BLACK FUNERAL – THE DUST AND DARKNESS

Prodotto dalla gloriosa ed attivissima Iron Bonehead, The Dust And The Darkness contiene 4 tracce di pura acherontea malvagità.

L’amore spassionato per occultismo, satanismo (più precisamente per il “Luciferianismo”) e vampirismo, costituisce l’anima di tutta la produzione del leader del duo di Houston.

Baron Drakkonian Abaddon (alias Michael W. Ford), voce, basso ed effetti del combo, è un appassionato delle scienze occulte e di tutto ciò che graviti intorno al Satanismo e all’Esoterismo più arcano e imperscrutabile. Un Aleister Crowley dei giorni nostri, autore di numerosi libri sull’argomento e proprietario della Luciefrian Apotheca (www.luciferianapotheca.com – negozio online adatto a chiunque si voglia sbizzarrire nell’acquistare testi esoterici, oggetti satanici, incensi, erbe misteriose e così via, ed organizzarsi un Sabba casalingo), non poteva che essere contemporaneamente il front-man di numerose famose band Black Metal americane (Darkness Enshroud, Empire Of Blood e i concittadini Valefor per citarne alcune). In tutte le sue produzioni, le tematiche sopra citate, costituiscono il leitmotiv, il motivo conduttore di tutta la sua attività da strumentista, attiva da oramai 25 anni. Tutta la sua vita risulta imperniata dal tenebroso interesse per le pratiche di magia nera che, negli anni, ne hanno influenzato anche la vita privata. Sposato inizialmente con quella che viene definita un “primeva strega” dei giorni nostri, la medium Lux Ferro (alias Elda Isela Ford), scrittrice di libri esoterici e compositrice per alcune band dedite ad arcane sonorità rituali (tra cui i dark dance Psychonaut 75), Mr. Ford dedicherà la maggior parte dei suoi sforzi e delle sue attenzioni al progetto Black Funeral, oggetto di questa recensione, di cui la moglie ne è stata – seppur per un breve periodo – anche cantante.
Coadiuvato da Mr. Azgorh Drakenhof, polistrumentista australiano già proprietario dell’etichetta Dark Adversary Productions, ma soprattutto leader incontrastato della one-man band Drowning the Light, la più famosa (e prolifica) band della terra dei canguri, Abaddon ci dona questo ep ricco di nere atmosfere, occulte ambientazioni e malvagie auree, che farà sicuramente la gioia di dei fan più legati al Black Ambient più nero e tetro, ottimamente arricchito di empi rimandi ritualistici, sprigionanti nere icore direttamente provenienti dai più oscuri antri dell’Inferno.
Prodotto dalla gloriosa ed attivissima Iron Bonehead, contiene 4 tracce di pura acherontea malvagità. Dankuis Daganzipas (dalla lingua Ittita -Dark Earth) è un elogio rituale alle malvagie divinità dell’antico e misterioso popolo dell’Anatolia. Intro tribale per Alanni Goddess of the Underworld, un pezzo che si dipana su 3 minuti e mezzo circa di classico cupo Black Metal in pieno stile old school scandinavo. Versi infernali che presumibilmente gorgogliano blasfemie, annunciano l’ingresso di Chemosh of the Dust and Darkness: un elogio al Dio dei Moabiti, popolazione vissuta circa tremila anni fa sulle rive del Mar Morto, più precisamente sull’attuale altopiano del Kerak. Oscuro Dio della distruzione, a cui venivano dedicati sacrifici umani, viene qui idolatrato grazie ad un Black veloce, senza particolari fronzoli e senza nessuna tregua; un suono corvino come l’animo della divinità stessa, spesso etichettata come “abominio di Moab”, che non lascia dubbi sulla sua antica empia malvagità. Sfumature classiche in Mistress of the Pit, vero cantico consacrato ad una non ben definita nera regina dell’Abisso. Nulla a che vedere con il Black Metal nel senso stretto del termine. Cupe armonie cullate da un sapiente uso dei sinth, ne fanno un pezzo di ottimo Dark Ambient che ci strugge di malinconia e instilla nei più sensibili, desideri di abbandono all’eterno sonno, avvolti dal crepuscolo.
Un mini album di buona fattura che potrà accendere la curiosità di chi prima non si è mai accostato al sound del combo americano. Black ed Ambient in una cagliostrica miscela che appassionerà tanti, e che forse li condurrà alla scoperta della loro intera produzione (9 full-length e svariate produzioni minori).

Tracklist
1. Dankuis Daganzipas (Dark Earth)
2. Alanni Goddess of the Underworld
3. Chemosh of the Dust and Darkness
4. Mistress of the Pit

Line-up
Baron Drakkonian Abaddon (Michael Ford Nachttoter) – Vocals, Bass, Electronics
Azgorh Drakenhof – Guitars, Bass, Keyboards

BLACK FUNERAL – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=5SDv0JFqqUo

Lascar – Wildlife

Il musicista sudamericano propone un black metal atmosferico, o post black, come lo si preferisce chiamare, sulla scia di Deafheaven e compagnia e lo fa in maniera competente ma senza raggiungere, almeno questa volta, particolari vertici qualitativi.

Lascar è il progetto solista del cileno Gabriel Hugo, giunto con questo Wildlife al terzo full length.

