Lontano dal metal sinfonico dei Nightwish e più vicino all’anima folk e tradizionale della sua terra, Holopainen mette il suo talento al servizio della splendida consorte, affascinante sirena di questo lavoro fuori dai soliti schemi.
L’aurora, quel momento magico delle giornata in cui le fiabe prendono vita e dove la suadente Johanna Kurkela è fata, musa ispiratrice del mondo conosciuto come Auri, ora è anche un album, registrato insieme al suo più famoso consorte Tuomas Holopainen, tastierista e anima dei Nightwish, e al fido Troy Donockley.
E’ nella magia dell’aurora che la musica del trio prende vita e ad accompagnarci tra le note di questo raffinato lavoro c’è la voce incantevole della cantante, davvero sorprendente nella sua eleganza.
Più semplicemente Auri è ispirato dalla protagonista dei libri di Patrick Rothfuss, in una danza folk che ci accompagna per quasi un’ora di ispirazione celtiche, con la musica a risvegliare un villaggio in un’imprecisata regione a nord dei mari conosciuti.
Una magia valorizzata dalle corde che vibrano sotto le dita di Donockley, protagonista con una miriade di strumenti, dalla viola suonata dalla Kurkela e dai tasti d’avorio, mai cosi delicati e a tratti onirici, all’ombra dei quali la cantante trova riparo per la sua raffinata tonalità.
Un lavoro che si specchia nella tradizione finlandese, un sorprendente mondo fatato in cui leggende millenarie prendono vita, tra le note di The Space Between, Night 19, la splendida The Name Of The Wind e lo strumentale dal piglio cinematografico Savant.
Lontano dal metal sinfonico dei Nightwish e più vicino all’anima folk e tradizionale della sua terra, Holopainen mette il suo talento al servizio della splendida consorte, affascinante sirena di questo lavoro fuori dai soliti schemi. Auri è un album non per tutti, ma sicuramente in grado di trasmettere emozioni sopite nel tempo, mentre la notte lascia spazio all’aurora e il delicato canto della splendida Johanna Kurkela torna a procurare brividi come la brezza mattutina.
Tracklist
1. The Space Between
2.I Hope Your World is Kind
3. Skeleton Tree
4. Desert Flower
5. Night 13
6. See
7. The Name of The Wind
8. Aphrodite Rising
9. Savant
10. Underthing Solstice
11. Them Thar Chanterelles (feat Liquor in the Well)
Line-up
Johanna Kurkela – Voices & viola
Tuomas Holopainen – Keys & backing voices
Troy Donockley – Acoustic and electric guitars, bouzouki, uilleann pipes, low whistles, aerophone, bodhran, keys, voices
L’album dimostra un buon equilibrio, nel senso che, a fronte della mancanza di particolari picchi, non si rinvengono neppure cali vistosi, il che consente di mantenere in ogni momento un impatto emotivo soddisfacente: tutto ciò dovrebbe essere senza dubbio nelle corde di chi apprezza sonorità di stampo post metal/shoegaze.
Gli Anua sono una nuova band che si affaccia sulla scena musicale nazionale, facendolo in punta di piedi con un post metal/shoegaze molto etereo e delicato.
Mettesi in scia di una realtà come gli Alcest, tanto per citare il nome più noto tra quelli che si cimentano in questo stile musicale, può rivelarsi controproducente perché, in fondo, gli spazi di manovra non sono illimitati, ma questi quattro musicisti provano a svincolarsi da un confronto innegabilmente ingombrante mutando qualcosa a livello di approccio: ecco allora il ricorso strumenti addizionali come flauto e clarinetto e una più pacata anima folk, che si manifesta con diversi passaggi di chitarra acustica.
L’operazione a mio avviso riesce piuttosto bene, nel senso che Un Viaggio Senza Terra si rivela un lavoro gradevole, pur se strutturato su quattro brani lunghi mediamente una decina di minuti, che scorrono comunque in maniera abbastanza fluida anche se mancano nell’arco di tutta la durata quei momenti più incisivi dal punto di vista melodico, capaci di segnare con forza un intero lavoro.
L’album dimostra però un buon equilibrio, nel senso che, a fronte della mancanza di particolari picchi, non si rinvengono neppure cali vistosi, il che consente di mantenere in ogni momento un impatto emotivo soddisfacente: tutto ciò dovrebbe essere senza dubbio nelle corde di chi apprezza questo tipo di sonorità, capaci di realizzare una fugace oasi di pace screziata di tanto in tanto da qualche riff mai troppo ingombrante ma ben coeso e funzionale alla resa finale.
Dovendo scegliere uno dei brani, prendo Canto di un viaggio finito, che è forse quello che propende maggiormente verso soluzioni acustiche, con il supporto degli strumenti a fiato e senza disdegnare ampie aperture elettriche, svincolandosi in parte dai principali modelli compositivi che confluiscono in Un Viaggio Senza Terra.
L’esordio degli Anua è sicuramente positivo, nonostante qualche rischio connesso alla scelta di uno stile potenzialmente tedioso se non viene messo in scena con tutti i crismi e con sufficiente doti compositive: la strada per raggiungere l’eccellenza assoluta prevede ancora la salita di diversi gradini, ma le basi poste con quest’album sembrano già abbastanza solide.
Tracklist:
1.Sulla riva di un lago
2.Un cielo scuro
3.Canto di un viaggio finito
4.Vorrei tornassi
Line-up:
Manuel Rodriguez – Guitars, Vocals
Piersante Falconi – Drums
Andrea Remoli – Bass
Luca Grimaldi – Guitars
Guests:
Andrea Salvi – Flute
Sofia Rofriguez – Vocals
Ennio Zohar – Clarinet
Musicalmente è forse l’album più maturo del collettivo, molto completo dal punto di vista compositivo, e quasi pronto per essere trasposto in una piece teatrale, perché in fondo questo dei Malnàtt è teatro con musica pesante.
Il collettivo bolognese Malnàtt è molto più di un gruppo metal, è un’idea messa in musica pesante.
L’opera del collettivo è sempre stata di alto livello qualitativo e con messaggi molto forti, e anche in questo disco l’approfondimento è notevolissimo. Pianura Pagana è la dimostrazione che il metal può essere arte che nasce dal basso e si propaga per far meglio comprendere ciò che c’è sotto la superficie, ed in questo caso di marcio ce n’è davvero molto. La proposta musicale dei Malnàtt spazia nel mondo del metal, dal black al death, passando per pezzi più prog e sfuriate quasi thrash. In questo progetto la musica è al servizio del messaggio, ma essa stessa è messaggio e da un valore aggiunto molto importante. Tutta l’opera dei bolognesi è di agitazione culturale, quasi fossero una propaggine del collettivo culturale Wu Ming in campo metal. Pianura Pagana è un disco che sa di antico, un sentire con la mente libera da preconcetti e dai tarli della nostra consumistica esistenza. Il disco è una chiara dichiarazione di intenti, un continuo carnevale in senso medioevale, poiché quando suonano questi signori diventano altro da ciò che sono tutti i giorni, come spiegato nella splendida canzone Il Collettivo Malnàtt, che illustra molto bene cosa sia questa entità davvero unica. Il cantato in italiano rende moltissimo e fa l’effetto di una messa pagana senza alcun simbolo, solo l’andare contro la comune morale cristiana e borghese, ricercando il senso della vita e la sua forza, sempre più nascoste in questo mondo di plastica. Musicalmente è forse l’album più maturo del collettivo, molto completo dal punto di vista compositivo, e quasi pronto per essere trasposto in una piece teatrale, perché in fondo questo dei Malnàtt è teatro con musica pesante. Vengono anche smascherati i nostri tic, le normali aberrazioni che ogni giorni imperano in tv, creando quel cortocircuito che nasce mentre vediamo la morte in diretta mangiando tranquillamente con i nostri familiari, sentendoci al sicuro; ma non lo siamo affatto, perché il nemico peggiore siamo noi stessi, siamo noi gli assassini, siamo noi che abbiamo affidato le nostre speranze alla gente sbagliata da più di 2000 anni. Pianura Paganava ascoltato nota per nota, parola su parola, immagine per immagine, perché è un piccolo capolavoro di coscienza, come li faceva una volta Pasolini; infatti qui i Malnàtt mettono in musica Alla Mia Nazione, e lì dentro c’è tutto.
