La band americana continua il suo viaggio nel mondo del dark/gothic ed anche Mana, come il precedente lavoro, si nutre del buio della notte, un mondo oscuro pregno di atmosfere new wave in potenziata dall’anima heavy metal che agita il sound dei nostri.
Dopo l’ep di debutto licenziato sul finire dello scorso anno, è arrivato il momento anche gli Idle Hands di pubblicare il primo lavoro sulla lunga distanza.
La band americana continua il suo viaggio nel mondo del dark/gothic ed anche Mana, come il precedente lavoro, si nutre del buio della notte, un mondo oscuro pregno di atmosfere new wave in potenziata dall’anima heavy metal che agita il sound dei nostri.
Solo un brano (Blade And The Will) era presente nella track list dell’ep, il resto sono tutti brani inediti e risultano un buon passo in avanti per il gruppo di Portland, che ci avvolge nel suo nero mantello musicale.
Erede del dark rock ottantiano, il sound di questi undici brani ci catapulta nel mondo ombroso dei Sisters Of Mercy, mentre dagli anni novanta gli Idle Hands pescano tra le atmosfere gotiche dei Type 0 Negative per tornare nel decennio precedente, rispolverando l’U.S. metal dei Metal Church in un mix di piacevole metal/rock dalle tinte dark.
La voce segue i canoni del dark rock e della new wave, così da risultare di gradimento per gli amanti del genere; come scritto in precedenza la band ha fatto un passo avanti significativo nel personalizzare il proprio sound, grazie anche ad una track list che risulta di buon livello lungo tutta la durata dell’opera. Jackie, Don’t Waste Your Time e Double Negative i brani più significativi di questo buon lavoro targato Idle Hands, consigliato a chi negli anni ottanta non viveva di solo metal classico.
Tracklist
1. Nightfall
2. Jackie
3. Cosmic Overdrive
4. Don’t Waste Your Time
5. Give Me To The Night
6. Blade And The Will
7. Dragon, Why Do You Cry?
8. Double Negative
9. It’ll Be Over Before You Know It
10. A Single Solemn Rose
11. Mana
Line-up
Gabriel Franco – Vocals, Guitar, Studio Bass
Sebastian Silva – Lead Guitar
Colin Vranizan – Drums
Chasm non è un album che farà epoca ma è anche molto più di un semplice ascolto gradevole: le coordinate essenziali del gothic rock vengono riproposte senza ritrosia e in maniera del tutto competente.
Chasm segna il ritorno dei The Awakening, band del prolifico musicista e produttore sudafricano Ashton Nyte, oggi di stanza in California.
L’impressione derivante dal primo ascolto di quest’album è strana, nel senso che per chiunque abbia amato band come Sisters Of Mercy, Fields Of The Nephilim e The Mission imbattersi nei i primi arpeggi di Other Ghosts e nella voce profonda di Ashton si rivela una sorta di ritorno a casa, che lascia però alla fine di questo primo passaggio un velo di perplessità dovuto soprattutto all’apparentemente eccessiva leggerezza ed orecchiabilità dei brani.
Gli ascolti successivi diventano quindi necessari per far sì che queste dieci canzoni penetrino al di sotto dell’epidermide lasciando le opportune cicatrici. Ashton ha tutta l’esperienza che serve per rimodulare la propria voce ed adattarla a tutte le opportune sfumature del sound proposto: più profondo, tra McCoy e Eldritch, nei brani maggiormente ruvidi ed inquieti, più suadente ed evocativo in quota Murphy-Hussey allorché i brani si fanno più ariosi e melodici.
Del resto, Nyte possiede le necessarie credenziali per permettersi tali riferimenti senza apparire solo un eccellente copista, alla luce delle innumerevoli e importanti collaborazioni che vanta nel corso dell sua ventennale carriera, costellata da una abbondante doppia cifra di album usciti a suo nome o come The Awakening. Chasm non è un album che farà epoca ma è anche molto più di un semplice ascolto gradevole: le coordinate essenziali del gothic rock vengono riproposte senza ritrosia e in maniera così competente da annullare qualsiasi cattivo pensiero relativo alla possibile obsolescenza di queste sonorità.
Ecco quindi il ritorno a casa di cui si parlava all’inizio, tanto più gradito quando l’artista in questione non è solo bravo e brillante nel proprio ambito, ma è anche lodevolmente in prima linea da anni per combattere qualsiasi discriminazione di genere, per cui, almeno per quanto mi riguarda, il piacere nell’ascoltare bellissime canzoni come Shore,About You, Raphael Awake, Gave up the Ghost e Hear Me non può che risultare rafforzato
Tracklist:
1. Other Ghosts
2. Shore
3. About You
4. Raphael Awake
5. Back To Wonderland
6. Gave up the Ghost
7. Savage Freedom
8. A Minor Incision
9. Hear Me
10. Shadows In The Dark
Soli Deo Gloria è stato l’inizio di una lunga avventura che dura tuttora e che ha avuto alti e bassi, ma questo debutto resta fantastico.
Ristampa con bonus per la canadese Artoffact Records del primo disco del fondamentale gruppo di elettronica oscura Apoptygma Berzerk.
Quest’anno il loro debutto ha compiuto 25 anni e molte cose sono successe da quel giorno. Il genere praticato dagli Apoptygma Berzerk è felicemente di difficile identificazione, dato che si viaggia nei grandi territori dell’elettronica oscura, fra ebm e synthwave, e con tantissimi elementi provenienti da altri stili. Una delle cose che risalta maggiormente nello stile del gruppo è l’estrema facilità nel creare melodie belle e coinvolgenti, mantenendo sempre una grande oscurità nella loro musica. In tutto ciò sono stati dei pionieri per moltissime altre formazioni a cui andavano stretti gli abiti di alcuni generi fra i quali l’ebm. Soli Deo Gloriaè l’inizio di una lunga avventura che dura tuttora e che ha avuto alti e bassi, ma questo debutto è fantastico. La maturità e la sicurezza presenti in questo debutto sono incredibili per essere la prima prova di un gruppo, e soprattutto notevolissimo è lo sviluppo di uno stile originale già al primo disco. Il future pop, come definiscono loro stessi il proprio genere, è qui al suo inizio e apice, e ingloba moltissimi elementi, dato che è anche molto presente la componente gotica, specialmente nel gusto di certe tastiere che sembrano periferiche rispetto al tema centrale, mentre invece sono il tema principale loro stesse. I mondi descritti dalla formazione norvegese sono lande desolate di terrore e lascivia, dove gli stessi dei si lasciano andare a cose che non possono essere narrate. In tutto ciò si staglia la musica pressoché perfetta di questo esordio, una vera e propria pietra miliare di diversi generi, ma soprattutto di un’attitudine che ancora oggi segna tantissimi gruppi. Un disco che ha cambiato le regole del gioco, uno di quegli esemplari sonori dopo i quali un certo genere non è più lo stesso. In questa ristampa della canadese Artoffact ci sono inoltre molti bonus che rendono ancora migliore il tutto, ampliando maggiormente lo sguardo. Per chi già conosce il fantastico mondo degli Apoptygma Berzerk questa è l’occasione per tornare alla sorgente di tutto, mentre per chi non li conosce sarà una bellissima e nera sorpresa.