Il musicista sudamericano propone un black metal atmosferico, o post black, come lo si preferisce chiamare, sulla scia di Deafheaven e compagnia e lo fa in maniera competente ma senza raggiungere, almeno questa volta, particolari vertici qualitativi.
Questo avviene perché il sound proposto da Hugo, al netto della sua indubbia gradevolezza, soffre di una marcata uniformità che alla lunga si rivela penalizzante, aspetto già riscontrato nel precedente lavoro Saudade dove però il songwriting si rivelava ben più coinvolgente; se a tutto ciò poi si unisce inevitabilmente il fatto che l’esibizione di sonorità già ampiamente ascoltate in passato necessita di elementi compositivi in grado di fissarsi in maniera più marcata nella mente dell’ascoltatore, l’esito finale non può che risultare solo in parte soddisfacente.
Hugo esibisce un gusto melodico sufficiente a fargli reggere la scena per questi quaranta minuti, ma non abbastanza per indurre a passaggi ripetuti nel lettore; ad accentuare tale sensazione contribuiscono sia una produzione perfettibile sia un utilizzo della voce che talvolta si rivela più un elemento di disturbo che non un valore aggiunto.
Un peccato, perché per esempio una traccia come Fatigue esibisce linee davvero accattivanti e non banali, facendo intuire quel potenziale che viene ingabbiato all’interno di un’interpretazione del genere priva dei necessari guizzi.
Nonostante l’attività discografica sia già considerevole, il progetto è comunque ancora abbastanza giovane per cui restiamo in fiduciosa attesa di un auspicabile salto di qualità alla prossima occasione, anche se dopo un buona prova come Saudade era lecito immaginare che ciò potesse accadere già con Wildlife.

Tracklist:
1. The Disdain
2. Petals
3. Submission
4. The Zenith
5. Fatigue
6. The Majestic Decay

Line-up:
Gabriel Hugo – All instruments, Vocals

LASCAR – Facebook

Deathcrush – Hell

Un favoloso disco di brutal death italiano, per amanti ed affezionati di Incantation, Morbid Angel e Vader, con pregevoli tocchi black.

Chiamarsi Deathcrush è senz’altro impegnativo, visto che fu il titolo del primo disco dei Mayhem.

I sardi non temono comunque confronti, con oramai quindici anni di vita e varie uscite discografiche, tra demo, singoli e split, oltre a vari concerti, con Obituary e Hour of Penance. Questo loro secondo lavoro è un fantastico disco di brutal-black, in linea con le migliori cose di Immolation, Acheron ed Angel Corpse. Nei brani più tecnici ed epici, magniloquenti e marziali, ci possono altresì venire in mente i Nile e i Behemoth. Ma i Deathcrush sono i Deathcrush: devastanti e brutali, con un basso ed una voce realmente da paura. L’interplay chitarre-batteria è poi davvero da applausi, con riff ottimi e molto floridiani. King of Rats è, inoltre, puro e gelido black metal di alta scuola, mentre nella conclusiva Deny the Crucifix aleggia potente il fantasma dei Deicide del masterpiece Legion (1992). Hell è un disco fenomenale e i Deathcrush sono una grandissima band, null’altro da dire. Da avere senza se e senza ma.

Tracklist
1- Incest Of The Wretched
2- Eucharisty Of Worms
3- Lost In The Vortex Of Heretics
4- Blasphemik Souls
5- Dethroned Arcangels
6- Mors Mori 3002
7- Crowning The Beast
8- Spreading The Chaos
9- King Of Rats
10- Deny The Crucifix

Line-up
Luigi Cara – Vocals / Bass
Andrea Sechi – Guitars
Giampiero Serra – Drums

DEATHCRUSH – Facebook

Ur Tid – Toward Dark Endless

La prima prova targata Ur Tid si rivela senza dubbio positiva, in quanto regala quasi mezz’ora di musica godibile, anche se indubbiamente il prossimo step per Sjöblom dovrà necessariamente essere quello di donare al proprio sound una pizzico di peculiarità in più.

Altro giro altro progetto solista di un musicista alle prese con la propria interpretazione del black death metal.

Questa volta è il turno dello svedese Johann Sjöblom (membro dei validi In My Embrace) che con il marchio Ur Tid propone l’ep d’esordio intitolato Toward Dark Endless.
Siamo ovviamente nell’ordine dello stile ampiamente consolidato all’interno della scena scandinava, quindi troviamo ritmiche incalzanti, un gran gusto melodico ed una padronanza del genere che consente a Sjöblom di offrire sei brani interessanti nonostante si muova all’interno di un solco ampiamente sfruttato.
Il black death che troviamo in Toward Dark Endless possiede una venatura folk che ne favorisce la fruizione senza farne smarrire la connotazione estrema: il risultato è più che soddisfacente, con il picco rinvenibile in un bellissimo brano come Skuggfolket, trascinante ed incisivo, in linea con l’operato delle migliori band nordiche del settore.
La prima prova targata Ur Tid si rivela senza dubbio positiva, in quanto regala quasi mezz’ora di musica godibile, anche se indubbiamente il prossimo step per Sjöblom dovrà necessariamente essere quello di donare al proprio sound una pizzico di peculiarità in più, per evitare di finire nell’ampio calderone nel quale confluiscono realtà valide ma prive di quel quid in grado di farle emergere.

Tracklist:
1.Towards Dark Endless
2.Into Oblivion
3.A World In Darkness
4.Skuggfolket
5.Ur Tid
6.The Preacher And The Prophet

Line-up:
Johann Sjoblom

UR TID – Facebook

Siete Lagunas – I & II

Partendo da una base black, inserendoci pulsioni estreme che vanno dal death al grind e al noise, i Siete Lagunas creano un mostro musicale che lascia all’ascolto una forte sensazione di primitiva e surreale atmosfera, a suo modo affascinante ma sicuramente di difficile comprensione.

I Siete Lagunas sono un gruppo estremo colombiano formato da due misteriosi e misantropici musicisti di Bogotá che, unite le forze, hanno dato vita a due demo usciti in poco meno di un anno, ora racchiusi in questa compilation licenziata dalla La Caverna Records ed intitolati semplicemente I & II.

