Tempestuous Fall – The Stars Would Not Awake You

Resta solo da augurarsi che Tempestuous Fall non rimanga un progetto secondario per il musicista australiano ma che, al contrario, venga ulteriormente sviluppato considerando che l’eccellenza, rappresentata dai capiscuola del genere, non è affatto lontana.

Tempestuous Fall è la nuova incarnazione del musicista australiano Dis Pater, conosciuto finora nell’ambiente per il suo progetto principale Midnight Odyssey.

Se i lavori pubblicati con questo monicker sono sempre stati all’insegna di un affascinante black ambient, The Stars Would Not Awake You esplora gli oscuri meandri dei territori funeral-death doom, dando libero sfogo a quelle influenze primigenie che, a detta dello stesso autore, per qualche insondabile motivo fino a oggi non avevano trovato il loro naturale sbocco.
Il risultato è davvero apprezzabile anche perchè, nonostante il dichiarato riferimento ai lavori di My Dying Bride e Anathema degli anni ’90, l’album si sviluppa su coordinate tutt’altro che scontate nel corso della sua ora abbondante di durata distribuita su cinque lunghi brani, trovando i suoi picchi qualitativi nell’opener Old & Grey e nel brano di chiusura A Cold Stale Goodbye.
Nel primo caso colpiscono il grande gusto melodico e le clean vocals evocative, mentre nel secondo le atmosfere si fanno maggiormente plumbee e chiaramente di stampo funeral, con un sound che riporta direttamente ai mitici Thergothon.
In questo senso anche la title-track si rivela traccia di grande qualità, soprattutto quando un solenne assieme di chitarra, tastiere e growl irrompe brutalizzando letteralmente i delicati passaggi pianistici, mentre sia Beneath a Stone Grave che Marble Tears contribuiscono a mantenerne elevato il livello medio dell’intero lavoro.
Tenendo conto del fatto che Dis Pater si cimenta per la prima volta con questo genere e che l’album è uscito contemporaneamente a un lavoro immenso come “Atra Mors” degli Evoken, si può tranquillamente affermare che The Stars Would Not Awake You non esce affatto schiacciato dal confronto, inserendosi, invece, sulla scia dei maestri statunitensi grazie a un songwriting ispirato e tutt’altro che di maniera.
Resta solo da augurarsi che Tempestuous Fall non rimanga un progetto secondario per il musicista australiano ma che, al contrario, venga ulteriormente sviluppato considerando che l’eccellenza, rappresentata dai capiscuola del genere, non è affatto lontana.

Tracklist :
1. Old & Grey
2. Beneath a Stone Grave
3. Marble Tears
4. The Stars Would Not Awake You
5. A Cold Stale Goodbye

Line-up :
Dis Pater – Vocals, All Instruments

Evoken – Atra Mors

La band del New Jersey ritorna con un full-length a cinque anni di distanza da “A Caress Of The Void” e, come sempre, non delude le attese raggiungendo probabilmente uno dei punti più alti di una già splendida carriera.

Visto che, mentre scrivo questa recensione, ci troviamo in pieno periodo olimpico, mi è venuto spontaneo pensare che gli Evoken siano, assieme ai Mournful Congregation e agli Skepticism, i più autorevoli candidati a un ipotetico podio nella specialità del death-doom.

La band del New Jersey ritorna con un full-length a cinque anni di distanza da “A Caress Of The Void” e, come sempre, non delude le attese raggiungendo probabilmente uno dei punti più alti di una già splendida carriera.
La capacità di immergere l’ascoltatore in atmosfere plumbee e soffocanti, senza risultare mai noiosi o ripetitivi, è privilegio di pochi eletti dei quali gli Evoken fanno parte a buon diritto.
Rispetto a quanto fatto lo scorso inverno con “The Book Of Kings” dai succitati australiani, i nostri accentuano, come da attitudine, la componente death, privilegiando un impatto maggiormente basato sui riff di chitarra pur non disdegnando passaggi acustici, per lo più racchiusi nei due brevi strumentali A Tenebrous Vision e Requies Aeterna.
Se le chitarre assumono un ruolo preponderante nel sound dei maestri statunitensi, le tastiere svolgono un sapiente lavoro di raccordo caratterizzando con rara efficacia i momenti di maggiore intensità e pathos.
Atra Mors viene inaugurato dalla title-track facendo capire sin dalle prime note che, nonostante nulla sia cambiato, il dolore continua a rinnovarsi in maniera costante alimentando in una catena senza fine i rimpianti, le disillusioni e la disperazione per un cammino che, giorno dopo giorno, si avvicina sempre più alla sua fine.
Questo terrificante viaggio nei recessi più profondi della psiche umana prosegue con la meraviglia rappresentata da Descent Into Chaotic Dream, il cui assolo di chitarra finale è poesia allo stato puro.
Grim Eloquence e An Extrinsic Divide proseguono con il loro lento incendere verso il momento del definitivo distacco, ma è con le atmosfere a volte dissonanti di The Unechoing Dread che le tenebre finiscono per avvolgerci impietosamente, con il magistrale growl di John Paradiso a infierire definitivamente sul nostro spirito già sufficientemente provato.
Into Aphotic Devastation conclude, passeggiando senza misericordia sui nostri miseri resti mortali, questo percorso lastricato di sofferenza al termine del quale provo a immaginare la domanda che formulerebbe spontaneamente chi non è avvezzo a questo tipo di musica: per quale motivo dovrei sopportare tutto questo ?
La risposta è che il death-doom non è solo una forma artistica caratterizzata da una rara integrità e aliena a qualsiasi tipo di compromessi: ascoltare opere del valore di Atra Mors ci ricorda in modo costante e senza remissione il carattere aleatorio della nostra esistenza, invitandoci così ad affrontarla quotidianamente con la giusta consapevolezza e il necessario disincanto, prima che tutto si concluda ineluttabilmente con l’approdo in “… a soundless realm, an unforgiving place where time seems endless …”
Un disco imperdibile.

Tracklist :
1. Atra Mors
2. Descent into Chaotic Dream
3. A Tenebrous Vision
4. Grim Eloquence
5. An Extrinsic Divide
6. Requies Aeterna
7. The Unechoing Dread
8. Into Aphotic Devastation

Line-up :
John Paradiso Guitar, Vocals
Chris Molinari Guitar
Nick Orlando Guitar
Dave Wagner Bass
Don Zaros Keyboards
Vince Verkay Drums

Doomed – The Ancient Path

Nel tirare le somme, non si può che apprezzare in maniera incondizionata questo lavoro, che mette in mostra il sicuro talento del musicista di Zwickau.

Doomed è il progetto solista del musicista tedesco Pierre Laube, attivo anche come chitarrista e tastierista nei P.HA.I.L.

Come fa intendere la scelta (invero non troppo originale) del monicker, la musica contenuta in questo lavoro
è votata a un death-doom oscuro e privo di compromessi; rispetto ad altre uscite del genere The Ancient Path ha un carattere maggiormente chitarristico mentre la tastiera assume prevalentemente un ruolo di accompagnamento.
L’opener Sun Eater è esemplificativa dell’intento, da parte di Pierre, di colpire prevalentemente l’ascoltatore con l’impatto di riff granitici piuttosto che con atmosfere malinconiche; chiaramente se l’effetto è notevole nel suo insieme è anche vero che questa scelta stilistica, alla lunga, può rivelarsi controproducente.
Per ovviare a questo possibile inconveniente il musicista tedesco alterna brani nei quali prevale la componente death ad altri dal mood leggermente più atmosferico e dai rallentamenti ai confini con il funeral, come avviene per esempio in She’s Calling Me e parzialmente in Caesar’s Whore.
E’ evidente che la migliore dote di Pierre risiede nella linearità priva di fronzoli della sua proposta unita alla volontà di rifuggire da facili soluzioni melodiche; in tal modo il disco si mantiene di livello medio alto per tutta la sua durata, con la perla, come è giusto che sia, posta in chiusura.
My Love Is Dead, infatti, smussa certe spigolosità presenti negli episodi precedenti lasciando fluire finalmente la tensione emotiva accumulata fino a quel momento: ciò che ne scaturisce è un brano che amalgama alla perfezione pathos e impatto sonoro.
Nel tirare le somme, non si può che apprezzare in maniera incondizionata questo lavoro, che mette in mostra il sicuro talento del musicista di Zwickau.
Un progetto come Doomed merita d’essere supportato da una label ed essendocene molte sparse in tutta Europa che hanno già dimostrato coraggio e lungimiranza, questa è una ghiotta occasione per arricchire qualitativamente il proprio roster.

