di incompromissorio e magmatico black metal.

Entità aliene provenienti da lontani mondi, demoni sputati fuori da innominabili profondità, questo il quesito che mi sono posto ascoltando i Diĝir Gidim, duo proveniente da un luogo ignoto, che esordisce dal nulla con un opus misterioso, affascinante, per nulla di facile ascolto.

L’unica notizia è che uno dei due musicisti, Lalartu, ha esordito nel 2016 con il suo progetto black ambient Titaan, mentre Utanapistim Ziusudra, che suona tutti gli strumenti, è del tutto sconosciuto. La label italiana ATMF, sempre attenta nella ricerca di nuove emozioni black metal, li fa esordire con un full di quattro lunghe composizioni all’insegna di un black metal intenso, magmatico, cangiante, ritualistico, devoto al fascino di antichi mondi, in questo caso la Mesopotamia; il Diĝir è un simbolo cuneiforme che rappresenta la suprema divinità Anu deus otiosus, mentre Gidim rappresenta l’ombra o lo spirito della persone morte; già altre band hanno subito il fascino delle Civiltà Egizie, vedi Nile e Melechesch, ma con i Diĝir Gidim il tutto, sia a livello concettuale che a livello musicale, si spinge maggiormente in profondità scavando a fondo e generando gelide emozioni in chi si vorrà far trasportare in questo flusso infinito di note e vocals straziate.
I quattro lunghi brani costituiscono un flusso costante e continuo in cui ritualistici cori, scream feroci e incompromissori, note dissonanti di chitarre si inseguono, si confondono per creare un massa incandescente dove alcune linee melodiche sono talmente oscure da atterrire l’ascoltatore; il termine estremo in questo caso assume, per chi vi si avventura, un effetto assolutamente catartico. Le spire gelide di vortici impazziti nell’oscurità infernale del primo magnifico brano si collegano, si amalgamano con cori di dei ancestrali, adorati ma non capiti, in un continuum senza luce né speranza, in abissi infiniti dove non vi è alcun filtro ma solo nichilismo assoluto: la presenza di un dio autoritario e vendicativo nega a menti schiave qualunque forma di ribellione e affrancamento. Il sound, che trova la sua genesi nei Deathspell Omega, nei Blut Aus Nord, è ribollente, non conosce pause liberatorie, tutto si stratifica, si attorciglia, si fonde e lascia alla fine dell’ascolto una sensazione di spossante purificazione. Da assimilare a piccole dosi, ma assolutamente da sentire!

TRACKLIST
1. The Revelation of the Wandering
2. Conversing with the Ethereal
3. The Glow Inside the Shell
4. The Eye Looks Through the Veils of Unconsciousness

LINE-UP
Utanapištim Ziusudra – All instruments and Music
Lalartu – Vocals and lyrics

DIGIR GIDIM – Facebook

src=”https://bandcamp.com/EmbeddedPlayer/album=2322564852/size=small/bgcol=ffffff/linkcol=0687f5/transparent=true/” seamless>I Thought There Was the Sun Awaiting My Awakening by DIGIR GIDIM

Red Harvest – HyBreed

The Soundtrack to the Apocalypse: ristampa fondamentale per una band geniale e avvincente, da maneggiare con cura …

Ogni anno il mondo musicale è sommerso da grandi quantità di materiale e diventa sempre più difficile, anche per chi si diletta come “cercatore d’oro”, seguire tutte le uscite, nuove o ristampe che siano; in questo caso rischia di passare inosservata la reissue di un autentico capolavoro della leggenda underground norvegese Red Harvest, band attiva fin dal lontano 1989 con il demo Occultica, con il suo suono claustrofobico figlio di commistioni industrial, death, doom e ambient.

