Kuolemanlaakso – Musta Aurinko Nousee

Una band da tenere d’occhio nel prossimo futuro, quindi, indipendentemente dalla lettura dei nomi presenti in line-up.

Non posso negare che nell’avvicinarmi a questo Ep sono stato inevitabilmente attratto dalla presenza in line-up di Mikko Kotamäki, ben più noto come cantante degli immensi Swallow The Sun.

Va quindi chiarito ogni tipo di equivoco dicendo subito che, al di là della presenza del vocalist, i tratti comuni tra le due band non sono poi moltissimi, in primis perché qui il songwriting non è ad opera di Juha Raivio bensì di Markus Laakso, chitarrista e tastierista ideatore del progetto (non a caso il monicker della band è costituito parzialmente dal suo cognome).
I Kuolemanlaakso hanno esordito nel 2012 con un buon full-length e questo breve Ep, che consta di quattro brani (una delle quali è una cover), è soprattutto propedeutico al prossimo album previsto in uscita nei primi mesi dell’anno; come detto, il sound, pur potendo essere classificato a buon titolo come death-doom, non ne possiede le caratteristiche specifiche che ci si potrebbero attendere da un band finlandese.
Infatti, nonostante Laakso svolga un ruolo fondamentale con le sue tastiere nei folli symphonic-industrial blacksters Chaosweaver, in quest’occasione relega lo strumento ad un ruolo di semplice accompagnamento lasciando che a parlare siano le chitarre e, ovviamente, la voce di Kotamäki: ciò che ne scaturisce è, pertanto, un songwriting dalle diverse sfaccettature.
La prima traccia, Me Vaellamme Yössä, è quella più orecchiabile e potrebbe essere approssimativamente definibile come una versione più aggressiva degli Amorphis, con una bella linea melodica ed il growl di Mikko a condurre le danze, mentre Tulenväki e Kalmoskooppi sono decisamente meno catchy pur rivelandosi tutt’altro che piatte, privilegiando un impatto sbilanciato sul versante death, e nelle quali il vocalist sfoggia anche il suo caratteristico screaming.
L’ultima traccia potrebbe essere catalogata come la più riuscita, anche se in realtà si tratta della cover di una rock band nota in Finlandia negli anni ‘80, gli Juha Leskinen Grand Slam: Musta Aurinko Nousee, che dà anche il titolo all’Ep, era un bel brano anche nella versione originale, ma i Kuolemanlaakso ne rallentano in maniera notevole l’andatura trasformando il tutto in un episodio dal sapore gothic, con il contributo di un Kotamäki che esibisce un’inedita timbrica alla Peter Steele.
La creatura di Markus Laakso mostra un potenziale interessante e, forse, l’unico ostacolo da superare nell’approccio è proprio l’utilizzo della la lingua madre, anche se mi chiedo se abbia ancora senso nel 2013 porsi delle barriere linguistiche quando ormai esistono diversi strumenti per capire il significato di testi redatti in qualsiasi lingua.
Una band da tenere d’occhio nel prossimo futuro, quindi, indipendentemente dalla lettura dei nomi presenti in line-up.

Tracklist:
1. Me vaellamme yössä
2. Tulenväki
3. Kalmoskooppi
4. Musta aurinko nousee

Line-up :
Usva – Bass
Tiera – Drums
Kouta – Guitars
Laakso – Guitars, Keyboards
Kotamäki – Vocals

KUOLEMANLAAKSO – Facebook

Hamferð – Evst

“Evst” va a collocarsi in assoluto tra le migliori uscite del 2013

Sino ad oggi, musicalmente parlando, le isole Fær Øer avevano lasciato una traccia tangibile in ambito metal principalmente grazie ai Týr, la cui popolarità si è consolidata nell’ultimo decennio grazie a un solido folk metal.

Ben diverso è quanto proposto dagli Hamferð che, dalla piccola Thorshavn, capitale dell’arcipelago, ci incantano con un death-doom in grado di spiccare sulla concorrenza grazie a diversi elementi innovativi pur senza snaturare in alcun modo le coordinate del genere. Fin dall’opener Evst (che è anche il titolo dell’album) si può constatare che la band opta per uno stile vocale agli antipodi delle abitudini del death-doom più tradizionale: qui il consueto growl è affiancato da una voce stentorea quanto evocativa, il tutto regalatoci magnificamente dal solo Jón Aldará. Chi ha avuto occasione di ascoltare l’ultimo disco degli Helllight non avrà potuto fare a meno di notare quanto la resa complessiva di un lavoro di ottima fattura sia stata penalizzata dal tentativo di utilizzare la voce pulita senza possedere una tecnica sufficientemente solida; ciò non accade affatto in Evst, dove la voce di Jón si erge protagonista indiscussa del lavoro, declamando con la giusta enfasi ed il necessario trasporto le liriche rigorosamente scritte in lingua madre. Se nei primi tre brani, che peraltro risplendono per la capacità degli Hamferð di rendere ariosa una materia musicale di norma opprimente, si palesa piuttosto evidente l’impronta degli Swallow The Sun, nel corso dell’album affiora anche una vena folk-prog che conduce i nostri alla composizione di un brano prevalentemente acustico come At jarða tey elskaðu. Sinnisloysi ci riporta ad atmosfere pregne di disperazione, con un predominio del growl sulle clean vocals che risulta però ingannevole, vista l’abilità dei faroeriani nell’imprimere svolte inattese ad un songwriting decisamente più vario rispetto alle altre band impegnate nel settore: nello specifico fa capolino una voce femminile che conferisce una certa solennità al sound, con l’aggiunta di un lavoro chitarristico impeccabile e di grande sensibilità. Dopo oltre mezz’ora di musica dalla grande intensità, la conclusiva Ytst arriva a confermare anche ai più scettici che gli Hamferð non sono certo la classica band capace di azzeccare quei tre o quattro accordi sui quali costruire un intero disco: questa traccia rappresenta lo stato dell’arte del doom-death, con un caleidoscopio di sensazioni capaci di sovrapporsi nel corso di dieci muniti dal raro impatto emotivo, ed è giusto che la pietra tombale su un disco meraviglioso lo ponga la voce di questo cantante in grado come pochi altri di far vibrare le corde dell’anima. Evst va a collocarsi in assoluto tra le migliori uscite del 2013 e, a chi ne è rimarrà estasiato, consiglio vivamente di andarsi a ripescare l’altrettanto valido Ep d’esordio “Vilst Er Síðsta Fet”.

Tracklist:
1. Evst
2. Deyðir varðar
3. Við teimum kvirru gráu
4. At jarða tey elskaðu
5. Sinnisloysi
6. Ytst

Line-up : Jón Aldará – vocals
John Egholm – guitar
Theodor Kapnas – guitar
Remi Johannesen – drums
Esmar Joensen – keys
Jenus í Trøðini – bass

HAMFERD – Facebook

Revelations Of Rain – Deceptive Virtue

Il magnifico tocco chitarristico di Yuriy Ryzhov costituisce il viatico ideale per affrontare questa ennesima, tormentata, navigazione attraverso i mari profondi e sconfinati del dolore e della melancolia.

I russi Revelations Of Rain in realtà, nel loro paese e nelle altre nazioni che utilizzano i caratteri cirillici, sono conosciuti come Otkroveniya Dozhdya e l’utilizzo di un monicker anglofono, cosi come avviene per i titoli degli album, è un semplice escamotage per una più rapida assimilazione del marchio, visto che, in ogni caso, tutti gli album e i relativi brani sono intitolati e cantati in lingua madre.