Tracklist:
1. Sun Eater
2. Collapsing Guts
3. She’s Calling Me
4. Caesar’s Whore
5. Death Is No Respecter
6. My Love Is Dead

Line-up:
Pierre Laube – Vocals, All Instruments

Inborn Suffering – Regression To Nothingness

Il gruppo francese, tra gli altri pregi, possiede la capacità di attingere, come è normale che sia, ai grandi del passato senza assomigliare a qualcuno in particolare

I parigini Inborn Suffering si presentano all’appuntamento con il secondo full-length a distanza di sei anni dal promettente “Wordless Hope”; la band di ragazzi di belle speranze, che mostrava sprazzi di qualità in un contesto death-doom fatto ancora di qualche ingenuità e una cifra stilistica personale da trovare, è maturata definitivamente ripresentandosi sulla scena con un lavoro splendido come questo Regression To Nothingness.

La dote principale dei transalpini è la capacità di evocare sensazioni morbosamente decadenti grazie a una notevole perizia tecnica e alla carica interpretativa del vocalist Laurent, il quale, tra growl, parti recitate e urla strazianti riesce a trasmettere alla perfezione il senso di angoscia che pervade ogni brano di quest’album.
L’unico appunto che si può fare agli Inborn Suffering è quello d’aver prodotto un disco dalla durata forse eccessiva; infatti, sia Another World che la title-track sono episodi buoni ma non all’altezza dei precedenti, mentre Self Contempt Kings chiude comunque alla grande l’album riportandolo alle vette qualitative alle quali avevamo fatto l’orecchio nella sua prima parte.
Slumber Asylum inaugura l’abum, facendo presagire il crescendo che caratterizzerà il poker di brani iniziali di Regression …, passando per la splendida Born Guilty per arrivare alle maestose Grey Eden e Apotheosis (mai titolo fu più azzeccato), tracce nelle quali la chitarra disegna melodie di rara ispirazione e la band raggiunge le proprie vette compositive.
Il gruppo francese, tra gli altri pregi, possiede la capacità di attingere, come è normale che sia, ai grandi del passato senza assomigliare a qualcuno in particolare; se l’influenza che si nota maggiormente è forse quella dei Swallow The Sun, ciò resta comunque circoscritto più all’attitudine melodica che non allo sviluppo vero e proprio delle composizioni.
Regression To Nothingness è l’ennesimo bersaglio centrato dalla Solitude nonché l’ulteriore regalo di questo 20102 agli estimatori di un genere, magari snobbato, ma capace di produrre in maniera continua realtà di valore assoluto come gli Inborn Suffering.

Tracklist :
1. Slumber Asylum
2. Born Guilty
3. Grey Eden
4. Apotheosis
5. Another World
6. Regression to Nothingness
7. Self Contempt Kings

Line-up :
Remi Depernet – Bass
Thomas Rugolino – Drums
Sebastien Pierre – Keyboards
Stéphane Peudupin – Lead Guitars
Laurent Chaulet – Rhythm Guitars, Vocals

Woccon – The Wither Fields

“The Wither Fields” si rivela un prodotto di elevata qualità che fa presagire un futuro interessante per la band della Georgia.

Qualche giorno fa, collegandomi a Facebook, ho trovato questo messaggio “… se ti piacciono Daylight Dies e Swallow The Sun, prova ad ascoltare questo…”.

Per uno come me questi due gruppi costituiscono un’esca formidabile, pertanto ho cliccato il link senza esitare neppure per un attimo: il risultato è stata la scoperta degli interessantissimi Woccon.
Il monicker, piuttosto particolare, fa riferimento a una piccola tribù indiana del North Carolina, anche se la band è originaria della Georgia, per la precisione di Athens, città che annovera tra i suoi figli più illustri un’icona del rock come i R.E.M.
Ovviamente i nostri musicalmente hanno poco o nulla a che vedere con i famosi concittadini, dato che la loro proposta, come si può facilmente intuire dai nomi ai quali fanno riferimento, è fatta di un elegante e melodico death-doom.
La band capitanata dal chitarrista e cantante Tim Rowland, con The Wither Fields arriva al secondo Ep, dopo l’esordio dello scorso anno intitolato “Through Ancestral Fires”, dimostrando d’aver acquisito già una notevole maturità compositiva; l’ascolto dei quattro brani contenuti nel lavoro scorre davvero in maniera piacevole e lascia qualche rimpianto solo per la durata limitata.
Nell’esame “track by track” per una volta parto dalla coda, ovvero da A Falling Devotion perché si tratta dell’unico episodio per il quale mi sento di muovere una piccola critica ai ragazzi statunitensi: non tanto per il valore del brano in sé, che è assolutamente all’altezza, bensì per essere caduti anch’essi nella tentazione di avvalersi di una voce femminile.
Attenzione, la brava Lili svolge benissimo il proprio lavoro, ma nel genere proposto dai Woccon questa soluzione appare un po’ forzata: infatti il brano, quando Tim esibisce il suo ottimo growl, sprigiona una tensione emotiva che finisce fatalmente per scemare nel momento in cui il sound si deve predisporre per accogliere una voce dall’impostazione totalmente diversa.
Le altre tre tracce ci presentano però una band dalle idee piuttosto chiare, protesa a una forma di death-doom dai tratti meno catacombali rispetto alla media e che si potrebbe descrivere come un riuscito mix tra i Swallow The Sun e i nostri Valkiria; in particolare Lament, che costituisce la vetta artistica dell’album, non avrebbe sfigurato affatto all’interno di un disco del valore di “Here Comes The Day”, soprattutto per un lavoro chitarristico che ricorda da vicino quello di Valkus e Mike.
La strada intrapresa dai Woccon sembra proprio essere quella giusta: The Wither Fields si rivela un prodotto di elevata qualità che fa presagire un futuro interessante per la band della Georgia.
Gli obiettivi per il futuro devono essere fondamentalmente due: il primo è quello di personalizzare ulteriormente il sound, per evitare qualche similitudine di troppo con tutte le band citate come fonte di ispirazione, mentre il secondo è trovare un’etichetta lungimirante che si faccia catturare dal contenuto di questo Ep.
Quindi, label di tutto il mondo, fatevi avanti !

Tracklist :
1. Our Ashes
2. Shattered Mirrors
3. Lament
4. A Falling Devotion

Line-up :
Tim Rowland – Guitar, Vocals
Tiler Kuykendall – Guitar
Wade Jones – Drums
Sam Dunn – Bass

Abske Fides – Abske Fides

E’ possibile che gli Abske Fides siano ancora alla ricerca di una stabilità che consenta loro di focalizzarsi su un percorso musicale ben definito.

Gli Abske Fides dopo una serie di interessanti Ep e una storia alle spalle già abbastanza lunga, arrivano all’esordio su lunga distanza con questo album autointitolato sotto l’egida delle sempre attiva Solitude.

Il lavoro in oggetto rappresenta un’ulteriore evoluzione del combo brasiliano che, dal black metal degli esordi, è passato successivamente a una forma di cavernoso funeral doom per giungere oggi a un particolare connubio tra doom e post-metal.
L’operazione riesce anche se non al 100%: infatti, se la proposta musicale è davvero valida nella sua alternanza tra parti cupe, con riff convincenti e vocals aggressive, e momenti più rarefatti con venature psichedeliche, alcune piccole imperfezioni esecutive e clean vocals non sempre all’altezza della situazione ne inficiano in parte la resa finale.
Ma, nonostante ciò, la band paulista dimostra d’avere numeri di prim’ordine, specialmente in brani intensi ed emozionanti come Won’t You Come e 4.48, o come in The Coldness of Progress, dove emergono inattese influenze opethiane.
L’album necessita di diversi ascolti prima d’essere assimilato in maniera ottimale, ma questo sforzo viene ripagato da una qualità compositiva comunque meritevole d’attenzione.
E’ possibile che gli Abske Fides, dopo le già menzionate sterzate stilistiche, siano ancora alla ricerca di una stabilità che consenta loro di focalizzarsi su un percorso musicale ben definito; questo full-length si colloca in ogni caso ben al di là della sufficienza e potrebbe trovare diversi estimatori tra gli appassionati di sonorità meno convenzionali.