La ristampa in questione, Hybreed, presentata in un elegante confezione accompagnata da una copertina virata rosso deserto e con un secondo cd contenente un concerto reunion del 2013, presenta il loro apice creativo, anche se i successivi quattro full esalteranno e completeranno il loro percorso artistico. L’opera, uscita nel 1996 per Voices of Wonder, si articola su undici brani che presentano un grande varietà di suoni miscelati sapientemente tra loro, a partire dal opener Mazturnation, breve, ma intenso urlo ribelle di entità aliene alla natura bizzarra, per poi proseguire con il lento cammino di un’anima ruggente in Lone Walk; l’incipit di questa opera è già magistrale ma è con il prosieguo dei brani che si rimane stupefatti di fronte alla magnificenza regalataci da cinque grandi artisti: Mutant, urgente messaggio da un futuro graffiante e oscuro, After All, quattro minuti in cui sembrano scontrarsi oscuri eserciti di anime bruciate che ci narrano di inferni micidiali, l’oasi elettroacustica lugubre e metropolitana di Ozrham, screziata da fredde percussioni anticipa lo zenith On sacred ground, dove una maestosa melodia si apre lentamente in un mondo pesante, plumbeo e greve: un brano veramente magnifico! La materia fluttuante e le cascate laviche che accompagnano The Harder they fall trovano fugace quiete nell’ottavo brano Underwater, dove il lento salmodiare è squarciato da strali improvvisi di oscura luce; gli ultimi tre brani, Monumental, In deep (sinistra ambient) e The Burning wheel, portano a completa sublimazione l’arte di una band che tanto ha dato e poco o niente ha ricevuto. Ripetuti ascolti porteranno assuefazione e gioveranno allo spirito in questi tempi privi di certezze; la promessa da parte della band di un comeback discografico nel 2017 ci lascia speranzosi di poter ascoltare altre meraviglie.

TRACKLIST
1.Maztürnation
2.The Lone Walk
3.Mutant
4.After All…
5.Ozrham
6.On Sacred Ground
7.The Harder They Fall
8.Underwater
9.Monumental

CD2
1.In Deep
2.The Burning Wheel
3.Live BlastFest 2016
4.Omnipotent
5.The Antidote
6.Hole in Me
7.Godtech
8.Cybernaut
9.Mouth Of Madness
10.Sick Transit Gloria Mundi
11.Absolut Dunkel-Heit

LINE-UP
Jimmy Bergsten – Vocals, Guitars, Keyboards
Cato Bekkevold – Drums
Thomas Brandt – Bass
Ketil Eggum – Guitars
Lars Sørensen – Samples, Keyboards

RED HARVEST – Facebook

Ashenspire – Speak Not Of The Laudanum Quandary

Gli Ashenspire testimoniano nel migliore dei modi come il metal possa essere usato in maniera splendida e struggente per bilanciare narrazioni assai false.

L’Inghilterra ha sempre provato a tacere le proprie nefandezze e brutture, e dell’epoca vittoriana abbiamo un’immagine il più possibile romantica, mentre in realtà è stata un’epoca di progresso ma anche di un terribile tenore di vita per molti.

Prendiamo ad esempio Londra, che era una città divisa in due: nel West End la minoranza ricca, mentre nell’East End la massa di poveri e proletari, ammassati uno sull’altro, spesso costretti a pagare per vivere in luride case, vittime poi di inquinamento o di violenza. E qui tacciamo la vicenda di Jack Lo Squartatore, che ha anche avuto una valenza sociale non abbastanza indagata nella storiografia, perché ha fatto luce sulle condizioni di vita di una larga fetta di popolazione. Ora attraverso il metal gli scozzesi Ashenspire producono un sublime concept album sull’epoca vittoriana e più in particolare sul troppo taciuto imperialismo inglese. La maggior parte della popolazione mondiale quando si parla di imperialismo pensa agli Stati Uniti D’America, mentre i più grandi imperialisti della storia sono stati gli inglesi. Il loro impero si allungava sul mondo intero, e oltre ad esportare usi e costumi hanno anche regalato molta oppressione a tanti popoli. Gli Ashenspire con toni molto gotici e drammatici mettono l’accento anche sulla distruzione del popolo britannico attuata dai loto stessi governanti, perché attraverso l’imperialismo si provava anche a risolvere il problema dei poveri, sia mandandoli dall’altra parte del mondo sia facendoli morire in patria. Il gruppo di Glasgow concepisce un’opera fuori dal comune e bellissima, e sembra di essere a teatro mentre si ascolta Speak Not Of The Laudanum Quandary, un disco che va ben oltre la solita fruizione di musica popolare. I perfetti intarsi di piano e violino, la completa compenetrazione fra gli altri strumenti rende questo disco un autentico gioiello, con canzoni che diventano suite e ci trasportano nelle situazioni descritte. Il progetto è stato concepito da Alastair Dunn, batterista del gruppo, che militando nel gruppo black metal Enneract si era giustamente stufato del nazionalismo di bassa lega vigente nel black metal e si era dato l’obiettivo, completamente raggiunto con questo disco, di usare la musica per dare al pubblico una visione più oggettiva della storia, senza colorarla con falsi colori. Questo disco, che usa diversi toni del metal, dal prog al gothic, dal post all’heavy, tenendo fermo come modelli i misconosciuti Devil Doll, ha un tono drammatico notevolissimo, con passaggi immensamente belli, e anche momenti di musica ottocentesca rivista in chiave moderna. Speak Not Of The Laudanum Quandary è un disco che va in profondità in situazione ed argomenti poco piacevoli ma molto più reali della falsa visione che si vuole dare di un impero malvagio ed oscuro, impilato su sangue e ossa, ma anche composto da paura e miseria,e questo disco ce lo sbatte in faccia in una maniera elegantissima e bellissima. Gli Ashenspire testimoniano nel migliore dei modi come il metal possa essere usato in maniera splendida e struggente per bilanciare narrazioni assai false.

