Homerik – Homerik

La musica prodotta in questo omonimo primo album è completamente fuori dagli schemi prefissati, unendo in tre quarti d’ora musica popolare nord africana e asiatica, death metal, folk, progressive, e thrash. in un spettacolo di fuochi d’artificio a tratti riuscito a tratti, leggermente caotico in altri frangenti.

Il primo album di questa band statunitense risulta uscito lo scorso anno, ma vale la pena fare un passo indietro per presentarla adeguatamente.

Gli Homerik sono un’entità di New York con a capo tre artisti come Ken Candelas (The Mad Composer), Andrew Petriske (The Daemon) e Obed Gonzalez (The Gatherer), ma di fatto a questa mastodontica opera hanno fornito il loro contributo una lunga serie di musicisti, amici ed ospiti del trio.
La musica prodotta in questo omonimo primo album è completamente fuori dagli schemi prefissati, unendo in tre quarti d’ora musica popolare nord africana e asiatica, death metal, folk, progressive, e thrash. in un spettacolo di fuochi d’artificio a tratti riuscito a tratti, leggermente caotico in altri frangenti; si tratta di un’opera ambiziosa e di una difficoltà estrema, questo va sicuramente detto, ma talmente varia nel suo concept musicale che si rischia facilmente di perdere il filo.
Gli Homerik non si fanno problemi di sorta, passano dal metal estremo violentissimo e di matrice death/thrash/hard core, a teatrali movimenti che ricordano il Grand Guignol, sinfonici, dalle atmosfere horror o semplicemente attraversati da una vena folk che, come già scritto, non si ferma ad una sola tradizione popolare ma passa con estrema disinvoltura tra la musica di paesi lontani tra loro come cultura e costume.
Il sound lascia nell’ascoltatore, oltre che la sorpresa, la sensazione che manchi qualcosa per legare il tutto, cercando nella parte visiva il Santo Graal della musica degli Homerik.
Musica da vedere quindi, magari in un teatro, con danzatori e artisti a dare vita a queste note variopinte e loro modo estreme, sicuramente coraggiose ed originali, ma di difficilissima collocazione.

Tracklist
1.Into the Pits of Oblivion
2.Unforgotten Kin
3.An Angel of Darkness
4.Curse of the Black Nile
5.The “Ire” of Green
6.Wendigo
7.The Balance of Power
8.Bread and Circuses
9.A Song of the Night: Part I
10.The Legion

Line-up
Ken Candelas – The Mad Composer
Andrew Petriske – The Daemon
Obed Gonzalez – The Gatherer

HOMERIK – Facebook

VV.AA. – A TRIBUTE TO BURZUM

La Compilation di cover della band di Vikernes – in uscita il 21 Novembre per il noto Antichrist Magazine – contiene ben 17 band provenienti da tutto il mondo (compresa una special guest d’eccezione: la bellissima e misteriosamente gotica pianista e compositrice berlinese, Katarina Gubanova). Ce n’è per tutti i gusti. Dai Burzum elementali e primevi dell’Omonimo e di Aske, passando poi per tutte le fasi di ispirazione Ambient, sino ad arrivare al periodo Folk/Viking dei giorni nostri.

Ad essere sincero, ho sempre pensato che il Tributo alla band icona di turno, dovesse per forza essere un omaggio a chi oggi non esiste più.

Un ossequioso dono sacrificale ad un’entità musicale del passato e che oggi esiste solo nei ricordi e nelle memorie dei fan. In realtà, continuo ad essere contraddetto e smentito, dalla valanga di album-tributo che escono ogni giorno, dedicati a compositori, strumentisti e band ancora molto attive, ai giorni nostri. Il Tributo spesso viene definito come l’atto che viene compiuto per adempiere ad un obbligo (in genere di carattere morale) verso qualcuno, a riconoscenza dei suoi meriti; forse sarebbe più azzeccato omaggiare il ricordo, di chi oggi non c’è più, o almeno non risulta essere più in attività…Vero è che la parola Tributo (dal latino “tributus”, derivazione di “tribus” – Tribù), spesso identifica anche l’appartenenza alla tribù. Oggi come tutti sappiamo, i Burzum non sono più in attività (l’ultima produzione risale al 2015, con il singolo Thulean Mysteries, dopodiché più nulla sino alla dichiarazione ufficiale di giugno di quest’anno di Mr. Varg Vikernes, nella quale ci informava che il progetto fosse giunto al termine, dopo ben 27 anni). In questo contesto, collocherei l’album, oggetto della recensione, ergendolo a simbolo di un’esigenza popolare, sicuramente maturata negli anni, di poter esprimere, sia tutta la devozione della tribù del Black Metal verso il loro idolo indiscusso, sia una sorta di necessità atta a sottolineare la “proprietà” (in senso ovviamente lato) dell’immensa opera che ci ha lasciato. Come a dire :”devoti alla nostra divinità e proprietari/custodi di ciò che ci ha lasciato in eredità”.
La Compilation di cover della band di Vikernes – in uscita il 21 Novembre per il noto Antichrist Magazine – contiene ben 17 band provenienti da tutto il mondo (compresa una special guest d’eccezione: la bellissima e misteriosamente gotica pianista e compositrice berlinese, Katarina Gubanova). Ce n’è per tutti i gusti. Dai Burzum elementali e primevi dell’Omonimo e di Aske, passando poi per tutte le fasi di ispirazione Ambient, sino ad arrivare al periodo Folk/Viking dei giorni nostri. Dall’Olanda gli ottimi blacksters Yaotzin, ci propongono Hvis lyset tar oss, in una versione fedelissima della title-track del capolavoro datato 1994. I truci tedeschi Khald, band della nera regione di Baden-Württemberg, rileggono Jesus’ Tod (in lingua madre Jesu død) dall’album Filosofem (1996), uno dei più grandi lavori dell’artista norvegese in ambito Black e Dark Ambient, in maniera leggermente più sinfonica (l’iniziale tremolo di Vikernes viene qui principalmente sostituito dai synth), perdendo un po’ il Raw, ma ottenendo comunque un pezzo di uguale impatto. Balzo in avanti negli anni (siamo nel 2010) con gli ucraini Atra Mors e con Belus’ død, tratta ovviamente da Belus (2010), primo album pubblicato dopo la scarcerazione di Varg, e originariamente uscito con il titolo Den Hvite Guden (“Il Dio Bianco”, in lingua norvegese), e quindi ennesima revisione del riff già presente su Dauði Baldrs (per scelta, Vikernes decise qui di ripetere paro paro il riff della canzone del 1997). Molto Black classico e poco Burzum di quegli anni, ad onor del vero. Malinconia e ricordi nella cover degli americani Aetranok che dei 10 minuti ed oltre di A Lost Forgotten Sad Spirit (dall’ep Aske del 1993) fanno copia ed incolla (da notare la voce del singer Meretrix, davvero simile a Burzum) e meritano l’acquisto del loro nuovo album “Kingdoms of the Black Sepulcher” uscito per la Symbol of Domination. Prima song tratta dall’album eponimo del 1992 (Feeble Screams from Forests Unknown) per gli olandesi Myrkur Skógur, riletta in chiave più moderna; la cover risulta piacevole, ma il suono più pulito ne impoverisce un po’ la cupa atmosfera degli esordi del signore di Bergen. I terribili “chiodati” vichinghi Wan dalla vicina Svezia, giocano facile e rivivono Stemmen fra tårnet (Aske) “alla scandinava”; il risultato è un pezzo che pare fuoriuscito direttamente dal 1993. I sinfonici germano/norvegesi Dynasty of Darkness scelgono Dunkelheit (titolo originale “Burzum”, da Filosofem), ovviamente il brano più Ambient dell’album, senza però perdersi in troppo arzigogolate ruffiane armonie, mantenendo la terrificante desolazione, che il brano originale esprime in ogni sua singola nota. Chi ama il tremolo ama My Journey To The Stars (Burzum). Qui i bravissimi germanici Mournful Winter sciorinano una tecnica sopraffina, senza però far perdere alla song il pathos originale. Con curiosità e attenzione critica mi appropinquo all’ascolto della cover di Han Som Reiste (da Det som engang var – 1993) il capolavoro strumentale dell’artista con l”A” maiuscola. I Colotyphus (Ucraina) purtroppo ne rovinano l’arcano fascino medioevale, riducendo il pezzo ad un classico (e scontato) brano di Dark Ambient sinfonico. Il sapiente utilizzo del basso non come semplice base ritmica, ma come strumento portante di tutto l’eterno corpo della canzone (più di 11 minuti) e gloriosa anima di dimenticate epopee guerresche, fece la fortuna di Glemselens Elv (Belus) ergendola ad uno dei più fulgidi esempi di Viking Metal (molto Bathoriano ad onor del vero). Purtroppo il seppur bravissimo duo dell’Arizona (Unholy Baptism) cede alla tentazione, e dà risalto alle sole chitarre per riproporre il meravigliosamente ossessivo giro di basso, così in evidenza nel brano originale. Un peccato perché, davvero, gli autori di …On the Precipice of the Ancient Abyss, sono un ottimo gruppo da tenere d’occhio. I terrificanti Bestia si cimentano nel tentativo di ripetere il successo primevo di Beholding The Daughters Of The Firmament (Filosofem); il brano, sicuramente uno dei più funerei e doom di tutto l’album, appariva già da principio inadatto al quartetto estone, fautore di un Black Metal con influenze Brutal Death; il pezzo viene rivisitato, ritmato ed infarcito di synth, facendone un buon pezzo Black, ma che nulla c’entra con l’originale. Anche il cantato schizoide di Vikernes, viene qui sostituito da uno dei più classici scream. Peccato. La brevissima War (da Burzum), vero pezzo Bathoriano appartenente alla First Wave of Black Metal, è stato scelto dai bravissimi Chaoscraft. Qui i greci dimostrano di sapere il fatto loro e di conoscere molto bene le loro origini e le loro fonti ispiratrici. Resta un mistero conoscere il motivo per il quale, per il pezzo Vanvidd (Fallen – 2011), sia stata chiamata una band di Melodic Death, invece che scegliere una tra le miriadi di band Black provenienti dalla Colombia. Qui i Thy Unmasked di Bogotà, ce la mettono tutta, ed il risultato ovviamente non poteva che essere un mix di Black e Death; bello si, ma lontano dalle idee di Varg. Quando ho letto Uruk-Hai ho pensato (con piacere) immediatamente ai bravissimi corpsepaint blacksters spagnoli; in realtà di tratta di un’altra band, ossia i Medieval Dark Ambient austriaci. Scelta comunque azzeccata per il brano Hermoðr á Helferð (Dauði Baldrs – 1997), che si collocherebbe alla perfezione tra le fila delle produzioni della one-man band di Linz. Un lungo salto nel 2012, per ascoltare la cover di Valgaldr, da Umskiptar, uno degli album più folk viking metal del Nostro. Scelta azzeccata con gli ungheresi Eclipse of The Sun, band che propone un sound molto ricco e variegato, tra il Folk, il Gothic e il Doom. Eccellente. Il Bielorusso Darkus (alias Stanislaŭ Semeniaha), unico membro dei blackster Imšar, si cimenta con un brano tratto da Det som engang var, ossia En Ring Til Å Herske. Il brano si sa, è nero e funereo come la morte stessa, drammaticamente lento e angosciosamente ripetitivo, e fortunatamente Mr. Darkus non ne storpia troppo la lugubre natura mortuaria; forse un po’ meno andante e un po’ più adagio, e sarebbe stato perfetto. Special guest a chiusura della compilation, la pianista berlinese Katarina Gubanova che, grazie al magico utilizzo dei suoi polpastrelli, rilegge Ea, Lord of the Depths (da Burzum) in chiave sinfonica per pianoforte: brano curioso e ammaliante, chiude un devoto tributo al Re del Male, spesso non proprio centrato, ma nel complesso un buon prodotto per i fan dei Burzum e per chi vuole scoprire nuove realtà Black, sino ad oggi ancora poco conosciute.