La band originaria di Podolsk è già al quarto full-length e si è sempre distinta nelle occasioni precedenti per una produzione di buon livello medio destinata, apparentemente, a restare comunque ingabbiata tra la moltitudine di altre band che, soprattutto nella area ex-sovietica, si dedicano a forme di doom estremo.
Questo disco, però, costituisce un’autentica folgorazione e fin dalle prime note si intuisce che Deceptive Virtue non potrà essere derubricato come un lavoro ordinario: il quartetto russo mette in scena un’ipotetica summa del meglio dei mostri sacri della scena gothic-death doom, prendendo le mosse dagli ovvii My Dying Bride, dagli altrettanto scontati Swallow The Sun, ma attingendo anche all’innato senso melodico dei Saturnus e, in certi passaggi più rallentati, alla dolente malinconia degli Ea.
I cinquanta minuti attraverso i quali si dipana il tragico lirismo dei Revelations Of Rain non lasciano alcun dubbio sul fatto che questo disco debba necessariamente entrare a far parte della collezione di chi ama questo genere musicale: partendo dalla splendida opener Chernye Teni, passando per un brano capolavoro come Dekabr – Chast e la successiva Mezhdu Bezzhiznennymi Beregami che, non so quanto per caso, nella sua parte finale si trasforma nella versione ultra-doom di “Shadow Of The Hyerophant” del maestro Steve Hackett, e arrivando alla solenne drammaticità della conclusiva Jestetika Opustoshenija, non c’è un solo momento di stanca in un album che, francamente, ha il solo difetto di conservare quelle caratteristiche autoctone che ne renderanno più complessa la divulgazione al di fuori dei confini dell’ex-impero.
Il magnifico tocco chitarristico di Yuriy Ryzhov costituisce il viatico ideale per affrontare questa ennesima, tormentata, navigazione attraverso i mari profondi e sconfinati del dolore e della melancolia.

Tracklist:
1. Chernye Teni
2. Dekabr – Chast 2
3. Mezhdu Bezzhiznennymi Beregami
4. Obmanchivaja Dobrodetel’ (instrumental)
5. V Bezumii Velichie Tvojo
6. Pepel Nad Nami
7. Jestetika Opustoshenija

Line-up :
Yuriy Ryzhov – Guitars
Ilya Remizov – Guitars (rhythm), Keyboards, Vocals
Igor Yashin – Bass, Vocals
Denis Demenkov – Drums

Ataraxie – L’Etre et La Nausée

Dopo due ottimi dischi come “Slow Transcending Agony” e “Anhedonie”, i ritrovati francesi Ataraxie scrivono quello che potrebbe essere il definitivo manifesto della loro musica.

Dopo due ottimi dischi come “Slow Transcending Agony” e “Anhedonie”, i ritrovati francesi Ataraxie scrivono quello che potrebbe essere il definitivo manifesto della loro musica.

L’Etre et La Nausée, ultima fatica discografica del quartetto transalpino, dovrebbe essere portato ad emblema della capacità di esibire sfumature diverse da parte di un genere musicale che, essenzialmente per comodità ma talvolta in maniera semplicistica, viene definito funeral doom. Infatti, appiccicare tale etichetta a quest’album appare assai riduttivo perché, se è vero che non mancano rallentamenti ai limiti dell’asfissia, passaggi talmente densi ed opprimenti che il sangue quasi fatica a trasportare ossigeno al cervello, dall’altra abbiamo momenti nei quali viene sprigionata una rabbia quasi ferina e dagli accenti disperati, ma capace di stemperarsi un attimo dopo in delicati quanto instabili ricami acustici. Per una volta, in questo genere di lavori, l’elemento in più, quello capace di evocare i differenti stati d’animo, è proprio la voce di Jonathan Thery, in grado di interpretare (nel senso vero del termine) le liriche contenute nei brani, passando con eccellente versatilità dal growl più profondo ad un lancinante screaming ai confini del depressive, oppure modulando la voce in una sorta di punto d’incontro tra questi due stili senza dimenticare i passaggi quasi sussurrati che accompagnano i momenti più rarefatti del lavoro. L’Etre et La Nausée consta di quattro lunghi brani più un breve strumentale, suddivisi in due cd per un totale di un’ora e venti di musica al contempo avvolgente e straniante, che rappresentano l’ennesimo travagliato viaggio nei meandri della nostra psiche, un luogo dove in ogni individuo si nasconde il mostro in grado di generare debolezze, paure e rimpianti, in definitiva tutte le sensazioni che ci assalgono nel preciso momento in cui proviamo a porci qualche quesito appena più profondo rispetto alla routine del nostro vivere quotidiano. “La Nausea è l’Esistenza che si svela – e non è bella a vedersi, l’Esistenza” scrive Sartre in quello che è il suo romanzo più noto, e gli Ataraxie, che fin dal titolo dell’album citano il loro illustre compatriota, rappresentano come meglio non potrebbero, tramite la loro musica, lo sgomento che si impadronisce di un individuo allorché realizza quanto il suo passaggio terreno non solo sia effimero ma addirittura insignificante, se valutato da un punto di vista universale. Per una volta preferirei evitare di affrontare quest’opera “track by track” in maniera tradizionale: L’Etre et La Nausée va vissuto dall’ascoltatore nella sua interezza e con l’opportuna dedizione; gli Ataraxie indulgono in ben poche concessioni o aperture melodiche e proprio per questo, quando ciò accade, assumono ancor più valore all’interno dell’album. Ma se avrete la pazienza e la tenacia di dedicare all’ascolto diverse ore del vostro tempo, scoprirete che il brano preferito in prima battuta, la volta successiva verrà soppiantato da un altro; così, se la prima volta amerete l’opener Procession Of The Insane Ones per la sua capacità d’essere terribilmente “pesante” anche nelle sue fasi acustiche, successivamente sarà Face The Loss Of Your Sanity ad incantarvi per la sua anima profondamente death, poi sarà il turno di Dread The Villains, che in ”soli” undici minuti si rivela un’ideale sintesi delle doti del quartetto di Rouen, finendo poi per godere appieno della sfibrante bellezza dell’infinita Nausee. Come i connazionali Monolithe, anche gli Ataraxie, svincolandosi parzialmente dai consueti schemi compositivi, hanno impresso alla loro carriera una svolta decisiva che consentirà loro d’entrare di diritto nel gotha del doom metal.

Tracklist:
1. Procession Of The Insane Ones
2. Face The Loss Of Your Sanity
3. Etats d’Âme
4. Dread The Villains
5. Nausée

Line-up :
Jonathan Théry – vocals, bass
Frédéric Patte-Brasseur – guitars
Sylvain Esteve – guitars
Pierre Sénécal – drums

ATARAXIE – Facebook

Graveyard Of Souls – Shadows Of Life

L’album ha il difetto di perdere un po’ in intensità nella sua seconda parte e l’uso di un growl abbastanza piatto alla lunga certo non aiuta, ma resta il fatto che i Graveyard Of Souls, alla fine, ci offrono tre quarti d’ora di musica oltremodo gradevole.

I Graveyard Of Souls sono una band spagnola di recente formazione dedita a un death-doom melodico dagli evidenti rimandi novantiani.

Raul e Angel, che non sono certo musicisti alle prime armi e che sono attivi anche con le death band Authority Crisis e Mass Burial, in questo loro disco d’esordio sfogano evidentemente il loro lato più malinconico, oltre all’esplicita devozione verso le sonorità che portarono in auge, tra gli altri, i primi Tiamat (quelli fino a “Clouds”), i Crematory e, per chi se li ricorda, i Godgory.
Quindi più che di death-doom, per Shadows Of Life, potrebbe essere più appropriato parlare di death melodico, però nella sua accezione più oscura e comunque piuttosto lontana da quello che conosciamo anche come “Gothenburg Sound”.
Detto questo, l’esordio dei Graveyard Of Souls non arriverà a stravolgere le gerarchie dei sottogeneri citati, ma si segnala come un’opera ben più che dignitosa anche se, probabilmente, si rivelerà di maggiore interesse per i “diversamente giovani”, come il sottoscritto, che vissero quell’epoca già in età adulta.
Il lavoro della coppia iberica si fa apprezzare per la sua genuinità, unita ad una serie di melodie azzeccate, il tutto realizzato tramite un approccio piuttosto naif e privo di particolari raffinatezze stilistiche ma ugualmente efficace: brani come la title-track o la successiva Dreaming Of Some Day To Awake convincono grazie a linee chitarristiche capaci di imprimersi nella memoria senza eccessive difficoltà e la stessa cover di Mad World dei Tears For Fears, operazione dal notevole rischio di effetto boomerang, viene proposta in una maniera piuttosto credibile.
L’album ha il difetto di perdere un po’ in intensità nella sua seconda parte e l’uso di un growl abbastanza piatto alla lunga certo non aiuta, ma resta il fatto che i Graveyard Of Souls, alla fine, ci offrono tre quarti d’ora di musica oltremodo gradevole.