Tracklist
1. Almanacco pagano
2. Io ti propongo
3. Il Collettivo Malnàtt
4. E lasciatemi divertire
5. Cadaverica nebbia
6. Alla mia nazione
7. Intervallo pagano
8. Qualche parola su me stesso
9. Posso
10. Chiese chiuse
11. Dialogo di marionette
Una manciata di musicisti della scena folk/symphonic/gothic nostrana si unisce alla natura e alle leggende di un mondo antico per un viaggio nel mito celtico, creando una musica che profuma di pozioni e rituali, completamente acustica e dannatamente coinvolgente.
La scena metal tricolore non smette di stupire rivelandosi in questi ultimi anni una fucina di talenti e diventando una delle massime espressioni del genere, almeno nella vecchia Europa.
E per metal si intendono anche e soprattutto tutti i sottogeneri ispirati dalla voglia di mettersi in gioco e trovare spunti da tradizioni antiche e non solo dai molti spunti moderni.
E’ cosi che una manciata di musicisti della scena folk/symphonic/gothic nostrana (provenienti da band come Elvenking, Evenoire e Sound Storm) si unisce alla natura e alle leggende di un mondo antico per un viaggio nel mito celtico, creando una musica che profuma di pozioni e rituali, completamente acustica e dannatamente coinvolgente.
Gli Shadygrove vengono rapiti da un mondo di magia, in un viaggio emozionante alla ricerca di sfumature ed atmosfere ormai perse nel tempo, nascoste nell’anima di ognuno di noi e pronte a tornare protagoniste nella nostra vita lasciata in mano al mostro che ci divora tutti i giorni: la modernità.
Presi per mano dall’intensa e magica interpretazione di Lizy Stefanoni (anche al flauto), musa di questo bellissimo In The Heart Of Scarlet Wood, accompagnata dai delicati arpeggi folk/acustici dei musicisti che formano con la cantante questa incredibile realtà fuori dal tempo (Fabio Lethien Polo al violino, Matteo Comar alla chitarra, Davide Papa al basso, Elena Crolle alle prese con tastiere ed orchestrazioni e Simone Morettin alla batteria e percussioni), ci inoltriamo tra le foreste in un passato imprecisato dove la poesia musicale del gruppo si unisce al tempo e ai luoghi nei quali ci muoviamo affascinati da quanta naturale bellezza ci circonda.
Basterebbe la meravigliosa Cydonia per decretare la completa riuscita di questo lavoro, ma l’opera vive di nove sognanti perle acustiche, seguendo le strade tortuose che conducono chi sa ancora sognare verso i paesaggi rurali dei Blackmore’s Night.
Tracklist
01. Scarlet Wood
02. My Silver Seal
03. The Port Of Lisbon
04. Eve Of Love
05. This Is The Night
06. Cydonia
07. Northern Lights
08. Let The Candle Burn
09. Queen Of Amber
Line-up
Lisy Stefanoni – Vocals, Flute
Fabio “Lethien” Polo – Violin
Matteo Comar – Guitar
Elena Crolle – Keyboards
Davide Papa – Bass
Simone Morettin – Drums, Ethnic Percussions
Eðelland è sicuramente un album che va recuperato e, anche se non dovesse avere più alcun seguito, rimane senza dubbio uno degli esempi più efficaci di pagan black offerti nel decennio in corso.
Cominciamo subito col dire che questo album dei britannici Ildra è la ristampa dell’unico full length finora pubblicato, Eðelland, risalente al 2011.
Se molto spesso la riproposizione di lavori vecchi di diversi anni la si può ritenere un’operazione superflua, di sicuro questo non vale per un album di tale spessore: il black metal dalla cospicua componente pagan folk contenuto in questi tre quarti d’ora di musica è quanto di meglio si possa ascoltare in quest’ambito stilistico, e sarebbe stato delittuoso quindi lasciare che Eðelland continuasse a languire in una sorta di oblio.
Bene ha fatto perciò la Heidens Hart Records, etichetta olandese specializzata in black metal, a riportare alla luce questo spaccato di sonorità epiche che, ovviamente, non contengono alcun elemento di novità ma sono semmai l’esaltante perpetrarsi di una tradizione che parte dai seminali Bathory ed arriva ai giorni nostri con band della caratura dei Primordial, con tutti gli altri nomi di peso compresi in questo perimetro (Falkenbach, Moosorrow, ecc.) .
Del valore degli Ildra, dei quali non si è mai saputa la composizione oltre che le attuali sorti (se si va sulla loro pagina Facebook, questa appare desolatamente vuota) la misura ce la offrono due tracce in particolare, Rice Æfter Oðrum e Swa Cwæð se Eardstapa, veri e propri concentrati di solenne epicità, con un magnifico lavoro chitarristico capace di delineare melodie evocative (specialmente il crescendo finale del secondo dei due brani). Eðelland è sicuramente un album che va recuperato e, anche se non dovesse avere più alcun seguito, rimane senza dubbio uno degli esempi più efficaci di pagan black offerti nel decennio in corso.
Tracklist:
1. Sweorda Ecgum
2. Rice Æfter Oðrum
3. Hrefnesholt Dæl I
4. Esa Blæd
5. Ofer Hwælweg We Comon
6. Nu is se Dæg Cumen
7. Earendel
8. Swa Cwæð se Eardstapa
9. On Þas Hwilnan Tid
L’intento degli Urze de Lume è quello di farci viaggiare a ritroso nel tempo, riportandoci almeno virtualmente a quella coesione inscindibile tra uomo e natura che oggi più che mai viene messa in discussione: As Árvores Estão Secas e Não Têm Folhas è la sintesi musicale di questa alleanza che ha retto per millenni prima di un inizio di sgretolamento che pare irreversibile.
Con il passare del tempo, sempre più la mente viene attraversata da squarci di consapevolezza che inducono a riflettere e a sospendere l’affannosa corsa quotidiana verso quel nulla che, per chiunque, diviene l’approdo finale.
L’opera dei portoghesi Urze de Lume rappresenta alla perfezione tale coacervo di sensazioni, con il vantaggio che questo dark folk malinconico e soffuso si rivela paradossalmente una panacea capace di lenire tutte le negatività accumulate in precedenza.
Questo ensemble di Lisbona, fondato da Ricardo Brito, arriva al terzo lavoro su lunga distanza con questo As Árvores Estão Secas e Não Têm Folhas, il cui titolo evoca chiaramente la stagione autunnale alla quale era stata dedicata la prima parte di questa dilogia iniziata con l’ep Vozes na Neblina, uscito lo scorso anno.