Tracklist
1. Like Blood From The Beloved (Part 1)
2. Bitch
3. Burnin’ Heretic (Album Version)
4. Stitch
5. Walk With Me
6. Backdraft
7. ARP (808 Edit)
8. Spiritual Reality
9. Skyscraping (Schizophreniac)
10. All Tomorrows Parties
11. The Sentinel
12. Ashes To Ashes ’93
13. Like Blood From The Beloved (Part 2)
Bonus tracks:
14 – Borrowed Time (Club Mix)
15 – Burning Heretic (Crisp Version)
16 – The Sentinel (Nun Of Your Business Version by Blackhouse)
17 – Ashes To Ashes (Guitar Version)
18 – ARP
19 – Ashes To Ashes (4-Track Version)
20 – Backdraft (Sarpsborg Synth Version)
Line-up
Stephan Groth
Jonas Groth
Ted Skogman
Audun Stengel
Un mix di Type O Negative, Sisters Of Mercy e Secret Discovery in versione Grand Guignol, con qualche passaggio estremo e modern metal: un buon ascolto per gli amanti dei suoni gothic/dark del nuovo millennio.
Il mondo del rock da Grand Guignol si arricchisce di un altro spettacolo, questa volta offerto da un quartetto di artisti, musicisti ed eleganti anime nere chiamato Silver Dust, capitanato dal chitarrista e cantante Lord Campbell che, tramite la Escudero Records, licenzia la seconda opera della sua carriera intitolata House 21.
Dieci brani (più la cover del classico Bette Davis Eyes portato al successo dalla cantante Kim Carnes e che vede come ospite Mr.Lordi), è quello che ci propongono questi alternative gothic rockers francesi, saliti sul palco di un virtuale teatro nei sobborghi parigini per dar vita al concept di House 21, in un’atmosfera di grigio e nebbioso mondo gotico, animato da accenni al metal moderno, danze tribali ed arrangiamenti magniloquenti che a tratti arricchiscono il sound.
I Silver Dust cercano di variare le atmosfere rimanendo legati ad un mood horror rock convincente, anche se la moltitudine di sfumature che compongono il mondo musicale creato dalla band a tratti porta leggermente fuori tema. The Unknown Soldier, Forever e The Witches Dance sono i brani migliori di questo mix di Type O Negative, Sisters Of Mercy e Secret Discovery in versione Grand Guignol, con qualche passaggio estremo e modern metal: un buon ascolto per gli amanti dei suoni gothic/dark del nuovo millennio.
Tracklist
1.Libera Me
2.The Unknown Soldier
3.House 21
4.Forever
5.Once Upon A Time
6.La La La La
7.Bette Davis Eyes (feat. Mr.Lordi)
8.This War Is Not Mine
9.The Witches Dance
10.It’s Time
11.The Calling
I The Cascades regalano tredici brani davvero gradevoli e ben costruiti, per un risultato finale che non può esser imprescindibile per la sua marcata derivatività ma che resta decisamente pregevole ed oltremodo ben accetto da parte di noi “diversamente giovani”.
Molti tra quelli un po’ meno giovani che, a cavallo tra gli ani ottanta e novanta, si sono beati delle sonorità gotiche che diedero una meritata fama ai Sisters Of Mercy prima e poi ai The Mission, sono inevitabilmente attratti reunion estemporanee, concerti o nuove uscite dagli esiti contraddittori che vedono ancora all’opera antichi eroi come Andrew Eldritch o Wayne Hussey.
A colmare la voglia di riascoltare qualcosa di simile, ma in una verse più attuale, arrivano i tedeschi The Cacasdes, band tutt’altro che composta da giovanotti imberbi, visto che la sua nascita è avvenuta sempre in quei formidabili anni anche se la trentennale carriera è stata molto meno fortunata rispetto a quella dei mostri sacri citati.
Dopo un lungo silenzio il gruppo guidato da Markus Wild ritorna con un lavoro di inediti che si rivela un vero godimento per chi, ai tempi, consumò le proprie copie viniliche di First And Last And Always e Gods’ Own Medicine; da questi questi indizi si può facilmente dedurre che Phoenix potrà avere tuti i pregi di questo mondo fuorché l’originalità ma, sinceramente, non ce ne può importare di meno.
Brani come Dark Daughter’s Diary e Phase 4 entrano sottopelle a grande velocità e fanno precipitare la memoria in un immaginario fatto di personaggi nero vestiti sempre affascinanti e carismatici, anche se a qualcuno oggi potrebbero apparire irrimediabilmente obsoleti.
Essendo un album uscito nel 2018, Phoenix non si nutre esclusivamente di quelle più antiche pulsioni, ma si aggiorna anche alle derive che il gothic sound ha preso in questi tempi, acquisendo il più lascivo incedere melodico dei The 69 Eyes (The World Is Yours) ma anche le asprezze che coincidono soprattutto con gli episodi in lingua madre (Ihr Werdet Sein), senza dimenticare di omaggiare una band formidabile, pur se avulsa da tale contesto, come gli Hüsker Dü coverizzandone in maniera eccellente il brano Diane.
In definitiva, i The Cascades regalano tredici brani davvero gradevoli e ben costruiti, per un risultato finale che non può esser imprescindibile per la sua marcata derivatività ma che resta decisamente pregevole ed oltremodo ben accetto da parte di noi “diversamente giovani”.
Tracklist:
01. Avalanche
02. Blood Is Thicker Than Blonds
03. Dark Daughter’s Diary
04. Phase 4
05. Station No. E
06. Phoenix
07. Behind The Curtain
08. This World Is Yours
09. Superstar
10. Ihr Werdet Sein
11. Zeros And Ones
12. Diane (Hüsker Dü cover)
13. Für F.
Line-up:
M. W. Wild – Vocals
Morientes daSilva – Guitars
Markus Müller – Keyboards / Programming
La grandezza di Oberon risiede nel suo trattare argomenti di grande profondità, rivestendoli di una struttura musicale sicuramente ricercata ma nel contempo alla portata di un pubblico più ampio, proprio in virtù idi un afflato melodico che costituisce l’asse portante di un sound sempre ricco ed originale.
Dopo qualche anno è un vero piacere ritrovare Oberon, il quale mi incantò nel 2014 con il suo Dream Awakening, album che ne segnava il ritorno sulle scene dopo un lunghissimo silenzio.
Il musicista norvegese oggi si ripresenta dopo aver reso il suo antico progetto solista una band vera e propria, ed il risultato che ne scaturisce è un lavoro che se, da un lato, smarrisce in parte quella magia che ne ammantava il predecessore, d’altro canto acquista uno spessore più rock, con diverse divagazioni nel gothic di matrice novantiana, ovviamente in una versione riveduta, corretta ed arricchita dal talento di Bard Titlestad.