Tracklist:
1. The Consequence of the Other
2. Won’t You Come
3. The Coldness of Progress
4. Aesthetic Hallucination of Reality
5. 4.48
6. Embroided in Reflections

Line-up:
K. – Drums, Bass, Vocals
Nihil – Guitars
Necrophelinthron – Guitars, Keyboards, Violin, Vocals

Falling Leaves – Mournful Cry Of A Dying Sun

E’ sorprendente la maturità compositiva esibita dalla band in ogni brano, dando vita così a una raccolta di brani splendidi

I Falling Leaves arrivano dalla Giordania e, indubbiamente, nonostante il paese mediorientale abbia già regalato alla scena metal una grande band come i Bilocate, costituisce sempre e comunque una piacevole novità poter ascoltare metal proveniente da paesi tradizionalmente e culturalmente lontani da questo tipo di sonorità.

Immagino che per i nostri non sia semplicissimo proporre in patria il loro raffinato gothic-doom (chi dalle nostre parti si lamenta provi a consolarsi pensando che c’è sempre chi sta peggio), ma è evidente che ciò non li ha affatto scoraggiati a giudicare dalla riuscita dell’album e, soprattutto, leggendo i prestigiosi nomi della scena che si sono mossi per contribuire alla realizzazione di Mournful Cry Of A Dying Sun.
Diciamo subito che gli ospiti di grido, da soli, non sono mai garanzia di qualità, ma i Falling Leaves dimostrano, nel corso del lavoro, di poter tranquillamente camminare con le proprie gambe.
Risulta infatti sorprendente la maturità compositiva esibita dalla band in ogni brano, dando vita così a una raccolta di brani splendidi, in particolare per la capacità di produrre atmosfere malinconicamente crepuscolari e ammantate di una morbosa eleganza.
Altro ragguaglio fondamentale per chi vorrà ascoltare il disco è la totale assenza di qualsiasi rimando alla tradizione musicale araba, a differenza di quanto fatto dai già citati Bilocate: il gothic-doom della band di Zarqa è quanto di più ortodossamente fedele alla tradizione europea si possa immaginare.
Si diceva degli ospiti: il primo a entrare in scena è Josep Brunet degli spagnoli Helevorn, che presta il suo efficace growl all’opener Reaching My Last Haven, brano che non lascia molto spazio all’ottimismo con le sue atmosfere drammatiche che accompagnano un battito cardiaco nel suo lento spegnersi.
In Blight tocca a Pim Blankenstein degli Officium Triste fornire il proprio contributo vocale a una traccia molto evocativa, mentre in Trapped Within si erge a protagonista il violino, cosa che, ovviamente non può che riportare ai capiscuola My Dying Bride.
Silence Again (Silence Pt. II), sequel del brano presente nel demo del 2010, accentua ancor più questa vicinanza ai maestri albionici, collocandosi sulla scia di quella perla di decadenza gotica che fu “For My Fallen Angel”.
Ma è con Vanished Serenity che i Falling Leaves raggiungono, a mio avviso, l’apice del disco: il brano inizia con una meravigliosa melodia di chitarra che introduce il growl del mitico Paul Kuhr (Novembers Doom); il gigantesco (sia per statura artistica che fisica) musicista americano si impadronisce letteralmente del brano regalando anche clean vocals e un recitato da brividi (no sun, no light, no hope…).
Anche quando i sei ragazzi si mettono completamente in proprio (coadiuvati solo dal prezioso violino del musicista norvegese Pete Johansen), come accade negli ultimi due brani, il livello si mantiene assolutamente inalterato e Celestial, in particolare, mette in mostra le ottime doti vocali di Abdul-Aziz oltre alle pennellate chitarristiche di Ala’a e Anas.
I quarantasette muniti del disco volano via senza momenti di noia; se vogliamo trovare il classico pelo nell’uovo (molto sottile in questo caso) non si può fare a meno di notare che, se gli ospiti, con la loro presenza, forniscono una sorta di imprimatur alla band, dall’altra spingono istintivamente la scrittura dei brani che li coinvolgono verso territori più affini ai gruppi di appartenenza.
Ma questi sono aspetti del tutto marginali quando, come nel caso di Mournful Cry Of A Dying Sun, ciò che ne scaturisce è l’ennesima perla di gothic-doom regalataci da questo ricco (purtroppo solo musicalmente parlando …) 2012.

Tracklist :
1. Reaching My Last Haven
2. Blight
3. Trapped Within
4. Silence Again (Silence Pt. II)
5. Vanished Serenity
6. Memories Will Never Fade
7. Celestial
8. Dying Sun (Outro)

Line-up :
Ala’a Swalha – Guitars
Anas Safa – Guitars
Abdul-Aziz – Assaf Vocals
Rami Mazahreh – Drums
Saif Al-Swalha – Bass
Husam Haddad – Keyboards

Graveflower – Return To The Primary Source

Chiudete gli occhi e lasciatevi cullare dalle note dolenti di My Turn, brano che dopo un intro acustica lascia spazio alle struggenti clean vocals di Aaron Stainthorpe … ; poi riapriteli e passate direttamente alle note informative relative alla band e scoprirete che il cantante in realtà risponde al nome di Vladimir Semenischev e che, come i musicisti che lo accompagnano, non proviene dalle brumose lande albioniche ma dalla ben più lontana Ekaterinburg (Russia).

Questo tipo di introduzione serve a far capire quanto il disco dei Graveflower sia debitore nei confronti del sound che i My Dying Bride hanno contribuito a creare nella prima metà degli anni ’90 e, a conti fatti, tutto questo finisce per costituirne sia il maggiore pregio sia il principale difetto.
Non c’è alcun dubbio, infatti, che la band russa riesca a riportare in vita in maniera efficace e appropriata le sonorità che hanno contraddistinto pietre miliari del doom/death come “Turn Loose The Swans” o “The Angel And The Dark River” ma, d’altra parte, l’adesione al modello originario in certi frangenti è talmente fedele da sfiorare il plagio.
Pertanto riesce difficile fornire un giudizio obiettivo e soprattutto slegato da quanto appena osservato: chi, come il sottoscritto, ama in maniera incondizionata questo genere musicale, non può evitare di farsi coinvolgere dalla bravura di Vladimir e soci nel comporre brani al rallentatore, dal mood romantico e decadente, e l’ascolto ripetuto di questo lavoro trasmette sensazioni in gran parte positive. Detto questo, e ribadito che il doom, per sua natura, non si presta a troppe divagazioni o commistioni stilistiche, è innegabile che dai Graveflower per il futuro ci si attende quanto meno uno scostamento più deciso dai canoni espressivi che la band dello Yorkshire ha dettato due decenni or sono.
Alla fine il verdetto per la band russa è di assoluzione, sia pure con tutte le riserve già esposte, con le seguenti motivazioni : 1) Return To The Primary Source, se spogliato di ogni ingombrante termine di paragone, è un bel disco, considerando tra l’altro che si tratta del passo d’esordio. 2) Se i My Dying Bride decidessero un giorno di tornare alle sonorità e all’intensità emotiva degli esordi, immagino che la cosa sarebbe accolta con favore dalla maggior parte dei fans, quindi il fatto che qualcun’altro li abbia in qualche modo anticipati non mi pare così deprecabile ….