Tracklist
1. Yaotzin (Netherlands) Hvis lyset tar oss
2. Kâhld (Germany) Jesus’ Tod
3. Atra Mors (Ukraine) Belus’ Dod
4. Aetranok (USA) A Lost Forgotten Sad Spirit
5. Myrkur Skógur (Netherlands) Feeble Screams from Forests Unknown
6. Wan (Sweden) Stemmen Fra Taarnet
7. Dynasty of Darkness (Germany / Norway) Dunkelheit
8. Mournful Winter (Germany) My Journey To The Stars
9. Colotyphus (Ukraine) Han Som Reiste
10. Unholy Baptism (USA) Glemselens Elv
11. Bestia (Estonia) Beholding The Daughters Of The Firmament
12. Chaoscraft (Greece) War
13. Thy Unmasked (Colombia) Vanvidd
14. Uruk-Hai (Austria) Hermodr A Helferd
15. Eclipse of The Sun (Hungary) Valgaldr (Song of the Fallen)
16. Imšar (Belarus) En Ring Til Å Herske
17. + special guest:
Katarina Gubanova (Germany) Ea, Lord of the Depths

ANTICHRIST MAGAZINE – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=cHNZE0s4w_8

The Devil’s Trade – What Happened To The Little Blind Crow

What Happened To The Little Blind Crow in poco meno di quaranta minuti regala tutto quanto ci si attenderebbe sempre da un disco: profondità , sentimento, emotività, dolore, malinconia e, soprattutto, poesia trasformata in musica da questo splendido artista, meritevole d’essere inserito fin d’ora tra i migliori esponenti del cantautorato rock/folk dei nostri tempi.

Quando si parla di cantautorato, probabilmente molti appassionati di metal non saranno spinti a soffermarsi e prestare un ascolto a quanto viene loro proposto; ebbene, se così fosse fanno decisamente male, soprattutto perché, in quest’ultimo periodo, ne stanno emergendo alcuni che, anche grazie ad un background metallico, riescono ad imprimere ai loro lavori un carico emotivo superiore alla media.

Se recentemente abbiamo constatato la grande maturazione dell’ex A Forest Of Stars Duncan Evans, oggi è il momento di spalancare il sipario su un talentuoso musicista ungherese, David Makò (con un presente nella stoner band HAW ed un passato recente con i doomsters Stereochrist), il quale da qualche anno ha intrapreso una carriera solista sotto il nome The Devil’s Trade che ne ha visto crescere esponenzialmente le quotazioni.
What Happened To The Little Blind Crow è un vero e proprio capolavoro, all’interno del quale Makò assembla una serie di brani intensi, commoventi, ruvidi ma al contempo melodici, ricchi di sfumature blues e richiami etno folk, esaltato poi da un’interpretazione vocale sentita e vibrante.
La bellezza dell’’incipit acustico I Can Slow Down Time Pt. 1 è già sufficiente a farci comprendere che il lavoro si attesterà su un livello tale da lasciare letteralmente annichiliti: David usa solo la voce e la chitarra (o il banjo) e nonostante questo riesce a riempire qualsiasi spazio, indipendentemente dalla direzione verso la quale la sua musica possa fluire. To An End colpisce con le corde degli strumenti acustici che paiono quasi frustate e si stempera a in un finale folk (che verrà ripreso nella chiusura della conclusiva I Can Slow Down Time Pt. 2) preparando il terreno alla perfezione rappresentata da Your Own Hell, canzone che non può lasciare indifferenti, grazie ad un’interpretazione vocale e ad un chorus che vanno a creare un connubio realmente da brividi.
La lunga St. James Hospital si ammanta di un’aura blues, che il retaggio del musicista magiaro rende un qualcosa di unico, con il dolente sentire del doom che si tramuta in un mood più malinconico e soffuso.
12 To Die 6 To Rise è l’altra traccia segnante dell’album, capace di replicare lo spasmodico incedere di Your Own Hell: è proprio in queste occasioni che Makò si trasforma in una sorta di versione irruvidita del Mick Moss più appassionato ed introspettivo (per intenderci quello di Leaving Eden), ma questo accostamento, che forse a qualcuno potrà persino apparire improprio, è utile sostanzialmente ad inquadrare il potenziale evocativo del lavoro.
What Happened To The Little Blind Crow in poco meno di quaranta minuti regala tutto quanto ci si attenderebbe sempre da un disco: profondità , sentimento, emotività, dolore, malinconia e, soprattutto, poesia trasformata in musica da questo splendido artista, meritevole d’essere inserito fin d’ora tra i migliori esponenti del cantautorato rock/folk dei nostri tempi.