Un sound assolutamente fuori dagli schemi e un’attitudine totalmente underground fanno della musica del duo un prodotto per pochi ascoltatori, dalle ampie vedute stilistiche e dai gusti particolari.
Un black metal sperimentale, se così si può definire, è questa serie di digressioni musicali che, se hanno origine nel genere, vanno oltre con inserti che si rifanno al grind e al noise, con la voce che risulta un urlo a tratti trasformato in un lamento gutturale ed animalesco.
Senza un minimo di regole lo spartito di questi ventidue minuti di diavolerie estreme viene appunto riempito dal duo con rumori che si rifanno alla natura: è forte infatti nei Siete Lagunas l’ispirazione che arriva dalle tradizioni popolari, anche se nascosta da una spessa coltre di non musica, specialmente se si vuole imbrigliare il sound in un determinato schema.
Partendo quindi da una base black, inserendoci pulsioni estreme che vanno dal death al grind e al noise, i Siete Lagunas creano un mostro musicale che lascia all’ascolto una forte sensazione di primitiva e surreale atmosfera, a suo modo affascinante ma sicuramente di difficile comprensione.

Tracklist
1.Llegando a la Primera Laguna / Carco
2.Madremonte
3.Aguanoso
4.Los Bosques de Arcadia
5.Väinämöinen Sutatenza
6.Descenso Lunar
7.El Rugir de la Segunda Laguna
8.La Reina de las Moscas
9.Un Cadáver Junto al Río
10.Oscurece en la Segunda Laguna

Line-up
FFL – Guitars
AEH – Vocals, Drums

Mongol – The Return

Il gruppo canadese celebra in maniera possente le gesta dei mongoli e del loro estesissimo impero, con un folk metal molto ben composto ed eseguito con vigore.

Il folk metal è un linguaggio musicale dalla grande varietà e forza, che può essere declinato in molte maniere e lascia molta libertà a chi lo adotta.

I canadesi Mongol lo usano per narrare le gesta degli antichi mongoli e di Dschinghis Khan, il mitico condottiero che li condusse ad avere un impero di grandi dimensioni, ma soprattutto ad entrare nella storia come popolo guerriero, anche se erano molto più di ciò. Le dominazioni mongole arrivarono alla porte dell’Europa, e stupisce vedere quanto conquistarono, specialmente nel medio e nell’estremo Oriente, diventando uno degli imperi più estesi della storia, ma anche uno dei meno conosciuti, almeno in occidente. Il gruppo canadese celebra in maniera possente le loro gesta, con un folk metal molto ben composto ed eseguito con vigore. Le parti migliori delle loro canzoni sono quando avanzano compatti e cantano coralmente, dando vita a momenti molto intensi e di grande presa. Il lavoro è generalmente di buona qualità, confermando e superando quanto fatto in precedenza, mettendo maggiormente l’accento sulla velocità e sulla potenza, sempre ben presenti. Ben strutturato è anche l’uso degli strumenti tipici, ma i Mongol rimangono più metal che folk. Molti pezzi saranno devastanti dal vivo, perché si sente che sono stati studiati per la quella dimensione che è quella naturale per questi barbari. In certi frangenti si è maggiormente vicini al black death che al folk, ma poi si torna sempre all’ovile, dimostrando una non comune versatilità nel cambiare registro. Uno dei gruppi più interessanti del folk metal nordamericano e non solo.

Tracklist
1. Prophecy of the Blind
2. The Return
3. Sacrificial Rites
4. Takhil
5. Amongst the Dead
6. To the Wind
7. Dschingis Khan
8. The Mountain Weeps
9. River Child
10. Warband

Line-up
Tev Tegri – Vocals
Zev – Lead Guitar, Folk Instruments, Clean Vocals
Zelme – Rhythm Guitar, Backup Vocals
Sorkhon Sharr – Bass
Sche-khe – Folk Instruments & Keyboards
Bourchi – Drums

MONGOL – Facebook

Carpe Noctem – Vitrun

Il black metal è quello che, oggi, più che in tutti gli altri generi, sembra offrire a svariati interpreti la possibilità di forgiare la materia e renderla unica senza farle perdere la propria originaria connotazione: se, poi, a farlo sono musicisti magnifici come i Carpe Noctem il capolavoro è un qualcosa che viene di conseguenza.

Vitrun è il secondo full length dei Carpe Noctem, band islandese che annovera tra le sue fila musicisti attivi in diversi altri gruppi della scena, tra I quali spicca il nome di Árni, motore dei magnifici Árstíðir Lífsins, qui al basso.

Questo lavoro è l’ennesimo che capita di ascoltare quest’anno per il quale la catalogazione all’interno del black metal, per quanto corretta da un punto di vista prettamente teorico, rischia di rivelarsi fuorviante alla luce dei suoi contenuti reali.
Così come ingannevole è, per certi versi, l’opener Söngurinn sem ómar á milli stjarnanna, unico brano che sembra dare ragione al marchio associato ai Carpe Noctem, pur con il suo mostrare un incedere tutt’altro che lineare, ma è a partire dalla successiva Upplausn che Virun cambia completamente marcia, lasciando fluire quei livelli di tensione ed intensità che saranno poi il tratto distintivo dall’opera fino alla sua conclusione; questo è un episodio davvero splendido nel quale emerge un chitarrismo minimale ma peculiare ed insinuante.
Le dissonanze di Og hofið fylltist af reyk caratterizzano un brano che si fa furioso nel finale, una tempesta alla quale segue la quiete di Hér hvílir bölvun, traccia superlativa che monta lenta e inarrestabile come un’oceanica marea.
Il liquido ma sempre nervoso strumentale Úr beinum og brjóski mantiene alto il pathos prima dell’ultimo strappo emotivo rappresentato da Sá sem slítur vængi flugunnar hefur náð hugljómun, in cui i Carpe Noctem esaltano anche le loro non non banali doti strumentali (il drumming di Helgi è tentacolare e prodigo di variazioni), grazie alle quali un lavoro oggettivamente complesso riesce ugualmente a scorrere senza che chi ascolta venga messo di fronte ad un rompicapo sonoro.
Certo, tra il raw black e quanto contenuto in Vitrun paiono esserci di mezzo diverse ere geologiche, ma la base di partenza è pur sempre quella che, oggi, più che in tutti gli altri generi del metal, sembra offrire a svariati interpreti la possibilità di forgiare la materia e renderla unica senza farle perdere la propria originaria connotazione: se, poi, a farlo sono musicisti magnifici come i Carpe Noctem il capolavoro è un qualcosa che viene di conseguenza.