Tracklist :
1. White Noise
2. My Turn
3. Rain in Inferno
4. Just a Moment
5. Falling Leaves
6. Autumn Within
7. Rain Without End

Line-up :
Danil Aleshin – Drums
Dimitry Solodovnikov – Guitars
Andrey Pilipishin – Guitars
Vladimir Semenischev – Vocals, Bass

Nethermost – Alpha

Certamente questo primo assaggio mostra una band dalle idee molto chiare, per quanto certo non innovative

Interessante Ep di esordio per questa band con base a Laredo (Texas), composta da John Johnston alla voce e da Cynthia e Waldo Rocha a occuparsi di tutti gli strumenti.

Alpha si compone di quattro brani nei quali viene esibito un gothic-doom influenzato dai Paradise Lost e dai primi Katatonia ; i Nethermost sono autori di una proposta molto lineare e priva di fronzoli e proprio per questo, ancora più apprezzabile.
Intanto, nonostante una presenza femminile nella line-up, viene smentito subito il clichè che in questi casi prevede la scontata dicotomia tra growl e voci angeliche, con il solo John a occuparsi delle parti vocali, mentre Cynthia con la sua chitarra tratteggia melodie malinconiche ma supportate da una base ritmica piuttosto vivace.
Certamente questo primo assaggio mostra una band dalle idee molto chiare, per quanto certo non innovative; assodato che un brano come Tower Of The Winds è un autentico gioiello, il trio dovrebbe concentrarsi sull’obiettivo di diversificare maggiormente la proposta.
Infatti, l’unica critica che si può rivolgere a un lavoro come Alpha è la sua eccessiva uniformità: le quattro tracce suonano in maniera piuttosto simile tra di loro e impostate su un classico mid-tempo, caratteristiche queste che, se non costituiscono un problema su una durata inferiore ai venti minuti, potrebbero rivelarsi controproducenti nel momento in cui i Nethermost dovessero decidere di cimentarsi sulla lunga distanza.
Comunque per ora molto bene così; considerando che l’Ep è autoprodotto, una label che volesse farsi avanti potrebbe ricavare notevoli soddisfazioni da questa band.

Tracklist :
1. Phasing Currents
2. The Untroubled Kingdom of Reason
3. Tower of the Winds
4. Dance of Burning Beasts

Line-up :
Cinthya Rocha – Lead Guitars
Waldo Rocha – Rhythm Guitars, Programming
John Johnston – Vocals

Valkiria – Here The Day Comes

Una piacevole scoperta per chi non conosceva i Valkiria e una conferma dello stato di salute di una scena come quella nostrana che, pur tra ogni genere di avversità, appare in grado di sfornare con buona continuità lavori di livello assoluto come “Here The Day Comes”

Gli ultimi mesi ci stanno regalando diverse uscite davvero magnifiche provenienti dal versante più oscuro del metal; un piacere che aumenta in maniera esponenziale e che ci rende (finalmente) orgogliosi visto che alcune di queste sono ad opera di band italiane.

Infatti, dopo gli imperdibili lavori degli Ecnephias di Mancan (che in passato ha collaborato proprio con i Valkiria) e dei The Foreshadowing, tocca ora alla creatura di Valkus dare alle stampe un’autentica perla che riporta in vita il gothic-death doom nella sua essenza più pura, quando album come “The Silent Enigma”, “Dance Of December Souls” e “Turn Loose The Swans” dettavano i canoni stilistici di un genere capace di regalare emozioni come pochi altri.
Here The Day Comes è un concept, che, come si può evincere dal titolo dei brani, è incentrato sul racconto dei diversi momenti della giornata, visti come metafora dell’intera esistenza; il disco, che si avvale della preziosa collaborazione di Giuseppe Orlando alla batteria, si rivela fin dall’iniziale Dawn un commovente compendio di arte tetra e malinconica; Sunrise (da vedere lo splendido video) e Morning trasportano l’ascoltatore attraverso le loro atmosfere cupe e decadenti mentre, da Sunset in poi, il mood si fa ancor più fosco e opprimente in ossequio al calare delle tenebre.
Questa è la tipica opera che richiede un ascolto integrale per favorire una migliore assimilazione e la lunghezza non eccessiva aiuta molto in questo senso; dal canto loro, i Valkiria sfuggono al rischio di risultare una copia sbiadita dei campioni del passato grazie alla sensibilità compositiva e all’imponente impatto emotivo infuso in Here The Day Comes nella sua interezza.
Difficile trovare qualcosa che non funzioni nella proposta di Valkus e Mike: volendo cercare il classico pelo nell’uovo, forse sarebbe stato preferibile l’utilizzo del growl in vece dello screaming che, personalmente, reputo più adatto al black metal, ma anche così non viene mai meno il senso di fatale rassegnazione che aleggia nel disco al cospetto dell’ineluttabile scorrere del tempo.
Una piacevole scoperta per chi non conosceva i Valkiria e una conferma dello stato di salute di una scena come quella nostrana che, pur tra ogni genere di avversità, appare in grado di sfornare con buona continuità lavori di livello assoluto come Here The Day Comes.

Tracklist :
1. Dawn
2. Sunrise
3. Morning
4. Afternoon
5. Sunset
6. Evening
7. Night

Line-up :
Valkus Valkiria – Vocals, All Instruments
Mike – Guitars
Giuseppe Orlando – Drums

Wedding In Hades – Misbehaviour

I Wedding In Hades confermano le buone impressioni destate con il precedente “Elements Of Disorder” approdando a un gothic-doom raffinato e perfettamente inserito nel solco della tradizione del genere

I francesi Wedding In Hades giungono alla seconda prova su lunga distanza sotto l’egida della BadMoodMan, label affiliata alla Solitude e, quindi, sinonimo di qualità assoluta.

Misbehaviour non delude le attese, presentando un band in grado di tessere trame musicali costantemente in bilico tra death-doom e gothic, sulla scia di quanto fatto dai My Dying Bride, particolarmente nella prima parte della loro carriera.
Del resto, nel commentare le nuove uscite in questo campo, il nome della band di Aaron Stainthorpe viene spesso citato, ma non sempre a proposito; in questo caso, invece, un brano come Forsaken, che apre alla grande il disco, riporta subito alle atmosfere di “As The Flower Withers”, con tanto di “growl a cappella” simile a quello presente nella magnifica “Sear Me”.
Nella successiva traccia, Men To The Slaughter, emerge una vena melodica più affine ai Saturnus, mentre Sleeping Beauty richiama in maniera evidente i Type O Negative, anche per le clean vocals dall’impostazione simile a quella del compianto Peter Steele; questo dimostra che la band transalpina non si limita affatto a ricalcare pedissequamente un solo modello stilistico, cercando invece di rielaborare in maniera tutt’altro che scontata quanto prodotto in passato dai nomi più conosciuti della scena.
Operazione che riesce alla perfezione con Dust In A Stranger’s Eyes, brano a dir poco superlativo dalle atmosfere diluite e malinconiche e Regrets, con un bellissimo pianoforte a impreziosire una trama musicale gravata di mestizia.
The One To Blame appare come l’unico momento discutibile a causa delle sue brutali accelerazioni che stridono rispetto a quanto ascoltato nel resto dell’album; le cose tornano a posto con la sognante e delicata Almost Living e con la ripresa di Men To The Slaughter, che chiude degnamente un lavoro di pregevole qualità.
I Wedding In Hades confermano le buone impressioni destate con il precedente “Elements Of Disorder” approdando a un gothic-doom raffinato e perfettamente inserito nel solco della tradizione del genere; la prova strumentale del quartetto francese è impeccabile, così come la prestazione dietro il microfono di S.Toutain è convincente sia con il growl sia quando ci cimenta con le clean vocals, anche se in quest’ultimo caso la pronuncia inglese è rivedibile a causa del persistere di un forte accento francofono.
Nulla che possa inficiare, più di tanto, un album che merita di trovare un posto di riguardo nella collezione di chi è costantemente alla ricerca di emozioni in musica.

Tracklist :
1. Forsaken
2. Men to the Slaughter
3. Sleeping Beauty
4. Dust in a Stranger’s Eyes
5. Regrets
6. The One to Blame
7. Almost Living (But Not Dead Yet)
8. Men to the Slaughter (Reprise)

Line-up :
V. Lahaeye – Drums, Backing Vocals
D. Simon – Rhythm & Lead Guitars
O. Raoult – Keyboards
S. Toutain – Vocals, Bass, Acoustic & Nylon Stings Guitars

Evadne – The Shortest Way

Un autentico gioiello che gli appassionati del genere non devono lasciarsi sfuggire per alcun motivo.