Quella che ne consegue è sempre e comunque una prova di livello sublime, grazie ad un lotto di brani affascinanti, vari e ricchi di intuizioni melodiche nei momenti più soffusi, coinvolgenti allorché il passo assume ritmi più spediti.
Inutile dire che almeno per gusto personale la preferenza va a canzoni di cristallina bellezza come To Live To Die, Worlds Apart,Lost Souls, in cui elementi neo folk si mescolano sapientemente a pulsioni cantautorali dalle reminiscenze buckleyane, andando a comporre un magnifico quadro.
Che dire poi della splendida Laniakea, in odore di progressive con il suo fluido lavoro chitarristico, della travolgente Walk In Twilight, della gotica perfezione di The Secret Fire, altri punti di forza di un album ricco dal punto di vista musicale e come sempre profondo anche a livello lirico, visto che per Bard la musica è sempre stata anche (se non soprattutto) il veicolo per esprimere le proprie elaborate convinzioni filosofiche.
Nelle note di accompagnamento si afferma che Oberon vede l’arte come un progetto sciamanico, ma la cosa che più sorprende è che tale obiettivo venga perseguito tramite una forma musicale tutt’altro che ostica o fatta da interminabili composizioni ritualistiche; la grandezza di Bard risiede nel suo trattare argomenti di grande profondità, rivestendoli di una struttura musicale sicuramente ricercata ma nel contempo alla portata di un pubblico più ampio, proprio in virtù idi un afflato melodico che costituisce l’asse portante di un sound sempre ricco ed originale.
Tracklist:
1.Omega
2.Walk In Twilight
3.To Live To Die
4.Black Aura
5.The Secret Fire
6.Worlds Apart
7.Laniakea
8.Surrender
9.Lost Souls
10.Brother Of The Order
11.Magus Of The Dunes
Line-up:
Bard Oberon: vocals, guitars, bass, keyboards, percussion
James F.: guitars
Jan Petter Sketting: guitars, percussion
Tory J. Raugstad: drums
Gazing at the Flocks è un album che merita un’attenzione diversa da quelle che molto spesso viene rivolta nei confronti di estemporanei progetti paralleli; Martyr Lucifer, nonostante il monicker faccia riferimento al singolo musicista, ha tutte le sembianze della band vera e propria e come tale va considerata, con tutte le positività che la cosa implica.
Gazing at the Flocks è il terzo full length marchiato Martyr Lucifer, progetto dell’omonimo leader degli Hortus Animae.
Come avevamo già visto in passato, qui non si rinvengono tracce di black metal bensì un sound maturo e molto curato, a cavallo tra dark wave e gothic con più di una digressione alternative; anche per questo motivo l’album scorre in maniera piuttosto lineare e gradevole, senza necessitare di diversi ascolti per apprezzare i buoni spunti melodici ed i chorus disseminati al suo interno.
Ecco, forse questa ingannevole sensazione di leggerezza può costituire il solo limite di un’opera ben costruita e che vede protagonisti, oltre al musicista romagnolo con il suo timbro profondo e molto adatto al genere, la vocalist ucraina Leìt, l’arcinoto Adrian Erlandsson alla batteria e l’ottimo ungherese Nagaarum alla chitarra, oltra a Simone Mularoni a fornire il proprio contributo in sala d’incisione non solo al di là del vetro ma anche al basso.
Il risultato è quindi oltremodo soddisfacente, tanto più dopo aver constatato che, in effetti, ad ogni successivo passaggio nel lettore molti brani rivelano interessanti sfumature sfuggite al primo approccio; se, da una parte, non ci troviamo di fronte ad un’opera epocale, va dato atto a Martyr Lucifer d’aver assemblato un lavoro privo di particolari punti deboli ma, semmai, con diversi picchi rappresentati dalla suadente Benighted & Begotten (notevole il duetto vocale) e le centrali Feeders, aka Heterotrophy / Saprotrophy e Leda and the Swan Pt. 1; resta, alla fine l’impressione d’aver ascoltato musica di qualità, collocabile senz’altro nella scia delle band guida del genere (Tiamat, The 69 Eyes) ma anche, a tratti, del Peter Murphy solista, il che è indicativo di un’oscurità diffusa che avvolge Gazing at the Flocksconferendogli un’aura a suo modo differente rispetto ai modelli citati.
In buona sostanza Gazing at the Flocks è un album che merita un’attenzione diversa da quelle che molto spesso viene rivolta nei confronti di estemporanei progetti paralleli; Martyr Lucifer, nonostante il monicker faccia riferimento al singolo musicista, ha tutte le sembianze della band vera e propria e come tale va considerata, con tutte le positività che la cosa implica.
Tracklist:
1. Veins of Sand Pt. 1
2. Veins of Sand Pt. 2
3. Bloodwaters
4. Feeders, aka Heterotrophy / Saprotrophy
5. Leda and the Swan Pt. 1
6. Leda and the Swan Pt. 2
7. Wolf of the Gods
8. Somebody Super Like You
9. Benighted & Begotten
10. Spiderqueen
11. Flocks
12. Halkyónē’s Legacy, aka The Song of Empty Heavens
Burning Past è una piacevole sorpresa in arrivo da uno dei paesi del Sudamerica meno conosciuti in ambito metal/rock, e se amate il genere il consiglio è quello di non perdervelo.
Hard rock melodico di classe attraversato da una vena gotica e romantica per una raccolta di brani piacevolmente raffinati racchiusi in una quarantina di minuti.
Loro sono i Mindwalker, progetto del musicista peruviano Daniel Roman (Battlerage / Valkiria) e Burning Pastè il secondo lavoro sulla lunga distanza dopo l’esordio licenziato un paio di anni fa (Walking Alone).
Accompagnato dal singer Chris Clancy (Mutiny Within/Wearing Scars) Roman crea un sound molto intrigante, sempre in bilico tra la decadenza romantica del gothic/dark moderno e l’hard rock melodico, con il vocalist che interpreta le tracce con il dovuto trasporto, e le tastiere che ricamano tappeti musicali su cui poggia tutta la struttura del sound.
Burning Past non rinuncia alla giusta dose di grinta hard & heavy, la chitarra tiene le ritmiche alte, specialmente nei brani più grintosi, anche se l’eleganza del songwriting fa dell’album un ottimo esempio di rock melodico. Street Of Dust apre le danze entrando subito nel vivo, con tastiere e chitarra in evidenza così come l’ottima interpretazione di Clancy che fanno di Burned To A Crisp e Heart Of Stone piccoli gioielli gothic rock, nei quali le raffinate melodie fanno la differenza.