Tracklist:
1. I Can Slow Down Time Pt. 1
2. To An End
3. Your Own Hell
4. Only As A Ghost
5. St. James Hospital
6. No One Here
7. 12 To Die 6 To Rise
8. I Can Slow Down Time Pt. 2

Line-up:
David Makò

THE DEVIL’S TRADE – Facebook

Holy Shire – The Legendary Shepherds Of The Forest

Un lavoro emozionante e bellissimo, classica opera per cui vale la pena fermarsi per cinquanta minuti e farsi guidare dal drago nel mondo senza tempo di The Legendary Shepherds Of The Forest: bentornati Holy Shire.

Il nuovo lavoro dei milanesi Holy Shire era atteso con trepidazione e non poca curiosità da chi segue l’underground metallico tricolore, dopo il bellissimo esordio di ormai quattro anni fa intitolato Midgard.

La band in questo lungo periodo non ha praticamente mai smesso di suonare live e ora l’ombra del drago si staglia nel cielo autunnale di quest’anno che si avvia alla fine, portando nuova musica che va a comporre The Legendary Shepherds Of The Forest.
E il drago campeggia nella copertina, creata dal batterista Maxx, per quello che risulta un altro viaggio fantastico nella musica senza tempo del gruppo, portando con sé qualche novità nella formazione ed una manciata di ospiti a valorizzare queste nuove undici composizioni.
The Legendary Shepherds Of The Forest è stato registrato e mixato al Noise Factory Studio di Milano, per poi essere affidato a Mika Jussila per la masterizzazione ai leggendari Finnvox Studios.
Kima Chiara Brusa al flauto e Frank Campese alla chitarra sono i nuovi entrati nella formazione ufficiale degli Holy Shire, ai quali si è aggiunta in seguito ed in sede live Claudia Beltrame, mentre sull’album come scritto in precedenza figurano una serie di ospiti tra cui Federico Maffei (Folkstone), che si è occupato della produzione artistica della seconda parte dell’opera, Masha Mysmane (Exilia), che ha curato gli arrangiamenti di tutto l’album, e poi Simona Aileen Pala, Francesca Chi, Lisy Stefanoni e Piero Chiefa.
Con queste premesse la curiosità e le aspettative nei confronti nuovo album sono logicamente aumentate, insieme alla consapevolezza che il gruppo non aveva lasciato nulla di intentato, ripresentandosi agli ascoltatori nella sua veste migliore.
Il sound continua sulla strada intrapresa nel lavoro precedente, ed anche in questo caso le soluzioni orchestrali e talvolta eccessive di molte realtà del genere sono sostituite da un approccio più raffinato ed elegante, con la parte metallica che, solo a tratti, sconfina nel power per solcare strade più classiche e a loro modo progressive.
Le tematiche fantasy sono accompagnate da passaggi più moderni rispetto al passato (la title track), mantenendo una forte connotazione classica, meno rock e più folk, ma sempre d’autore con il flauto che detta atmosfere dal retrogusto medievale, e l’uso eccelso delle voci, perfettamente sublimi in ogni contesto; un passo avanti auspicato e confermato da splendidi brani come Danse Macabre, Princess Aries, la progressiva ed epica At The Mountains Of Madness e l’oscura sinfonia di Inferno.
Un lavoro emozionante e bellissimo, classica opera per cui vale la pena fermarsi per cinquanta minuti e farsi guidare dal drago nel mondo senza tempo di The Legendary Shepherds Of The Forest: bentornati Holy Shire.

Tracklist
1. The Source
2. Tarots
3. Danse Macabre
4. The Legendary Shepherds Of The Forest
5. Princess Aries
6. Ludwig
7. At The Mountains Of Madness
8. The Gathering
9. Inferno
10. Ophelia
11. The Lake

Line-up
Massimo Pianta – TheMaxx – Drums
Erika Ferraris – Aeon – Dragon Vocals
Claudia Beltrame – DeepBlue – Unicorn Vocals
Andrea Faccini – Andrew Moon – Guitar
Frank Campese – Guitar
Piero Chiefa – Blackbass – Bass
Chiara Brusa – Kima – Flute

HOLY SHIRE – Facebook

Sherpa – Tigris & Euphrates

Sei brani di post folk rock e psichedelia occulta per la seconda fatica discografica degli abruzzesi Sherpa.

Sei brani di post folk rock e psichedelia occulta per la seconda fatica discografica dei Sherpa.

In origine, con la stessa formazione, gli abruzzesi si chiamavano Edith A.u.f.n. e facevano un folk rock a tinte americane, mentre ora è cambiato tutto. Il primo disco con la nuova denominazione è Tanzlide, che riceve un buon riscontro, e vengono invitati da Crisitna Donà a rifare la sua Tregua in Tregua 1997-2017 Stelle buone, disco per il ventennale dell’uscita. Gli Sherpa colpiscono subito l’ascoltatore con il loro suono mellifluo e minimale, eppure ricchissimo, che parte dal folk per abbracciare il post rock più visionario, riprendendo poi la psichedelia e facendola diventare un soffio occulto che parla la nostro cuore. Ciò che creano i pescaresi è un’atmosfera intima e calda, dove il tempo e lo spazio sono altre cose rispetto a quelli che viviamo normalmente. Come si può evincere dai titoli, la loro poetica abbraccia anche l’occulto, e specialmente per questo disco si è provato a tracciare la parabola dell’evoluzione del linguaggio e di come esso sia servito a cambiare i rapporti umani. Il linguaggio è la prima e forse più grande ricchezza che abbiamo e, nonostante ora sia svilito a favore di altri mezzi, è il respiro che ci porta a creare il nostro mondo, e qui gli Sherpa lo sottolineano molto bene. La produzione di Giuseppe Sericola e Fabio Cardone è adeguata, pulita e cristallina, perché non è un suono facile da catturare; etereo e bilanciato, dionisiaco e lascivo, quello degli Sherpa si adatta sempre molto bene a ciò che vogliono esprimere, per un disco che alle nostre latitudini non si è ascoltato spesso essendo un qualcosa maggiormente appannaggio di gruppi scandinavi o nordici. Un lavoro che cresce a poco nel nostro cervello e trova il suo meritato posto.

Tracklist
1. Kim (((o)))
2. Creatures from Ur
3. Equiseto
4.Abscent to the Mother of Language
5.Overwhelmed
6.Descent of Inanna to the Underworld

Line-up
Matteo Dossena – voce, chitarra, synth, cori-Pierluca Michetti – batteria, percussioni
Axel DiLorenzo – chitarre-drone
Franz Cardone – basso, synth, cori

SHERPA – Facebook

GTO – Super

Super si rivela un buon lavoro, qualcosa di diverso ed intrigante, divertente e nostalgico, irriverente e ribelle come il rock e chi lo vive.

Tornano per festeggiare i venticinque anni di carriera gli umbri folk/rockers GTO con il sesto album di una discografia iniziata nel 2000 con l’album The Best Of e proseguita fino al 2013, anno di uscita dell’ultimo lavoro intitolato Little Italy.

Licenziato dalla Music Force, questo Super prende il titolo dal carburante che anima il motore del vecchio furgone che li porta in giro per i palchi dello stivale a suonare il loro rock ‘n’roll energico ed intriso di armonie folk, che potrebbero essere sicuramente definite alternative, usando un aggettivo ormai abusato nel rock, ma che riveste a mio parere un ruolo importante nell’economia del sound dei nostri.
Il sound è ispirato agli anni cinquanta, con una vena rockabilly capace di scuotere le membra dei ragazzi sui litorali adriatici, abbinato ad una vena folk rock e dunque a quel tocco alternativo che rende la proposta del quintetto umbro tremendamente attuale.
Si parte quindi per viaggiare con questa Gran Turismo Omologata, bolide ad alta velocità sulle strade del rock, tra l’ Umbria, l’ Emilia ed un passo tra Londra e gli States, con questi tredici brani tra i quali troviamo energiche semiballad e canzoni rock’n’ roll dal piglio giusto per coinvolgere che nei propri ascolti abbina la tradizione con le tendenze più moderne.
Super risulta così un buon lavoro, qualcosa di diverso ed intrigante, divertente e nostalgico, irriverente e ribelle come il rock e chi lo vive.