Il secondo album degli iberici Evadne trova nella Solitude un’etichetta in grado finalmente di valorizzarlo e distribuirlo come merita, dopo la sua iniziale uscita come autoproduzione alla fine dello scorso anno.

Per valutare i progressi della band di Valencia può rivelarsi utile fare un raffronto con il precedente “The 13th Condition”, risalente al 2007, lavoro che, pur denotando ottimi spunti e collocandosi ad un livello più che discreto, denotava diverse imperfezioni sul versante della produzione oltre ad un sound orientato al gothic più canonico con l’inflazionato ricorso a voce femminile, violino e tastiere
Quattro anni non sono trascorsi invano e The Shortest Way lo dimostra pienamente: intanto la resa sonora del disco è stata affidata alle cure di Dan Swanö, un nome che sotto quest’aspetto è sinonimo di qualità, mentre i cliché tipici del gothic sono pressoché scomparsi lasciando spazio ad un death-doom che coniuga, in maniera esemplare, il senso di ineluttabile rovina dei My Dying Bride con le meste armonie dei Swallow The Sun.
Ad integrare un aspetto musicale di primissima qualità vanno evidenziati anche i testi intrisi di drammaticità che rendono l’album, di fatto, un concept legato alla morte della persona amata e alla conseguente incapacità di sopravvivere alla perdita subita da parte di chi resta. Mai come in questo caso si può affermare che le tematiche trattate siano in perfetta sintonia con il monicker della band, ispirato ad un personaggio della mitologia greca: Evadne, infatti, successivamente all’uccisione del marito Capaneo per mano di Zeus, si gettò sulla sua pira funebre decidendo di morire con lui.
Questa dimostrazione d’amore tragica quanto estrema viene adeguatamente descritta sia a livello lirico che musicale: il growl di Albert, migliorato in maniera esponenziale in questi anni, si rivela efficace nell’ergersi sulle melodie cupe e pregne di disperazione dei suoi compagni d’avventura.
Si fatica a individuare un brano che si stagli sugli altri in questo splendido album : dovendo proprio fare una scelta citerei Dreams in Monochrome, per la magnifica linea di chitarra che rappresenta alla perfezione la sensazione di sconcerto e turbamento evocata nel testo e All I Will Leave Behind, brano davvero commovente e poetico, nel corso del quale la disperazione del protagonista raggiunge il suo culmine con la decisione, comunicata a familiari e amici, di togliersi la vita pur di raggiungere la persona amata; con quali esiti, lo lascio scoprire a voi, ma è facile intuire che non ci sarà un lieto fine …
Gli Evadne con questo lavoro confermano, assieme a Helevorn e In Loving Memory, la vitalità della scena spagnola, dimostrando, se ce ne fosse stato bisogno, che il death-doom non è prerogativa solo delle fredde lande nordiche, ma trova terreno fertile pure in corrispondenza delle assolate latitudini mediterranee.
Un autentico gioiello che gli appassionati del genere non devono lasciarsi sfuggire per alcun motivo.

Tracklist :
1. No Place For Hope
2. Dreams In Monochrome
3. This Complete Solitude
4. One Last Dress For One Last Journey
5. All I Will Leave Behind
6. The Wanderer
7. Further Away The Light
8. Gloomy Garden

Line-up :
Albert – vocals
Josan – guitars
Jose – bass
Ifrit – drums
Marc – guitars

When Nothing Remains – As All Torn Asunder

La band riesce a mantenere sempre un eccellente equilibrio, evitando da una parte di cadere nel’immobilismo di certo funeral e dall’altra di farsi attrarre irrimediabilmente dalla faciloneria di molte proposte gothic-doom.

I When Nothing Remains sono l’ennesima ottima espressione del doom scandinavo estratta dal magico cilindro della Solitude.

La band svedese è di recente formazione anche se i due musicisti coinvolti, Peter Laustsen e Jon Sallander, non sono certo alle prime armi; in particolare il primo è stato fino allo scorso anno una colonna portante dei validi gothic-doomsters Nox Aurea.
Come spesso mi trovo a sostenere in queste occasioni, il fatto che la proposta musicale non presenti particolari variazioni sul tema, non esclude a priori la possibilità di ascoltare un lavoro di qualità rilevante.
E’ questo il caso di All Torn Asunder, disco che attinge certamente a piene mani da quanto già prodotto dalle band che hanno fatto la storia del death-doom, ma con un gusto e una sensibilità compositiva davvero encomiabile.
In effetti, il sound dei nostri si presenta da subito come un riuscito mix tra Swallow The Sun e My Dying Bride (inevitabili quando si parla di death-doom), con un certo sbilanciamento però a favore dei primi.
Infatti, molti brani riportano alla mente le prime uscite della band finlandese, con l’uso di sonorità malinconiche contrappuntate da uno splendido lavoro di tastiera e dall’uso di un growl molto efficace; alcuni spunti melodici si rifanno alla migliore produzione dei Draconian, e forse non è un caso che Johan Ericson, che di questi ultimi è chitarrista e compositore, sia stato chiamato a produrre l’album e a prestare le proprie clean vocals.
Il disco, pur nella sua lunghezza che supera abbondantemente l’ora complessiva di durata, mantiene sempre viva l’attenzione dell’ascoltatore, anche perché , pur mantenendo il mood malinconico che è il marchio di fabbrica del genere, ogni brano denota una certa varietà presentando break melodici con clean vocals, come nella coda dell’opener Embrace Her Pain, oppure ricorrendo ad riff granitici quanto efficaci (esemplare in questo senso la splendida The Sorrow Within); nel complesso si può tranquillamente affermare che la band riesce a mantenere sempre un eccellente equilibrio, evitando da una parte di cadere nel’immobilismo di certo funeral e dall’altra di farsi attrarre irrimediabilmente dalla faciloneria di molte proposte gothic-doom.
Il lavoro non presenta alcuna traccia più debole, quella che fa venire voglia di premere il tasto “skip”; ogni brano riesce a imporsi grazie alla capacità del duo nel creare atmosfere maliconiche e ricche di melodie memorabili: dovendo fare una scelta, davvero difficile in questa occasione, estrapolerei Mourning Of The Sun con una splendida linea chitarristica a far da guida nei suoi quasi nove minuti di durata, Her Lost Life, “swallowiana” più che mai, e la title-track, intrisa di drammaticità fin dall’intro tastieristico e dai rallentamenti ai confini del funeral.
I testi, come si può immaginare già dai titoli di ogni traccia, non trattano di elfi e dragoni o di epiche battaglie, ma sono intrisi di un lirismo cupo e privo di ogni barlume di speranza (… we have come to the final moment…)
Insomma, un album sul quale veramente non c’è nulla da eccepire e che cresce a ogni ascolto svelando ogni volta un nuovo interstizio ricolmo di struggente amarezza.
Ritengo che la proposta dei When Nothing Remains sia superiore per qualità e pathos rispetto a quanto già fatto dai Nox Aurea, pur battendo questi ultimi territori chiaramente più orientati al gothic; grazie alla scelta di Peter Laustsen, da oggi i malati di doom hanno un altro magnifico progetto sul quale fare affidamento.

Tracklist:
1. Embrace Her Pain
2. The Sorrow Within
3. A Portrait of the Dying
4. Mourning of the Sun
5. Solaris
6. Her Lost Life
7. In Silence I Conceal the Pain
8. As All Torn Asunder
9. Outro: Tears

Line-up :
Peter Laustsen – Vocals, All Instruments
Jon Sallander – Vocals, All Instruments

Frailty – Melpomene

I Frailty ci regalano più di un’ora e un quarto di death-doom di primissima qualità.

I Frailty giungono con Melpomene (nella mitologia greca, la musa della Tragedia) alla seconda prova su lunga distanza e non deludono le attese che si erano create dopo la pubblicazione dell’esordio “Lost Lifeless Light” del 2008 e dei successivi EP “Frailty” e “Silence Is Everything …”.