Tracklist :
1. Genesis
2. Shadows of Life
3. Dreaming of Some Day to Awake
4. Memories of the Future (We Are)
5. Follow Me
6. Mad World
7. Solitude’s My Paradise
8. Dead Earth
9. There Will Come Soft Rains

Line-up :
Raúl
Angel

GRAVEYARD OF SOULS – Facebook

HellLight – No God Above, No Devil Below

La scelta di un suono di batteria troppo secco (tale da sembrare quasi una drum-machine) e, soprattutto, il ciclico ricorso a una voce pulita che è rimasta quella stridula e un po’ incerta già esibita ai tempi di “Funeral Doom”, costringono la band paulista a restare un gradino al di sotto dell’eccellenza assoluta.

Ho amato da subito la musica degli HellLight, fin da quel “Funeral Doom” (titolo programmatico anche se per certi versi fuorviante), secondo full-length nel quale, pur tra diverse imperfezioni, la band paulista mostrava un potenziale melodico ed evocativo in grado di esplodere da un momento all’altro.

Il successivo “…And Then, The Light Of Consciousness Became Hell…” aveva confermato quelle impressioni, rafforzate da un evidente progresso dal punto di vista della tecnica strumentale e della produzione. Tutto ciò faceva pensare che il quarto album sarebbe potuto essere quello della definitiva consacrazione ma, pur essendo stato compiuto un ulteriore passo avanti, non è andata proprio così, perché quei piccoli difetti strutturali che gli HellLight si trascinano dietro fin dagli esordi non sono ancora del tutto scomparsi. Intendiamoci, No God Above, No Devil Below, è un bellissimo disco, straconsigliato a chi apprezza il doom nella sua versione più melodica, malinconica ed accessibile, ma l’impressione che resta, al termine di questi quasi 80 minuti di musica, è quella di una band che non è ancora riuscita a compiere il passo decisivo per raggiungere un livello prossimo a quello dei Saturnus, tanto per restare nel medesimo ambito stilistico, anche se mi rendo conto che non stiamo parlando di un qualcosa alla portata di tutti. Pregi e difetti della band guidata dal chitarrista e cantante Fabio De Paula sono essenzialmente racchiusi negli oltre venti minuti complessivi della title-track e della successiva Shades Of Black: uno spiccato senso melodico al servizio di meste partiture tastieristiche, l’alternanza tra un profondo growl ed una stentorea voce pulita, ritmiche pachidermiche e assoli di chitarra di stampo classico nonché di eccellente gusto e fattura. Sfido chiunque sia dotato di un minimo di sensibilità a non commuoversi ascoltando l’incipit di Shades Of Black, il tipico brano che da solo vale un intero disco, peccato che la scelta di un suono di batteria troppo secco (tale da sembrare quasi una drum-machine) e, soprattutto, il ciclico ricorso a una voce pulita che è rimasta quella stridula e un po’ incerta già esibita ai tempi di “Funeral Doom”, costringano la band paulista a restare un gradino al di sotto dell’eccellenza assoluta. Perché, diciamocela tutta, ogni volta che Fabio De Paula decide di prodursi nelle sue evoluzioni chitarristiche riesce a regalare momenti realmente indimenticabili, e questo è sicuramente un significativo punto di contatto con i Saturnus; ma, mentre in questi ultimi Thomas Jensen si limita saggiamente ad esibire, oltre al proprio profondo growl, soltanto alcune parti recitate, negli HellLight l’uso delle clean vocals appare forzato se non addirittura superfluo, visto che già la sola struttura compositiva dei brani contribuisce a creare emozioni in abbondanza. Il resto dell’album segue di norma uno schema consolidato, con brani contraddistinti da una lunga e più pacata parte introduttiva che sfocia in un finale nel quale si erge a protagonista la sei corde del leader , fatta eccezione per Path Of Sorrow, con la sua struttura di stampo autenticamente funeral; tutto ciò rischia talvolta di appesantire l’ascolto di No God Above, No Devil Below, anche se per chi apprezza il genere la cosa si rivelerà un piacevole sacrificio. Forse sono stato eccessivamente critico nei confronti degli HellLight, e ciò che mi ha trasmesso davvero questo loro ultimo lavoro lo mostra chiaramente il voto piuttosto elevato assegnatogli; purtroppo, però, in un’ottica di ricerca del meglio, non si può sorvolare su quei particolari che, per ora, impediscono il definitivo decollo ad una band capace di creare con una simile naturalezza melodie talmente coinvolgenti. Ma, si sa, a volte il troppo amore rende le persone particolarmente esigenti …

Tracklist :
1. Intro
2. No God Above, No Devil Below
3. Shades of Black
4. Unsacred
5. Legacy of Soul
6. Path of Sorrow
7. Beneath the Lies
8. The Ordinary Eyes

Line-up :
Fabio De Paula – Guitars, Vocals, Keyboards
Alexandre Vida – Bass
Rafael Sade – Keyboards
Phill Motta – Drums

HELLLIGHT – Facebook

Tethra – Drown Into The Sea Of Life

Un lavoro consigliato vivamente a chi apprezza il doom nella sua forma più genuina e spontanea.

Dopo un Ep ed un intensa attività dal vivo nel corso di questi ultimi anni, i Tethra approdano al full- length d’esordio che costituisce, contemporaneamente, anche la prima uscita per la nuova label milanese House of Ashes Prod.

Nata dall’incontro tra il chitarrista Belfagor (Horrid) e il cantante Clode (ex-Coram Lethe), la band, completata da Miky (Vexed) alla batteria e dall’ultimo entrato, Giuseppe al basso , pur essendo relativamente di recente formazione è in realtà composta, come si può intuire, da musicisti esperti e Drown Into The Sea Of Life ne è la logica conseguenza. La musica dei Tethra prende le mosse dai Candlemass più evocativi ammantandosi sovente di ombrose atmosfere death-doom, senza concedere ammiccamenti a facili melodie ma mostrando in prevalenza un volto plumbeo pur se non propriamente funereo; i brani, infatti, pur essendo ovviamente caratterizzati da ritmi lenti, non debordano mai in un’opprimente pesantezza.
Dopo la canonica intro strumentale, Sense Of The Night inaugura l’album presentando Clode alle prese con profonde tonalità in stile Ribeiro, caratteristica che nel corso del lavoro riproporrà con buoni risultati, in costante alternanza a vocals più stentoree ed al growl .
Questo brano, così come il successivo Drifting Islands, brilla per la sua forza evocativa e si rivela l’indicatore attendibile di un songrwriting in grado di coinvolgere adeguatamente l’ascoltatore.
Più ritmata è, invece, Vortex Of Void, anche se è evidente che il concetto di velocità in un disco di questo tipo è del tutto relativo, mentre la title-track si mostra come la traccia più elaborata, con diversi cambi di tempo, la consueta varietà vocale e ottime linee chitarristiche
Se Ocean Of Dark Creations è caratterizzata da un bel contributo del basso, strumento che viene messo in bella evidenza dalla produzione a cura dello stesso Clode e di Mat Stancioiu, la successiva Ode To A Hanged Man si fa ricordare per un incipit dal sapore epico, anche se si rivela leggermente inferiore a livello di coinvolgimento emotivo rispetto al contesto.
Questo tribolato viaggio in acque perigliose (i testi dell’intero album hanno come tema portante il mare e l’oceano) si conclude con End Of The River, degno finale di un lavoro convincente anche se di non semplicissima assimilazione.
Cio che piace dei Tethra è proprio questa loro scelta di mantenersi in linea con l’ortodossia del genere, aspetto che può penalizzare la fruizione del disco durante i primi ascolti ma che finisce per svelare la sua oceanica profondità nelle successive occasioni.
Un lavoro consigliato vivamente a chi apprezza il doom nella sua forma più genuina e spontanea.