Il folk di matrice oscura, incentrato chiaramente su strumenti acustici ma arricchito anche da interventi di strumenti tradizionali, ad archi o a fiato, riesce a ritagliarsi un suo meritato spazio in virtù della sua limpidezza, e, personalmente, per impatto e coinvolgimento mi viene da accostarlo ai Wöljager di Marcel Dreckmann, a testimonianza del fatto che la buona musica dalle radici etniche riesce a raggiungere sempre il cuore degli ascoltatori, indipendentemente dalla latitudine da cui trae linfa.
L’intento degli Urze de Lume è chiaramente quello di farci viaggiare a ritroso nel tempo, riportandoci almeno virtualmente a quella coesione inscindibile tra uomo e natura che oggi più che mai viene messa in discussione: As Árvores Estão Secas e Não Têm Folhasè la sintesi musicale di questa alleanza che ha retto per millenni prima di un inizio di sgretolamento che pare irreversibile.
Brito e i suoi compagni d’avventura ci consentono l’accesso a questa bolla spazio temporale nella quale il sentimento predominante è la malinconia, insita in chi vive nel paese in cui il fado non è un semplice genere musicale bensì un qualcosa di insito nel dna della sua gente.
Non vale la pena di opporre resistenza alle carezze acustiche che gli Urze de Lume ci regalano sotto forma di brillanti gemme come la title track, Da Tua Ausência, Margens do Rio Outono o Longa a Noite: per le anime più sensibili, contemplare i colori e le sfumature dell’autunno è un nutrimento virtuale che può lenire il senso di vuoto che ognuno si porta appresso, inconsapevolmente o meno.
Tracklist:
1. Sobre Folhas de Carvalho
2. Come Árvores Estão Secas e Não Têm Folhas
3. Prenúncio de Gelo
4. Da Tua Ausência
5. Solidão
6. Fantasmi di Horas Mortas
7. Encruzilhadas
8. Sombras no Vento
9. Margens do Rio Outono
10. Entardece em Mim
11. Longa a Noite
12. Alvorada de Destroços
Line-up:
Ricardo Brito
Tiago Matos
Hugo Araújo
Gonçalo do Carmo
L’approccio del gruppo finlandese è senz’altro particolare in quanto cerca di fondere il black melodico con alcune pulsioni folk e progressive: un progetto ambizioso che purtroppo non riesce del tutto.
Gli Hiidenhauta sono una band finlandese attiva da qualche anno e che giunge, con 1695, al suo secondo full length.
L’approccio del gruppo fondato da Tuomas ed Emma Keskimäki è senz’altro particolare in quanto cerca di fondere il black melodico con alcune pulsioni folk e progressive: un progetto ambizioso che per lo più deve fare in conti con una produzione un po’ piatta, che non si rivela il mezzo più più adatto per restituire al meglio un idea di metal volta ad essere più ricercata di quanto non possa apparire a prima vista.
Se è sicuramente lodevole provare a sfuggire ad abusati schemi compositivi, come possono essere quelli di un viking o pagan metal (più aderenti alle tematiche di carattere storico ed alla pregevole ricerca a livello linguistico con l’utilizzo del cosiddetto “Kalevala Metre”), la sensazione è che non tutti i tasselli immessi nell’album vadano al proprio posto, a cominciare dalla voce femminile che il più delle volte appare fuori contesto, non tanto per demerito di Emma quanto perché la sua tonalità stride rispetto a come è strutturato il sound della band finlandese.
Così, tra qualche sfuriata spruzzata di folk come Hallan valta, il jazz pianistico (!) di Musta leipä ed una meglio focalizzata Maan poveen, l’album si trascina senza infamia nè lode verso la fine, lasciando in eredità qualche buono spunto ma anche una certa sensazione di incompiutezza, che magari apparirà più attenuata a chi potrà godere dell’album comprendendone anche i testi, ma che, invece, risulterà accentuata in chi per forza di cose deve focalizzare la propria attenzione sulla musica.
Da menzionare la bellissima copertina, che riproduce il dipinto ottocentesco Kerjäläisperhe maantiellä, opera del pittore Robert Wilhelm Ekman.
Tracklist:
1. Hallan valta
2. Äärellä
3. Kuolimaan tytär
4. Musta leipä
5. Jumalan vihan ruoska
6. Talvikäräjät
7. Nälkäkevät
8. Maan poveen
9. Nimettömät
Line-up:
Eetu Ritakorpi – Drums
Otto Hyvärinen – Guitars
Tuomas Keskimäki – Vocals, Lyrics
Emma Keskimäki – Vocals (female)
Ihtirieckos – Bass
Gastjäle – Keyboards, Flute
Oltre ai The Pogues, le ispirazioni sono quelle classiche dei gruppi del genere con in testa Dropkick Murphys e Flogging Molly, d’altronde una delle virtù principali di questo tipo di musica non è certo l’originalità, ma la capacità di coivolgere e trascinare l’ascoltatore in canti e balli.
Per una volta lasciamo le terre oscure del metal estremo e le strade bruciate dai pneumatici di macchine nelle quali rimbombano chitarre hard & heavy, per tuffarci nelle verdi valli d’Irlanda con questa band italiana, i The Rumpled.
Il gruppo proveniente da Trento ci invita a ballare sulle note della musica tradizionale dell’isola di smeraldo, in una continua festa, attraversando le valli e i pascoli prima di salpare per un viaggio attraverso l’oceano e portare un po’ di quell’entusiasmo e l’energia tipiche della musica originaria di quelle lande.
Nato nel 2013 e con un ep autoprodotto alle spalle uscito tre anni fa, il gruppo licenzia il suo primo full length, questo irresistibile Ashes and Wishes, raccolta di brani folk/rock che seguono la scia dei nomi storici del genere, con accenni al punk diretto e senza fronzoli in un delirio festaiolo che coinvolge fin dalla prima nota dell’opener Rumpled Time.
Oltre ai The Pogues, le ispirazioni sono quelle classiche dei gruppi del genere con in testa Dropkick Murphys e Flogging Molly, d’altronde una delle virtù principali di questo tipo di musica non è certo l’originalità, ma la capacità di coivolgere e trascinare l’ascoltatore in canti e balli. Ashes And Wishes è un vero spasso, i brani si alternano uno dopo l’altro con il compito di divertire, ed è così che tra una Jig Of Death, The Ugly Side o Ramblin’ On si arriva a far mattina, storditi dalla birra e sfiniti ma felici per l’energia sprigionata nel saltare avanti e indietro senza soluzione di continuità.
I The Rumpled porteranno l’album in giro per nei principali Festival Celtici di tutta Italia durante l’estate, quindi il consiglio è di non perdervi almeno un’ora e mezza di serenità.
Tracklist
1.Rumpled Time
2.Just Say No!
3.Jig Of Death
4.I Wanna Know
5.The Ugly Side
6.Don’t Follow Me
7.County Clare
8.Bang!
9.Dead Man Runnin’
10.Ramblin’ On
11.Letter To You
Seconda mastodontica opera del gruppo svedese dedicata alla celebrazione del Sole,fonte di vita per natura e uomini: black e folk ancestrale creano emozioni intense e dal fascino incredibile.