Tracklist:
1. Söngurinn sem ómar á milli stjarnanna
2. Upplausn
3. Og hofið fylltist af reyk
4. Hér hvílir bölvun
5. Úr beinum og brjóski
6. Sá sem slítur vængi flugunnar hefur náð hugljómun

Line-up:
Alexander Dan Vilhjálmsson – Vocals & lyrics
Andri Þór Jóhannsson – Guitars
Árni Bergur Zoëga – Bass
Helgi Rafn Hróðmarsson – Drums
Tómas Ísdal – Guitars

CARPE NOCTEM – Facebook

Kalmen – Funeral Seas

I Kalmen si rivelano un gruppo di sicuro valore, da annoverare tra gli interpreti più inquieti e meno scontati della materia estrema gravitante tra black, doom e sludge

Secondo full length per i tedeschi Kalmen, fautori di un buon black doom dalle importanti sfumature psichedeliche.

Anche se talvolta certe affermazioni possono apparire forzate, Funeral Seas è un album che mostra in maniera decisa la propria impronta germanica, in virtù del suo scorrere austero ed oscuro, ricordando a livello di sonorità band la cui appartenenza al black metal è comunque sui generis come i Secret of the Moon (prima della svolta alternative) o gli Helrunar.
Questo sta a significare che il lavoro è quanto mai inquieto, raramente impostato su ritmi troppo veloci ma che, anzi, spesso indulge in più di un passaggio in atmosfere rarefatte che rimandano al post metal.
Tutto questo rende Funeral Seas un album interessante, dalla fruizione non proprio semplicissima in quanto la tensione e l’oscurità prevalgono sulle sporadiche aperture melodiche, ma con la dote, tipica dei dischi ben riusciti, di crescere con lo scorrere della tracklist e entrare sempre più in circolo dopo ogni ascolto.
Ad emblema del lavoro si possono estrapolare i due brani centrali, Uninfinite Black e Swansong, a loro modo dicotomici con il primo più black oriented e non privo di un certo groove ed il secondo, molto più atmosferico ma anche minaccioso, che risulta a mio avviso il picco qualitativo di Funeral Seas.
I Kalmen si rivelano così un gruppo di sicuro valore, da annoverare tra gli interpreti più inquieti e meno scontati della materia estrema gravitante tra black, doom e sludge, questo appunto grazie ad una componente psichedelica ben dosata e che non raggiunge mai, ovviamente, i picchi lisergici di certo stoner.

Tracklist:
1. Spectral
2. Thieving Sky
3. Portal
4. Uninfinite Black
5. Swansong
6. Arcane Heresies
7. Searenade

Line-up:
Marc – Bass, Vocals
Jana – Guitars
Thomas “Schmidti” Schmidt – Guitars, Vocals
Orpheus – Drums

KALMEN – Facebook

Γνόφος – Κατάνυξη

Superando così ogni possibile preconcetto derivante dal contenuto lirico, quello che ci si spalanca davanti è un album che non ha nulla da invidiare al black metal concettualmente più canonico, poichè inanella una serie di brani perfetti per esecuzione ed equilibrio tra componente estrema e melodia.

I greci Γνόφος (Gnophos, in italiano oscurità), all’esordio con Κατάνυξη (Katanixi, devozione), propongono un black metal dalle tematiche religiose, evento decisamente anomalo anche se non sono senz’altro i primi a farlo.

Inutile sottolineare pertanto come in effetti ciò appaia una contraddizione in termini, soprattutto per il fatto che il genere racchiude per sua definizione una visione dell’esistenza quanto mai negativa e misantropica, aspetti che per loro natura sono in evidente antitesi a qualsiasi forma di culto tradizionale (nello specifico trattasi di quello cristiano ortodosso).
Per cui, se passiamo ad esaminare ciò che in definitiva più ci interessa, ovvero il contenuto musicale, non si si può fare a meno di constatare come i Γνόφος siano stati in grado di esibire un black metal di assoluta qualità, sicuramente non innovativi ma ben suonato ed efficace nel suo incedere incalzante e sempre intriso di una consuete quanto oscura componente melodica.
Superando così ogni possibile preconcetto derivante dal contenuto lirico (invero non proprio di immediata fruibilità alla luce dei testi in greco antico), quello che ci si spalanca davanti è un album che non ha nulla da invidiare al black metal concettualmente più canonico, poiché inanella una serie di brani perfetti per esecuzione ed equilibrio tra componente estrema e melodia. Non so quanto sia effettivamente positivo il messaggio che questi ottimi musicisti ateniesi vogliono veicolare, fatto sta che una tale intensità e l’incombente senso di opprimente oscurità sono un qualcosa scaturito ben di rado anche quando chi componeva lo faceva con ben altra “Katanixi”, in qualche angusto scantinato di Bergen.
Sette brani da godersi senza filtri di alcun genere, con un ottavo, lo strumentale Άλφα και Ωμέγα (Alpha and Omega) che è un’autentica meraviglia per orecchie abituate all’ascolto di questo genere che, da qualsiasi punto di vista lo si voglia osservare, non finisce mai di sorprendere.

Tracklist:
1. Γνόφος (Darkness)
2. Φως (Light)
3. Η Ημέρα της Κρίσεως (Judgement Day)
4. Λόγος (Logos)
5. Ο Παλαιός των Ημερών (Ancient of Days)
6. Ο Ων (He Who Is)
7. Ο Μέγας Αρχιερεύς (The Great High Priest)
8. Άλφα και Ωμέγα (Alpha and Omega)

Holocausto Em Chamas – לָשׁוֹן הַקֹּדֶשׁ

Le composizioni sono di maggiore respiro rispetto alle precedenti, si compie un ulteriore passo in avanti senza mai abbandonare le proprie peculiarità, per un lavoro che è fondamentale per chi ama la scena black metal portoghese e per chi vuole una musica dall’anima realmente nera.