Tracklist
1.I re della riviera
2.1970 Hostel
3.La Rambla
4.L’amore è una scelta
5.Di notte sabato alle 3
6.La strada è liberazione
7.Destination anywhere
8.Dove ho sbagliato
9.Johnny’s back summer’s back
10.Passione
11.Francis
12.Ma maladie
13.Mi parlerai di te

Line-up
Stefano Bucci – Voce
Romano Novelli – Chitarra, mandola, armonica, cori
Luigi Bastianoni – chitarra, fisarmonica, cori
Giampiero Passeri – basso
Alessandro Bucci – batteria

GTO – Facebook

Duncan Evans – Prayers for an Absentee

La vena folk di Duncan Evans si è spostata verso una forma di cantautorato ancora più evoluto, ed il risultato è Prayers for an Absentee, uno dei dischi più belli ed intensi ascoltati quest’anno.

Svestiti definitivamente i panni vittoriani di Henry Hyde Bronsdon , l’ex chitarrista degli A Forest Of Stars, Duncan Evans, punta con decisione sulla sua carriera solista, ben avviata con il full length Lodestone del 2013.

Rispetto a quegli esordi, la vena folk del musicista inglese si è spostata verso una forma di cantautorato ancora più evoluto, all’interno del quale si possono rinvenire le più disparate fonti di ispirazione delle quali lascio volentieri l’individuazione alla sensibilità ed alla conoscenza di ognuno, perché ogni brano di questo splendido lavoro, intitolato Prayers for an Absentee, deve essere ascoltato ed assimilato senza alcun condizionamento.
Quella di Evans è infatti una cifra stilistica personale, ed è chiaro che se personalità iconiche come quelle di Nick Cave o di Leonard Cohen possano a tratti balenare nell’immaginario di ciascun ascoltatore, ciò deriva dal fatto che nulla si crea o si distrugge, e la capacità dell’artista di spessore superiore è appunto quella di modellare e dare nuove sembianze a forme già preesistenti.
Se l’opener Bring Your Shoulder si rivela trascinante fin dal suo incipit e dal chorus (non a caso la canzone è stata scelta per girare un video) , quella vena di allegria che si tende a percepire è in realtà del tutto illusoria, visto che i testi, colti, introspettivi e profondi, vanno in tutt’altra direzione sposandosi ancora meglio con il lirismo toccante di brani come Us And Them And You And Me, I Know e Christabel, ma parliamo solo degli episodi da me prediletti in quanto più vicini ad un personale sentire; infatti Poppy Tears non è da meno grazie ad una struttura melodica di fluidità stupefacente, e le stesse Borderlands Prayer, Trembling e Time sono canzoni che da sole nobiliterebbero qualsiasi altro lavoro.
Nonostante l’impronta sia quella di un progetto solista, Duncan Evans si avvale in toto del supporto di una band vera e propria, formata da musicisti i quali ne esaltano l’ispirato songwriting che lo rende, oggi, uno dei più credibili ed efficaci artisti in grado di raccogliere il testimone da quei giganti citati in precedenza; un tale approdo, del resto, può sorprendere solo chi continua a pensare che i musicisti dal background metal siano un’indistinta accozzaglia di illetterati buzzurri.
Al di là degli steccati di genere, Prayers for an Absentee trova un suo diritto di cittadinanza al’interno di MetalEyes semplicemente perché si tratta di uno dei dischi più belli ed intensi pubblicati quest’anno, e questo basta ed avanza per raccomandarne l’ascolto a chi rovista incessantemente nel pozzo senza fondo contenente le nuove uscite, allo scopo di ricavarne qualcosa dal grande impatto emotivo.

Tracklist:
01. Bring Your Shoulder
02. Borderlands Prayer
03. Us And Them And You And Me
04. Trembling
05. Poppy Tears
06. I Know
07. Christabel
08. Time

Line-up:
Duncan Evans
Ol Jessop
Kev Reid
Phil Cullumbine
Dershna Morker

DUNCAN EVANS – Facebook

Barren Womb – Old Money / New Lows

I Barren Womb ci sanno decisamente fare, con una musica corrosiva, altamente fantasiosa e con un’urgenza hardcore, come un’onda che ti travolge e che ti lascia diverso.

Coppie musicali, specialmente nel panorama alternativo se ne sono viste molte, arrivando ad essere quasi una moda, con esiti a volte buoni a volte meno.

Il duo in questione si chiama Barren Womb, è per metà finlandese e per metà norvegese e fa un tipo di musica che mescola noise, folk americano, blues distorto ed acido e tante altre cose. L’immaginario è fortemente americano, nel senso che si parte dalla lezione dei The White Stripes e simili per quanto riguarda la musica, mentre per quanto riguarda il visivo il tutto è davvero made in USA, anche se fra una certa Scandinavia e l’ovest a stelle e strisce non c’è molta differenza. Dentro al loro suono si può trovare anche la lezione rimasticata e sputata fuori di alcuni hardcore di un po’ di anni fa, soprattutto per l’andamento delle canzoni mai lineare, con tanti bellissimi spigoli che ti esplodono in faccia. I Barren Womb ci sanno decisamente fare, con una musica corrosiva, altamente fantasiosa e con un’urgenza hardcore, come un’onda che ti travolge e che ti lascia diverso. La ricerca musicale del duo è molto accurata, facendo compiere un viaggio fatto da musica mai ovvia con un suono sempre in movimento, come un magma ribollente ed interessante, in cui non si può fare a meno di guardare dentro. Come detto sopra molti sono i gruppi simili ai Barren Womb, ma la varietà del duo finnico/norvegese è peculiare. Chitarre distorte, canto fatto con le budella, quelle vere, e tanta abrasività per andare avanti in un Far West quotidiano che ormai ha superato la distopia.

Tracklist
1.Crook Look
2.Mystery Meat
3.Theory of Anything
4.Slumlord Millionaire
5.Cave Dweller
6.Drive-Thru Liquor Store
7.Mad 187 Skills
8.Russian Handkerchie

Line-up
Timo Silvola – Vocals, Drums
Tony Gonzalez – Vocals, Guitars

BARREN WOMB – Facebook

Losa – Mastrucatum

Mastrucatum spalanca le porte al mondo dei Losa, un’entità musicale il cui manifesto legame alla tradizione della propria terra non rappresenta una fuga all’indietro rispetto alla modernità, bensì il condivisibile nonché riuscito tentativo di abbinare la contemporaneità del metal alla conservazione di quelle radici culturali che nessuna forma di globalizzazione ha il diritto di omologare o banalizzare.

Losa è il nome di questo nuovo eccitante progetto musicale proveniente dalla Sardegna, che vede coinvolti tre quarti dei disciolti Accabbadora e, nel complesso, musicisti impegnati in alcune delle migliori realtà estreme presenti nella fertile scena isolana (Simulacro, Anamnesi) e non (Progenie Terrestre Pura, Grind Zero).

Questo breve ep, intitolato Mastrucatum, nonostante una durata ridotta si rivela ampiamente esaustivo riguardo alle capacità ed alle potenzialità di questa nuova creatura che esce sotto l’attenta egida della Third I Rex, etichetta con sede a Londra ma gestita da un altro figlio di quella splendida terra quale è Roberto Mura.
Se la commistione tra black metal e folk non è certo una novità, l’operato dei Losa spicca per la sua perfetta coesione tra le pulsioni estreme e la tradizione musicale e culturale sarda, con i suoi riferimenti (anche in copertina) ai Mumutzones, le tradizionali maschere zoomorfe che animano il carnevale di Aritzu.
Il black metal viene così modellato dai Losa in maniera melodica ed efficace, con richiami che riportano ad una delle massime fonti di ispirazione, specie per chi si cimenta con il genere nell’Europa del Sud, che sono i primi Moonspell; e non è un caso se la band ha inciso una notevole cover di Alma Mater, ascoltabile purtroppo solo sul bandcamp vista la mancanza di tutti i placet necessari per inserire il brano anche all’interno delle copie fisiche di Mastrucatum.
Ad ogni buon conto, sia la title track che il brano autointitolato si rivelano tra le cose migliori ascoltate quest’anno in tale ambito, e stiamo parlando di un settore in cui la qualità media è davvero elevata.
Difficile non restare affascinati dalla sapiente alternanza degli stili vocali che spaziano dallo screaming agli intrecci corali tipici del folklore sardo, così come dalla rielaborazione dei dettami del black metal che viene restituito in maniera fresca ed accattivante.
A dimostrare, poi, che non tutti i mali vengono per nuocere, al posto della programmata cover troviamo Allumiendi, una traccia stupenda nel suo essere folk nel senso più limpido del termine, impreziosita dalle evocative note offerte dalla chitarra acustica.
Mastrucatum spalanca le porte al mondo dei Losa, un’entità musicale il cui manifesto legame alla tradizione della propria terra non rappresenta una fuga all’indietro rispetto alla modernità, bensì il condivisibile nonché riuscito tentativo di abbinare la contemporaneità del metal alla conservazione di quelle radici culturali che nessuna forma di globalizzazione ha il diritto di omologare o banalizzare.