E’ molto coraggiosa la scelta degli svedesi Bhleg di proporre un doppio album come loro seconda opera in un mondo che vive veloce, che raramente si sofferma nel vivere emozioni, dolori e gioie: due dischi, novantotto minuti di suoni intensi e creativi, rappresentano una sfida di pazienza che molti non vogliono intraprendere.
E’ un peccato che tante note, tanti colori, tante emozioni potranno essere patrimonio di pochi fortunati che non si lasceranno intimorire dalla mole dell’opera; certe forme di black metal, in questo caso miscelate con antichi aromi folk, hanno bisogno di ripetuti ascolti, del giusto mood per poter essere comprese e apprezzate per entrare sotto pelle. Il duo svedese ha impiegato quattro anni per dare seguito al debutto “Draumr ást”, discreto e passato inosservato e ci presenta un’opera dedicata alla celebrazione del Sole visto come fonte di vita per la natura e gli uomini.
I testi in svedese rappresentano sicuramente un ostacolo per la totale comprensione ma la musica, non avanguardistica o sperimentale, traccia emozioni intense creando un percorso frastagliato nella natura dove pulsa una vitalità ancora incorrotta.
Intarsi di folklore ancestrale attraversano tutti i brani e delineano melodie che talvolta emergono nitide e terse, e altre volte rimangono appena percepibili nel tessuto black, sempre modulato su ritmi non particolarmente veloci; lo scream aspro è coinvolgente e mantiene alta la tensione.
I brani sono lunghi, raccontano un rituale e hanno interessanti e malinconiche parti chitarristiche svolte secondo i canoni del genere, mostrando atmosfere rimembranti il gelo e la freddezza della old school scandinava.
Composto durante la stagione estiva, tranne alcune parti durante il solstizio di inverno e registrato durante le ore più luminose del giorno, il disco mantiene alta l’attenzione durante la sua notevole durata a patto di avere il tempo giusto da dedicare; un frettoloso ascolto lascerà del tutto indifferenti e non farà apprezzare fino in fondo il gusto melodico, i chorus evocativi, i suoni creati dagli strumenti antichi utilizzati.
Ogni brano ha qualche caratteristica particolare, i suoni ambient di Skuggspel screziati da un synth immaginifico si aprono nella dolce fierezza di Solvagnens flykt, mentre gli arpeggi folk dell’ opener Alvstrale dimostrano una grande classe e confluiscono nelle note cariche di Sunnanljus di cui esiste anche un video.
In definitiva opera interessante che ricorda in alcune parti gli Ulver del capolavoro del 1995 “Bergtatt”.
Il giusto e splendido tributo a due grandi immortali della musica novecentesca, senza se e senza ma, omaggiati da una pletora di artisti di spessore.
Nel 1977, appena trentenne, moriva in un incidente d’auto Marc Bolan. Nell’inverno del 2016, quasi 40 anni dopo, se n’è andato David Bowie.
Ai due immensi artisti (nel senso vero della parola), che nel 1971 – con Electric Warrior il primo, con Hunky Dory il secondo – inventarono il glam rock, oggi rende omaggio la Black Widow di Genova. E lo fa con un cofanetto tributo davvero entusiasmante: tre CD, un poster, un magnifico libretto illustrativo in formato 45 giri ed una spilla. Ad omaggiare Bolan e Bowie, la label ligure ha chiamato gruppi e solisti (non solo della propria scuderia) di area prog, hard rock, folk, doom e dark. E’ davvero straordinario ascoltare, alle prese con Bolan e Bowie,Paul Roland, Bari Watts, Adrian Shaw, i Danse Society, i Kingdom Come di Victor Peraino,Franck Carducci, i Death SS, i Presence e La Fabbrica dell’Assoluto (nel primo cd), Joe Hasselvander (ex di Pentagram e Raven), i Blooding Mask, il Segno del Comando, gli Aradia di Sophya Baccini, Silvia Cesana e la sua band, gli Oak, i Witchwood e gli Elohim (nel secondo cd), i Northwinds, i General Stratocuster & the Marshals, Freddy Delirio, i Mugshots, gli Electric Swan, Rama Amoeba, i Blue Dawn e i Landskap (nel terzo ed ultimo cd). In tutto sono 59 canzoni: ogni classico di Bowie e dei T. Rex è presente e non mancano inoltre le sorprese. Commentare ogni singolo rifacimento è certo impresa impossibile e non intendo rovinare il piacere all’ascoltatore. Una cosa, però, va detta: ogni artista o band rispetta fedelmente l’originale, rileggendolo comunque in chiave personale e creativa, senza snaturarlo e portando, semmai, il bagaglio musicale del proprio stile o genere d’appartenenza: scusate se è poco! Un’opera magna e doverosa, che tributa il genio e il suo ruolo nella storia.
Tracklist
CD 1
1. PAUL ROLAND Meadows Of The Sea
2. PAUL ROLAND The Prettiest Star
3. BARI WATTS By the light of a magical moon
4. BARI WATTS Lady Stardust
5. ADRIAN SHAW Jeepster
6. ADRIAN SHAW It’s ain’t easy
7. THE DANSE SOCIETY Ride A White Swan
8. THE DANSE SOCIETY Scary Monster
9. V. PERAINO KINGDOM COME Monolith
10. V. PERAINO KINGDOM COME Panic In Detroit
11. La FABBRICA DELL’ASSOLUTO Metropolis
12. La FABBRICA DELL’ASSOLUTO Big Brother
13. DEATH SS 20th Century Boy
14. DEATH SS Cat People (Cutting Out Fire)
15. PRESENCE Children Of The Revolution
16. PRESENCE We are the dead
17. FRANCK CARDUCCI The Slider
18. FRANCK CARDUCCI Life On Mars
CD 2
19. THE HOUNDS OF HASSELVANDER Chariot Choogle
20. THE HOUNDS OF HASSELVANDER Cracked Actor
21. BLOODING MASK Beltane Walk
22. BLOODING MASK The Hear’st Filthy Lesson
23. IL SEGNO DEL COMANDO Mambo Sun
24. IL SEGNO DEL COMANDO Ashes To Ashes
25. SOPHYA BACCINI’S ARADIA Cosmic Dancer
26. SOPHYA BACCINI’S ARADIA Velvet Goldmine
27. SILVIA CESANA Girl
28. SILVIA CESANA Heroes
29. O.A.K. Cat Black
30. O.A.K. The man who sold the world
31. WITCHWOOD Child Star
32. WITCHWOOD Rock’n’roll Suicide
33. ELOHIM Ride A White Swan
34. ELOHIM Let’s dance
CD 3
35. NORTHWINDS Childe
36. NORTHWINDS Space Oddity
37. FREDDY DELIRIO Buick Mackane
38. FREDDY DELIRIO Rebel Rebel
39. GENERAL STRATOCUSTER & The MARSHALS Metal Guru
40. GENERAL STRATOCUSTER & The MARSHALS Moonage Daydream
41. THE MUGSHOTS Pain And Love
42. THE MUGSHOTS China Girl
43. ELECTRIC SWAN Midnight
44. RAMA AMOEBA Telegram Sam
45. RAMA AMOEBA Dandy in the Underworld
46. LANDSKAP Ballroom Of Mars
47. LANDSKAP Look Back In Anger
48. BLUE DAWN Rip Off
49. BLUE DAWN Warszawa
E’ realmente necessario che ogni ascoltatore “open minded” trovi un po’ di tempo da dedicare ad un’opera così affascinante di dark/folk intriso di black metal.