Torna una delle migliori band di una delle migliori (se non la migliore) scene attuali del black metal mondiale: i portoghesi Holocausto Em Chamas.

Ascoltando l’ultimo lavoro intitolato לָשׁוֹן הַקֹּדֶשׁ, si poterebbe definire questo gruppo come oltranzista, invece il loro black metal è totalmente metafisico, nel senso che torna alle origini musica, quando era pressoché inascoltabile, genuinamente occulta e fatta per rompere con tutto ciò che si aveva davanti, dietro ed intorno a sé. Innanzitutto la totale mancanza di notizie su questo gruppo fa puntare i fari interamente sulla musica, e così dovrebbe essere sempre; inoltre il disco, nonostante esca su una fantastica etichetta come la lusitana Signal Rex, non ha una promozione massiva o deve vendere per forza, questa è musica che deve arrivare dove vuole arrivare, non ha altri fini se non quello di essere un nero rituale per pochi. Bisogna subito dire che questo disco è forse il migliore della produzione della band, che non è sterminata essendo un duo di recente formazione, ma tutti dischi sono molto precisi e significativi. Per cominciare la produzione è a bassa fedeltà ma non eccede mai con la materia grezza, quello che ascoltate è la corretta veste sonora per questo gruppo, e il suo black metal è perfetto per chi ama quello delle origini, ma non ci si ferma qui. Il suono degli Holocausto Em Chamas non va ai mille all’ora, ricerca maggiormente il particolare macabro e diabolico, ci sono splendidi ed angoscianti passaggi, con un organo in sottofondo, che sembrano davvero uscire da una cripta. Un’altra ottima caratteristica è che sono totalmente credibili, non scimmiottano nessuno ma, anzi, aprono nuove possibilità per un suono che in altri gruppi a volte ristagna per mancanza di originalità. Il disco non vuole intrattenere o rappresentare qualcosa ma è un medium occulto per qualcosa di diabolico, non c’è il bene qui, né speranza o salvezza, come è poi nella vita reale. Le composizioni sono di maggiore respiro rispetto alle precedenti, si compie un ulteriore passo in avanti senza mai abbandonare le proprie peculiarità, per un lavoro che è fondamentale per chi ama la scena black metal portoghese e per chi vuole una musica dall’anima realmente nera.

Tracklist
1.Coroado em Espinhos
2.Pregador
3.Death Messiah
4.Via Crúcis
5.Sermões da Montanha
6.After the Crucifixion
7.Narcotic Invocation of the Tormentor
8.Agonizing Aura
9.From the Catacombs
10.Claustro dos Mortos
11.The Sombre Disciple

Nott – Vestigium Mortis

Chi vuole ascoltare una testimonianza tangibile della quintessenza del black metal, in una forma però dalle sonorità ben fruibili e non inutilmente inintelligibili, troverà nell’offerta di Nott quanto di meglio venga proposto oggi all’interno dei nostri confini.

Il dibattito tra chi ritiene che la fedeltà agli stilemi stilistici di un genere sia un segno di immobilismo compositivo e chi, al contrario, ne apprezza la pervicacia, la competenza e soprattutto la coerenza, è destinato a non avere mai fine.

Credo che come la si pensi da queste parti sia già stato espresso più volte, ma è bene ribadire il concetto: sempre meglio un lavoro sincero, genuino e coinvolgente, per quanto privo di novità, piuttosto che un’esibizione di sperimentalismo fine a sé stesso, e se ciò vale per tutti i generi, figuriamoci quando si tratta di black metal.
Tale preambolo è doveroso allorché ci si imbatte nell’operato di un progetto come quello del musicista lombardo Mortifero, da diversi anni attivo sulla scena, in particolare nell’ultimo decennio con opere di indubbio spessore che hanno consentito al nome Nott di ritagliarsi un’aura prossima a quella di culto.
Un riconoscimento, questo, tutt’altro che usurpato, a maggior ragione alla luce di quanto viene offerto con il nuovo ep intitolato Vestigium Mortis, all’interno del quale si può trovare il black nella sua essenza primigenia, anche se, nonostante le note di accompagnamento possano indurre a pensare ad un’interpretazione minimale, in realtà il sound si rivela molto più ricco e composito di quanto venga dichiarato.
La registrazione, infatti, appare decisamente all’altezza della situazione ed i brani, quasi tutti di durata abbastanza contenuta, sono sì violente sferzate alle quali non viene però mai meno un’efficace tessitura melodica da parte della chitarra, capace di rendere irresistibili, per esempio, tracce come Profaner o Heretical Justice, che si muovono su territori contigui agli Arckanum ma connotati da uno screaming meno stridulo e più profondo.
Si percepisce del resto, in maniera immediata, quanto questo musicista sia esperto e competente, in una misura tale da rendere il suo operato inattaccabile a tutti i livelli e da qualsiasi prospettiva lo si voglia osservare: chi vuole ascoltare una testimonianza tangibile della quintessenza del black metal, in una forma però dalle sonorità ben fruibili e non inutilmente inintelligibili, troverà nell’offerta di Nott quanto di meglio venga proposto oggi all’interno dei nostri confini.

Tracklist:
1. Incipit
2. Lifeless Will
3. Necro Life
4. Profaner
5. Black Cult
6. Heretical Justice
7. Explicit

Line-up:
Mortifero – Everything

NOTT – Facebook

Sinnrs – Profound

Il nome dei Sinnrs, con un esordio di tale spessore, si rivela del tutto degno di essere affiancato a quelli delle band guida del settore.

L’esordio dei danesi Sinnrs avviene con un album che fin dal titolo appare come una dichiarazione di intenti.