TRACKLIST
1.Restless Giants
2.The Wretched Mills
3.Mariners at Perdition’s Lighthouse
4.Grievous Bodily Harmonies
5.A Beggar’s Belief
6.Fever Sheds
7.Speak Not Of The Laudanum Quandary

LINE-UP
Alasdair Dunn – Drums, Sprechgesang
Fraser Gordon – Guitars
James Johnson – Violin, Percussion
Petri Simonen – Bass

ASHENSPIRE . Facebook

Lesbian – Hallucinogenesis

Dall’underground del metal estremo una piccola gemma da scoprire lentamente!

Logo black metal, nome che colpisce l’attenzione, questi cinque musicisti, alcuni derivanti dagli Accused (“Martha splatterhead”), dagli Asva e dai Burning Witch, sono giunti al quarto full in circa dieci anni di attività e continuano ad elaborare, attorcigliare il loro suono attorno a derive doom, sludge, death, progmetal, black, stoner per un risultato che appare caotico ma sempre intelligibile.

Non è assolutamente facile “catalogarli” ma forse il modo migliore per approcciarli è lasciarsi trasportare in questo caos sonoro, stordente, talvolta anche fuori fuoco, ma del resto anche già a partire dalla cover ci indicano la strada; non parliamo poi del concept che regge tutta l’opera “collisione sulla terra di un asteroide ripieno di spore fungine con la creazione di una nuova alba e di una nuova coscienza\spiritualità in cui sopravvive il KOSMOCERATOPS come signore di questa nuova terra”.
Mentre nel loro precedente “Forestelevision” avevano deflagrato con il brano omonimo di quarantacinque minuti, ora il nuovo full presenta quattro brani (dai nove ai quindici minuti) ed è pubblicato dalla americana Translation Loss, nota per pubblicare molte band dal suono “indefinito” (Mouth of an Architect, Intronaut, Rosetta…); fino dal primo loro lavoro “Power Hor” del 2007 i Lesbian continuano a miscelare nel modo più “weird” (con titoli delle song come Pyramidal existinctualism o La brea borealis) possibile i vari generi dal black al death, dal progmetal allo stoner lanciandosi in selvagge cavalcate volte a fondere tutti i suddetti generi, il tutto accompagnato dal growl o dallo scream del nuovo singer Brad Mowen.
Bisogna, come spesso accade, essere nel mood giusto per poter apprezzare, anche dopo ripetuti ascolti queste miscele sonore create da musicisti che non hanno mai timore di ampliare i loro e i nostri orizzonti sonori.

TRACKLIST
1. Pyramidal Existinctualism
2. La Brea Borealis
3. Kosmoceratops
4. Aqualibrium

LINE-UP
Daniel J. La Rochelle – Guitars (rhythm)
Bradley J. Mowen – Vocals
Arran E. McInnis – Guitars (lead)
Dorando P. Hodous – Bass, Vocals
Benjamin P. Thomas-Kennedy – Drums, Percussion

LESBIAN – Facebook

C​:​\​>CHKDSK /F

Il disco potrebbe essere la colonna sonora di un videogioco.

Il dibattito sull’intelligenza artificiale non è noto al grande pubblico, e qualcosa che molto probabilmente ci comanderà tra qualche umano, vive tra noi.