La band lettone con la sua proposta musicale si colloca sui territori death-doom già battuti in modo lusinghiero in questo spicchio di 2012 dagli iberici In Loving Memory; analogamente a questi ultimi i Frailty mostrano la loro spiccata attitudine nel comporre brani nei quali convivono in perfetta armonia aggressività e melodia.
A livello di ispirazione i nostri hanno rivolto lo sguardo verso le altre sponde del Baltico dove i riferimenti sono i Saturnus su quella danese, per quanto riguarda i brani risalenti all’EP del 2010, e i Swallow The Sun su quella finlandese, per i brani più recenti composti appositamente per questo disco.
In questo senso appare sorprendente la traccia d’apertura Wendigo che, con le sue sonorità più aspre rispetto alle produzioni precedenti dei lettoni, si avvicina ai brani di maggiore impatto dei Novembers Doom, anche se l’aspetto melodico non viene trascurato grazie ad uno splendido break a metà del brano.
Già la successiva Cold Sky, che inaugura un trittico di brani maestosi, sin dalle prime note chiarisce eventuali dubbi sorti su un possibile sbilanciamento delle composizioni verso il death, caratterizzandosi per il magnifico lavoro alla chitarra di Edmunds, capace di tratteggiare melodie sognanti e melanconiche allo stesso tempo; segue Desolate Moors che, nonostante i suoi quattordici minuti, non accusa cali di tensione con le sue ritmiche pachidermiche ben coadiuvate dalla tastiera di Ivita, per un risultato degno dei migliori Saturnus.
Underwater chiude l’ideale prima parte del disco ed è un brano semplicemente grandioso che racchiude in sé tutte le caratteristiche essenziali del death-doom: grandi riff, melodie dolcemente ammantate di mestizia e un growl proveniente dagli abissi più reconditi.
Onegin’ s Death è una traccia strumentale acustica che funge come introduzione di altro magnifico trittico di brani, partendo da The Doomed Hall Of Damnations, che lambisce territori funeral con le sue atmosfere soffocanti, per passare da Eternal Emerald, che ci riporta ad un clima decisamente più arioso, e concludendo con Thundering Heights, che è l’altra perla del disco, con Edmunds sugli scudi grazie a un memorabile assolo di chitarra nella parte finale.
Melpomene, pubblicato dall’attiva label ucraina Arx Productions, si chiude degnamente con un altro brano strumentale, The Cemetery Of Colossus, lasciando appagato chi sperava di trovare conferma alle potenzialità in precedenza espresse dalla band.
Andando alla ricerca del classico pelo nell’uovo, si nota una lieve discontinuità tra i brani meno recenti e quelli nuovi, cosa che normalmente accade quando nel pubblicare un full-length si includono anche pezzi già editi in demo, singoli o EP.
Nulla che possa influire sul giudizio finale, sia chiaro, soprattutto quando una band come i Frailty ci regala più di un’ora e un quarto di death-doom di primissima qualità, con un vocalist dal growl terrificante, un chitarrista dal tocco personale e dal grande gusto melodico e altri quattro ottimi musicisti che forniscono il loro contributo preciso ed essenziale alla riuscita di un bellissimo album.

Tracklist:
1. Wendigo
2. Cold Sky
3. Desolate Moors
4. Underwater
5. Onegin’s Death
6. The Doomed Halls of Damnation
7. Eternal Emerald
8. Thundering Heights
9. The Cemetery of Colossus

Line-up:
Lauris Polinskis – Drums
Edmunds Vizla – Guitars, Vocals
Ivita Puzo – Keyboards
Martins Lazdāns – Vocals
Jānis Jēkabsons – Bass
Jēkabs Vilkārsis – Guitars (rhythm)

In Loving Memory

Gli In Loving Memory sono una band spagnola che ha esordito quest’anno con un ottimo disco di death-doom.
Grazie alla loro disponibilità abbiamo avuto l’occasione di di approfondire la conoscenza della scena iberica oltre a fare qualche inevitabile raffronto con ciò che accade nel nostro paese.

ME Ciao ragazzi, grazie per la vostra disponibilità! Il vostro album è stato una piacevole sorpresa, per questo motivo vorremmo sapere qualcosa di più sulla storia della band.

Ciao, come va ? La storia degli In Loving Memory è iniziata nel 2005, quando Raúl (basso) e Juanma (voce e chitarra) hanno lasciato i Forensick, la band nella quale stavano suonando in quel momento, e dopo un paio di mesi hanno cominciato a cercare nuovi membri per una band doom metal. Hanno contattato Aitor (ora non più nella band) e Jorge (chitarra), entrambi componenti della band Lost Emotions. Alcuni mesi più tardi, dopo aver provato diversi cantanti, abbiamo contattato Alaitz (anch’essa non più nella line-up) per diventare la voce femminile della band e con quella line-up abbiamo iniziato a suonare dal vivo e abbiamo registrato il nostro primo demo.

ME Qual è la situazione attuale della scena doom in Spagna?

Beh, il doom metal non è uno stile musicale popolare anche tra chi ascolta metal. Death metal, metalcore e djent (sonorità tipo Meshuggah – nda) sono oggi gli stili estremi più diffusi nel nostro paese, ma per fortuna c’è ancora spazio per noi e per alcune altre ottime band.

ME Penso che fare musica sia soprattutto un piacere, ma quanto può essere difficile farlo sapendo in partenza che il prodotto sarà ascoltato da un numero limitato di persone?
Forse, se foste nati in Finlandia o in Norvegia, con un album come questo, avreste potuto trovare posto nelle classifiche di vendita … 

Forse, se fossimo nati in quei paesi non saremmo stati in grado di suonare a causa delle dita congelate … 😉  Parlando seriamente nelle nazioni del nord-europa la cultura, in particolare quella musicale, è sviluppata in modo diverso rispetto ai paesi mediterranei come Spagna, Italia e Grecia per citarne qualcuno. Là tutti i tipi di musica sono supportati mentre nel nostro paese la musica metal non ha alcun tipo riscontro da parte dei media, ad eccezione di alcuni appassionati di metal che ancora si prodigano per la musica che amano e la diffondono tramite le radio e le fanzine, e men che meno da parte delle istituzioni.

IN LOVING MEMORY

ME Parlando del vostro disco, ho trovato davvero ottimi i testi, in particolare “November Cries”, per la sua toccante drammaticità e “Negation Of Life”: a tale proposito potreste spiegarci il significato racchiuso nel brano che, credo, rappresenta il tema principale dell’album ?

Il vero significato di Negation Of Life parla di come Juanma si senta a volte incompreso dalle altre persone, facendolo sentire come intrappolato in una bolla di plastica e isolato dai rapporti umani. In una simile situazione qual è il significato delle parole “essere vivi”? Sappiamo che ci sono persone che vivono quotidianamente questo tipo di realtà, i senzatetto, gli orfani e tutti coloro che non fanno parte della società “fashion” nella quale siamo immersi.

ME In Italia la religione cattolica ha sempre influenzato la vita politica e sociale del paese, le cose vanno diversamente in Spagna?

No, qui avviene la stessa cosa, l’attuale governo è di orientamento cattolico. Noi non siamo contrari a ciò che la religione rappresenta per le persone ma siamo contro ciò che la religione provoca nelle loro vite: guerra e menzogna. Se vuoi credere in qualcosa, che si chiami Dio, Jahvé, Allah, Buddha non c’è problema; ma quando si tenta di imporre la propria religione ad altri, allora non è più così …. Nei nostri testi troverete diverse critiche corrosive riguardanti ciò che significa per noi la religione.

ME Passando a esaminare l’aspetto commerciale, perché per produrre un video avete scelto “Even a God Can Die”, una canzone che è sicuramente meno immediata, per esempio, di “Skilled Nichilism” o “Adversus Pugna Tenebras” ?

Abbiamo scelto quella canzone anche per aprire l’album. Certamente non è quella più orecchiabile, né la più commerciale o più elaborata del disco, ma pensiamo che abbia qualcosa di speciale. Abbiamo voluto piazzare all’inizio un classico brano lento, pesante e doomy, per poi passare a un altro più veloce, poi uno più melodico, poi uno più complesso, e così via.
Così abbiamo deciso che il primo video dovesse essere il brano di apertura, con l’intento di fare uscire un prodotto”home-made”. Ne abbiamo in programma un altro che pensiamo dovrebbe essere visivamente più complesso, vedrete …. (speriamo tra breve !)