Tracklist:
1.Intro
2.Mastrucatum
3.Losa (Mastrucatum II)
4.Allumiendi

Line-up:
Federico Pia – Vocals and Lyrics
Gabriele Perra – Guitars
Fabrizio Sanna – Bass, Choirs, Clean Vocals and Acoustic Guitar
Emanuele Prandoni – Drums and Percussions

LOSA – Facebook

King Dude – Music To Make War To

Music To Make War To è un disco dalla musica potentissima, americana al cento per cento, dove si incrociano neo folk, in misura però minore rispetto ai dischi precedenti, american folk new wave, rock tout court e musiche da fine del mondo.

Non ci può essere pace, la quiete arriva solo in un dato momento e tutti sappiamo benissimo quale sia.

La natura dell’uomo porta guerra, abbiamo più anime in noi che a volte si ammazzano fra loro, e capire gli altri è a volte affascinante e a volte insopportabile ed impossibile. Ci sforziamo di credere che nella nostra storia personale e, più per esteso, nella storia del mondo ci sia un qualche disegno, una firma superiore od inferiore, ma in realtà c’è solo confusione e guerra per l’appunto. Quindi mettetevi alla finestra, guardate uno di quelli che potrebbe essere uno degli ultimi tramonti ed ascoltate King Dude, una delle miglior cose che siano capitate nella musica degli ultimi tempi. King Dude, al secolo TJ Cowgill, è una di quelle figure di frontiera che solo in America possono sbucare, una sintesi riuscitissima di una miriade di spinte e stili diversissimi fra loro che si sublimano in una scintilla luciferiana. Questo è il suo settimo disco, un’opera interamente incentrata sulla guerra in tutte le sue accezioni, ed è come al solito per King Dude un bellissimo romanzo messo in musica. Il newyorchese è un tentatore, un demiurgo che fa nascere storie e ce le fa vivere appieno, un Tom Waits senza gli eccessi e le stronzate tipiche di chi ha la patente di genio. Music To Make War To è un disco dalla musica potentissima, americana al cento per cento, dove si incrociano neo folk, in misura però minore rispetto ai dischi precedenti, american folk new wave, rock tout court e musiche da fine del mondo. Ogni canzone possiede una sua cifra stilistica, un obiettivo ed uno svolgimento, infatti questa è musica di livello superiore, sia per il discorso compositivo che per quello interpretativo, perché King Dude è un fantastico crooner maledetto che ci apre mondi altrimenti preclusi. Si potrebbe stare in sospeso ore ad ascoltare questa sua ultima opera, poiché la bellezza è talmente tanta che trasborda e ci inonda. King Dude è sempre stato un cantautore unico e fantastico, ma questo ultimo sforzo lo pone davvero ad un livello altissimo, mai toccato prima, e l’asticella era già molto in alto.
Tremendamente carnale, mortale e lussurioso, una vera guerra, la nostra condizione naturale.

Tracklist
1. Time To Go To War
2. Velvet Rope
3. Good And Bad
4. I Don’t Write Love Songs Anymore
5. Dead On The Chorus
6. Twin Brother Of Jesus
7. In The Garden
8. The Castle
9. Let It Burn
10. God Like Me

Line-up
TJ Cowgill
August Johnson
Tosten Larson
Lee Newman

KING DUDE – Facebook

Sir Reg – The Underdogs

Esperienza, ritmo e talento per la melodia rendono questo disco una delle migliori cose che potrete sentire negli ultimi tempi in ambito celtic punk.

Gruppo di celtic punk molto melodico e ben composto, i Sir Reg vengono dalla Svezia ad esclusione del cantante arriva invece viene dalla verde Irlanda.

The Underdogs è il loro quinto album, ed è assai godibile, molto ballabile e vi darà molte gioie. Il celtic punk è un genere internazionale e molto amato che ha uno zoccolo molto fedele di fans, e i Sir Reg sono fra i migliori interpreti di questo suono. Il disco è strutturato principalmente sulla melodia, che traspare in molti modi, sia con dalle chitarre mai eccessive, o dai momenti migliori che sono quelli con gli strumenti tradizionali irlandesi in primo piano. Certamente ci sono molti gruppi simili in giro, e forse il genere è quasi inflazionato, ma questi svedesi danno nuova linfa al tutto facendo quello che dovrebbe essere un disco di celtic folk punk: divertente, malinconico e da ascoltare mentre si beve al pub, ridendo e ricordando le cose belle e quelle brutte. Sicuramente la voce irlandese di Brendan Sheehy regala una marcia in più, ma non è solo quello il motivo, perché il gruppo funziona molto bene e ha radici punk ben salde che escono molto spesso, contribuendo in maniera importante a costruire l’identità del gruppo. Bisogna lasciarsi trasportare dalla forza di questa band che è in giro dal 2009 e che ha suonato con molti nomi importanti ed in diversi festival, offrendo sempre live molto infuocati. Esperienza, ritmo e talento per la melodia rendono questo disco una delle migliori cose che potrete sentire negli ultimi tempi in ambito celtic punk.

Tracklist
01.the underdogs
02.conor mcgregor
03.giving it up (the drink)
04.fool (fight of our lives)
05.cairbre
06.take me to your dealer
07.the day that you died
08.the stopover
09.stereotypical drunken feckin’ ir
10.don’t let go
11.sinner of the century

Line-up
Brendan Sheeh : vocals & acoustic guitar
Karin Ullvin : fiddle
Chris Inoue : electric guitar
Mattias Liss : drums
Filip Burgman : mandolin
Mattias Söderlund : bass

SIR REG – Facebook

Ungfell – Mythen, Mären, Pestilenz

Una cover dalle suggestioni bruegeliane ci porta nel personale black metal di Menetekel, artista molto ispirato con la sua arte ricca di influssi medievali.

Affiliati all’Helvetic Underground Commitee (dedito letteralmente alla propagazione di grotteschi, spregevoli e putridi tomenti audio dalla Svizzera), i zurighesi Ungfell, attivi dal 2014 ci propongono il loro secondo full length e ci inebriano con la loro personale visione del black metal viscerale e selvaggio, intriso nel profondo con tematiche appartenenti al Medioevo il cui immaginario, a loro dire, incarna e dipinge con efficacia i peggiori lati dell’umanità intesi come ignoranza e cieche convinzioni.

La one man band nelle mani, da sempre, di Menetekel, musicista assai ispirato, è qui accompagnata dal drummer Valant e altri guest e ci propone una serie di composizioni che profumano di antichi e misteriosi sapori, condotti dalla lancinante e sgraziata voce in scream del leader, che ha la grande capacità di creare atmosfere davvero inquietanti, sia quando crea brani strumentali affascinanti ricchi di suggestioni folk (Oberlandmystik), sia quando si lancia in cavalcate vigorose e fiammeggianti cariche di follia, con un guitar sound intricato, capace di variare all’interno di ogni singolo brano in parti veloci e dissolute e in parti cariche di raffinatezza e dolcezza. La carta vincente di Menetekel è la grande capacità compositiva, l’ispirazione molto accesa dove i brani acquistano consistenza ad ogni ascolto; la prima volta si è colpiti dallo scream straziato e sgraziato mentre successivamente si è letteralmente rapiti dalla grande arte compositiva, che naturalmente crea paesaggi variegati dove il black e il folk si intrecciano e fluiscono naturalmente. I brevi strumentali hanno sonorità peculiari e sono molto personali disegnando momenti emozionali di infinita dolcezza e disperazione (De Fluech vom Toggeli). Gli Ungfell, di cui dovrebbe essere ristampato il primo album, sono realmente una grande band con una forte convinzione e la loro capacità di creare atmosfere antiche e personali dimostra una volta di più come la scena elvetica abbia mantenuto nel tempo grande qualità; brani come Der Ritter von Lasarraz, con una chitarra ispiratissima, rappresentano la quintessenza di un suono black che non si ritrova tanto facilmente sulla scena. Disco splendido !