La progressiva deumanizzazione che ci avvolge ha partorito un disco che è il sogno ad orecchie aperte di ogni metallaro appassionato di colonne sonore dei videogiochi o dell’ 8 bit. Questo sottogenere di un sottogenere è qualcosa di orgogliosamente nerd, ma questo disco è meraviglioso, suona benissimo, con uno spirito punk synth metal davvero notevole. Il disco potrebbe essere la colonna sonora di un videogioco, e Masterboot Record sarà presto autore della colonna sonora di un videogioco cyberpunk della Theta Division Games, software house che regalerà parecchie gioie. La cura musicale messa in questa opera è notevole, e tocca diversi stili come il cyberpunk, ed il new retrowave, rimanendo sempre nell’ambito delle colonne sonore dei videogiochi. Dentro c’è anche tanto metal, quel metal elettronico che rene certi massacri su schermo così speciali, e rilassanti. Questo suono ci porta contemporaneamente nel passato e nel futuro, con quel retrogusto anni ottanta, che soltanto chi ha giocato con un floppy disk può capire. Questo è il futuro passato, un’ombra sul nostro futuro, ed un microchip emozionale dal passato. Ma soprattutto è un disco forte e potente, importante nella sua chiarezza e nella sua tremenda alterità.

TRACKLIST
1.O.SYS
2.MSDOS.SYS
3.XCOPY.EXE
4.CONFIG.SYS
5.AUTOEXEC.BAT
6.COMMAND.COM
7.FORMAT.EXE
8.NWOSHM.TXT
9.BAYAREA.BMP
10.VIRTUAVERSE.GIF

MASTER BOOT RECORD – Facebook

In The Woods… – Pure

Gli In The Woods… sono nuovamente tra noi, differenti forse, ma sempre capaci di esprimersi ad un livello qualitativo sconosciuto ai più.

A metà degli anni ’90, nel pieno dell’ondata black che arrivò a stravolgere buone e cattive abitudini del metal estremo, apparvero più o meno dal nulla gli In The Woods…, band che dal genere prendeva certamente le mosse per spingersi senza porsi troppi limiti verso orizzonti psichedelico progressivi che, solo in seguito, troveranno un certo successo grazie a nomi quali Arcturus, Ulver e Solefald.

Heart Of The Ages (1995) e il successivo Omnio (1997) furono dei veri fulmini a ciel sereno che arrivavano a dimostrare quanto quella genia di musicisti non fosse in grado di farsi notare solo per un’urgenza espressiva selvaggia, che spesso trovava sfogo anche al di fuori del campo artistico, ma avesse in nuce le stimmate di un talento e di un potenziale innovativo che sarebbe emerso negli anni a venire.
Un meno brillante Strange in Stereo, nel 1999, pareva aver segnato la fine di usa storia trascinatasi fino all’uscita del live del 2003, andando a collocare gli In The Woods… nell’affollato novero delle band di culto, quelle capaci di restare impresse nell’immaginario degli ascoltatori pur avendo dato il meglio in una manciata di dischi racchiusa in un breve spazio temporale.
E invece, neppure gli In The Woods… si sottraggono alla tentazione della reunion, che vede alle prese tutti e tre i fondatori (i fratelli Botteri e Anders Kobro) raggiunti dal muscista inglese James Fogarty alias Mr.Fog.
Veniamo al dunque, quindi, parlando del nuovo album intitolato Pure: l’ispirazione pare non essere stata annacquata dal trascorrere del tempo, ma appare evidente quanto questo lavoro sia in qualche modo più fruibile rispetto ai capolavori di metà anni ’90, pur mantenendo intatta l’attitudine avanguardista della band norvegese.
Non che questo sia un male, chiariamolo: Pure è davvero un bellissimo disco, che in oltre un’ora di durata va a lambire tutte le sfumature sonore alle quali i nostri ci avevano abituato ma, tenendo conto dell’evaporazione dell’effetto sorpresa che esaltava i contenuti di Heart Of The Ages ed Omnio, va letto in un’ottica diversa rispetto al passato.
L’errore più grande che può commettere chi ha amato quei lavori è attendersi da questa nuova uscita, targata Debemur Morti, qualcosa di simile per freschezza e potenziale innovativo: gli In The Woods…, contrariamente alle attese, vanno molto più diretti alla ricerca dell’obiettivo, raggiungendolo tramite brani intrisi di splendide melodie, alternate a qualche robusta accelerazione che non va però ad incrinare un substrato fondamentalmente progressive, al quale il retaggio black dona quel velo di oscurità e malinconia che rende magnifica più di una traccia.
Emblematica sicuramente la trascinante title track, posta in apertura, che trova subito un suo possibile contraltare nella cupezza della successiva Blue Oceans Rise; i rallentamenti ai confini del doom di The Recalcitrant Protagonist e l’intensità di Cult Of Shining Stars sono anch’essi segni indelebili di una classe che non è andata perduta ma, se persistessero ancora dei dubbi, i venticinque minuti conclusivi rimarcano quanto questa band alla fin fine ci sia mancata, perché le splendide e suadenti atmosfere del lungo strumentale Transmission KRS ed il crescendo evocativo di This Dark Dream e Mystery Of The Constellations non sono un qualcosa che possa uscire dalla penna di musicisti appena nella media.
Siamo nel 2016, gli In The Woods… sono nuovamente tra noi, differenti forse, ma sempre capaci di esprimersi ad un livello qualitativo sconosciuto ai più. Bentornati.