Cercando di trovare degli utili paragoni per i lettori, direi che siamo al cospetto di un sound che unisce le parti meno progressive dei Nightingale di Dan Swano con gli Him e i Sentenced più melodici (Chains Of Fear). Burning Past è una piacevole sorpresa in arrivo da uno dei paesi del Sudamerica meno conosciuti in ambito metal/rock, e se amate il genere il consiglio è quello di non perdervelo.
Tracklist
1.Street Of Dust
2.Fearlessly
3.Burned To A Crisp
4.Mad World
5.Heart Of Stone
6.Puppeteers
7.I Can´t Breathe
8.Signs
9.Chains Of Fear
10.Nothing There
Line-up
Daniel Roman – Composed , recorded , mixed and mastered
Chris Clancy – Vocals
Mike Lukanz – Drums
Asleep With Your Devil ci presenta una manciata di brani piacevoli: la band appare più a suo agio quando indurisce i suoni, e questa è la strada da seguire in previsione di un futuro full length per viaggiare sicura tra le notturne vie del gothic metal.
I The Creppter Children sono un duo proveniente da Melbourne, attivo dal 2006 e con un full length all’attivo uscito tre anni dopo (Possessed), formato dalla cantante Iballa Chantelle e da Nator Creppter, chitarrista alle prese anche con synth e batteria programmata.
Asleep With Your Devil è il loro nuovo lavoro in formato ep, composto da cinque brani di rock melodico dalle tinte dark, con accenni al gothic metal da balera, pregno di chorus ruffiani e qualche nota chitarristica che, ogni tanto, assume posizioni più metalliche rispetto al trend dei brani presenti.
Sintetico e liquido in molti frangenti, il sound dei The Creppter Children pesca dal movimento gotico con un tocco alternative di matrice statunitense, specialmente quando i toni si fanno leggermente più duri (Killer,Watching You).
Il resto viaggia con il pilota automatico, Iballa Chantelle a tratti signora dark dai toni lascivi lascia la sua sensuale impronta nella conclusiva Watching You, il brano più riuscito di questo mini cd, con ritmiche e synth che strizzano l’occhio al black metal sinfonico per poi tornare su lidi più moderni e cool. Asleep With Your Devil ci presenta quindi una manciata di brani piacevoli: la band appare più a suo agio quando indurisce i suoni, e questa è la strada da seguire in previsione di un futuro full length per viaggiare sicura tra le notturne vie del gothic metal.
Tracklist
1.Asleep With Your Devil
2.Crazy
3.It’s A Game
4.Killer
5.Watching You
Se siete amanti del gothic metal come dal più tradizionale dark rock, My Second Birth/My Only Death risulta un album molto suggestivo, in grado di mantenere un’alta qualità per tutta la sua durata e conseguentemente l’attenzione di chi ascolta.
Il dark rock ha sempre mantenuto un orgoglioso distacco dalle sonorità e dall’approccio metal almeno per tutti gli anni ottanta, più vicino per molti aspetti alla new wave.
Poi con l’arrivo dell’ultimo decennio del vecchio millennio, il successo del gothic metal ed i riferimenti alle band storiche del genere (i più gettonati sono Depeche Mode e Sisters Of Mercy) da parte di molte band metal, ha portato ad una più stretta vicinanza tra le sonorità notturne che vanno per la maggiore come dark, gothic e symphonic metal.
I romani This Void Inside fanno parte di quelle band che hanno sviluppato il proprio suono rimanendo legati ad un approccio più classico al genere, anche se non possono certo essere considerati un gruppo vintage così come neppure prettamente metal.
Gothic dark rock, quindi, dall’alto appeal e dalle ottime melodie, messe in risalto dalla sempre presente componente elettronica che rende il sound assolutamente perfetto per i club mitteleuropei, e di conseguenza dal respiro internazionale.
La band nasce nel 2003 come one man band dell’ex frontman dei My Sixth Shadow, Dave Shadow, in seguito trasformatasi in un gruppo a tutti gli effetti: My Second Birth/My Only Death è il secondo lavoro in uscita per Agoge Records, successore del debutto intitolato Dust uscito ormai dieci anni fa.
I This Void Inside sono fprmati da appunto Dave Shadow (voce, synth e programming), Saji Connor (basso), Frank Marrelli e Alberto Sempreboni (chitarre) e Simone “Some” Gerbasi (batteria), all’album hanno contribuito in veste di ospiti su di un brano, Max Aguzzi (Dragonhammer) e Diego Reali (ex DGM, Hevidence), mentre la produzione è stata affidata al boss della label Gianmarco Bellumori.
L’album è un ottimo esempio di gothic dark rock, tra tradizione e moderni spunti avvicinabili al metal, specialmente nei suoni delle chitarre a tratti granitici, mentre le splendide linee vocali, i cori e i refrain dall’appeal considerevole aiutano il fluido scorrere delle note romantico/notturne create dal gruppo; i brani sono caratterizzati da atmosfere che si insinuano nella testa, fluide ed eleganti, tra parti sintetiche e altre più rock creando la giusta alternanza tra le sfumature principali che animano il sound di brani come Relegate My Past, Trapped in a Daze, Losing My Angel e la teatrale The Artist and the Muse (dove compare un recitato in lingua madre).
Se siete amanti del gothic metal come dal più tradizionale dark rock, My Second Birth/My Only Deathrisulta un album molto suggestivo, in grado di mantenere un’alta qualità per tutta la sua durata e conseguentemente l’attenzione di chi ascolta: le band di riferimento che escono allo scoperto tra le trame del disco dipendono molto dal background di ognuno di voi, non resta che scoprirle senza indugi.
Tracklist
01. My Second Birth / My Only Death (Intro)
02. Betrayer MMXVIII
03. Relegate My Past
04. Memories’ Dust
05. Trapped In A Daze
06. Here I Am
07. Another Fucking Love Song
08. Losing My Angel
09. Meteora
10. Ocean Of Tears
11. All I Want Is U
12. Break Those Chains
13. The Artist And The Muse (Bonus Track)
14. Downtrodden (Bonus Track)
Line-up
Dave Shadow – Vocals,synths & programming
Saji Connor – Bass and backing vocals
Frank Marrelli – Lead guitars
Alberto Sempreboni – Rhythm guitars
Simone “Some” Gerbasi – Drums
Se siete fans del genere e vi piace curiosare nell’underground mondiale in cerca di nuove ed affascinanti realtà, i Cinnamun Beloved appagheranno la vostra fame di musica metallica dal taglio gotico e sinfonico.
La scena metal sinfonica si arricchisce di sempre nuove realtà, molte delle quali non arriveranno al successo di quelle poche band che hanno ormai fatto la storia di queste sonorità, ma che, ad un livello più che dignitoso creano opere meritevoli d’attenzione.
Nell’underground, i gruppi che propongono la loro versione più o meno riuscita del genere non si contano più, magari sempre legati all’abusata formula voce femminile, ritmiche power, sinfonie orchestrali ed atmosfere gothic, comunque in grado di soddisfare i fans del genere, affezionati a questi cliché.