Tracklist
1. Raubnest ufm Uetliberg
2. De Türst und s Wüetisheer
3. Oberlandmystik
4. Bluetmatt
5. Die Heidenburg
6. De Fluech vom Toggeli
7. Die Hexenbrut zu Nirgendheim
8. Guggisberglied
9.
10. Raserei des Unholds

Line-up
Menetekel – Vocals, Guitars, Bass, Accordion

UNGFELL – Facebook

Cernunnos – Summa Crapula

Summa Crapula è un lavoro che pone i Cernunnos sulla mappa del folk metal e con fare sicuro: dopo un debutto così aspettiamo assisi ad un tavolo di una taberna il seguito.

Ep di debutto per i marchigiani Cernunnos, fautori di un folk rock con intarsi metal molto interessante, che si inserisce nel solco della tradizione italiana del genere, con una composizione che si dipana bene, con gli strumenti tipici che sono usati adeguatamente senza mai sforare o sembrare ridicoli come in altri gruppi.

Vi sono, poi, alcuni elementi come la doppia casa della batteria e alcuni potenti riff di chitarra che conducono direttamente al metal, ma il tutto è ben bilanciato con il rock. Le belle e calde voci di Andrea e Marco portano l’ascoltatore in giro per campi di battaglia e borghi medievali, dove la vita è arrivare alla sera a bere alla taberna. Lo stile può sembrare in apparenza simile ai primi Folkstone, ma rispetto al gruppo bergamasco i Cernunnos hanno un passo maggiormente metal, sia nel suono che nell’incedere. Questi ragazzi (e ragazza, dato che troviamo l’ottima Lucia ai flauti), hanno una sincera passione per tali sonorità e la portano avanti con competenza: questo ep è il punto d’arrivo degli sforzi che hanno compiuto nei loro primi tre anni di vita, ma è al contempo una partenza per una carriera che si preannuncia molto interessante. I quattro pezzi che compongo l’ep non sono pochi, ma è la giusta visione del talento e delle reali capacità del combo marchigiano, che ha molti e ampi margini di miglioramento. Summa Crapula è un lavoro che pone i Cernunnos sulla mappa del folk metal e con fare sicuro: dopo un debutto così aspettiamo assisi ad un tavolo di una taberna il seguito.

Tracklist
1. Vino
2. Nella Taverna
3. Valhalla
4. Dall’Alto Delle Guglie

Line-up
Marco: Voce
Andrea: Voce
Claudio: Chitarra
Mattia: Chitarra
Matteo: Basso
Lucia: Flauti
Federico: Violino
Benedikt: Batteria

CERNUNNOS – Facebook

The Mystery of the Bulgarian Voices feat. Lisa Gerrard – BooCheeMish

BooCheeMish ci trasporta in un mondo antico, in un immaginario rurale piacevolmente avulso dalla modernità, anche se va rimarcato come gli arrangiamenti e l’utilizzo degli strumenti siano del tutto al passo con i tempi: un qualcosa di diverso dal solito, il cui ascolto potrebbe riservare non poche sorprese anche a chi vi si dovesse avvicinare con comprensibile circospezione.

Non deve sorprendere il fatto che ci si occupi in MetalEyes di questo storico ensemble corale proveniente dalla Bulgaria.

I motivi sono molteplici, a partire dal fatto che tutto quanto proviene dalla Prophecy Productions merita d’essere sviscerato ed ascoltato con attenzione, trattandosi di un’etichetta che propone musica sempre di qualità superiore alla media, sia essa misantropico black metal oppure tenue e sognante folk; a tutto ciò va aggiunta la non marginale presenza in veste di ospite, in quattro dei dodici brani presenti in BooCheeMish, di Lisa Gerrard, voce femminile unica e conosciuta universalmente per la sua attività con i Dead Can Dance, band amata da non pochi appassionati di metal, peraltro.
Del resto, i particolari intrecci vocali che sono il vero e proprio marchio di The Mystery of the Bulgarian Voices sono stati utilizzati da più musicisti di nome in diversi ambiti (U2, Kate Bush e addirittura Elio e Le Storie Tese, solo per citarne alcuni) proprio per quella peculiarità capace di imprimere un marchio indelebile e facilmente memorizzabile a qualsiasi brano.
La nascita del coro risale addirittura gli anni ‘50 e, ovviamente, nel corso di tutti questi anni, le protagoniste si sono avvicendate mantenendo sempre costante il livello qualitativo e ben saldo il legame imprescindibile con la musica popolare bulgara; se, all’inizio il tutto era ovviamente confinato all’interno dei territori della cosiddetta 2cortina di ferro2, ai giorni nostri le voci bulgare sono assurte ad uno status di culto destinato ad essere rafforzato da questo album che arriva a vent’anni dal precedente.
Indubbiamente, l’apporto della Gerrard si rivela un “gancio” formidabile per attrarre l’attenzione di un pubblico più vasto, e va detto che l’operazione riesce alla perfezione: sarebbe riduttivo però focalizzarsi solo sui brani interpretati dalla vocalist australiana (il singolo Pora Sotunda ed il gioello Mani Yanni, soprattutto): l’ensemble, diretto ormai da un quarto di secolo da Dora Hristova alterna riarrangiamenti della tradizione popolare a brani di nuovo conio, alternando episodi più movimentati (Yove,Tropanitsa) e intrisi della tradizione folk balcanica, ad altri più evocativi e che forse meglio si adattano ad ascoltatori dal background più oscuro (Zableyalo Agne, Ganka e Stalka).
BooCheeMish ci trasporta in un mondo antico, in un immaginario rurale piacevolmente avulso dalla modernità, anche se va rimarcato come gli arrangiamenti e l’utilizzo degli strumenti siano del tutto al passo con i tempi: un qualcosa di diverso dal solito, il cui ascolto potrebbe riservare non poche sorprese anche a chi vi si dovesse avvicinare con comprensibile circospezione.

Tracklist:
1 Mome Malenko
2 Pora Sotunda featuring Lisa Gerrard
3 Rano Ranila
4 Mani Yanni featuring Lisa Gerrard
5 Yove
6 Sluntse
7 Unison featuring Lisa Gerrard
8 Zableyalo Agne
9 Tropanitsa
10 Ganka
11 Shandai Ya featuring Lisa Gerrard
12 Stanka

THE MYSTERY OF THE BULGARIAN VOICES – Facebook

Skogen – Skuggorna Kallar

Realtà consolidata nel panorama black metal nord europeo, gli Skogen dimostrano, come sempre, la loro identità e la loro personalità; suggestive emozioni in un black metal dagli antichi sapori nordici.

Realtà consolidata nel panorama black metal nord europeo, gli Skogen approdano al loro quinto full length, a quattro anni di distanza dal meraviglioso I Doden.