Tracklist:
1.Pure
2.Blue Oceans Rise (Like A War)
3.Devil’s At The Door
4.The Recalcitrant Protagonist
5.The Cave Of Dreams
6.Cult Of Shining Stars
7.Towards The Black Surreal
8.Transmission KRS
9.This Dark Dream
10.Mystery Of The Constellations

Line-up:
James Fogarty – Vocals, Guitars and Keys
X-Botteri – Guitars
C:M Botteri – Bass
Anders Kobro – Drums

IN THE WOODS… – Facebook

Minenwerfer / 1914 – Ich Hatt Einen Kameraden

Uno split unico e magnifico, che raggiunge perfettamente lo scopo che si era preposto, quello di ricordare quei caduti, persone prima vive e con una storia, amori ed errori, ora solo un fiore in un campo lontano.

Concept split tra due grandi gruppi, per una pubblicazione di altissimo valore.

Il disco è un concept album sulla prima guerra mondiale, focalizzato sugli stati d’animo e le durissime situazione che hanno dovuto affrontare i soldati di entrambi gli schieramenti. A prima vista questo split potrebbe sembrare politicizzato, ma non lo è affatto, anzi ha un valore documentale molto alto. La musica di questi due gruppi ci porta con il cuore prima e con il cervello poi sul campo di battaglia, e possiamo vedere i soldati vivere, ma soprattutto morire, cadere come mosche in un’immensa carneficina, dono degli umani al nero signore. I due gruppi protagonisti dello split vengono da due paesi che erano su opposti schieramenti durante la Prima Guerra Mondiale, i Minenwerfer vengono dal nuovo mondo, più precisamente da Sacramento, California, mentre i 1914 sono ucraini di L’Viv. I Minenwerfen, che era il nome di un mortaio a corta gittata che montava proiettili da 7,58, molto usato dall’esercito tedesco, poiché serviva a bombardare piccole fortificazione e trincee, come quel mortaio aggrediscono con il loro war black metal, devoto al classic black, ma con grandi inserti delle nuove tendenze, ed il tutto è molto distruttivo e potente, perfettamente inquadrato nel quadro del concept album.
La seconda parte dello split vede gli ucraini 1914 compiere un gran lavoro di documentazione storica e sonora, proponendo un suono industrial black, al quale questa definizione sta davvero stretta. Il loro incedere è davvero estremo ed unico, poiché fondono insieme diverse istanze, dal death al black ed un tocco industrial, come nel pezzo Gas Mask, dove la claustrofobia raggiunge davvero livelli estremi, e fa persino capolino l’ 8 bit, dando un grandissimo valore aggiunto al disco.
Uno split unico e magnifico, che raggiunge perfettamente lo scopo che si era preposto, quello di ricordare quei caduti, persone prima vive e con una storia, amori ed errori, ora solo un fiore in un campo lontano. Ed il black metal continua ad essere una guerra.

TRACKLIST
1.Minenwerfer – First Battle of the Masurian Lakes
2.Minenwerfer- Battle of Bolimów (Weisskreuz)
3.Minenwerfer – Iron Cross (Ostfront 1915 Version)
4.Minenwerfer – Second Battle of the Masurian Lakes
5.1914 – An Meine Völker!
6.1914 – Karpathenschlacht (Dezember 1914 – März 1915)
7.1914 – 8 × 50 mm. Repetiergewehr M.95
8.1914 – Gas mask (Eastern front rmx)

ARCHAIC SOUND – Facebook

Wrekmeister Harmonies – Light Falls

Il prodigio del giorno che diventa notte, in un dolce scomparire della luce, e poi tutto nero, terribile eppure bellissimo. Come la musica dei Wrekmeister Harmonies.

Una lenta, graduale caduta di ogni cellula e fibra del nostro corpo in un buio dominato dalla caduta della luce. La luce in alcuni casi cade, e la musica può descrivere benissimo il senso della perdita di ciò che per noi è il bene più prezioso : la luce.