In arrivo dall’Argentina, i Cinnamun Beloved sono il classico esempio di quanto appena scritto, con Sabrina Filipcic Holm, suadente vocalist a capitanare un quintetto al secondo album dopo l’esordio The Weird Moment dato alla luce nel 2012.
Sleaszy Rider licenzia Stain, album che del genere si nutre, con la voce della cantante protagonista in una raccolta di brani che non escono dai canoni delle sonorità tanto care ai vari Nightwish, Within Temptation ed Evanescence, sinfoniche ma non bombastiche, raffinate ma allo stesso tempo rese grintose e potenti da ritmiche power.
Le atmosfere gotiche sono presenti, così come le orchestrazioni, il sound si aggira tra le nebbie notturne del dark rock con quel briciolo di eleganza che risulta il punto di forza dell’album, mentre la Holm, senza strafare, si dimostra una buona interprete della scuola delle cantanti symphonic metal. Stain è un buon lavoro, la sontuosa perfezione stilistica dei top player del genere è ancora lontana, ma all’ascolto dei vari brani l’impressione di essere al cospetto di un gruppo con le proprie potenzialità ancora da esprimere in toto è alta: quindi, se siete fans del genere e vi piace curiosare nell’underground mondiale in cerca di nuove ed affascinanti realtà, i Cinnamun Beloved appagheranno la vostra fame di musica metallica dal taglio gotico e sinfonico.
Tracklist
1. Symbols Of Beginning
2. So Far
3. Ride The Night
4. I Don’t Wanna Be
5. Together
6. Furious As The Wind
7. Storyline
8. The Scent
9. Without Your Caress
10. Another Day
11. Symbols Of Beginning II
Line-up
Sabrina Filipcic Holm – Vocals
Matvas Sala – Drums
David Nupez del Prado – Guitars
David Saavedra – Bass
German Esquerda – Keyboards
Consigliato agli amanti del gothic dark più melodico, l’album è destinato a ripetere il successo del suo predecessore, almeno tra chi è frequentatore abituale della vita notturna nei club mitteleuropei, da sempre molto ricettivi quando si parla di queste sonorità.
Dopo il discreto successo del primo album Blood Diamond Romance, torna con un nuovo lavoro il vocalist austriaco Aaron Roterfeld.
Il gruppo a cui dà il proprio nome vede alla chitarra Marc Filler e alla batteria Andre Schwarz: il sound prodotto è un buon esempio di gothic dark rock ispirato dai gruppi ottantiani, ma con un tocco moderno ed alternativo.
Molto vario e melodico, Hamlet At Sunset è composto da una raccolta di brani dall’appeal elevato, specialmente se siete legati al genere: cantate sia in inglese che in tedesco, le tracce presenti riescono sicuramente a soddisfare tanto i fans dei Sisters Of Mercy come quelli degli Him.
Aaron Roterfeld è in possesso di una voce calda e molto vicina a quella di Ville Valo, ergendosi a protagonista di un album che alterna dinamiche tracce di rock alternativo dal feeling romanticamente ombroso a brani gotici e dark.
Raffinato e melodico, Hamlet At Sunsetlascia che sia l’atmosfera notturna e malinconica il leit motiv che accompagna canzoni come No Friend Of Mine, I Want More o King Of This Land, anche se è tutto l’album a mostrare un songwriting lineare e dall’approccio immediato.
A tratti il groove risveglia l’anima moderna, alter ego di un’attitudine dark rock espressa con eleganza dal singer austriaco, mattatore indiscusso di questo lavoro.
Consigliato agli amanti del gothic dark più melodico, l’album è destinato a ripetere il successo del suo predecessore, almeno tra chi è frequentatore abituale della vita notturna nei club mitteleuropei, da sempre molto ricettivi quando si parla di queste sonorità.
Tracklist
1. No Friend Of Mine
2. Bring Your Own Star To Life
3. I Want More
4. Flieg
5. Black Blood
6. King Of This Land
7. Sea Of Stones
8. Father And Son
9. Great New Life (Reborn)
10. You Are The One I’d Spend All My Money
Line-up
Aaron Roterfeld – Vocals
Andre Schwarz – Drums
Marc Filler – Guitars
Evil Spirits è comunque una buona prova per un gruppo che difficilmente sbaglia disco, anche se i vecchi Damned erano tutt’altra cosa.
Nuovo capitolo di una delle carriere più lunghe e tenaci della storia del punk rock.
Secondo molti i The Damned furono i primi a pubblicare un singolo ed un disco punk rock nonché i primi ad andare in tour negli States. Come si può facilmente intuire la questione è più complicata, ma questa non è la sede adatta per dirimerla. I The Damned sono stati invece sicuramente il primo gruppo punk rock ad introdurre forti elementi gothic nella loro opera. Evil Spirits è la loro prima apparizione su disco dal 2008, quando pubblicarono So, Who’ S Paranoid, e ha visto la luce grazie alla raccolta fondi dei fans: si tratta di un lavoro pop gothic, molto inglese nella sua essenza, ovvero con melodie e atmosfere quasi alla Smiths e con il cantato di Vanian che è, come sempre, una delle cose migliori dei Damned. Il confronto con i dischi passati è impossibile da fare, perché i Damned prima erano un’altra cosa, e comunque anche questo disco è qualitativamente buono. Un po’ come per l’ultimo disco dei The Adicts, i suoni fin troppo curati e i volumi contenuti non riescono a rendere quella magia degli anni passati, anche se l’intelaiatura è presente. Il disco è scorrevole, l’organo di Monty Oxymoron fa un grandissimo lavoro, anzi è forse l’attore protagonista, però si sente che i The Damned portano a casa il risultato perché sono un gruppo che ha molto talento e mestiere, che contrappongono alla mancanza di idee. E allora si buttano sulla melodia, che certamente non è mai mancata, e grazie a questa si salvano. Ci sono canzoni migliori delle altre, e forse se la durata media delle stesse fosse minore il discorso sarebbe più compatto. Evil Spirits è comunque una buona prova, per un gruppo che difficilmente sbaglia disco, anche se, come detto, i vecchi Damned erano tutt’altra cosa.
Tracklist
01. Standing On The Edge Of Tomorrow
02. Devil In Disguise
03. We’re So Nice
04. Look Left
05. Evil Spirits
06. Shadow Evocation
07. Sonar Deceit
08. Procrastination
09. Daily Liar
10. I Don’t Care
A Minor Road dice ancora poco sui Nox Interna odierni, se non il fatto d’esser in presenza di un musicista dal buon potenziale che deve trovare ancora la sua forma d’espressione ideale e più completa.
Nox Interna è il nome del progetto gothic rock del musicista spagnolo Richy Nox, di stanza però da diversi anni a Berlino.