Dopo uno iato temporale di dieci anni, dopo una meraviglia come Mieli Maassa, uscito nel 2007, riemerge Häive, la creatura con cui esplora il suo mondo musicale il musicista finnico Janne ‘Varjosielu’ Väätäinen, che suona ogni strumento ed è accompagnato in alcune session vocali da Noitavasara.
Fin dalla cover, veramente splendida e particolare, siamo introdotti in un mondo magico di suoni e oscurità, dove l’artista esplora temi come la natura, la disperazione e l’oblio attraverso un intenso suono folk immerso in note black metal evocative e ricche di atmosfera. Otto brani, quaranta minuti di musica fuori dal tempo che non ha bisogno di furia e di tempi veloci per sviluppare il viaggio dell’artista; qui ci sono cristalline melodie folk, che si appoggiano su mid tempo intensi, fluidi e carichi di energia. Chi ha conosciuto e apprezzato la precedente release rimarrà, ancora una volta, estasiato, come il sottoscritto, di fronte alla grande capacità compositiva dell’artista, capace di variare le atmosfere all’interno dei brani, come nel terzo brano Lapin Kula, dove uno scream deciso accompagna una tersa melodia pregna di oscurità per poi, dopo un solo con aromi heavy metal, sfrangiarsi in note dark folk e aprirsi in note di chitarra molto evocative e desolate.
Le vocals sono in finnico e aggiungono un fascino peculiare ed arcano all’intero lavoro, donando quell’unicità, quella sensazione di un lavoro fuori dal tempo; qui non ci sono segnali di suoni classicamente atmosferici o parti post black, ma solo il viaggio di un musicista unico, dotato di classe cristallina, alla ricerca di una personale via per esprimere la sua visione della natura: la copertina interna del cd è esplicativa, con il musicista che ammira l’invernale natura incontaminata della sua terra. E’ realmente necessario che ogni ascoltatore “open minded” trovi un po’ di tempo da dedicare ad un’opera così affascinante, perché non resterà assolutamente deluso e attenderà pazientemente altri dieci anni per riassaporare queste emozioni uniche.
Tracklist
1. Iätön (Ageless)
2. Turma (Ruin)
3. Lapin Kouta (Kouta from Lapland)
4. Kuku, kultainen käkeni (Sing My Golden Bird)
5. Tuulen sanat (The Spell of Wind)
6. Salojen saari (Esoteric Isle)
7. Tuonen lehto, öinen lehto (Grove of Tuoni, Grove of Evening)
8. Virsi tammikuinen (Song of January)
Colmo di riferimenti alla cultura Indù ed alla sacra Trimurti, Samudra è uno scrigno colmo di sorprese, con una band che tecnicamente lascia a bocca aperta riuscendo con grande disinvoltura a far convivere generi apparentemente lontani tra loro.
Cercando nel vasto mondo del metal se ne trovano di gioielli musicali, basta avere voglia di non fermarsi in superficie e scavare in un sottosuolo dove si muovono realtà sconosciute ai più ma di altissimo valore.
Senza paraocchi e con una visione della musica a 360° si possono fare piacevolissimi incontri, sotto forma di gruppi autori di lavori sorprendenti come per esempio i russi Kartikeya con questa bellissima opera estrema dal titolo Samudra.
Ispirato concettualmente alla religione indù, l’album è un concept che si sviluppa in settanta minuti di metal estremo progressivo, il Carnatic Metal come lo chiamano loro, una straordinaria alleanza tra blackened death metal, progressive e folk che sfocia in un saliscendi artistico, un’altalena di emozioni tra tempeste estreme, bellissime parti progressive e suggestive atmosfere folk di origine indiane e arabe.
Colmo di riferimenti alla religione della Sacra Trimurti, Samudra è uno scrigno colmo di sorprese, la band che tecnicamente lascia a bocca aperta riesce con clamorosa disinvoltura a far convivere generi apparentemente lontani tra loro in un sound che tiene incollati alle cuffie, bellissimo esempio di come il metal sia tutt’altro che un genere conservatore come vorrebbe qualcuno ma che, anzi, in questi anni si è trasformato, grazie a gruppi come il sestetto moscovita, in musica camaleontica ed estremamente volubile.
In Russia, come in India, i gruppi sono meno legati alle regole di mercato statunitensi ed europee, così che è facile incontrare realtà di levatura superiore ed assolutamente fuori da qualsivoglia ambizione commerciale; qui a parlare è la musica, con brani fuori dagli schemi e di una bellezza disarmante come Tandava,Mask Of The Blind, Kannada – Munjaaneddu Kumbaaranna (con l’ospite Karl Sanders, leader dei Nile) e i tredici minuti progressivamente estremi di Dharma, Pt. 2 – Into the Tranquil Skies.
Orphaned Land e Melechesh, ma rimanendo in ambito molto più underground e nel territorio indiano, Demonic Resurrection e Fragarak, sono le band accostabili a questi sei geniali musicisti russi, giusto per fornire qualche coordinata in più a chi si volesse accostare a questo magnifico lavoro.
Tracklist
1. Dharma pt. 1 – Into The Sacred Waves
2. Tandava
3. Durga Puja
4. Pranama
5. The Horrors Of Home (feat. Keith Merrow)
6. Mask Of The Blind
7. Samudra
8. The Golden Blades
9. We Shall Never Die
10. Kannada – Munjaaneddu Kumbaaranna (feat. Sai Shankar & Karl Sanders / Nile)
11. Tunnels Of Naraka (feat. David Maxim Micic)
12. The Crimson Age 13. Kumari Kandam
14. Dharma pt. 2 – Into The Tranquil Skies
Line-up
Anton Mars – Vocals
Roman Arsafes – Guitars, Vocals, Ethnic Instruments
Sasha Miro – Bass
Misha Talanov – Violin
Dmitriy Drevo – Percussion
Alex Smirnov – Drums
Within The Swirl Of Black Vigor è un album caldamente consigliato agli estimatori del pagan folk black.
Zgard è uno dei molti progetti solisti gestiti da musicisti dalla prolificità superiore alla norma, in quanto tale si può considerare la media di un full length pubblicato per ogni anno di attività, anche se come abbiamo constatato in questi anni c’è chi riesce a produrre musica in maniera ben più compulsiva.
Nello specifico l’ucraino Yaromisl è appunto uno tra quelli che si segnala per la non troppo scontata capacità di coniugare quantità e qualità: il primo incontro con l’operato degli Zgard risale al 2012 con l’uscita di Astral Glow, nel quale veniva esibito un pagan folk black di assoluta sostanza ed oggi li ritroviamo con Within The Swirl Of Black Vigor, che giunge dopo altri due full length, Contemplation e Totem.
Il percorso stilistico di Yaromisl si va a comporre così di un nuovo tassello che mostra anche alcune differenze rispetto al passato, assumendo sembianze maggiormente orientate al pagan pur senza perdere le proprie connotazioni folk: il tutto pare giovare ulteriormente per quanto riguarda la resa finale, in quanto favorisce l’approdo ad un sound che fa proprie le pulsioni derivanti da gradi interpreti del genere come Moonsorrow e Negura Bunget, infondendovi però caratteristiche peculiari delle tradizione musicale ucraina, grazia anche al ricorso a diversi strumenti tradizionali (oltre a quelli a corde, troviamo un particolare flauto denominato sopilka, e la drymba, che è un po’ l’equivalente del nostro scacciapensieri).