Profound è, infatti, un album che di sicuro non scorre leggiadro senza lasciare taccia: il black death di matrice centro europea (il fatto che la registrazione del disco sia avvenuta presso i polacchi Hertz Studios forse non è casuale) è incisivo e asfissiante ma, allo stesso tempo, connotato da repentine aperture atmosferiche.
Un bellissimo brano come Lift My Bones si rivela emblematico in tal senso, allorché una furiosa prima parte lascia spazio ad eleganti orchestrazioni prima di ripartire verso un esemplare finale nel corso del quale le due anime si fondono alla perfezione.
I due misteriosi musicisti nordici non sono dei neofiti perché, a giudicare dalla riuscita di Profound, è quasi certo che dietro ai due nickname e alle figure incappucciate si celino musicisti già attivi da tempo nella scena: ciò che stupisce positivamente è la capacità di rendere quanto mai sferzanti le parti estreme e, allo stesso tempo, solenni e malinconiche quelle orchestrali, realizzando quello che appare più un perfetto connubio che non una dicotomia.
Il lavoro tiene agganciato l’ascoltatore fino al termine, crescendo ad ogni passaggio e regalando qualche altra perla come No Promise To Mankind: il nome dei Sinnrs, con un esordio di tale spessore, si rivela del tutto degno di essere affiancato a quelli delle band guida del settore.

Tracklist:
01. Nihil
02. To Derive Eden’s Flame
03. The Storm of I
04. Lift My Bones
05. Renowned Praetorians
06. No Promise to Mankind
07. It Calls Me
08. Et Sic Incipit
09. Watch Her Soul Burn
10. Commemorate None

Line-up:
Nero: Guitar, Vocals, Orchestrals
Maestus: Drums

SINNRS – Facebook

Noise Trail Immersion – Symbology Of Shelter

La musica dei Noise Trail Immersion è narrazione essa stessa, e il disco ha le bellissime stimmate del lavoro disperato e quasi perfetto, uno specchio sonico nel quale tuffarci per raggiungere un qualcosa che altrimenti è irraggiungibile.

L’intento dei Noise Trail Immersion per questo disco è assai ambizioso, infatti il gruppo italiano ha affermato che intende unire il black metal con il mathcore ed aggiungere qualcosa del post metal.

Obiettivo non da poco, ma che viene raggiunto pienamente con Symbology Of Shelter. Ascoltando questo disco si riverserà su di voi un fiume magmatico di lava incandescente, un nero incendio che tutto devasta, e dopo il suo passaggio nulla sarà come prima. La profondità del successore del bellissimo Womb del 2016, che aveva posto il gruppo sulla mappa, è molto vasta e il risultato va ben oltre rispetto agli intendimenti del gruppo. Come ogni processo portato avanti da un insieme di persone appassionate e competenti, la materia si impossessa dei creatori e prende vita propria crescendo: il risultato è una canzone di 43 minuti divisa in sette tracce, che tratta del processo interiore che è in ognuno di noi, una dura lotta che non finisce mai, ma che è anche quella che ci permette di non soccombere a noi stessi. Infatti il disco uscirà non a caso il due novembre, data altamente simbolica. Il gruppo torinese vi conduce per mano in un vortice fatto di violenza e disperazione, assenza totale di speranza, la luce c’è ma viene inghiottita dalle tenebre. Una delle tante notevoli peculiarità del gruppo torinese è la capacità di creare la tempesta perfetta della musica pesante, con momenti simili a quelli dei Converge ma andando oltre, in una sospensione spazio temporale con gli strumenti che impazziscono e noi non loro. La musica dei Noise Trail Immersion è narrazione essa stessa, e il disco ha le bellissime stimmate del lavoro disperato e quasi perfetto, uno specchio sonico nel quale tuffarci per raggiungere un qualcosa che altrimenti è irraggiungibile. Symbology Of Shelter è un album dalla grande potenza, un’evocazione del nero che è dentro di noi, ma del quale non possiamo fare a meno. La maturazione del gruppo piemontese è continua e lo sta portando a vette molto alte, dove vengono raggiunti momenti di disperata gioia e saturazione del suono.

Tracklist
1.Mirroring
2.Repulsion and Escapism I
3.Repulsion and Escapism II
4.Acrimonious
5.The Empty Earth I
6.The Empty Earth II
7.Symbology of Shelter

Line-up
Fabio – vox
Nebil – guitar
Daniele – guitar
Lorenzo – bass
Paolo – drums

NOISE TRAIL IMMERSION – Facebook

Necandi Homines – Black Hole

Mezz’ora di musica complessa, per molti probabilmente ostica, ma assolutamente da provare ad assimilare senza lasciare nulla di intentato nella ricerca della sua chiave d’accesso.

Raramente il titolo di un album si rivela più calzante al contenuto musicale di questo Black Hole, ep dei marchigiani Necandi Homines, intezionati a scaraventare l’ascoltatore in una voragine esistenziale dai confini indefiniti.

La band è reduce dall’ottimo full length Da’at, dello scorso anno, ma il nuovo patrocinio fornito dalla collaborazione tra due etichette come Third I Rex e Toten Schwan sembra aver acuito la vena sperimentale e psichedelica che già era visibilmente impressa in un black doom del tutto sui generis.
I tre brani contenuti in Black Hole mostrano altrettante sfaccettature dei Necandi Homines, dal cupo e inquieto incedere dall’impronta doom del primo, al più nervoso ed estremo snodarsi del secondo, riconducibile ad un black metal pur sempre di natura aliena, per arrivare al lungo e micidiale mantra dell’ultimo episodio, nel quale voci salmodianti si rincorrono poggiandosi su un tappeto psichedelico/rituale in grado di scavare solchi profondi.
Un lavoro come Black Hole è l’esemplificazione di quanto dovrebbe essere lo sperimentalismo in campo estremo, ovvero non un rumorismo sconnesso e fine a sé stesso, ma un susseguirsi di momenti e di intenzioni che scardinano quanto fatto in precedenza, fungendo allo stesso tempo da puntello per ciò che verrà dopo.
Mezz’ora di musica complessa, per molti probabilmente ostica, ma assolutamente da provare ad assimilare senza lasciare nulla di intentato nella ricerca della sua chiave d’accesso.