Svedesi, di Vaxjo, fin dal nome che vuol dire “forest” hanno improntato il loro suono su un black intriso di temi naturalistici tesi a omaggiare la bellezza, la forza selvaggia e l’oscurità del paesaggio nordico che li circonda. Attivi dal 2009, non hanno mai perso la loro ispirazione e hanno creato fino ad oggi cinque full length, tutti immersi in un suono black selvaggio e melodico, debitore della scuola svedese, ricco di elementi folk e suggestive atmosfere evocative che aprono la mente verso spazi glaciali e sconfinati; non hanno prodotto split, EP o partecipato a collaborazioni, solo album interi che consiglio di recuperare per apprezzare l’identità e la personalità della band. Anche quest’ultimo sforzo creativo ricrea atmosfere superbe fino dall’opener Det nordiska morkret, che dimostra un senso melodico superiore, con clean vocals alternate a un lacerante growl mentre il suono si apre in una melodia tastieristica antica e sognante…
L’omaggio alla loro terra natia pervade ogni nota dell’opera, specie quando si lanciano in brani tesi e vibranti, sempre accompagnati da un gusto melodico che profuma di ancestrale come in Nar solen bleknar bort, dove gli ingredienti sono miscelati ad arte per farci volare con la mente verso spazi innevati e selvaggi; l’alternanza tra clean, scream e growl è ben equilibrata e la presenza di parti corali aggiunge potenza e capacità suggestiva all’insieme. Non ci sono filler, otto brani ispirati e ottimamente suonati, parti folk che si intrecciano alla meraviglia nel tessuto black, sorprendendo e lasciando grandi sensazioni (Nebula); i ritmi mai estremamente sostenuti sono perfetti per creare suggestioni come nella splendida Frostland, perfetta fin dal titolo, intarsio di folk e black calibrato al millimetro. Il ritmo rallentato e gli arpeggi di The sun’s blood aggiungono ulteriore vigore e gli ultimi due lunghi brani, Beneath the trees e The funeral sublimano tutte le grandi emozioni che questa band sa infondere nel nostro cuore; è con questi suoni e con queste opere che il black metal mostra una volta di più le proprie radici e la propria forza.

Tracklist
1. Det nordiska mörkret
2. När solen bleknar bort
3. Nebula
4. Omen
5. Frostland
6. The Sun’s Blood
7. Beneath the Trees
8. The Funeral

Line-up
Joakim Svensson – Bass, Vocals
Mathias Nilsson – Guitars, Vocals
L. Larsson – Drums, Vocals
Jonathan Jansson – Guitars, Vocals

SKOGEN – Facebook

Goad – Landor

Nuovo lavoro da parte dello storico gruppo toscano, interprete di un incantevole hard prog gotico, dalle inflessioni ora più folk ora più doomeggianti. Puro romanticismo dark in musica, malinconico e melodico insieme.

In pista ormai dal lontano 1983, i fiorentini Goad confermano con questo loro nuovo lavoro tutta la propria creatività artistica, forti di un’identità che li vede pressoché unici nel panorama musicale di casa nostra.

La persistenza della tradizione: forse solo così si potrebbe definire la loro musica, erede del prog (King Crimson, Pink Floyd, VDGG), dell’hard rock anni Settanta (Led Zeppelin, Triumph, Rush, primi Uriah Heep) e del dark più occulto (High Tide, Atomic Rooster, Goblin, Devil Doll). In questa nuova opera – la dicitura non è casuale, in quanto Landor è una sorta di mono-traccia d’oltre cinquanta minuti suddivisa in tredici parti (o movimenti, se si vuole) – l’amore dei quattro toscani, a cui si aggiunto in veste di pianista e ingegnere del suono il lucchese Freddy Delirio (tastierista già con i Death SS e solista notevolissimo), per tematiche romantiche e decadenti trova una ulteriore e nuova declinazione, sonora e canora: progressive tastieristico, doom e impasti folk (con la passione per il gotico a fare, ogni volta, da collante) intersecano i loro piani, in quello che è un concept dalla struggente bellezza, letteraria, oltre che musicale. Non a caso, il secondo CD di questo doppio è un omaggio a Edgar Allan Poe, registrato dal vivo, al Parterre di Firenze, nel luglio dell’oramai lontano 1995: un documento davvero storico, quindi, inciso da una formazione della quale è rimasto solo il vocalist, che arricchisce ulteriormente questa pubblicazione. Alchimisti e teatrali interpreti dell’hard prog, non senza una profonda consistenza materica (si veda l’uso della doppia batteria in Landor), i Goad allora come oggi erano e restano da apprezzare senza riserve, coraggiosi e coerenti.

Tracklist
1- Written on the First Leaf of My Album
2- On Music
3- To One Grave
4- Bolero
5- Goodbye, Adieu
6- Life’s Best
7- Where Are Sights
8- Decline of Life
9- An Old Philosopher
10- The Rocks of Life
11- Defiance
12- Brevities
13- Evocation
14- I’ll Celebrate You
15- Fairyland
16- Dream Within a Dream
17- The Sleeper
18- To One in Paradise
19- Dreamland
20- Alone
21- The Haunted Palace
22- The City in the City
23- The End

Line up
Alessandro Bruno – Guitars, Reeds, Violin
Maurilio Rossi – Vocals, Bass, Guitar, Keyboards
Paolo Carniani – Drums
Enrico Ponte – Drums

GOAD – Facebook

Akhenaten – Golden Serpent God

Rispetto a tre anni fa la proposta della band del Colorado sembra anche meglio focalizzata ed efficace: gli intarsi etnici appaiono curati nei minimi particolari ed ogni brano possiede una propria peculiarità che in alcuni casi si esplicita in maniera fragorosa.

Nuovo lavoro pure gli Akhenaten dei fratelli Houseman, band impostasi negli ultimi anni come credibile interprete del metal estremo immerso nell’immaginario egizio.

Come già detto in occasione della precedente uscita titolo, l’abilità del duo statunitense risiede nel saper amalgamare al meglio il sound di matrice black/death con la strumentazione tradizionale.
E se, in effetti, il primo nome che viene in mente quando si parla di certe sonorità sono i Nile, va anche detto che il sound degli degli Akhenaten è molto meno brutale ma, allo stesso tempo, anche meno dicotomico nel suo alternare le due anime che lo vanno a comporre.
Rispetto a tre anni fa la proposta della band del Colorado sembra anche meglio focalizzata ed efficace: gli intarsi etnici appaiono curati nei minimi particolari ed ogni brano possiede una propria peculiarità che in alcuni casi si esplicita in maniera fragorosa, come in episodi magnifici quali Dragon of the Primordial Sea, Erishkigal: Kingdom of Death e la title track Golden Serpent God, picchi qualitativi nei tre quarti d’ora di di black death etnici che a mio avviso teme pochi rivali, rivelandosi anche superiore a quello di band operanti in ambiti analoghi ma di ben più riconosciuta fama.

Tracklist:
1. Amulets of Smoke and Fire
2. Dragon of the Primordial Sea
3. Throne of Shamash
4. Through the Stargate
5. Erishkigal: Kingdom of Death
6. Pazuzu: Harbinger of Darkness
7. Akashic Field: Enter Arcana Catacombs
8. God of Creation
9. Sweat of the Sun
10. Apophis: The Serpent of Rebirth
11. Golden Serpent God

Line up:
Jerred Houseman – All instruments
Wyatt Houseman – Vocals

AKHENATEN – Facebook

The Dark Red Seed – Becomes Awake

Sperimentale, etnico, oscuro ai limiti del dark folk e dalle malate venature blues, Becomes Awake si rivela un’opera di spessore qualitativo non comune e il bravo Larson si ritaglia con merito uno spazio importante al di fuori dell’ombra di quel King Dude, del quale il musicista di Seattle è uno dei più stretti collaboratori.

Tosten Larson, dopo aver pubblicato lo scorso anno un ep di assaggio del suo progetto The Dark Red Seed, si presenta sempre sotto l’egida della Prophecy con il full length d’esordio, Becomes Awake.

Se Stands With Death era parso promettente, ma non aveva fatto capire più di tanto del potenziale del musicista statunitense (il quale si avvale della stabile collaborazione di Shawn Flemming), questo lavoro fuga ogni dubbio fin dalle prime note dell’opener Dukkha, che regala un ottimo esempio di psichedelia obliqua, con tanto di fiati a sostenerne la struttura, e della successiva Darker Days , blues deviato che abbaglia per interpretazione personale di tale materia, ripresa anche nella conclusiva Diana And Ouroboros Dance, dove una sorta di Danzig de-anabolizzato incontra i Doors dando vita ad una canzone stupenda.
In realtà parlare di un brano specifico rischia d’essere fuorviante, in quanto l’album possiede una ricchezza di sfumature impagabile, esaltata da una pulizia sonora e interpretativa formidabile: questo avviene anche grazie al contributo di ospiti come Kelly Pratt e Steve Nistor, i quali alimentano costantemente il flusso musicale con l’apporto di strumenti a corda, fiati e percussioni.
Sperimentale, etnico, oscuro ai limiti del dark folk e dalle malate venature blues, Becomes Awake si rivela un’opera di spessore qualitativo non comune e il bravo Larson si ritaglia con merito uno spazio importante al di fuori dell’ombra di quel King Dude, del quale il musicista di Seattle è uno dei più stretti collaboratori.