Per questo lavoro Yaromisl si fa aiutare dal vocalist Dusk e dal batterista Lycane, andando a formare un trio capace di imprimere ritmo ed intensità ai vari brani; basti sentire a tale proposito una traccia come Confession of Voiceless, dal crescendo furioso e coinvolgente, oppure la “moonsorrowiana” e splendida Where the Stones Drone, per rendersi conto di quanto Within The Swirl Of Black Vigor sia un album imperdibile per gli estimatori del pagan folk black.
Se Astral Glow era già un album interessante ma che mostrava ancora ampi margini di miglioramento, quanto fatto da Yaromisl in questi cinque anni ha reso gli Zgard una tra le migliori realtà del genere, rendendola una credibile alternativa alle grandi band citate quali riferimento.
Tracklist:
1. Dive into the night (intro) [Занурення в ніч]
2. Forgotten [Забутий]
3. Confession of voiceless [Сповідь німого]
4. Frozen space [Замерзлий простір]
5. Where the stones drone [Там де камні гудуть]
6. KoloSlovo [КолоСлово]
7. Cold bonfire [Холодна ватра]
8. Winter lullaby [Колискова зими
Line-up:
Yaromisl – rhythm, solo, bass and acoustic guitar, sopilka, drymba, keyboards, back and clean vocals
Per tutto Dodecapoli aleggia uno spirito antico che ha trovato il modo di esprimersi con una musica violenta e catartica, che ci mostra la magia e la forza di un popolo unico nella storia.
Nuovo e sempre più estremo assalto sonoro dei Voltumna, una delle band di punta del panorama black metal italiano.
Il gruppo viterbese usa il black death metal come linguaggio per raccontarci la storia di un popolo misterioso ai nostri occhi moderni ma molto più dentro di noi ai misteri che ci circondano. I Voltumna con Dodecapoli toccano, come dicono loro stessi, il punto più estremo della loro discografia, ma ne è sicuramente anche la vetta più alta. Il disco possiede una bellissima furia black/death metal, spazza via tutto e accentra su di sé l’attenzione. Il percorso di questo gruppo non è mai stato comune o normale, con la musica e i testi ha sempre suscitato qualcosa di diverso: questa volta ci fa avventurare nella storia della federazione sacra delle dodici città etrusche, narrandoci avvenimenti ormai dimenticati di un’epoca che meriterebbe ben altra considerazione, perché gli Etruschi possedevano una sapienza che abbiamo perso, e questo è tra le cose all’origine della frattura fra noi e la nostra anima. La Dodecapoli etrusca è una storia davvero interessante e, narrata con la passione e la musica dei Voltumna, assume un significato ancora maggiore. Il disco è incredibile per intensità e forza di un black che si congiunge perfettamente con il death, e viceversa. Ci sono momenti di epicità notevoli, specialmente quando entrano in campo musiche tipiche del popolo etrusco, e il vortice dei Voltumna diventa un groviglio di magia antica. Per tutto Dodecapoli aleggia uno spirito antico che ha trovato il modo di esprimersi con una musica violenta e catartica che ci mostra la magia e la forza di un popolo unico nella storia. Semplicemente uno dei nostri migliori gruppi metal.
Tracklist
1.The Lion, The Goat, The Serpent
2.Itinere Inferi
3.Reading The Flames
4.In Principium Tarquinii
5.Criterion Of The Groma
6.Fanum Voltumnae
7.Lars Porsenna
8.Perdidit Veii
9.Cyclopean Walls
10.War Of Supremacy
11.Vessels Of Rasna
12.The Path To Our Twilight
Tosten Larson ci offre un sound tipicamente americano, con un incedere cantautorale e venato di blues che nasconde una vena inquieta e malinconica.
The Dark Red Seed è il nuovo progetto solista promosso dal chitarrista di Portland Tosten Larson, appartenente alla band che accompagna dal vivo l’estroso King Dude: come sempre la Prophecy porta alla luce realtà che si muovono lungo i confini del rock e del metal, fornendo interpretazioni per lo più di grande interesse e che hanno anche il pregio di consentire ai più curiosi di ampliare la propria gamma di ascolti.
Il breve ep intitolato Stands With Death, come si può intuire dal titolo, verte sul rapporto dell’uomo con la morte; un argomento, questo, che in molti hanno già sviscerato ma che offre sempre sfaccettature mai banali a seconda delle angolazioni dal quale lo si guarda: Larson offre una sua visione che vorrebbe essere di serena accettazione ma che non nasconde, però, quel velo d’inquietudine corrispondente all’isolata nuvoletta che improvvisamente oscura il sole in una giornata apparentemente serena.
Il musicista statunitense veicola tutte queste sensazioni attraverso un sound tipicamente americano, con l’incedere cantautorale e venato di blues soprattutto nel primo brano The Antagonist, mentre già in The Tragedy of Ålesund una prima parte più rarefatta viene percossa da un improvvisa sfuriata elettrica; molto più robusta senz’altro la conclusiva The Master and the Slave, che dopo un inizio non esaltante si immerge nella sua seconda metà in un’apprezzabile atmosfera psichedelica.
Personalmente prediligo il bravo Larson quando assume le sembianze di un moderno Johnny Cash, come fa ottimamente nella prima parte di questo breve lavoro: vedremo cosa sarà in grado di offrirci quando nella prossima estate dovrebbe essere realizzato un primo full length a nome The Dark Red Seed, alla luce delle buone basi gettate con Stands With Death.
Tracklist:
1.The Antagonist
2.The Tragedy of Ålesund
3.The Master and the Slave
La band di Stoccolma ci trasporta nel proprio mondo, molto meno oscuro e misantropico rispetto alle abitudini del genere, privilegiando invece un impatto più diretto e ricco di ampie aperture epiche e melodiche.
Dalla Svezia ecco arrivare i Wormwood, portatori di un black metal melodico e dalle sfumature viking/folk.
Come sempre, in questi casi l’attenzione va posta sulla bontà compositiva ed esecutiva della proposta piuttosto che sulla sua originalità e, in tal senso, Ghostlands:Wounds from a Bleeding Earthnon delude affatto: in circa un’ora la band di Stoccolma ci trasporta nel proprio mondo, molto meno oscuro e misantropico rispetto alle abitudini del genere, privilegiando invece un impatto più diretto e come detto ricco di ampie aperture melodiche.
L’album si snoda con grande efficacia, specialmente nei più efficaci ed incalzanti brani iniziali, lasciando sfogare al meglio una magnifica vena epica che, dopo una parte centrale pervasa maggiormente da una componente folk, con la comunque bella accoppiata Silverdimmans återsken / Tidh ok ödhe, per poi riprendere nuovamente con un incedere dai tratti più marcatamente viking.
Il fatto stesso che Rydsheim, chitarrista e fondatore della band assieme alla copia ritmica Borka/Jothun, suoni stabilmente dal vivo negli storici Månegarm non è certo un caso, e il risultato fa capire come l’influsso dei nomi più importanti sia stato sicuramente ben assimilato, perché non accade così frequentemente che un full length d’esordio si dimostri così maturo e ben focalizzato a livello compositivo.