Torna uno dei migliori collettivi musicali della terra, i Wrekmeister Harmonies, ora in formazione sicuramente più minimale rispetto al passato, anche perché nei dischi precedenti transitano ivi una trentina di musicisti per volta, e che musicisti, il meglio dell’avanguardia. I Wrekmeister Harmonies sono un gruppo speciale, un unicum nella musica, e con questo disco lo dimostrano ampiamente. Fondati dal visionario J R Robinson nel 2006, hanno subito mostrato un qualcosa di decisamente diverso rispetto a tutti gli altri gruppi. Dopo il successo dell’ultimo album Night Of Your Ascension, JR ha sentito il bisogno di cambiare stile compositivo ed obiettivi. Il titolo prende spunto da romanzo di Primo Levi, Se Questo è un Uomo, scritto sulla sua esperienza ad Auschwitz. Levi, morto suicida nella sua Torino, tratta soprattutto dell’idea che l’uomo diventa inumano quando tutti accettano questo cambio senza remore, e quindi anche imprigionare un uomo per la sua razza diviene normale. Parole che suonano quanto mai attuali. La musica dei Wrekmeinster Harmonies è puro rumore che genera poesia, è poderosa, delicata, coccola e colpisce al volto, senza soluzione di continuità. Si spazia in molti generi, dal post rock, al post metal, dalla new wave al drone, sempre su livelli altissimi. Tutto qui ha un significato ben preciso, e sembra di sentire una sezione poetica dei Neurosis, giusto per far capire da che parte si potrebbe andare. Light Falls è una connessione tra noi stessi e una strana forza eterea che attraversa il mondo e ci fa mutare, girare e vivere. Questo gruppo è un’entità in continuo movimento, una dolce mutazione, un cullarsi mentre tutto intorno diviene buio. E infatti il prodigio del giorno che diventa notte, in un dolce scomparire della luce, e poi tutto nero, terribile eppure bellissimo. Come la musica dei Wrekmeister Harmonies.
“ Stay In, Go Out, Get Sick, Get Well, Light Falls”.

TRACKLIST
1.Light Falls I – The Mantra
2.Light Falls II – The Light Burns Us All
3.Light Falls III – Light Sick
4.The Gathering
5.Where Have You Been My Lovely Son?
6.Some Were Saved Some Drowned
7.My Lovely Son Reprise

WREKMEISTER HARMONIES – Facebook

Sektemtum – Panacea

Band di Montpellier che offre un’eccezionale prova a 360° di musica pesante, dal black al death, dal crust al groove metal, sempre diverso, sempre di ottima qualità.

Band di Montpellier che offre un’eccezionale prova a 360° di musica pesante, dal black al death, dal crust al groove metal, sempre diverso, sempre di ottima qualità. Panacea potrebbe essere la risoluzione a molti dei nostri mali, almeno di quelli musicali.

Dopo cinque anni di silenzio, e la separazione dal precedente cantante, i Sektemtum ritornano con una prova furiosa e magnifica, fatta di musica suonata con il cuore e lo stomaco, lanciandosi in uno stage diving lungo molta della musica pesante conosciuta.
E tutto funzione molto bene, con canzoni di attitudine hardcore, perché questi francesi hanno molto da dire e lo gridano forte. Vi è anche molta sofferenza, molto disagio accumulato e tirato fuori con questa catarsi musicale davvero molto interessante. Il disco è vario tanto da sembrare una compilation, ma non cade mai nella confusione o in strani cul de sac, scorrendo benissimo e facendo venire voglia di ripremere play, o di girare più volte il vinile.
Come tutte le opere è difficilmente catalogabile, e qui vi è la sua grandezza. Comandano i loro ascolti, le loro sensazioni, incidendo un disco composto quasi dal vivo con ottimi risultati. Istantanee di rabbia e vita.

TRACKLIST
1. Place à la Comédie
2. Ebony Grand Master
3. Direction Cataclysme
4. Empire
5. Pantheon
6. Le Crépuscule des Idoles
7. Bad Winds
8. Lord Hear Our Prayers
9. 218’
10. Subsonic
11. Zero Bravo
12. Panacea

LINE-UP
REL
REV3REND
SIX

SEKTEMTUM – Facebook

Wormfood – L’Envers

Anche se l’ombra dei Type O Negative aleggia in maniera percepibile, se c’è un qualcosa che non fa difetto ai Wormfood è proprio la personalità, che è ben delineata dalla prima all’ultima nota di un lavoro che va in crescendo dopo ogni ascolto.

I francesi Wormfood agitano la scena musicale del loro paese fin all’inizio del millennio è hanno già all’attivo cinque album sulla lunga distanza, incluso quest’ultimo parto intitolato L’Envers.