Il sound offerto in questo ep contenente tre brani e del tutto in linea con le aspettative del genere, con un’offerta che si colloca nella scia di band ben note sul suolo tedesco come Mono Inc., quindi dal buon impatto melodico ed una spruzzata di ruvidezza inferta da qualche riff più deciso, anche se a livello di influenze vengono citati tra gli altri i Sisters Of Mercy dei quali, francamente, non è che se ne rivengano soverchie tracce oggi, a differenza dei lavori precedenti nei quali il sound appariva molto più cupo e screziato di pulsioni industriali.
La title track è senz’altro gradevole ma non esalta, molto meglio allora Doom Generation, più accattivante e varia e dalle maggiori chances di fare breccia negli ascoltatori.
Il terzo brano è la stracoverizzata Entre Dos Tierras degli Heroes del Silencio, brano che si ascolta sempre volentieri e che Richy Nox ripropone in versione più ritmata, senza ovviamente sfigurare nella parte cantata potendolo interpretare in lingua madre. A Minor Road dice ancora poco sui Nox Interna odierni, se non il fatto d’esser in presenza di un musicista dal buon potenziale che deve trovare ancora la sua forma d’espressione ideale e più completa.
Tracklist:
1. A Minor Road
2. Doomed Generation
3. Entre Dos Tierras
Piove Sangue – Live in Banská Bystrica è un gradito cadeau che, come contraltare, ci spinge a chiedere a Martyr Lucifer e ai suoi compagni di dare finalmente un seguito a Secular Music: i tempi paiono essere maturi.
Gli Hortus Animae sono una delle band icona del nostro metal estremo, in virtù di una discografia non ricchissima dal punto di vista quantitativo ma di valore inestimabile se la si misura attraverso parametri qualitativi.
Piove Sangueè il primo live offerto dalla band romagnola, guidata da Martyr Lucifer, che viene immortalata in quel di Banská Bystrica, amena località slovacca che ospita ogni anno un festival sempre molto ben frequentato.
Il set offerto è relativamente breve ma esaustivo delle varie fasi della carriera degli Hortus Animae, partendo dall’iniziale Furious Winds/Locusts, che era anche la traccia di apertura del seminale The Blow Of Fuorious Winds, per passare poi alle melodie chitarristiche che caratterizzano Chamber of Endless Nightmares e gli umori gotici di Doomsday (quest’ultima in versione accorciata), tratte dall’ultimo album di inediti Secular Music, per arrivare poi al Medley che assembla brani provenienti dal primo demo del 1998, An Abode for Spirit and Flesh, e dal successivo full length d’esordio The Melting Waltz, e all’ultimo inedito There’s No Sanctuary, facente parte dell’omonimo ep del 2016, altra canzone che mostra il caratteristico connubio tra metal estremo e sonorità gothic wave.
Come da abitudine consolidata anche nei lavori in studio, gli Hortus Animae chiudono questa celebrazione dei loro vent’anni di attività con la cover slayaeriana di Raining Blood (ecco spiegato il titolo dell’album) che vede quale ospite alla voce di Freddy Fredich degli storici thrashers tedeschi Necronomicon, con i quali i nostri hanno condiviso il tour europeo. Piove Sangue – Live in Banská Bystrica è un gradito cadeau che, come contraltare, ci spinge a chiedere a Martyr Lucifer e ai suoi compagni di dare finalmente un seguito a Secular Music: i tempi paiono essere maturi.
Tracklist:
1. Furious Winds / Locusts
2. Chamber of Endless Nightmares
3. Doomsday
4. Medley: I – In Adoration of the Weeping Skies, II – Cruciatus Tacitus, III – Souls of the Cold Wind
5. There’s No Sanctuary
6. Raining Blood
Nella poetica dei Rome In Monochrome la reazione al dolore avviene in maniera dignitosa e composta, quasi a rappresentare l’accettazione di un destino ineluttabile che, quindi, non viene restituito esibendo tratti disperati bensì attraverso un senso di mestizia diffusa.
Per quel che vale, i Rome In Monochrome si avvalgono di uno dei monicker più affascinanti che una band dedita a sonorità come quelle offerte dalla band capitolina potesse scegliere.
E se è vero che il marchio da solo non basta, è innegabile che costituisce una sorta di imprimatur sul sound che si andrà a scoprire durante l’ascolto di un album: d’altra parte il fondatore della band, Gianluca Lucarini, ci ha abituato anche con gli altri suoi gruppi a delineare fin dal nome lo stile offerto: per cui, se dai Degenerhate o dagli Exume To Consume è difficile attendersi qualcosa che non abbia che fare con il metal più estremo, tra il brutal death e il grindcore, dai Rome In Monochrome è più che lecito immaginarsi una proposta tenue, malinconica, ma allo stesso tempo resa inquieta da ombre che talvolta aleggiano minacciose nel grigiore diffuso di un’istantanea sfocata. Away From Light è la finalizzazione di un’opera iniziata tre anni fa con l’ep Karma Anubis, grazie al quale erano stato poste le basi di un sound che guarda inevitabilmente ai Katatonia oltre che agli Antimatter più intimisti (quelli di Leaving Eden, in particolare) per le caratteristiche appena descritte, ma ammantando il tutto di quel particolare modo di affrontare la materia oscura nella scena romana, partendo dai capostipiti Novembre e ai loro seppur latenti retaggi estremi per spingersi fino ai più eterei Klimt 1918.
Nella poetica dei Rome In Monochrome la reazione al dolore avviene in maniera dignitosa e composta, quasi a rappresentare l’accettazione di un destino ineluttabile che, quindi, non viene restituito esibendo tratti disperati bensì attraverso un senso di mestizia diffusa, appunto ciò da cui deriva il monocromatico grigiore al quale siamo condannati se proviamo ad osservare la realtà con uno sguardo disincantato, quando i sogni vengono spazzati via dalla quotidianità.
Le otto pennellate sonore si insinuano ed assumono forma compiuta ascolto dopo ascolto, lasciando un segno molto più marcato rispetto alla solo apparentemente attenuata incisività di un sound che, solo di rado, viene scosso da passaggi in growl (opera dello stesso Lucarini salvo in Paranoia Pitch Black, dove se ne occupa niente meno che Carmelo Orlando) e da altrettanto sporadiche accelerazioni ritmiche.
Tutto si compie in un ambiente lattiginoso, ben descritto dall’intima tristezza evocata dal timbro vocale di Valerio Granieri, al quale si finisce pericolosamente per assuefarsi quasi come se si fosse confortevolmente immersi in una sorta di liquido amniotico, ed offre i suoi momenti più alti ed emozionanti nei primi tre brani, Ghost Of Us, A Solitary King (la mia preferita, con un bellissimo giro di chitarra a supportare costantemente la voce) e la già citata Paranoia Pitch Black; se vogliamo il solo difetto dell’album è proprio quello esprimere il meglio nel suo primo terzo, mantenendosi in seguito sempre su un buonissimo livello ma senza raggiungere gli stessi picchi emozionali.