Peccato solo che il posizionamento in scaletta, subito dopo l’intro, di un brano perfetto e di sfolgorante bellezza come The Universe Is Dying finisca leggermente per offuscare con la sua luce il resto di un lavoro che si mantiene, costantemente, su una soglia d’eccellenza senza denotare particoloari cali di tensione.
I Wormwood, con Ghostlands:Wounds from a Bleeding Earth, si propongono come nuovi potenziali protagonisti della fertile scena viking/folk black scandinava.
Tracklist:
1. Gjallarhornet
2. The Universe Is Dying
3. Under hennes vingslag
4. Godless Serenade
5. Oceans
6. Silverdimmans återsken
7. Tidh ok ödhe
8. Beneath Ravens and Bones
9. The Windmill
10. What We Lost in the Mist
11. The Boneless One
12. To Worship
Line up:
Borka – Bass
Johtun – Drums
Nox – Guitars
Rydsheim – Guitars
Nine – Vocals
Questa opera è davvero ciò che dice il titolo, ricordi di un altro mondo, e il disco è la narrazione folclorica di questo mondo che è dentro di noi.
Sono passati dieci anni dalla data di pubblicazione di questo flusso onirico messo in musica, di un disco che ha sparigliato tutte le carte, di uno dei dischi preferiti da molti, come Pitchfork che lo ha inserito nella classifica dei migliori dischi di shoegaze di sempre.
In origine Souvenirs D’Un Autre Mond dovevca essere un breve progetto solista di Neige, chitarrista dei Peste Noire e dei Forgotten Woods, ma questo disco ha cambiato tutto, e ora Alcest è un nome consolidato nel metal altro.
Questa opera rielaborava in maniera molto personale sonorità che fino a quel momento si erano incontrate solo sporadicamente, come il post black metal, che è uno sviluppo del black metal, uno sfruttare alcune sue caratteristiche per portare avanti una musica di più ampio respiro. Lo shoegaze è un grande protagonista di questo disco, quel muro del suono che porta a galla il nostro subconscio e che qui si sposa benissimo con sfuriate black metal. La voce di Neige è un sogno nel sogno, come se qualcuno ci parlasse nell’orecchio durante il sonno. Come nelle opere maggiori delle arti, c’è un ribaltamento fra realtà e sogno, i piani si capovolgono e veniamo catturati da un’altra dimensione, nella quale il dolore e la gioia sono puri e un senso di leggerezza permea tutto. L’immaginario di questo disco è fortemente francese, infatti i cari significati sono occulti e le canzoni sono brevi romanzi di cose che nell’esagono sono molto sentite.
Come ristampa ci saranno varie sorprese sia per l’edizione in cd che per quella in vinile, come la copertina originale della prima stampa su lp, un libretto sull’anniversario, foto inedite, commenti di Andy Julia, il fotografo che è praticamente un membro del gruppo, e di Aaron Weaver dei Wolves In The Throne Room per testimoniare l’enorme influenza di questo disco.
Soprattutto ci sarà questo capolavoro che ci fa tornare bambini, un disco profondamente diverso e quasi perfetto, in grado di scatenare tempeste di emozioni, e che chiede solo di toglierci le zavorre e di chiudere gli occhi, perché questa opera è davvero ciò che dice il titolo, ricordi di un altro mondo, e il disco è la narrazione folclorica di questo mondo che è dentro di noi.
Tracklist
1. Printemps Émeraude
2. Souvenirs d’un autre monde
3. Les Iris
4. Ciel Errant
5. Sur l’autre rive je t’attendrai
6. Tir Nan Og
Line-up
Neige : guitars/bass, synths and vocals
Winterhalter : drums
Gli undici brani contenuti in The Sea I’m Diving sono altrettante pennellate dalle tonalità pastello che cullano l’ascoltatore.
I tedeschi Neun Welten ritornano con il loro terzo full length, a ben otto anni di distanza dal precedente Destrunken.
Gli undici brani contenuti in The Sea I’m Diving sono altrettante pennellate dalle tonalità pastello che cullano l’ascoltatore attraverso la voce e la chitarra di Meinolf Müller, il violino ed il piano di Aline Deinert ed il violoncello, la chitarra ed il basso di David Zaubitzer: la profonda connessione con tematiche naturalistiche (in questo caso con l’acqua quale elemento cardine a livello lirico) è percepibile in ogni singolo passaggio in quanto, nonostante l’approdo ad una più tradizionale forma canzone, le modifiche intervenute nel “mondo” dei Neun Welten non hanno affatto stravolto quella che è sempre stata l’essenza primaria della loro forza compositiva.
Momenti di alto lirismo si vanno ad intrecciare, così, con altri nei quali la voce quasi sussurrata di Müller accarezza i timpani; indubbiamente la musica del trio è rivolta a chi vuole trovare un’oasi di pace, pur se virtuale, una sorta di immaginaria radura all’interno della foresta nella quale giacere e meditare, magari consentendo ad un pizzico di malinconia di illanguidire l‘animo.
Il sound dei Neun Welten è pura poesia, ed il gradito inserimento delle parti vocali rende ancor più tangibile tale aspetto facendo sì che canzoni splendide come Drowning,Nocturnal Rhymes, Human Fail e la più post rock oriented In Mourning siano solo i picchi di un’opera da godersi nella sua interezza e con la giusta predisposizione: l’arricchimento, sia morale che musicale, è assolutamente garantito …
Tracklist:
01. Intro
02. Drowning
03. The Dying Swan
04. Cursed
05. Nocturnal Rhymes
06. Floating Mind
07. Earth Vein
08. Lonesome October
09. Lorn
10. Human Fail
11. In Mourning
Line-up:
Aline Deinert : Violin, Piano
David Zaubitzer : Guitar, Cello, Bass
Meinolf Müller : Guitar, Vocals
Der Rote Reiter è un lavoro brillante, forse leggermente prolisso ma ricco comunque di un novero di canzoni di grande spessore e all’insegna di una creatività che non si è andata affatto spegnendo nel corso del tempo.
I Die Apokalyptischen Reiter arrivano al loro decimo full length, un traguardo ragguardevole per una band dalla storia ultraventennale, tanto più se all’insegna dell’anticonvenzionalità unita ad un elevato livello medio.
Probabilmente l’effetto sorpresa che rendeva irrinunciabili lavori come Samurai e Riders Of The Storm è venuto un po’ meno, complice anche un progressivo indurimento del sound che ha portato i nostri in più di un frangente ad avvicinare stilisticamente i connazionali Rammstein, dai quali comunque divergono per un approccio più scanzonato e in generale più rock oriented.
In ogni caso Der Rote Reiter è un lavoro brillante, forse leggermente prolisso ma ricco comunque di un novero di canzoni di grande spessore e contraddistinto da una creatività che non si è andata affatto spegnendo nel corso del tempo.
Come per le migliori band, quello che fa la differenza è un’impronta personale che resta a prescindere dal diverso approccio che si può riscontrare prendendo in esame i singoli album, e questo viene confermato fin dalle prime note di Wir sind zurück, brano DAR al 100%, furiosamente melodico ed accattivante, mentre la più violenta ed anche cupa title track rappresenta uno dei corrispettivi più metallici del lavoro.
Con Auf und nieder si torna a quelle melodie chitarristiche vagamente folk che fungono da prologo ad una struttura fortemente orecchiabile ed esibiscono in maniera più esplicita il trademark della band, che poi si lascia andare ad un’altra traccia fortemente rammsteiniana come Hört mich an, dove comunque sia l’utilizzo della chitarra in fase solista e la grande versatilità vocale di Fuchs mantengono il sound a distanza di sicurezza da quello tipico del gruppo berlinese.