Tracklist :
01 Intro
02 Sense Of The Night
03 Drifting Islands
04 Vortex Of Void
05 Drown Into The Sea Of Life
06 The Underworld
07 Ocean Of Dark Creations
08 Ode To A Hanged Man
09 End Of The River

Line-up :
Miky – Drums
Belfagor – Guitars
Clode – Vocals
Giuseppe – Bass

TETHRA – pagina Facebook

Officium Triste – Mors Viri

La band di Pim Blankenstein non ha mai avuto l’ambizione di riscrivere la storia della musica o del singolo genere, l’unico obiettivo tangibile è sempre stato quello di comporre brani malinconici, coinvolgenti, che rappresentassero adeguatamente quel dolore catartico che è il fine ultimo del doom

Avevamo lasciato gli Officium Triste qualche mese fa alle prese con “Immersed”, split album condiviso con i tedeschi Ophis, che aveva una volta di più esibito la fedeltà della storica band olandese al death-doom più ortodosso.

Mors Viri conferma pienamente quanto sopra, ma ciò che colpisce favorevolmente è la qualità elevata della proposta, aspetto preponderante in un contesto dove spazio per inventarsi qualcosa, oggettivamente, ce n’è ben poco. La band di Pim Blankenstein non ha mai avuto l’ambizione di riscrivere la storia della musica o del singolo genere, l’unico obiettivo tangibile è sempre stato quello di comporre brani malinconici, coinvolgenti, che rappresentassero adeguatamente quel dolore catartico che è il fine ultimo del doom: questo è bastato e avanzato per fare degli Officium Triste una delle realtà europee più amate dagli appassionati del genere, e pazienza se talvolta certa critica “avanguardista” si sia mostrata ingenerosa nei loro confronti. Mors Viri dovrebbe far ricredere anche i più scettici, mostrando una band nel pieno della propria maturità e in grado di sciorinare tre quarti d’ora abbondanti di musica priva di cedimenti, che esibisce il meglio in apertura e chiusura del lavoro: infatti, sia Your Fall From Grace che Like Atlas vanno annoverati di diritto tra i migliori brani mai composti dai doomsters di Rotterdam. Non che tutto ciò che sta nel mezzo sia trascurabile: Burning All Boats And Bridges si segnala per un finale dalle dolenti cadenze funeral, To The Gallows si snoda sulle tracce di “My Charcoal Heart”, uno dei brani storici dei nostri, con il quale ha in comune l’efficace ricorso alle clean vocals; Your Heaven, My Underworld costituisce l’unico episodio che esula, almeno in parte, dal consueto canovaccio compositivo, grazie a melodie sicuramente di fruizione più immediata ed un mood neppure troppo oscuro, se raffrontato al resto del disco. The Wounded And The Dying, al contrario, pur essendo comunque un brano più dinamico e ritmato in alcune sue parti, si inserisce nei tipici canoni stilistici della band olandese, mentre One With The Sea è l’immancabile brano che fa leva sull’aspetto emozionale, abbinando il recitato a un tenue tappeto pianistico. Le malinconiche note di Like Atlas chiudono in maniera esemplare un lavoro davvero inattaccabile; del resto dagli Officium Triste costituiscono lo zoccolo duro del death-doom e dimostrano come la coerenza, la competenza e la genuina passione per il genere proposto siano, sempre e comunque, sinonimo di qualità.

Tracklist :
1. Your Fall from Grace
2. Burning All Boats and Bridges
3. Your Heaven, My Underworld
4. Interludium 0
5. To The Gallows
6. The Wounded and the Dying
7. One with the Sea (Part II)
8. Like Atlas

Line-up :
Martin Kwakernaak – Keyboards
Gerard de Jong – Guitars
Pim Blankenstein – Vocals
Lawrence Meyer – Bass
Bram Bijlhout – Guitars
Niels Jordaan – Drums

OFFICIUM TRISTE – Facebook

Who Dies In Siberian Slush – We Have Been Dead Since Long Ago

Secondo uscita su lunga distanza per i moscoviti Who Dies In Siberian Slush, dopo il buon esordio “Bitterness Of The Years That Are Lost” datato 2010.

Il nuovo parto della band guidata da E.S. (Evander Sinque) si colloca nella scia del suo predecessore senza rappresentarne, di fatto, un’evoluzione vera e propria: We Have Been Dead Since Long Ago è il classico nero monolite dalle sembianze funeral death doom che, volendo fornire un indirizzo di massima a chi intenda approcciarlo, si colloca più sulla scia dei tedeschi Worship che non su quelle dei concittadini Comatose Vigil o Abstract Spirit.

Infatti, non aspettatevi le dolenti aperture melodiche caratteristiche del funeral doom russo, visto che i WDISS badano maggiormente ad un impatto di matrice death, accentuato dalla rinuncia all’uso delle tastiere. Non per questo il lavoro è trascurabile, brani lunghi e avvolgenti come, per esempio, In A Jar e The Spring possiedono più di un momento degno di nota, ma ciò avviene, guarda caso, proprio quanto le chitarre tracciano linee melodiche che spiccano proprio perché normalmente sacrificate all’interno del disco a favore di riff più rocciosi. Come detto, We Have Been Dead Since Long Ago paga forse il confronto con il suo predecessore che, senza dubbio, aveva dalla sua una superiore freschezza compositiva, oltre a una maggiore linearità di fondo. Discorso a parte lo merita un brano come Funeral March n°14, sicuramente affascinante pure nel suo incedere grottesco, ma oggettivamente un pò fuori contesto a livello stilistico; provate a immaginare una banda che, nell’accompagnare il defunto nel corso del suo ultimo viaggio, suoni una marcia funebre come se fosse un brano funeral doom: esperimento apprezzabile ma solo parzialmente riuscito Complessivamente questo lavoro merita senz’altro l’attenzione da parte degli appassionati delle frange più estreme del doom, ma la sensazione che resta è quella di un’opera incompiuta, dove passaggi di grande impatto emotivo si confondono con altri più manieristici. L’impressione finale è quindi, quella di un disco di passaggio: gli Who Dies In Siberian Slush hanno le potenzialità per fare molto meglio e non ho dubbi che ci riusciranno in futuro; per ora solo una sufficienza piena, ma con la certezza che si può fare senz’altro meglio di così.

Tracklist:
1. The Day of Marvin Heemeyer
2. Refinement of the Mould
3. In a Jar
4. The Spring
5. Funeral March №14
6. Of Immortality

Line-up:
E.S. – Guitars, Vocals
Flint – Guitars (lead)
A.S. – Drums
Tragisk – Bass

WHO DIES IN SIBERIAN SLUSH – Facebook

Mental Torment – Mental Torment

Un growl efficace e un suono di chitarra diluito e alla costante ricerca della giusta melodia da incastonare all’interno di atmosfere opprimenti sono gli ingredienti che fanno di “On The Verge …” un disco riuscito e convincente.

Un’altra band ucraina si affaccia alla ribalta della scena doom-death sotto l’egida della Solitude e, come avvenuto di recente per i connazionali quali Embrace Of Silence e Narrow House, la cosa non può che essere salutata con piacere.