La canzone più ascrivibile a pieno titolo al doom, Only the Cold, chiude comunque al meglio un lavoro il cui spettro sonoro è attraversato anche da post rock e shoegaze, all’insegna di un velenoso malessere che resta costantemente confinato sullo sfondo di un’immagine avvolta da una coltre di nebbia. Away From Light è ovviamente rivolto ad anime sensibili ed inclini alla malinconia, le quali potranno godere anche della perfezione sonora garantita dalla produzione di Fabio Fraschini e dal mastering di Dan Swano.
Tracklist:
1. Ghosts Of Us
2. A Solitary King
3. Paranoia Pitch Black
4. Uterus Atlantis
5. December Remembrances
6. Until My Eyes Go Blind
7. Between The Dark And Shadows
8. Only The Cold
Line-up:
Valerio Granieri – lead vocals
Gianluca Lucarini – lead guitar, backing and harsh vocals
Alessio Reggi – lead guitar
Marco Paparella – guitar, violin
Riccardo Ponzi – bass
Flavio Castagnoli – drums
Appare decisamente bizzarro il fatto che, poco dopo l’uscita di Medusa, uno degli album più doom e pesanti della discografia dei Paradise Lost, si sia deciso di rimasterizzare quello che, a ben vedere, ne è la sua antitesi dal punto di vista stilistico, oltre che qualitativo.
C’era una volta la sacra triade inglese del gothic death doom, massima espressione di un movimento che produsse tramite i suoi migliori esponenti una serie di capolavori che segnarono pesantemente la storia del metal più oscuro all’inizio degli anni ’90.
I primi ad abbandonare la tenzone furono gli Anathema, pubblicando nel 1996 il pinkfloydiano Eternity, disco comunque splendido che venne seguito dal magnifico Alternative 4 e, po,i dall’altrettanto validoJudgement, per arrivare infine al definitivo distacco dal metal avvenuto con A Fine Day To Exit.
Nel 1998 anche i più ortodossi del trio, i My Dying Bride, tentarono di inserire elementi elettronici nel loro sound con un disco strambo ma tutt’altro che deprecabile come 34.788%… Complete, salvo poi tornare precipitosamente sui propri passi con il successivo The Light at the End of the World e continuando a sfornare in serie altri buoni lavori, culminati con il bellissimo e ultimo Feel The Misery, del 2015.
Prima di quanto fatto dai loro concittadini, nel 1997 i Paradise Lost, dal canto loro, avevano già impresso una svolta al proprio sound pubblicando One Second, album che era pervaso da una fino ad allora insospettabile fascinazione nei confronti dell’operato dell premiata ditta Gore/Gahan, ma che aveva fornito a mio avviso un risultato molto intrigante, grazie ad una serie di brani ispirati (tra cui forse quella che si può considerare la vera e propria hit della band di Halifax, Say Just Words) per quanto decisamente spiazzante nei confronti dei puristi.
Ed arriviamo al 1999, anno in cui viene pubblicato il controverso Host: volendo giocare con i nomi delle band, se One Seoind poteva essere definito un disco dei Paradise Mode, quest’ultimo parto era più ragionevolmente attribuibile a degli ipotetici Depeche Lost, in quanto ogni pulsione metallica era pressoché sparita, rimpiazzata da un elettro gothic dark piuttosto annacquato.
Già, perché al di là dell’incapacità di molti fans nell’accettare il fatto che una band possa avere tutto il diritto di sperimentare nuove soluzioni ed abbracciare stili diversi, il problema di Host era sostanzialmente il fatto d’essere un lavoro fiacco, privo di brani realmente trainanti (personalmente salvo solo le più oscure In All Honesty e Deep) tanto che, a quel punto, perso per perso, conveniva andarsi a recuperare i lavori dei capostipiti del genere piuttosto che ascoltarne una sbiadita e poco convinta copia rappresentata dai Paradise Lost.
Alla luce di questa lunga premessa, appare decisamente bizzarro il fatto che, poco dopo l’uscita di Medusa, uno degli album più doom e pesanti della loro discografia, si sia deciso di rimasterizzare quello che, a ben vedere, ne è la sua antitesi dal punto di vista stilistico, oltre che qualitativo (tra l’altro, se proprio lo si voleva/doveva fare per incombenze di tipo commerciale o contrattuale, non era meglio attendere almeno il ventennale che sarebbe caduto l’anno prossimo?).
Ora, va detto che in epoca di revisionismo acrobatico, quello che spinge i più smemorati a riscrivere e stravolgere la storia a proprio uso e consumo, non mi meraviglierei di trovare qualcuno che vorrà riabilitare Host (mi riferisco solo al disco, i Paradise Lost non hanno certo bisogno d’essere riabilitati, ma semmai vanno ringraziati per quella che è stata la loro carriera nel complesso); io ho provato a riascoltarlo con la segreta speranza di cogliere qualcosa che magari mi ero perso all’epoca della sua uscita, ma devo ammettere d’essermi annoiato dalla prima all’ultima nota esattamente come mi accadde nell’ormai lontano 1999.
Per concludere la retrospettiva storica, resta da aggiungere che Mackintosh e soci ritrovarono la via maestra di un sound a loro più consono, solo con la pubblicazione del disco autointitolato del 2005, vero e proprio inizio di una progressiva rinascita culminata con un album ispirato e degno del blasone della band come il recente Medusa.
Inutile aggiungere che se a qualcuno avanzassero degli euro è meglio che li investa diversamente, relegando Host all’oblio riservato ai dischi poco riusciti che anche alle migliori band capita di produrre.
Tracklist:
1. So Much Is Lost
2. Nothing Sacred
3. In All Honesty
4. Harbour
5. Ordinary Days
6. It’s Too Late
7. Permanent Solution
8. Behind The Grey
9. Wreck
10. Made The Same
11. Deep
12. Year Of Summer
13. Host
Line-up:
Nick Holmes – Vocals
Greg Mackintosh – Lead guitar
Aaron Aedy – Rhythm guitar
Steve Edmondson – Bass guitar
Lee Morris – Drums
Un disco così profondo, intenso e nel contempo delicato, poteva scaturire solo dall’incontro tra il triste disincanto del gothic dark di matrice nordica ed il tepore mediterraneo, capace di sciogliere il ghiaccio trasformandolo in lacrime liberatorie.
Quando, nel 2014, uscì un album come Inner Tales, era apparso subito evidente che ci si trovava di fronte all’epifania di un talento unico e cristallino come quello della giovanissima musicista calabrese Federica “Lenore” Catalano.
Restava solo da confermare quanto di buono già mostrato in quel frangente ed è valsa, così, la pena d’avere atteso diverso tempo prima di poter ascoltare il seguito di quel bellissimo disco: All Things Lost on Earth è un’opera che riconcilia con il gothic contraddistinto da voce femminile chiunque avesse in uggia questo tipo di soluzione.
Già, perché qui non c’è nulla di scontato e pianificato a tavolino, solo una decina di canzoni splendide, interpretate da una cantante dalla voce particolare e personale, aiutata da una band perfetta nel proprio ruolo di robusto e, al contempo, atmosferico supporto.