ME  Anche se fino ad ora avete prodotto solo due album, apprezzo la vostra integrità nel proporre una death doom classico, senza troppe concessioni alla parte commerciale, differenziandovi da molti gruppi che, pur avendo segnato il passato e il presente, hanno ceduto alla tentazione di snaturare parzialmente il loro stile. Cosa ne pensate? Ritenete che sia questa un’evoluzione in qualche modo inevitabile?

Beh, a giudicare da quanto si legge in alcuni siti web siamo considerati leggeri dai puristi del doom metal, perché usiamo molte melodie nelle nostre composizioni; per contro, non essendo neppure sbilanciati sulle sonorità più estreme, non siamo nemmeno così adatti agli gli appassionati di brutal o death, mentre possiamo costituire una valida opzione per chi ama trovare il giusto equilibrio tra melodia e brutalità. Potremmo comporre musica più commerciale, come già fanno molte band, ma alla fine suoniamo quello che dà più soddisfazione, poi se piace anche agli altri, meglio. In caso contrario noi trascorriamo il tempo facendo ciò che amiamo, che è suonare, quindi non c’è alcun problema.
Di certo non abbiamo intenzione e neppure ci interessa cambiare il nostro stile preoccupandoci se quello che suoniamo sia commerciale o meno.

ME Sicuramente oggi la Solitude Productions e la sua sub-label BadMoonMad sono sinonimo di produzioni di alta qualità, ma vi chiedo: quali sono le difficoltà che dovete affrontare trattando con persone che vivono dalla parte opposta del continente ?

Il primo problema è la lingua: per entrambi l’inglese non è la lingua madre e a volte ci sono cose che potrebbero essere espresse meglio.
Un altro è la distanza: mandiamo tutto il nostro materiale musicale via internet, ma per tutti gli altri aspetti, dalla firma dei contratti alla consegna delle copie dei cd, bisogna avvalersi forzatamente della posta aerea, con tutto ciò ne consegue a livello di tempistica; chiaramente tutto si svolge in maniera più lenta di quanto accadrebbe se vivessimo nella stessa nazione.
Ma a parte questo, siamo soddisfatti del lavoro della Solitude Productions e della BadMoonMad, perché grazie a loro stiamo raggiungendo sempre più persone con Negation Of Life rispetto a quanto successo con il nostro precedente Tragedy & Moon; questo non è certo un sintomo di maggiore commercialità, come abbiamo detto in precedenza, ma lo scopo è quello di riuscire a valicare i confini nazionali, cosa che è molto difficile senza il supporto di una buona etichetta discografica. In questo modo ora altre persone possono ascoltare la nostra musica, e decidere se apprezzarla oppure no.

IN LOVING MEMORY

ME Quale band e quali dischi hanno orientato il vostro background musicale?

Ahi, troppi da citare qui, he he … Noi ascoltiamo tutti i tipi di musica, dal jazz al metal estremo, ma quelli che ci hanno spinto realmente verso questo tipo di musica sono da individuare tra My Dying Bride, Anathema, Paradise Lost, Swallow The Sun, In Flames, Evoken, In Mourning, Saturnus, Moonspell, Opeth, Amorphis e Evereve.

ME Una band che ha modificato nel tempo il proprio sound sono gli Swallow The Sun, ai quali vi ho accostato nella mia recensione, che hanno esordito con un capolavoro come “The Morning Never Came” ma gradualmente hanno ammorbidito il loro suono, rimanendo comunque ad alto livello. Sono stati davvero un’influenza per voi e avete avuto l’opportunità di ascoltare il loro album appena uscito?

Sì, abbiamo proprio tutti gli album che questa grande band ha rilasciato e consideriamo la loro evoluzione simile a quella avuta da Anathema, Paradise Lost o Amorphis anni fa. Certe volte si desidera “ammorbidire” il suono perché si ha acquisito una maggiore esperienza come musicisti e quindi si riesce più efficacemente a fornire questa impronta alla musica. In altre parole, si stratta solo di ascoltare la musica in maniera diversa.
Noi rispettiamo molto gli Swallow The Sun e ci piace ancora la loro musica, anche se preferiamo i primi due album.

ME Per finire, avete in programma un tour o qualche data per proporre dal vivo i brani di “Negation Of Life” ?

Vorremmo fare diversi concerti nel nostro paese per promuovere l’album e al momento stiamo organizzando alcuni spettacoli. Certo, suoneremo più che potremo, ma vogliamo anche trovare il tempo per produrre e scrivere, nel prossimo futuro, musiche e testi sempre migliori.

(EchO) – Devoid Of Illusions

Esiste, anche se poco pubblicizzata, un’Italia diversa da quella degli schettini, dei buffoni di corte e di tutte quelle “squallide figure che attraversano il paese” ; gli (EchO) sono qui a dimostrarcelo.

Devoid Of Illusions è il miglior esordio discografico che mi sia capitato di ascoltare da diverso tempo a questa parte.

I bresciani (EchO) sono l’ennesima pietra preziosa che, con la consueta lungimiranza, la Solitude Productions (tramite la sub-label BadMoodman) lancia nella scena doom mondiale; anche se, in effetti, racchiuderli in maniera semplicistica all’interno del genere appare riduttivo.
Infatti i nostri, pur muovendosi chiaramente nell’ambito di competenza dell’etichetta con sede a Orel (Russia), riescono a fornire al loro sound una serie di sfumature e di influenze che spaziano dal gothic/doom più classico fino ad un progressive dalla tonalità darkeggianti.
Tale progetto riesce alla perfezione grazie alle innegabili capacità tecniche della band e a un vocalist come Antonio Cantarin in grado di passare con disinvoltura dal growl più catacombale a clean vocals evocative e prive di qualsiasi sbavatura.
In un quadro di questo genere la classica ciliegina sula torta è costituita da una produzione che valorizza al massimo le sonorità dell’album a cura di un autentico mostro sacro del doom metal, ovvero Greg Chandler, mastermind degli Esoteric.
In Devoid Of Illusions tutto funziona alla perfezione, ciascun brano possiede un’impronta che lo rende memorizzabile e distinguibile dagli altri, benché certamente non si stia parlando di musica di facile presa.
Del resto, proprio ciò che ad un primo impatto potrebbe costituire il punto debole del lavoro, ovvero l’eterogeneità stilistica che si manifesta anche all’interno delle singole tracce, in realtà finisce per rivelarsi il valore aggiunto dato che l’alternanza tra atmosfere apparentemente discordanti tra loro avviene magicamente in maniera del tutto naturale e spontanea.
Prendendo in esame alcune dei brani, The Coldest Land vive sull’avvicendamento tra arpeggi delicati prossimi ai Katatonia ed un’irresistibile melodia chitarristica contrassegnata da un growl impetuoso, mentre Omnivoid si caratterizza per un riff pesantissimo che improvvisamente si dissolve per lasciare spazio a sonorità prossime al depressive metal.
Disclaiming My Fault è un’altra delle tante perle dell’album, un brano che nasce con un’impronta prog alla Porcupine Tree che viene trasfigurata nel finale da un furioso death metal; Once Was A Man invece risalta come un’eccezione nel contesto dell’album poiché, se come la precedente traccia si muove inizialmente su territori contigui alla band di Steve Wilson, finisce per confluire in passaggi degni dei Cure di “Disintegration”; in sintesi : splendido !
Sounds From Out Of Space chiude alla grande il lavoro con la partecipazione dello stesso Greg Chandler che, con la sua voce e la sua chitarra, finisce inevitabilmente per “esoterizzare” il brano, ma questo non è certo un male, anzi …
Proprio il contrasto tra il cupo funeral doom introdotto dall’illustre ospite e le caratteristiche aperture post metal che, giunti alla fine dell’album, abbiamo imparato a conoscere ed apprezzare, si erge a simbolo dell’intero lavoro e dimostra quanto il talento degli (EchO) renda naturale la convivenza tra sonorità apparentemente incompatibili.
Non c’è molto altro da aggiungere se non l’esortazione nei confronti di chi ama la buona musica (non solo il metal) affinché supporti questa magnifica realtà nostrana.
Esiste, anche se poco pubblicizzata, un’Italia diversa da quella degli schettini, dei buffoni di corte e di tutte quelle “squallide figure che attraversano il paese” ; gli (EchO) sono qui a dimostrarcelo.