Tracklist:
1. .
2. ..
3. …

Line-up:
Discissus – Vocals
Oxide – Bass
Hagen – Drums
Apsychos – Guitars

NECANDI HOMINES – Facebook

Chapter V: F10 – Pathogenesis

Pathogenesis si candida come uno dei migliori lavori dell’anno in campo black metal, e non sorprende più il fatto che provenga dall’inesauribile fucina ucraina.

Con i Chapter V: F10 ritroviamo all’opera uno dei migliori musicisti ucraini, ovvero Astaroth Merc, colui che sta dietro i magnifici Raventale.

Questa volta il nostro agisce in coppia con il vocalist Howler, uno che tiene decisamente fede al proprio nickname in quanto autore di una prova all’insegna di un parossismo vocale che ben si accompagna ad un black metal che non lascia respiro, pur senza smarrire una precisa idea melodica.
Il concept che sta dietro all’operato dei Chapter V: F10 non è dissimile, per certi versi, da quello che rese noti i Carcass, con liriche in lingua madre incentrate sulla malattia vista, però, quasi come un elemento purificatore di un’umanità la cui putrefazione si estrinseca soprattutto dal punto di vista morale.
Come con i maestri inglesi in Necroticism …, in Pathogenesis troviamo inseriti tra i brani principali diversi frammenti campionati di conversazioni che, pur nella loro incomprensibilità per noi occidentali, non fanno certo presagire argomenti piacevoli.
Fulcro del lavoro sono comunque, dal punto di vista musicale, i quattro ordigni sonori intitolati Pathogenesis As Grace, Wrong Alien Endorphin, Nuclear Dogma AN602 e Helvetestoner, brani spettacolari per potenza, impatto, esecuzione e fluidità. Il lavoro chitarristico di Astaroth Merc è quanto di meglio si possa ascoltare nel genere: le sue doti, già mese ampiamente in evidenza con il più cadenzato black doom dei Raventale, qui assumono sembianze sferzanti, emblema di quei micidiali agenti patogeni capaci di spazzare via in un attimo ciò che resta di quel disordinato formicaio chiamato umanità.
Il black metal, nell’interpretazione dei Chapter V: F10, non è ovviamente una novità assoluta ma possiede una freschezza ed una capacitò di coinvolgimento raramente riscontrabili: Pathogenesis si candida come uno dei migliori lavori dell’anno nel genere, e non sorprende più il fatto che provenga dall’inesauribile fucina ucraina.

Tracklist:
01 – Pathogenesis As Grace / Патогенезис Как Блаженство
02 – Xenomorph Synthesis / Синтез Ксеноморфа
03 – Wrong Alien Endorphin / Инородный Ложный Эндорфин
04 – Blame To Human Beings / Обвинение Человечества
05 – Nuclear Dogma AN602 / Ядерная Догма АН602
06 – Mephistopheles Discipline / Трактат Мефистофеля
07 – Helvetestoner / Helvetestoner
08 – Error Circulation / Круговорот Погрешностей

Line-up:
Astaroth Merc
Howler

CHAPTER V: F10 – Facebook

Marrasmieli – Marrasmieli

Buona la prima, quindi, per competenza, intensità ed impatto, anche se il giudizio nei confronti dei Marrasmieli resta inevitabilmente sospeso in attesa di un’uscita più probante a livello quantitativo.

Il fatto che ci si occupi della prima uscita dei Marrasmieli, nonostante si tratti di un singolo, è motivato da due aspetti fondamentali, ovvero la lunghezza complessiva del lavoro che raggiunge i venti minuti, durata buona anche per un ep, oltre al fatto che l’etichetta che ne cura l’uscita è la Naturmacht, quanto basta perché il tutto sia meritevole d’attenzione.

Ce ne sarebbe in realtà un terzo, ma quello lo si può scoprire solo a posteriori, cioè la bontà oggettiva dell’operato di questo trio finlandese, capace di disimpegnarsi abilmente con un pagan black ricco di buon gusto melodico e compositivo.
La traccia autointitolata presenta in maniera esemplare questi aspetti , senza accentuare certi elementi folk che si palesano invece nella più lunga e diretta What Nature Fears, nella quale i nostri sconfinano a tratti nei territori di competenza dei Finntroll, anche se si percepisce sempre un’impronta più marcatamente estrema rispetto ai profeti dell’’humppa metal.
Buona la prima, quindi, per competenza, intensità ed impatto, anche se il giudizio nei confronti dei Marrasmieli resta inevitabilmente sospeso in attesa di un’uscita più probante a livello quantitativo.

Tracklist:
1. Marrasmieli
2. What Nature Fears

Line-up:
Nattvind – vocals & drums
Zannibal – guitars
Maelgor – bass

MARRASMIELI – Facebook

Steingrab – Jahre nach der Pest

Il tipo di black metal offerto si rivela adatto particolarmente a chi preferisce quelle atmosfere cupe e malinconiche che Mahr non lesina affatto, facendone alla fine un solido punto di forza del suo lavoro.

Terzo full length per Steingrab, il progetto solista del tedesco Mahr (Stephan Krämer).

Jahre nach der Pest offre tre quarti d’ora (a mio avviso la durata ideale per qualsiasi opera musicale) di buon black metal atmosferico, con il valore aggiunto di una nient’affatto scontata varietà compositiva.
Il musicista di Darmstadt mette in luce la propria dimestichezza con il genere, il che gli consente di spaziare fluidamente tra diverse sfaccettature, con predilezione per ariose melodie da un lato e certe propensioni depressive dall’altro; si passa così con buona fluidità da uno stile tipicamente tedesco, solenne e al contempo teatrale (Falscher Frühling e la title track sono tracce emblematiche in tal senso) a richiami più ortodossi alla tradizione scandinava.
Jahre nach der Pest è davvero un buon lavoro, sufficientemente curato sotto tutti gli aspetti per non trovarsi a rimpiangere d’aver impiegato il proprio tempo per ascoltarlo; indubbiamente il tipo di black metal offerto si rivela adatto particolarmente a chi preferisce quelle atmosfere cupe e malinconiche che Mahr non lesina affatto, facendone alla fine un solido punto di forza del suo lavoro.