Del resto se, in The Great Experience of Ecstasy, l’ingannevole punk hardcore iniziale prelude ad un finale altamente evocativo, con la magnifica Herz In Flamme si finisce addirittura dalle parti del death melodico, mentre la solennità del chorus all’interno del disturbato incedere di Ich nehm dir deine Welt prelude alla chiusura rappresentata dalla gradevole ballata Ich werd bleiben.
I Die Apokalyptischen Reiter fanno parte di quella categoria di band che non lasciano indifferenti, nel bene o nel male: personalmente, oltre ad amare in maniera illogica l’idioma tedesco applicato al rock ed al metal (pur non capendone una parola) ho sempre apprezzato questo bizzarro combo, considerandolo quale portatore di un’espressione fresca ed originale e, sicuramente, Der Rote Reiter non mi farà recedere da tale giudizio.
Tracklist:
1. Wir sind zurück
2. Der rote Reiter
3. Auf und nieder
4. Folgt uns
5. Hört mich an
6. The Great Experience of Ecstasy
7. Franz Weiss
8. Die Freiheit ist eine Pflicht
9. Herz in Flammen
10. Brüder auf Leben und Tod
11. Ich bin weg
12. Ich nehm dir deine Welt
13. Ich werd bleiben
Line up:
Volk-Man – Bass
Dr. Pest – Keyboards
Fuchs – Vocals, Guitars
Sir G. – Drums
Ady – Guitars
Of Erthe and Axen Act I è diverso dal suo predecessore, ma resta comunque un altro capolavoro rilasciato da questa band di un livello talmente superiore alla media da rendere persino irritante il fatto che non abbia ancora raggiunto il meritato successo planetario.
Per uno che ha considerato Blessed He with Boils uno dei dischi più belli pubblicati in questi decennio, il ritorno al full length degli Xanthohchroid è stata senza dubbio una splendida notizia che nascondeva però anche un sottile filo di inquietudine.
Infatti, il timore che questi giovani e geniali musicisti americani potessero aver smarrito la loro ispirazione in questi lunghi cinque anni era un qualcosa che ha aleggiato fastidiosamente a lungo nei miei pensieri, spazzato via fortunatamente dalle prime note di Of Erthe and Axen Act I, nelle quali persiste quella stessa e unica vena melodica e sinfonica.
Per parlare di questo nuovo parto degli Xanthohchroid è fondamentale partire dal fondo, non del disco ma delle note di presentazione: infatti i nostri, in un una postilla che in un primo tempo mi ero anche perso, raccomandano ai recensori di valutare l’album quale effettiva prima parte di un’opera che vedrà uscire la sua prosecuzione ad ottobre, e, pertanto, il fatto che il sound possa apparire molto meno orientato al metal e più al folk è motivato da un disegno complessivo che prevede un notevole rinforzo delle sonorità in Of Erthe and Axen Act II.
Tutto ciò è molto importante, perché si sarebbe corso il rischio di accreditare la band di una sterzata dal punto di vista stilistico che, invece, dovrà essere eventualmente certificata come tale solo dopo l’ascolto del lavoro di prossima uscita; detto ciò, appare evidente come quelle audaci progressioni, che fondevano la furia del black metal con orchestrazioni di stampo epico/cinematografico, in Act I siano ridotte all’osso, lasciando spazio ad una componente folk e acustica dal livello che, comunque, resta una chimera per la quasi totalità di chiunque provi a cimentarvisi.
Infatti, i brani che riportano in maniera più marcata ai suoni di Blessed He with Boils sono una minoranza, rappresentata essenzialmente da To Higher Climes Where Few Might Stand,The Sound Which Has No Name, e parzialmente, The Sound of Hunger Rises, laddove si ritrova intatta quella potenza di fuoco drammatica e melodica che rende gli Xanthochroid immediatamente riconoscibili in virtù di una peculiarità che non può essere in alcun modo negata; per il resto, Of Erthe and Axen Act Isi muove lungo i solchi di un folk sempre intriso di una malinconia palpabile e guidato dall’intreccio delle bellissime voci di Sam Meador (anche chitarra acustica e tastiere), della moglie Ali (importante novità rispetto al passato) e di Matthew Earl (batteria e flauto).
Detto così sembra può sembrare che questo disco sia di livello inferiore al precedente ma cosi non è: anche nella sua versione più pacata e di ampio respiro la musica degli Xanthochroid mantiene la stessa magia e, anzi, potrebbe persino attrarre nuovi e meritati consensi, rivelandosi per certi versi meno impegnativa da assimilare; quel che è certa ed immutabile è la maturità compositiva raggiunta da una band che si muove ad altezze consentite solo a pochi eletti, andando a surclassare per ispirazione persino quelli che potevano essere considerati inizialmente degli ideali punti di riferimento come gli Wintersun.
Of Erthe and Axen continua a raccontare le vicende che si susseguono in Etymos, mondo parallelo creato da Meador e che nel notevole booklet è illustrato con dovizia di particolari, con tanto di cartina geografica: la storia narrata in questo caso è un prequel rispetto a Blessed He with Boils, ma questi sono particolari, sebbene importanti, destinati a restare in secondo piano rispetto al superlativo aspetto musicale
La formazione odierna ridotta a quattro elementi (assieme ai tre c’è anche Brent Vallefuoco, che si occupa delle parti di chitarra elettrica infarcendo l’album di magnifici assoli) risulta un perfetto condensato di talento e creatività che trova sbocco sia nei già citati episodi più robusti, sia nelle perle acustiche rappresentate da To Lost and Ancient Gardens, In Deep and Wooded Forests of My Youth (per la quale è stato girato dallo stesso Vallefuoco un bellissimo video) e la stupefacente The Sound of a Glinting Blade, che vive di un crescendo emotivo e vocale destinato a confluire nel furente incipit sinfonico della conclusiva The Sound Which Has No Name, andando a creare uno dei passaggi più impressionanti del lavoro.
Se a un primo ascolto l’apparente tranquillità che pervade il sound poteva aver lasciato un minimo di perplessità, il ripetersi dei passaggi nel lettore conferma ampiamente che il valore degli Xanthochroid non è andato affatto disperso, anzi: Of Erthe and Axen Act I è diverso dal suo predecessore, ma resta comunque un altro capolavoro rilasciato da questa band di un livello talmente superiore alla media da rendere persino irritante il fatto che non abbia ancora raggiunto il meritato successo planetario.
Al riguardo, è auspicabile che l’uscita ravvicinata delle due parti di Of Erthe and Axen possa consentire di mantenere viva per più tempo l’attenzione sugli Xanthohchroid, rimediando a questa evidente stortura.
Tracklist:
01. Open The Gates O Forest Keeper
02. To Lost and Ancient Gardens
03. To Higher Climes Where Few Might Stand
04. To Souls Distant and Dreaming
05. In Deep and Wooded Forests of My Youth
06. The Sound of Hunger Rises
07. The Sound of a Glinting Blade
08. The Sound Which Has No Name
Line-up:
Sam Meador – Vocals, Keyboards, Guitars (acoustic)
Matthew Earl – Drums, Flute, Vocals (backing)
Brent Vallefuoco – Guitars (lead), Vocals
Ali Meador – Vocals