Tracklist:
1. Intro
2. Summoning the Crimson Soul .
3. Unforgiven March
4. The Coldest Land
5. Internal Morphosis
6. Omnivoid
7. Disclaiming My Faults
8. Once Was a Man
9. Sounds From Out of Space

Line-up:
Antonio Cantarin – Vocals
Mauro Ragnoli – Guitars
Simone Saccheri – Guitars
Simone Mutolo – Piano, Keyboards
Agostino Bellini – Bass
Paolo Copeta – Drums

In Loving Memory – Negation Of Life

Gli In Loving Memory ottengono il nostro plauso incondizionato per la consistenza della loro proposta e per la capacità di fornire un’ora abbondante di musica emozionante.

Gli In Loving Memory costituiscono, assieme a Helevorn, Evadne ed Autumnal, la massima espressione in ambito death-doom della penisola iberica.

I doomsters spagnoli nascono come band nel 2005 ed un anno dopo pubblicano un primo demo influenzato da uno dei trend dell’epoca , ovvero il gothic- doom con voce femminile.
La scelta di virare verso sonorità più robuste, oltre a quella di affidare le vocals al chitarrista Juanma, si rivela vincente e già in “Tragedy & Moon” del 2008 vengono messe in mostra le qualità che ritroviamo in Negation Of Life , lavoro che presenta una band in grande spolvero e focalizzata sull’obiettivo di produrre un sound pesante e malinconico come il genere esige.
A tale proposito, posiamo collocare gli In Loving Memory nel solco stilistico tracciato, ad altre latitudini, dagli Swallow The Sun in particolare, ma senza che per questo la band rinunci ad esprimere la necessaria personalità
L’album è caratterizzato da riff robusti, solos malinconici, un growl corrosivo ed un lavoro di tastiere efficace senza essere mai invadente, il tutto supportato da una produzione encomiabile. Grazie a queste caratteristiche ed all’ottimo bilanciamento tra parti aggressive e momenti melodici tutti i brani si lasciano ascoltare senza alcun affanno.
La traccia iniziale, Even A God Can Die è forse quella che concede meno spazio alle melodie, riservando solo a qualche breve inserto pianistico il compito di contrastare la pesantezza delle chitarre e della base ritmica, ma già dalla successiva Skilled Nihilism la proposta degli iberici si fa più immediata ed accattivante.
Adversus Pugna Tenebra parte con un arpeggio delicato ed una voce sussurrata per poi sfociare in un riff melodico che ricorda un’altra grande band mediterranea come i greci Nightfall.
La title-track è un altro splendido episodio che, per le sue atmosfere malinconiche, non avrebbe affatto sfigurato in un capolavoro come The Morning Never Came, mentre November Cries e Through a Raindrop si rivelano più coinvolgenti nel finale quando la chitarre di Jorge e Juanma costruiscono linee melodiche struggenti.
Shimmering Divinity emerge come uno dei picchi dell’album grazie ad una seducente armonia chitarristica che lascia successivamente spazio ad un break di chiara matrice death per poi abbandonarsi a quelle atmosfere dolenti che, con la loro presenza, caratterizzano l’intero lavoro.
Celestial costituisce l’episodio più acustico del lotto, mentre Nulla Religio, Solum Veritas chiude l’album così come era iniziato, all’insegna di una rabbiosa malinconia tratteggiata da testi pervasi da una sconfinata amarezza .
La Solitude Prod. (qui tramite la sublabel BadMoodMan) continua a proporci band relativamente nuove ma tutte di elevato livello e gli In Loving Memory non fanno eccezione, ottenendo il nostro un plauso incondizionato per la consistenza della loro proposta e per la capacità di fornire un’ora abbondante di musica emozionante.

Tracklist:
1. Even a God Can Die
2. Skilled Nihilism
3. Adversus Pugna Tenebras
4. Negation of Life
5. November Cries
6. Shimmering Divinity
7. Through a Raindrop
8. Celestial
9. Nulla Religio, Solum Veritas

Line-up:
Raúl Arauzo – Bass
Jorge Araiz – Guitars
Juanma Blanco – Vocals, Guitars
Mauricio C. – Drums
Alberto O. – Keyboards

IN LOVING MEMORY – Facebook

Mare Infinitum – Sea Of Infinity

I Mare Infinitum riescono a condurre saldamente per mano l’ascoltatore all’interno degli oscuri meandri evocati nei loro brani.

In questi ultimi anni la Russia si sta rivelando un’autentica fucina di band dedite alle forme di metal più plumbee e malinconiche, ovvero il doom nelle sue varianti death e funeral.

Questo movimento in costante evoluzione trova il suo naturale sbocco in un’etichetta autoctona come la Solitude Productions, che ha avuto il merito di inserire all’interno del proprio roster una serie di nomi che stanno contribuendo a riscrivere la storia del genere.
I Mare Infinitum sono alla loro prima uscita discografica ma certo non possono essere definiti dei debuttanti in quanto i due musicisti coinvolti nel progetto sono piuttosto noti nella scena dell’ex Unione Sovietica : Homer, polistrumentista ex-Who Dies In Siberian Slush ed il più noto A.K. iEzor batterista e cantante di Comatose Vigil e Abstract Spirit.
Inevitabilmente il genere proposto dai due non si discosta di molto da quanto prodotto dalle band appena menzionate, ma è comunque apprezzabile il tentativo di inserire momenti di discontinuità rispetto agli schemi compositivi consueti, grazie alle frequenti aperture melodiche e all’utilizzo di diversi ospiti alle clean vocals in alternanza al canonico growl.
Il doom in fondo non è genere che si presti troppo a voli pindarici da parte dei suoi interpreti e per certi versi la fedeltà ai modelli consolidati costituisce garanzia di fedeltà e dedizione totale alla causa della “musica del destino”.
Il metodo ideale per assaporare le sonorità funeree ed allo stesso tempo emozionanti di questo lavoro è quello di approcciarlo con la giusta predisposizione mentale, rinunciando a ricercare chissà quali novità stilistiche o compositive.
I Mare Infinitum assolvono pienamente alla loro missione con un album ricco di momenti delicatamente malinconici, sia con brani virati verso il death/doom, come l’iniziale In Absence We Dwell o in Beholding The Unseen, così come in parte della strumentale November Euphoria, con i suoi passaggi prossimi al quella gemma preziosa che e’ stata “They Die” degli Anathema, sia con due episodi decisamente più orientati al funeral come In The Name Of My Sin e la superlativa Sea Of Infinity.
A chi potrebbe aver da obiettare nei confronti di un giudizio del tutto positivo, rimarcando la scarsa originalità della proposta, ricordo che ci sono band come Motorhead e AC/DC, tanto per citare due nomi “qualsiasi”, che propongono fondamentalmente lo stesso disco da 20 anni eppure nessuno osa batter ciglio in nome di una effettiva e consolidata integrità stilistica; la realtà è che, se un album è bello, lo è punto e basta.
Se in questo o quel passaggio i Mare Infinitum possono ricordare i Comatose Vigil piuttosto che gli Ea, ma riescono a condurre saldamente per mano l’ascoltatore all’interno degli oscuri meandri evocati nei loro brani, significa che l’obiettivo è stato raggiunto pienamente .
Io non mi sono ancora stufato di ascoltare Sea Of Infinity, provate a scoprire se vi farà lo stesso effetto…

Tracklist:
1. In Absence We Dwell
2. Sea of Infinity
3. Beholding the Unseen
4. November Euphoria
5. In the Name of My Sin

Line-up:
Homer – Vocals, Drums
A.K. iEzor – Guitars, Bass, Programming, Lyrics