Tracklist:
1. Präludium
2. Dämon
3. Rachewalzer
4. Das trübe Glas
5. Fort von hier
6. Falscher Frühling
7. Der trübe See
8. Mondfinsternis
9. Jahre nach der Pest
10. Walzer toter Zukunft
11. Verlorene Engel

Line-up:
Mahr – Everything

STEINGRAB – Facebook

Vreid – Lifehunger

Il sound dei Vreid è ben più composito e ricco di sfaccettature rispetto a quello pur sempre apprezzabilissimo del cosiddetto black’n’roll”; così, pur senza assumere toni preponderanti, heavy metal, hard rock e altre sfaccettature entrano a buon diritto nel tessuto sonoro di Lifehunger consentendoci di ascoltare una raccolta di brani scorrevoli e convincenti.

Parlare dei Vreid non equivale certo a farlo per una qualsiasi band proveniente dalla Norvegia e dedita al black metal.

Il combo di Sogndal è, infatti, come la maggior parte dei lettori saprà molto bene, la diretta emanazione di ciò che furono i Windir, una delle band più importanti del movimento black scandinavo ed una delle prime, soprattutto, ad inserire nel genere elementi folk e pagan in maniera più convinta ed articolata.
Dopo la morte prematura di Valfar, i Windir di fatto non si sciolsero ma mutarono il loro monicker in Vreid, cambiando, saggiamente, le sonorità ed optando per un black più diretto e allo stesso tempo aspro ma non per questo monolitico.
Se gli anni migliori per il gruppo sono forse stati quelli della fine dello scorso decennio, il livello delle uscite si è sempre mantenuto ben al di sopra della media, e se una punta di opacità era stata riscontrata nei più recenti Welcome Farewell e Sólverv, si può tranquillamente affermare che con Lifehunger questa viene spazzata via per lasciare spazio a quello che, in maniera decisamente riduttiva, viene definito dalla stessa band black’n’roll.
In realtà il sound dei Vreid è ben più composito e ricco di sfaccettature rispetto a quello pur sempre apprezzabilissimo all’insegna del “palla lunga e pedalare”; così, pur senza assumere toni preponderanti, heavy metal, hard rock o addirittura qualcosa di vicino al country (Hello Darkness) entrano a buon diritto nel tessuto sonoro di Lifehunger consentendoci di ascoltare una raccolta di brani scorrevoli, intriganti e decisamente vari.
Se i Vreid scaricano tutti i cavalli in Sokrates Must Die o nella title track, d’altra parte dimostrano di sapersi muovere anche a ritmi più ragionati (One Hundred Years, Heimatt) senza perdere mai di vista il proprio filo conduttore; questi musicisti sono oggi una garanzia di qualità all’interno del genere e se, magari, la band è meno celebrata rispetto alle altre “storiche”, ciò avviene solo perché spesso ci si dimentica che si tratta della logica e naturale evoluzione di un gruppo che, nello scorso millennio, contribuì fattivamente alla crescita esponenziale di una scena che ancora oggi continua a diffondere il proprio misantropico ed irrequieto sentire.

Tracklist:
1. Flowers & Blood
2. One Hundred Years
3. Lifehunger
4. The Dead White
5. Hello Darkness
6. Black Rites in the Black Nights
7. Sokrates Must Die
8. Heimatt

Line-up:
Sture: Vocals & guitars
Strom: Guitars
Steingrim: Drums
Hváll- Bass and keys

Guest Musician
Aðalbjörn ‘Addi’ Tryggvason (SÓLSTAFIR): vocals on “Hello Darkness”

VREID – Facebook

The Flesh – Dweller

Ventidue minuti di note che creano un mondo (quello dei The Flesh) di totale annientamento psichico, disturbante ed estremo come i generi da cui trae abominevole energia per arrivare inesorabilmente alla fine.

All’ascolto di Dweller non si può non constatare l’attitudine estrema degli olandesi The Flesh, tale da far impallidire una buona fetta delle band ascoltate negli ultimi tempi sotto la voce hardcore/punk.

La band olandese, composta da membri di Herder, Vervohed e Blood Diamond, trascende dai generi e si impone come decadente ed alcolico disfacimento mentale e fisico, un bombardamento di lucida pazzia che unisce in un sound corrosivo hardcore, crust, stoner malatissimo e black metal.
Ne esce un mostro cerebrale, un sound che trascina in un vortice di autolesionismo fagocitando pustole di menti malate e vomitandole insieme ai residui di fegato e organi impregnati di whiskey.
La voce di Jelle Kunst è un urlo di dolore sopra un tappeto di musica torturata da ritmiche sludge e black metal, come se nelle varie Black Rain o Siren’s Call, Darkthrone e Motorhead si riunissero per una jam crust/hardcore.
Lunga discesa nell’inferno del decadimento, Dweller non lascia speranze, il suo violento incedere non dà tregua, mentre Kunst vomita ormai senza freni perversione e livore.
Ventidue minuti di note che creano un mondo (quello dei The Flesh) di totale annientamento psichico, disturbante ed estremo come i generi da cui trae abominevole energia per arrivare inesorabilmente alla fine.

Tracklist
1.Tot In Den treure
2.Black Rain
3.Siren’s Call
4.Dweller (In The Dark)
5.Salax
6.Thrones In The Sky
7.A Knife To The Conformist
8.Fire Red Gaze

Line-up
Jelle Kust – Vocals
Sven Post – Guitars
Jeroen Vrielink – Bass
Tom Nickolson – Drums

THE FLESH – Facebook