Purtroppo non è stato possibile raccogliere informazioni più dettagliate sui Mental Torment, lasciamo quindi che sia la musica contenuta in On The Verge … a descriverne le caratteristiche salienti.
Maelstrom e My Torment, i primi due veri brani dopo la breve intro, mostrano un songwriting creativo, sempre alla ricerca di atmosfere oscure e malinconiche senza indugiare troppo in passaggi interlocutori che, spesso, chi ha poco o nulla da dire tende ad aggiungere con l’unico intento di allungare a dismisura il brodo.
Un growl efficace ed un suono di chitarra diluito e alla costante ricerca della giusta melodia da incastonare all’interno di atmosfere opprimenti sono gli ingredienti che fanno di On The Verge … un disco riuscito e convincente.
Sento già qualche vocina sullo sfondo lamentarsi della poca originalità della proposta della band di Kiev, ma l’unica risposta possibile è questa: se qualcuno dimostra la capacità di creare composizioni in grado di emozionare e soddisfare chi ama questo genere non va certamente stigmatizzato perché altri sono riusciti prima in questo intento, piuttosto andrebbe solo incoraggiato e ringraziato per questo.
Cold Rusted Flame e Tragedy sono altri due episodi splendidi che si inseriscono nel solco tracciato dagli Officium Triste (come giustamente suggerisce la scarna bio in mio possesso), mentre sono meno d’accordo sull’accostamento con Mourning Beloveth e, soprattutto, Saturnus ma citerei invece, come ulteriore e più probabile affinità, i Frailty dello splendido “Melpomene”.
On The Verge … è un altro buonissimo esempio di death-doom, eseguito con gusto e competenza, proveniente dalle fredde ma prolifiche lande dell’estremo est europeo.

Tracklist :
1. The Path To Shining (intro)
2. Maelstrom
3. My Torment
4. Unspoken Word
5. Cold Rusted Flame
6. I See This End
7. Tragedy
8. The Drowned Man

Myridian – Under The Fading Light

Pregevole esordio autoprodotto degli australiani Myridian, autori di un gothic-doom di rimarchevole spessore; collocabili in un ipotetico punto d’incontro tra Novembers Doom, Daylight Dies e Type 0 Negative, i cinque ragazzi di Melbourne mettono sul piatto un disco privo di sbavature e di grande intensità, grazie anche al contributo alla consolle di un nume tutelare della scena aussie come Mark Kelson (The Eternal, ma soprattutto ex Cryptal Darkness, la migliore gothic-doom band mai apparsa sul suolo oceanico).

In Under The Fading Light brani dal consueto mood malinconico si susseguono senza mostrare affanni nè accenni di ripetitività e il disco, nonostante una durata ragguardevole, fila via che è un piacere, graziato da un songwriting impeccabile pur se non originalissimo, con la sola eccezione di Starless che viene appesantita inizialmente da qualche barocchismo pianistico di troppo.
Impeccabile il quintetto ai propri strumenti e bravissimo Felix Lane alle prese con il growl mentre le clean vocals, credo a cura di Josh Spivak, evocano piacevolmente la timbrica del grande Peter Steele.
To the Dying Sun, Veil of Sorrow, la title-track e il brano di chiusura Ethereal Storm sono gli episodi migliori di un disco che ci mostra una band giovane ma già sufficientemente matura; come spesso avviene in questi casi, l’auspicio è che i Myridian possano avvalersi al più presto di una label in grado di promuoverli e supportarli in maniera adeguata.

Tracklist :
1. Passage
2. To the Dying Sun
3. Veil of Sorrow
4. No Dawn
5. Solitude’s Embrace
6. Under the Fading Light
7. Starless
8. Ethereal Storm

Line-up :
Alex Hutchinson – Drums
Scott Brierley – Guitars
Josh Spivak – Guitars, Vocals
Julian Wheeler – Keyboards
Felix Lane – Vocals, Bass

MYRIDIAN – pagina Facebook

Doomed – In My Own Abyss

Il secondo lavoro di Pierre conferma pienamente le già ottime sensazioni destate nell’esordio, grazie anche a una contiguità stilistica, quasi inevitabile direi, visto il breve intervallo di tempo trascorso tra l’uscita dei due dischi.

La recensione del disco d’esordio dei Doomed, uscita su Iyezine qualche mese fa, si era chiusa con l’auspicio che qualche etichetta lungimirante si accorgesse del valore di questo progetto doom-death del musicista tedesco Pierre Laube.

Evidentemente la Solitude ha avuto l’occhio più lungo o, se non altro, è stata più rapida nell’arricchire il proprio roster con quella che è stata una delle più piacevoli novità del 2012 in ambito doom.
Il secondo lavoro di Pierre conferma pienamente le già ottime sensazioni destate nell’esordio, grazie anche a una contiguità stilistica, quasi inevitabile direi, visto il breve intervallo di tempo trascorso tra l’uscita dei due dischi.
Per quanto possibile, la proposta appare ancor meglio focalizzata su un death-doom basato più sull’impatto che sulla melodia; infatti, il pregio dei Doomed è proprio la compattezza del suono che si manifesta con riff granitici e un growl impietoso, il tutto sapientemente alternato a frequenti rallentamenti e a squarci chitarristici volti a incrinare il muro di incomunicabilità eretto da un sound sempre minaccioso, anche nei momenti di calma apparente. Inoltre, nonostante chi si cimenti in questo genere finisca spesso per assomigliare in maniera più o meno pronunciata alle band che ne hanno segnato la storia, Laube riesce nell’intento di proporre un proprio trademark evitando di cadere in rimandi eccessivi rispetto a quanto già composto da altri in passato.
Come il suo predecessore, In My Own Abyss tende progressivamente ad “ammorbidirsi” nella sua parte terminale; in questo senso la differenza tra l’opener Downward e la traccia di chiusura Ah Ty Stiep Schirokaja è evidente, ma ciò avviene in maniera graduale attraverso brani in cui la componente death lascia spazio ad atmosfere maggiormente evocative, tra i quali spiccano le mirabili Alone We Stand, The Ancient Path e Leave.
Una conferma quindi, a distanza ravvicinata, per il musicista tedesco e un 2013 che si preannuncia ricco di novità e di impegni, tra la riedizione dell’esordio “The Ancient Path”, la costituzione di una line-up funzionale alle esibizioni dal vivo, oltre alla composizione di nuovo materiale per un futuro terzo lavoro che, viste le premesse, potrebbe consacrare i Doomed come una delle realtà più fulgide del death-doom europeo.

Tracklist :
1. Downward
2. Alone We Stand
3. The Ancient Path
4. A Wall of Your Thrones
5. Restless
6. Leave
7. Ah Ty Stiep Schirokaja – Loss

Line-up :
Pierre Laube – Vocals, All Instruments

DOOMED – Facebook

Ennui – Mze Ukunisa

Un esordio che, oltre ad essere vivamente consigliato ai più devoti a questo tipo di sonorità, costituisce anche l’ennesimo segno di vitalità da parte dell’emergente scena doom dell’ex-Unione Sovietica.

Ennui è un progetto funeral doom dalla recente genesi proveniente da Tbilisi; David Unsaved e Serj Shengelia, a pochi mesi dall’inizio della loro collaborazione, hanno dato alle stampe questo Mze Ukunisa che si rivela un prodotto piacevolmente sorprendente per il livello compositivo raggiunto dai nostri.

Non è infrequente, del resto, imbattersi in esordi dai tratti approssimativi, sia dal punto di vista compositivo sia da quello esecutivo, ma ciò non avviene fortunatamente in questo caso: il lavoro dei due musicisti georgiani si rivela all’altezza della situazione in ogni frangente, pur nel suo sviluppo dalla durata ben superiore all’ora, potendosi avvalere peraltro di una produzione del tutto adeguata.
Il funeral degli Ennui è prevalentemente di stampo atmosferico, anche se la tastiera svolge essenzialmente una sapiente opera di raccordo, lasciando alla chitarra il compito di tratteggiare le malinconiche melodie che caratterizzano ogni brano del disco.
Le sei lunghe tracce possiedono un andamento piuttosto lineare, con una prima fase spesso dalle tonalità più cupe che lentamente conducono alle ampie ed azzeccate aperture melodiche collocate nella parte finale.
Così Dead Desires, Maybe The Time Will Come e Frozen Candle si rivelano ottimi esempi di songwriting di stampo funereo, anche se il picco viene raggiunto dal duo nella splendida The Way Of My Life’s End, con le sue dolenti note di chitarra screziate dal cavernoso growl di David.
Un esordio quindi, che, oltre ad essere vivamente consigliato ai più devoti a questo tipo di sonorità, costituisce anche l’ennesimo segno di vitalità da parte dell’emergente scena doom dell’ex-Unione Sovietica.