Nati con basi estreme, come molte altre realtà transalpine si sono poi evoluti lentamente verso forme avanguardiste ma, rispetto ad altri, i Wormfood riescono a focalizzare meglio le loro pulsioni innovative senza mostrarsi mai troppo cervellotici.
Questo avviene anche grazie ad una particolare assonanze sonora ai grandi Type O Negative: tale vicinanza alla storica band statunitense non deriva soltanto dal il tono di voce profondo che il leader Emmanuel Lévy ha in comune con il compianto Peter Steele, ma anche per un sound che si sposta sovente verso quella particolare forma di gothic doom capace di ammantare i brani di un’oscurità soffusa ed inquieta.
Del resto, la presenza in qualità di ospite di Paul Bento, già sodale di Steele ai tempi dei Carnivore e capace di valorizzare con il suo sitar un capolavoro come Bloody Kisses e non solo, fornisce una sorta di imprimatur alla band francese in qualità di degna e credibile portatrice del verbo dei TON.
Infine, ad accomunare ulteriormente le due band c’è anche la presenza di un leader dalla personalità geniale quanto tormentata, al netto delle differenze costituite dal differente background culturale: un aspetto questo, che nei Wormfood caratterizza in maniera decisiva il sound, enfatizzandone la teatralità attraverso l’interpretazione istrionica di Lévy .
Un teatro che, alla fine, è il tema conduttore dell’album, anche se qui si parla di una rappresentazione artistica macabra e grottesca, in ossequio all’umore sardonico che alleggia sull’intero lavoro: tutto ciò che ne scaturisce potrebbe anche risultare indigesto a chi non apprezza più di tanto né tali sfumature né, soprattutto, l’idioma francese che, d’altronde, è assolutamente funzionale alla resa finale costituendo, nel contempo, un fondamentale fattore distintivo
In L’Envers si susseguono brani di ottimo livello: al netto della lunga introduzione recitata, si procede in maniera sempre efficace tra sonorità avanguardiste e magnifiche aperture melodiche nelle quali, spesso, sono le tastiere a tenere banco assieme, ovviamente, all’eclettica e profonda vocalità di Lévy .
Il riferimento alla band newyorchese diviene esplicito in quello che pare quasi un esperimento medianico, ovvero l’unico brano cantato in inglese, Gone On The Hoist (G.O.T.H.), nel quale Steele viene riportato letteralmente in vita dal singer francese, con il contributo decisivo del sitar di Bento e dell’hammond “silveriano” suonato produttore dell’album Axel Wursthorn.
Mi redo conto che questi costanti riferimenti potrebbero far pensare di primo acchito ad un derivativo lavoro di scopiazzatura, ma vorrei spazzare il possibile equivoco in maniera netta: se c’è un qualcosa che non fa difetto ai Wormfood è proprio la personalità, che è ben delineata dalla prima all’ultima nota di un lavoro che va, peraltro, in crescendo dopo ogni ascolto, riservando nel finale le cose migliori benché la sua prima parte sia già notevole.
Gehenna, per esempio, è una canzone formidabile, ricca di enfasi drammatica e di repentine aperture melodiche, ovvero il tratto comune di un intero disco da godersi sedendosi in poltrona ed immaginando di trovarsi al cospetto di un palcoscenico sul quale attori inusuali esibiscono la loro arte putrida e perversa.
L’Envers è l’ennesima prova della vitalità di una scena francese fatta di band che prediligono muoversi in maniera obliqua rispetto ai vari generi, e l’atavica rivalità che ci contrappone da sempre ai vicini d’oltralpe non deve mai farci perdere di vista la necessaria obiettività nel giudicarne l’operato, specie in un campo come quello artistico in cui il tifo o lo sciovinismo non hanno alcuna ragion d’essere.

Tracklist:
1. Prologue
2. Serviteur du Roi
3. Ordre de Mobilisation Générale
4. Mangevers
5. Gone On The Hoist (G.O.T.H.)
6. Collectionneur de Poupées
7. Géhenne
8. Poisonne

Line-up:
Emmanuel Lévy : Vocals, guitars, lyrics
Renaud Fauconnier : Guitars
Pierre Le Pape : Keyboards
Vincent Liard : Bass
Thomas Jacquelin : Drums

Guests:
Paul Bento – Sitar on Gone On The Hoist (G.O.T.H.)
Axel Wursthorn – Hammond on Gone On The Hoist (G.O.T.H.)