Tracklist:
01. Dukkha
02. Darker Days
03. Alap
04. Ancient Sunrise
05. The Mouth Of God
06. The Destroyer
07. The Void
08. Awakening
09. Sukha
10. Diana And Ouroboros Dance

Line-up:
Tosten Larson
Shawn Flemming

THE DARK RED SEED – Facebook

Amorphis – Queen Of Time

Queen Of Time è l’ideale suggello di una carriera che si sta approssimando ai trent’anni, per un gruppo la cui spinta propulsiva sembra ancora ben lungi dall’essersi esaurita.

Gli Amorphis appartengono a quel novero di gruppi che godono di uno status collocabile a metà strada tra il mainstream e l’underground, trattandosi di una band dalla storia lunga che, magari, non raccoglie consensi oceanici ma comunque in grado di attrarre un numero importante di appassionati, sovente anche al di fuori degli abituali fruitori del metal.

Quello della band finlandese è ormai un trademark consolidato, qualcosa che per qualcuno potrà anche apparire ripetitivo ma che, alla luce della qualità media dei dischi pubblicati, alla fine riduce tutti questi discorsi a semplice aria fritta.
Indubbiamente l’ingresso di un cantante versatile come Tomi Joutsen, a partire da Eclipse nel 2006, ha contribuito a stabilizzare il sound in un death melodico dai richiami epici e folk, perfettamente oliato e incapace di deludere.
Ad ogni buon conto, anche per cercare di tacitare i critici per partito preso, gli Amorphis con questo loro ultimo Queen Of Time hanno provato con un certo successo ad inserire qualche elemento nuovo nel loro sound, pur senza stravolgerlo: ne consegue, così, un lavoro vario nel quale troviamo parti di sax, aperture corali e sinfoniche, duetti con voci femminili, il tutto all’interno di brani che, in diversi chorus, rimandano ai fasti di Eclipse e Silent Waters.
Varietà nella continuità è, quindi, ciò che in sintesi propone il gruppo finnico, il quale, recuperato lo storico bassista Olli Pekka Laine (di recente protagonista anche con i suoi Barren Earth) mantiene un assetto consolidato che consente di sfornare a getto continuo riff e chorus trascinanti, di presa immediata ma non banali, sintomatici di una classe superiore alla media.
Ne scaturiscono dieci brani intensi ed orecchiabili, ruvidi e melodici nel contempo, e interpretati da uno Joutsen ineccepibile (nella speciale classifica combinata clean vocals/growl, oggi Tomi è superato forse dal solo Jon Aldarà), con il supporto di una band precisa come un orologio svizzero e gratificata da un sound di rara pulizia.
Posto che ai campioni del calcio non chiediamo di segnare solo di tacco e in rovesciata, o a quelli del ciclismo di fare le salite su una ruota, così da quelli della nostra musica mi pare lecito che si esigano solo belle canzoni e questo compito essenziale, ma certo non banale, viene assolto al meglio dagli Amorphis, in virtù di una tracklist di rara solidità, priva di punti deboli e con almeno quattro brani meravigliosi: l’opener The Bee, a suo modo un classico, Daughter of Hate, dal refrain indimenticabile all’interno di una struttura piuttosto cangiante, la superhit Amongst Stars, con il duetto tra Joutsen e la divina Anneke van Giersbergen, e la conclusiva Pyres on the Coast, traccia che non è affatto tipica per gli Amorphis, in quanto va ad intrecciare modernismi a pulsioni sinfoniche senza mai smarrire la bussola.
Concludo facendo notare che non è così scontato trovare band capaci di fornite simili prove di efficienza alla quattordicesima prova su lunga distanza, all’interno di una discografia pressoché priva di passi falsi (forse il solo Far From The Sun appare, a posteriori, più debole degli altri lavori): questo splendido Queen Of Time è, quindi, l’ideale suggello di una carriera che si sta approssimando ai trent’anni, per un gruppo la cui spinta propulsiva sembra ancora ben lungi dall’essersi esaurita.

Tracklist:
1. The Bee
2. Message in the Amber
3. Daughter of Hate
4. The Golden Elk
5. Wrong Direction
6. Heart of the Giant
7. We Accursed
8. Grain of Sand
9. Amongst Stars
10. Pyres on the Coast

Line-up:
Tomi Joutsen – Vocals
Esa Holopainen – Guitar
Tomi Koivusaari – Guitar
Olli-Pekka Laine – Bass
Santeri Kallio – Keyboards
Jan Rechberger – Drums

AMORPHIS – Facebook

Lou Quinse – Lo Sabbat

Un bellissimo canto di ribellione, un non sottomettersi alla Chiesa, ai padroni e all’autorità, un cantico di povertà e di tendini sanguinanti, la storia dei perdenti che per la durata di un sabba sono liberati dal demonio: musicalmente è un tesoro unico, una gioia, bellissimo, perfino difficile da esprimere a parole, ascoltatelo.

Quando arriva Lou Quinse il Sabbat può cominciare. Questo gruppo ha una potenza, una poetica talmente debordante che in un attimo vi troverete a muovervi come ossessi sulle montagne occitane, mentre l’inquisitore Eymerich vi sta cercando più a valle.

I Lou Quinse sono la nostra radice medioevale, dove Cristo non era ancora così radicato, e in certe valli e montagne non lo è ancora adesso. Questi misteriosi musicisti torinesi hanno fondato il gruppo nel 2006 sulle montagne di Balme in val D’Ala, in piena regione occitana, e ci portano dentro le nostre tradizioni più vere e demoniache. Le storie che raccontano i Lou Quinse sono le vite di coloro che la Storia ha definito perdenti, ma che hanno continuato a vivere i loro luoghi e a pregare il nero signore, perché quando si ha fame e si è poveri Dio è molto lontano. I Lou Quinse sono un gruppo unico, hanno uno stile ed una potenza inarrivabile, mischiano perfettamente folk e black o death metal, e fanno un genere unico, da loro stessi definito alpine extreme metal folkcore. Il diavolo è qui il protagonista di questo sabba in tra atti di quattro canzoni ciascuno, dove i Lou Quinse reinterpretano a loro maniera un repertorio tradizionale. Il disco è bellissimo come il primo omonimo, anzi di più. Qui c’è una corrente che scorre impetuosa da migliaia di anni e non muore mai, perché viene dalla terra stessa, ed è legata ai veri ritmi dell’uomo della natura, una carnalità luciferina nel vero senso della parola, totalmente umana. Musicalmente è un disco impressionante, gli strumenti antichi e quelli nuovi si fondono perfettamente in una combinazione magica da sabba vero. Alla produzione c’è Tino Paratore, del quale basterebbe anche solo il nome, e poi il disco è stato ulteriormente perfezionato da Tom Kvalsvoll ad Oslo. Un bellissimo canto di ribellione, un non sottomettersi alla Chiesa, ai padroni e all’autorità, un cantico di povertà e di tendini sanguinanti, la storia dei perdenti che per la durata di un sabba sono liberati dal demonio, sia sempre lode a lui.
Musicalmente è un tesoro unico, una gioia, bellissimo, perfino difficile da esprimere a parole, quindi ascoltatelo. Inoltre il libretto è una piccola opera d’arte a se stante, in stile liberty.
Parliamo tranquillamente di capolavoro demoniaco.

Tracklist
1.Sus la Lana
2.Chanter, Boire et Rire Rire
3.Diu Fa’ ma Maire Plora
4.La Dançarem Pus
5.Lo Cuer dal Diaul
6.Dessus la Grava de Bordeu
7.Giga Vitona
8.Purvari e Palli
9.Lo Boier
10.La Martina
11.La Marmota
12.Sem Montanhols

Line-up
IX.L’ERMITE – voice and growls
I.LO BAGAT – diatonic accordeon
VII.LO CARRETON – flutes and pipes
XIX.LO SOLELH – guitars and Irish bouzouki
XVIII.LA LUNA – bass guitar
.LO MAT – drums and percussions

LOU QUINSE – Facebook