Track list :
1. Flowers Of Silence
2. Dead Desires
3. Maybe The Time Will Come
4. The Way Of My Life’s End
5. Frozen Candle
6. Memento Mori

Line-up :
Serj Shengelia – Bass, Drums, Guitars, Keyboards
David Unsaved – Guitars, Keyboards, Vocals

ENNUI – Facebook

Indesinence – Vessels Of Light And Decay

Il gruppo inglese mette sul piatto, sei anni dopo “Noctambulism”, un autentico carico da undici, esibendosi in un death-doom nel quale l’impatto delle sonorità pachidermiche prevale nettamente sui rari accenni di stampo melodico.

Anche gli Indesinence appartengono al novero delle doom band che tornano sulle scene dopo un lungo silenzio e, come accaduto in altri frangenti, ciò avviene con un lavoro che ripaga ampiamente le attese.

Il gruppo inglese mette sul piatto, sei anni dopo “Noctambulism”, un autentico carico da undici, esibendosi in un death-doom nel quale l’impatto delle sonorità pachidermiche prevale nettamente sui rari accenni di stampo melodico.
Vessels Of Light And Decay, dopo la breve intro Flux, inizia ad esibire le sembianze mostruose della creatura Indesinence con Paradigms, prima di una serie di lunghe e maestose tracce: riff granitici si abbattono come un maglio sui timpani dell’ascoltatore, ora con la lentezza esasperante del doom più canonico ora con le accelerazioni tipiche del death; in questo avvio dell’album, nei passaggi più rallentati sorgono spontanei accostamenti con i seminali Cathedral di “Forest Of Equilibrium” e non c’è dubbio che questa sia la perfetta rampa di lancio per un lavoro che non avrà momenti di cedimento per tutta la sua durata.
Vanished si palesa con le temibili sembianze dei Morbid Angel epoca “Blessed / Covenant”, per il suo sound “morboso” e avvolgente e per un growl degno del miglior Vincent ad opera di Ilia Rodriguez, mentre Communion accelera ulteriormente l’andatura, segnalandosi come l’episodio più violento del disco.
La Madrugada Eterna spezza ad arte la tensione con le sue sonorità di stampo ambient, preparando il terreno alla deragliante Fade dove gli Indesinence macinano instancabilmente, per quasi un quarto d’ora, i loro riff densi e distruttivi come una colata lavica.
Unveiled chiude questa splendida prova di compattezza e competenza musicale mostrando un volto più riflessivo del quartetto londinese, grazie alle sue frequenti aperture a sonorità acustiche dissonanti: il brano finisce spesso per lambire territori post-metal, lasciando spazio nella sua parte conclusiva a un crescendo entusiasmante che è il commiato ideale per l’ennesimo album imperdibile partorito dalla scena death-doom in questo prolifico 2012.

Tracklist :
1. 1. Flux
2. Paradigms
3. Vanished Is the Haze
4. Communion
5. La Madrugada Eterna
6. Fade (Further Beyond)
7. Unveiled

Line-up :
Andy McIvor – Bass
Dani Ben-Haim – Drums
John Wright – Guitars, Bass
Ilia Rodriguez – Guitars, Vocals

Monolithe – Monolithe III

Monolithe III è un unico brano che pare non soffrire mai di momenti di stanca ma anzi, si distende in un lento e progressivo crescendo che si arresta solo con l’ultima nota incisa dalla band parigina.

I francesi Monolithe sono da diversi anni un nome piuttosto apprezzato, in ambito funeral doom, grazie ai due omonimi dischi pubblicati nella prima parte dello scorso decennio; dopo l’ uscita dell’ Ep “Interlude Premier” e un silenzio durato cinque anni, interrotto da un nuovo Ep, questo terzo episodio su lunga distanza ci offre una band animata da una ritrovata ispirazione, che la spinge ben oltre i confini del genere pur non smarrendone le caratteristiche peculiari.

Chiaramente le coordinate sonore legate a un sound poderoso e rallentato sono sempre ben evidenti, ma l’elemento innovativo è riscontrabile nella varietà stilistica e ritmica che contrassegna il lavoro in tutti i suoi abbondanti cinquanta muniti, peraltro concentrati in un solo brano.
A tale proposito sorge spontaneo fare un parallelismo con un’altra band funeral che quest’anno ha pubblicato un disco contraddistinto da una sola lunga traccia, ovvero gli Ea, ma appare subito evidente che le due interpretazioni della materia sono piuttosto distanti.
Se da una parte i misteriosi russi continuano imperterriti nello srotolare con la massima lentezza il loro sound incentrato su tastiere maestose e chitarre soliste sempre pronte a tratteggiare stupefacenti passaggi intrisi di malinconia, dall’altra i quattro transalpini donano alla loro lunga composizione una dinamismo che si va a contrapporre a quell’uniformità che, pur costituendone un aspetto positivo, è tratto caratteristico del genere.
Monolithe III racchiude in sé momenti psichedelici e sinfonici che, amalgamati con la pesantezza classica del doom e il perfetto growl di Richard Loudin (autore una decina d’anni fa col suo progetto solista Despond dello splendido “Supreme Funeral Oration”), consentono all’ascoltatore di fruire senza particolare fatica di un monolite sonoro di tale portata; l’intero brano pare non soffrire mai di momenti di stanca ma anzi, si distende in un lento ma progressivo crescendo che si arresta solo con l’ultima nota incisa dalla band parigina.
Un’evoluzione per certi versi inattesa ma evidenziata nel migliore dei modi da Sylvain Begot e soci, grazie a un album che si va a collocare di diritto tra le migliori uscite di questo prolifico 2012.

Tracklist :
1. Monolithe III

Line-up :
Benoit Blin – Bass, Guitars
Sebastien Latour – Keyboards, Programming
Sylvain Begot – Guitars, Bass, Keyboards, Programming
Richard Loudin – Vocals

Daylight Dies – A Frail Becoming

Un disco dalla qualità impressionante per una band che si conferma ai livelli d’eccellenza che le competono.

I Daylight Dies sono probabilmente la migliore melodic death-doom band USA e il loro silenzio stava oggettivamente durando da troppo tempo: “Lost To The Living” risale al 2008 ma, lo sappiamo, i tempi delle band dedite alla musica del destino sono lunghi e dilatati come le note sprigionate dai loro dischi.