WORMFOOD – Facebook

Bologna Violenta – Discordia

Discordia è Bologna Violenta, una persona che bestemmia come noi, ma che le sue paure le mette in musica veloce, e questo è il suo disco più bello.

Nicola Manzan è uno, se non l’unico, musicista italiano veramente originale, e che ha creato nel suo piccolo un qualcosa molto simile a John Zorn.

Discordia è il primo lavoro che crea a quattro mani con Alessandro Vagnoni, degno compare di rumore. Nicola è un musicista che vede e crea cosa dove le persone comuni vedono solo rumore. Le sue sinapsi e quindi le sue mani hanno una visione particolare e totalmente distopica rispetto alla musica comune. Qui non c’è agibilità o fruizione musicale, ma solo la pienezza e la completezza del suono. Se si dovesse trovare una stupida definizione del suono di Bologna Violenta in questo disco, poiché ogni suo lavoro è differente dal precedente e dal successivo, azzarderei un cinematic grind pop core, che significa che dovete ascoltarlo e farvi una vostra idea. Discordia è una sinfonia italiana, un incubo nella misura in cui lo è questo paese, dopo Uno Bianca del 2014, che è forse il suo migliore disco, e certamente un’opera di cui il pubblico non ha capito un emerito cazzo, l’unico tentativo riuscito di raccontare l’essenza dell’orrore dei fratelli Savi e coperture. Bologna Violenta qui suona anche, come lui stesso ammette, brani lunghi che sembrano canzoni, ma non lo sono in pieno, perché le creazioni di Nicola sono molto di più che canzoni. Sono paure, ansie, fobie, orgasmi e gioie. Addirittura questo lavoro lo vedo vicino a gruppi come i Fleshgod Apocalypse, fatte le dovute distinzioni metalliche. Discordia è Bologna Violenta, una persona che bestemmia come noi, ma che le sue paure le mette in musica veloce, e questo è il suo disco più bello.

TRACKLIST
1.Sigle di telefilm
2.Il canale dei sadici
3.Incredibile lite al supermercato
4.Un mio amico odia il prog
5.Il tempo dell’astinenza
6.Leviatano
7.Chiamala rivolta
8.L’eterna lotta tra il bene e le macchine
9.I postriboli d’oriente
10.Binario morto
11.Discordia
12.Lavoro e rapina in Mongolia
13.Il processo
14.Passetto
15.I felici animali del circo
16.Colonialismo

LINE-UP
Nicola Manzan – Chitarra, violino, viola, violoncello, sintetizzatori, programmazione.
Alessandro Vagnoni – Batteria, basso.

http://www.facebook.com/bolognaviolenta

Howls of Ebb – Cursus Impasse: The Pendlomic Vows

Questo disco è stato composto da una legione di demoni che si sono impossessati di Zee-Luuuvft-Huund e Roteen’ Blisssss e ci raccontano cose infernali.

Pazzia in ogni nota, disordine e un bel vaffanculo alla forma canzone.

Questo disco è stato composto da una legione di demoni che si sono impossessati di Zee-Luuuvft-Huund e Roteen’ Blisssss e ci raccontano cose infernali. Non si può sapere cosa ci si possa aspettare da questo disco, che esplora i lati più nascosti del metal e va ben oltre. Tutto è nuovo, originale in questa forma. Gli Howls of Ebb fanno il perfetto disco metal underground, c’è talmente tanto qui dentro che forse a volte è addirittura troppo.
Troviamo sfuriate black metal, parti death, intermezzi free grind jazz, pezzi quasi ambient e narrati da una voce sempre infernale. Questi veterani dell’underground di Kansas City spalancano porte dimensionali da dove possono accedere al nostro mondo complicati demoni e larve astrali, ci raccontano di come tutto sia dominio assoluto del dio dell’assurdo, e di come le nostre faccende non abbiano significato. In tutto questo caos ragionato l’ordine prende le sembianze dell’accurata produzione che riesce a farci districare in questo caos.

TRACKLIST
01 The 6th Octopul’th Grin
02 Cabals of Molder
03 Maat Mons’ Fume
04 7 Ascetic Cinders, 8 Dowries of g
05 Gaunt Vertigo
06 Subliminal Lock_ A Precursor to V
07 The Apocryphalic Wick

LINE-UP
:zEEE-LuVft-huuND – Vibrations, Polysyllabic Mysticisms, Synthetic Magikx
RoTnn’BlisssS – Cadence of Limp & Duress, Bronze Aura & Frequency

HOWLS OF EBB – Facebook