Così come sta accadendo in quest’autunno, che ha visto ripagate con gli interessi le lunghe attese degli estimatori di Saturnus, Worship e Monolithe, anche la band del North Carolina ritorna con un lavoro superlativo all’insegna di una propensione melodica perfettamente controbilanciata dalle sonorità più robuste.
Ho sempre considerato i Daylight Dies una sorta di risposta d’oltreoceano alla magnificenza degli Swallow The Sun, pur con le dovute differenze derivanti dalla provenienza geografica e quindi da un diverso background musicale: dove però la band finnica, con l’ultimo eccellente lavoro, ha accentuato la propria componente gothic a discapito di quella death, i nostri, salvo un maggiore ricorso a vocals pulite, mantengono intatta la propria coerenza stilistica affidando le costruzioni delle linee melodiche esclusivamente alle chitarre senza fare ricorso alle tastiere o a passaggi particolarmente catchy.
Il devastante growl di Nathan Ellis recita testi che non lasciano spazio alcuno a illusori squarci di serenità e l’opprimente chiusura del disco, affidata al brano più lungo del lotto An Heir To Emptiness, è la pietra tombale depositata sulle speranze disattese, sui sogni mai avveratisi, su una vita forse realmente mai vissuta.
Questo splendido lavoro non conosce momenti di stanca, ogni suo episodio vale da solo l’acquisto del disco, anche se una citazione la meritano autentiche perle quali Sunset, dove il bassista Egan O’Rourke alle clean vocals si contrappone all’asprezza di Nathan, mentre le chitarre pennellano struggenti melodie, A Final Vestige con la sua alternanza tra quiete e tempesta e Hold On To Nothing, contrassegnata da uno spettacolare crescendo culminante in un assolo destinato a restare ben impresso nella memoria.
Un disco dalla qualità impressionante per una band che si conferma ai livelli d’eccellenza che le competono; consigliato a chi predilige un death-doom dal forte impatto emotivo e ha apprezzato i lavori passati dei già citati Swallow The Sun, ma anche quelli dei nostri Valkiria, con i quali gli ascoltatori più attenti riscontreranno diverse affinità stilistiche.

Tracklist :
1. Infidel
2. The Pale Approach
3. Sunset
4. Dreaming of Breathing
5. A Final Vestige
6. Ghosting
7. Hold on to Nothing
8. Water’s Edge
9. An Heir to Emptiness

Line-up :
Jesse Haff – Drums
Barre Gambling – Guitars
Egan O’Rourke – Bass, Vocals
Charlie Shackelford – Guitars
Nathan Ellis – Vocals

Saturnus – Saturn In Ascension

“Saturn In Ascension” è un gioiello imperdibile per chi predilige il lato più introspettivo ed emozionale della musica in senso lato, non necessariamente solo in ambito doom o gothic

E’ passato ormai circa un anno e mezzo ma ho ancora negli occhi, nella mente e nel cuore, come fosse ieri, la magnifica esibizione dei Saturnus al Carlito’s Way nella loro prima data italiana di sempre: pur di fronte a pochi ma entusiasti fan, la band danese, rimessasi in pista dopo un lungo silenzio con un line-up rinnovata, sciorinò, oltre a tutti i propri cavalli di battaglia (tra i quali un’epocale versione di “I Long”) anche due nuove tracce il cui valore intrinseco, ravvisabile già ad un primo ascolto, faceva intuire lo spessore di quello che sarebbe stato il sospirato ritorno discografico intitolato Saturn In Ascension.

Risolti i problemi di carattere contrattuale e accasatisi con la Cyclone Empire, i nostri hanno così mantenuto la loro media di un album ogni cinque-sei anni ma, alla luce dei risultati ottenuti nel passato e nel presente, tali lunghe attese sono sempre state ripagate con gli interessi.
Dopo l’uscita di un disco dal livello apparentemente irripetibile come “Veronika Decides To Die”, datato 2006, Thomas Jensen ha fortunatamente deciso di ridare impulso alla sua band, che si trovava in una fase di stand-by, richiamando a sé due musicisti che erano già stati presenti in formazione nel passato, il bassista Brian Hansen e il batterista Henrik Glass, e individuando una nuova coppia di chitarristi in Rune Stiassny e in Mattias Svensson (quest’ultimo ha abbandonato la band poco dopo la fine delle registrazioni). Dopo un lungo tour, che come detto, ha per la prima volta toccato anche il suolo italico, il combo danese quindi pone fine a un lungo silenzio discografico con un album che, come era facile intuire dalle premesse, non delude affatto andandosi a collocare sui livelli del suo predecessore.
Per chi non conoscesse sufficientemente la musica dei Saturnus, si può provare a sintetizzarne le caratteristiche come una sorta di evoluzione in senso melodico dei My Dying Bride epoca “The Angel And The Dark River” e “Like Gods Of The Sun”; infatti, laddove la poetica della band di Aaron Stainthorpe si ammanta di una decadente morbosità, Thomas e co. portano alle estreme conseguenze l’aspetto malinconico arrivando a toccare costantemente i tasti giusti per indurre alla commozione l’ascoltatore.
Non c’è dubbio che, per amare i Saturnus, sia necessario essere dotati di una particolare predisposizione che consenta di assaporare in maniera assoluta le emozioni che vengono evocate da ogni loro brano, ed è proprio grazie a queste peculiarità che l’ascolto di “Saturn In Ascension” si rivelerà un’esperienza irrinunciabile.
Se “Veronika …” disarmava qualsiasi difesa già con l’opener-capolavoro “I Long”, Saturn … non è da meno grazie alla fantastica accoppiata iniziale Litany Of Rain – Wind Torn, venti minuti complessivi che fanno da ideale ponte tra i due lavori tramite le dolenti pennellate chitarristiche di Rune, alternate al massiccio e caratteristico growl di Thomas; A Lonely Passage e Call Of The Raven Moon costituiscono, all’interno del disco, due parentesi intimistiche nelle quali il vocalist recita i propri testi melanconici adagiandoli su un delicato tessuto di arpeggi chitarristici.
A Father’s Providence appartiene alla categoria dei brani più movimentati dei maestri danesi, in questo simile a “Pretend” e “Murky Waters” del precedente disco, mentre Mourning Sun costituisce il picco qualitativo dell’album, con le sue atmosfere leggermente più cupe rispetto al contesto complessivo, graziate da una chitarra solista che ricama melodie di mesta bellezza e con un Thomas che sfodera un’interpretazione di rara intensità.
Forest Of Insomnia e Between chiudono il disco così com’era cominciato e l’ultimo minuto di Saturn In Ascension vede Rune ergersi per l’ultima volta sul proscenio con una linea melodica che commuoverebbe anche il più efferato dei serial killer …
Dopo settanta minuti di poesia allo stato puro, bisogna però dire che appare piuttosto opinabile la scelta di inserire come bonus track “Limbs Of Crystal Clear”, primo brano in ordine temporale pubblicato dai Saturnus e presente sul demo d’esordio datato 1994: un’operazione alla quale possiamo assegnare un significato quasi “archeologico” considerando la distanza, non solo temporale, tra questa vecchia traccia e quelle attuali.
A chi dovesse possedere, quindi, questa versione dell’album, consiglio vivamente di staccare il lettore dopo l’ultima nota di Between per conservare il più a lungo possibile la magia indotta dall’ascolto degli otto brani inediti, riservandosi magari di prestare orecchio in un secondo tempo a questa tangibile testimonianza di quella che è stata l’evoluzione stilistica della band.
Saturn In Ascension è un gioiello imperdibile per chi predilige il lato più introspettivo ed emozionale della musica in senso lato, non necessariamente solo in ambito doom o gothic; un altro lavoro superbo per una band straordinaria alla quale chiediamo solo, cortesemente, di non farci attendere fino al 2018 per un nuovo disco …

Tracklist :
1. Litany of Rain
2. Wind Torn
3. A Lonely Passage
4. A Father’s Providence
5. Mourning Sun
6. Call of the Raven Moon
7. Forest of Insomnia
8. Between

Line-up :
Brian Hansen – Bass
Thomas Jensen – Vocals
Henrik Glass – Drums
Rune Stiassny – Guitars, Keyboard
Mattias Svensson – Guitars

Narrow House – A Key To Panngrieb

“A Key To Panngrieb” si rivela un bel disco e, pur senza strafare, i Narrow House portano a casa un’ampia e meritata sufficienza

I Narrow House appartengono alla nutrita schiera di band dedite a sonorità funeral doom che, in questi ultimi anni, stanno emergendo dai territori dell’ex-Unione Sovietica.

I nostri, nello specifico, arrivano dalla capitale dell’Ucraina, Kiev, e con A Key To Panngrieb pubblicano il loro esordio assoluto; in casi come questi non è infrequente imbattersi in lavori a dir poco minimali oppure suonati in maniera approssimativa e prodotti ancora peggio.
Per fortuna tutto ciò non accade ai Narrow House, che propongono un buonissimo disco ricco di atmosfere tetre quanto eleganti, andandosi a collocare non troppo lontano dalle quanto già fatto dagli ex-connazionali Comatose Vigil e, quindi, mostrando tutta loro devozione verso gli Skepticism, autentici numi tutelari di questa variante atmosferica del funeral.
Nell’esaminare l’album, si nota che i primi tre brani (i titoli in inglese sono frutto di una libera traduzione dal cirillico, quindi non è detto che siano corretti al 100%), nell’arco di mezz’ora abbondante di musica si mantengono abbondantemente all’interno dei binari tracciati da molte altre band, ma non per questo il lavoro del quartetto ucraino deve essere trascurato, tutt’altro: il suono mantiene costantemente un preciso disegno melodico grazie ad atmosfere struggenti sulle quali troneggia il growl maligno di Yegor.
Un discorso a parte va fatto per il quarto e ultimo brano che, in effetti, mostrerebbe interessanti elementi di discontinuità rispetto al resto delle tracce, se non si trattasse della cover (ben camuffata inizialmente dal solito titolo in cirillico) di “Beneath This Face” degli Esoteric.
Complessivamente A Key To Panngrieb si rivela un bel disco e, pur senza strafare, i Narrow House portano a casa un’ampia e meritata sufficienza; inoltre, considerando che il contenuto di questo lavoro è frutto di una gestazione durata circa due anni e che, nel frattempo, la band ucraina può e deve essere ulteriormente maturata, mi sento di scommettere qualche euro su un prossimo full-length in grado davvero di lasciare il segno.

Tracklist :
1. The Last Refuge
2. Psevdoryatunok
3. The Glass God
4. Beneath This Face

Line-up :
Atya – Keyboards
Yegor Bewitched – Vocals, Bass
Oleg Merethir – Guitars
Petro Arhe – Drums
Alexander – Cello

NARROW HOUSE – Facebook

Embrace Of Silence – Leaving The Place Forgotten By God

Un album davvero valido, tutto sommato meno derivativo di tanti altri che mi è capitato di recensire recentemente in ambito doom, che merita ben più di un ascolto distratto da parte dei fans del genere.

Positivo esordio su lunga distanza degli ucraini Embrace Of Silence, alle prese con un death doom di matrice classica, dagli ovvi rimandi ai capiscuola del genere.

Il fatto che il precedente Ep fosse una raccolta di cover che iniziava proprio con due brani dei My Dying Bride fa intuire senza difficoltà il tipo di sound contenuto all’interno di Leaving The Place Forgotten By God.
Però, a differenza di quanto fatto recentemente dai compagni di etichetta Graveflower, la band originaria di Izmail non riproduce in maniera così fedele il sound dei maestri britannici bensì segue una linea leggermente più personale, sia per il ricorso alternato di growling e screaming, evitando quindi le sofferte clean vocals in stile Stainthorpe, sia soprattutto per le sonorità meno introspettive e malinconiche e senz’altro più dirette.
Non che qui l’allegria regni sovrana, ovviamente: il mood è appropriato al genere proposto ma, piuttosto che utilizzare note dolenti di violino o pianoforte, i ragazzi ucraini costruiscono i loro brani su efficaci linee di chitarra.
La condivisibile scelta di proporre un lavoro dalla durata inferiore ai tre quarti d’ora rende meno complesso l’ascolto di Leaving …, facendo sì che la musica scorra in maniera fluida e sempre godibile.
Tutti i brani si collocano ampiamente al di sopra di un’ampia sufficienza ma, tra questi, vanno segnalati gli ottimi Way To Salvation, con la sua sapiente alternanza tra accelerazioni e rallentamenti, sempre contraddistinti da ficcanti melodie, e la traccia di chiusura I’m Your Jesus, nella quale le chitarre si ergono ancora ad assolute protagoniste.
Un album davvero valido, tutto sommato meno derivativo di tanti altri che mi è capitato di recensire recentemente in ambito doom, che merita ben più di un ascolto distratto da parte dei fans del genere.
Embrace Of Silence: un nome da tenere d’occhio nel prossimo futuro.

Trackist :
1. In Gloom of Somnolent Night
2. The Slave of Forgotten Graves
3. The Gates of Remembrance
4. Silent Voice, Empty Words
5. Way to Salvation
6. In Angel’s Hand
7. I’m Your Jesus

Line-up :
Eugeniy Voronchihin – Bass
Yuriy Sivkov – Guitars
Eugenia Krapivina – Violin, Keyboards
Igor Zhurzha – Vocals, Guitars
Andrey Lyhorod – Drums

Officium Triste / Ophis – Immersed

L’etichetta spagnola Memento Mori pubblica questo split album che ci fornisce l’opportunità di testare lo stato di salute di due tra le migliori band appartenenti alla scena death-doom europea.

L’etichetta spagnola Memento Mori pubblica questo split album che ci fornisce l’opportunità di testare lo stato di salute di due tra le migliori band appartenenti alla scena death-doom europea.

La prima coppia di brani è ad opera degli olandesi Officium Triste, con i quali viene esplorato il versante più melodico del genere; avendo a che fare con una band formatasi a metà degli anni ’90, ascoltando tracce come Repent e Bittersweet Memories non si può certo relegare i nostri al semplice ruolo di epigoni, in considerazione di un percorso musicale pressoché parallelo a quello dei Saturnus, tanto per citare un nome a caso ….
Il secondo dei due brani, in particolare, appare senza dubbio il migliore, grazie alle atmosfere malinconiche e decadenti che la band guidata da Pim Blankenstein riesce a proporre con buon gusto e grande perizia tecnica.
Si potrebbe obiettare che nulla è cambiato rispetto all’ultimo full-length, risalente ormai a cinque anni fa, ma in ambito doom questo non sempre è un difetto, anzi; è lecito affermare, quindi, che gli olandesi consolidano il loro status di band equilibrata, affidabile e mossa da una genuina passione per questo genere musicale.
Diverso, invece, il discorso per i più giovani tedeschi Ophis, i quali hanno all’attivo due ottimi dischi pubblicati in epoca relativamente recente che mostrano una lenta ma costante evoluzione stilistica.
Qui le melodie evocative dei loro compagni d’avventura lasciano il posto a partiture più massicce, contraddistinte da riff granitici e dall’uso costante di vocals ruvide, con l’alternanza di growl e screaming: Storm of Shards si spinge talvolta su territori post-metal analogamente a quanto fatto qualche mese fa dai Process Of Guilt, pur conservando in maniera più marcata rispetto ai portoghesi la propria matrice death-doom, mentre The Mirthless presenta rallentamenti più canonici ma non meno claustrofobici, senza disdegnare l’inserimento di funerei passaggi di chitarra solista.
Ottima prova, quindi, peccato solo per la resa sonora differente dei brani degli Ophis rispetto a quelli degli Officium Triste, aspetto che si percepisce maggiormente proprio potendo fare un confronto immediato nel passaggio dalla seconda alla terza traccia.
Traendo le conclusioni ci troviamo di fronte a un interessante esempio di come si possa produrre musica di uguale valore affrontando un genere simile ma con un diverso approccio. Non ci resta che attendere le due band a una nuova prova su lunga distanza per ricevere un’ennesima conferma delle buone impressioni fornite da questo split album.

Tracklist :
1. OFFICIUM TRISTE – Repent
2. OFFICIUM TRISTE – Bittersweet Memories
3. OPHIS – Storm of Shards
4. OPHIS – The Mirthless

Line-up :
OFFICIUM TRISTE
Lawrence Meyer – Bass
Niels Jordaan – Drums
Pim Blankenstein – Vocals
Martin Kwakernaak – Keyboards
Gerard – Guitars
Bram Bijlhout – Guitars

OPHIS
Philipp Kruppa – Vocals, Guitars, All instruments
Nils Groth – Drums
Oliver Kröplin – Bass
Martin Reibold – Guitars