Nel sound dei Lenore S. Fingers confluisce un’inevitabile serie di influssi provenienti da band differenti, ma aventi quale comune denominatore la capacità di produrre musica intrisa di malinconico trasporto (Novembre, Katatonia, The Gathering era Anneke, su tutte), e da ciò ne scaturisce un sound che produce il risultato tutt’altro che scontato di non assomigliare ad un modello specifico. All Things Lost On Earth è un lavoro che possiede la forza di resistere ad una tripletta iniziale di brani talmente belli che renderebbe superfluo il prosieguo di qualsiasi altra tracklist: My Name Is Snow è una sorta di intro, con la voce di Federica che si appoggia sul tappeto strumentale creato dall’ospite Anna Murphy (un’altra splendida interprete che fornisce il suo prezioso contributo all’album solo in forma strumentale, attraverso le tastiere ed uno strumento tradizionale come la ghironda), seguita da Lakeview’s Ghost, dal superlativo chorus e con un’accelerazione finale che conduce a Rebirth, brano di struggente bellezza in ogni suo aspetto.
Così Ever After, con il suo incedere più lieve, funge da ideale cuscinetto tra la prima parte dell’album e quella conclusiva, assieme alla più elaborata Luciferines, unica traccia nella quale appaiono parti cantate in italiano, e la “novembrina ” Epitaph.
L’intensa My Schizophreniac Child recupera l’impatto emotivo impercettibilmente scemato nei brani appena citati, conducendo alla sognante Decadence Of Seasons, canzone nella quale Federica regala brividi a profusione, replicati in buona parte nella più ariosa title track, e affidando la chiusura alla breve e più cupa Ascension, finale degno di un disco di enorme valore.
I Lenore S. Fingers hanno perso buona parte di quelle sfumature doom messe in mostra all’esordio, approdando ad un gothic ricco di quel pathos mancante alla maggior parte degli album ascrivibili allo stesso ambito, spesso perfetti dal punto di vista formale ma scontati nelle soluzioni e incapaci di comunicare empaticamente nei confronti dell’ascoltatore; Federica e i suoi compagni ci aprono, invece, le porte di un microcosmo nel quale regna una malinconia soffusa, lontana sia dalla disperazione delle forme più estreme di doom, sia dall’enfasi dai tratti sinfonici del gothic più commerciale: un disco così profondo, intenso e nel contempo delicato, poteva scaturire solo dall’incontro tra il triste disincanto del gothic dark di matrice nordica ed il tepore mediterraneo, capace di sciogliere il ghiaccio trasformandolo in lacrime liberatorie.
Tracklist:
1. My Name Is Snow
2. Lakeview’s Ghost
3. Rebirth
4. Ever After
5. Luciferines
6. Epitaph
7. My Schizophreniac Child
8. Decadence Of Seasons
9. All Things Lost On Earth
10. Ascension
Inside My Mind Part II è una passeggiata tra le vie illuminate dalla fredda luce dei lampioni di una città oscura e decadente, trasformata da una mente malata in una città di creature bizzarre, un sorta di circo gotico presentato con estrema cura dal suo inventore e presentatore, Alessandro Schümperlin.
Questa creatura industrial/gothic chiamata Blut è il progetto del musicista Alessandro Schümperlin, che licenzia il suo secondo lavoro intitolato Inside My Mind Part II.
Quando ho letto Blut, la mia mente è andata agli Atrocity ed alla loro famosa opera dal concept vampiresco uscita nel 1994, ma di altra natura risulta questo lavoro, orchestrato su una base elettronica, campionamenti ed altre diavolerie per un risultato che tutto sommato può soddisfare gli amanti dei suoni sintetici, anche se il gruppo non manca di variare il sound e teatralizzare l’approccio.
Impreziosito dalla voce femminile della bravissima Marika Valli degli Eternal Silence, l’album si avvale di una buona alternanza di atmosfere dark, con qualche accenno alla new wave anni ottanta, (Depeche Mode) e da ombrose tinte gotiche, lasciando che il tappeto sintetico sia sempre l’assoluto protagonista.
Inside My Mind Part II risulta così una passeggiata tra le vie illuminate dalla fredda luce dei lampioni di una città tetra e decadente, trasformata da una mente malata in una città di creature freaks, un circo gotico presentato con estrema cura dal suo inventore e presentatore, Alessandro Schümperlin.
Intorno si aggirano personaggi e suoni che fanno da contorno alla voce del leader, mentre ci prende per mano e ci accompagna in un oscuro locale dove suonano dance anni ottanta ed elettronica tedesca.
L’album arriva alla fine senza grossi picchi ma neanche particolari cadute, riuscendo a non far perdere l’attenzione in chi ascolta, tra accenni ai soliti Rammstein quando la sei corde alza la voce.
Se la musica elettronica ed il gothic/dark fanno parte dei vostri abituali ascolti, Inside My Mind Part IIpotrebbe rivelarsi una sorpresa, altrimenti rivolgete le vostre attenzioni altrove, perchè My Naked Soul (splendida) e gli altri brani che compongono l’opera non fanno per voi.
Tracklist
1.Double Trouple
2.Reduplicative
3.Jerusalem Calls Me
4.A Matter of Choice
5.Kesswill 25-07-1875
6.Sigmun Freud ist mein Nachbar
7.Wind Ego
8.My Naked Soul
9.Folly of Two
10.Ekbom
11.Jerusalem Calls Me extended version
Line-up
Alessandro Schümperlin – voice, programming, backing voice, producer and (de)composer
Marika Vanni – Voice and backing vocals
Valentina Carlone – Dancer and performes
Fabio Attacco – Bass, backing vocals
Andrea “Ceppo” Faglia – Guitars
Alessandro Boraso – Drums
L’album si lascia ascoltare con un certo agio, lasciando una sensazione gradevole ma dalla durata nel tempo effimera come l’esistenza di una farfalla.
Non vi siete ancora rassegnati del tutto all’uscita di scena dei Sentenced e del loro personale approccio melodico e malinconico al gothic rock/metal ? Se vi accontentate dei surrogati potrebbe essere allora il caso di dare un ascolto al primo full length degli Ode In Black.
Seeds Of Chaos è il frutto finale di un percorso che ha preso il via all’inizio del decennio da parte di questa band (manco a dirlo) finlandese, la quale prende come riferimento la creatura che fu di Vile Laihiala e soci, ne ammorbidisce talvolta l’impatto guardando agli altri connazionali Him e The 69 Eyes e dal mix non può che venirne fuori un lavoro gradevole, orecchiabile ma ovviamente dalla ridottissima personalità.
Questo avviene non solo quando l’adesione ai modelli citati è pressoché totale (l’opener Fountain Of Grief parla chiaro al riguardo), ma anche nei momenti in cui gli Ode In Black provano a distaccarsene, mettendo in scena sia un brano piuttosto intenso per il suo crescendo come The Mirror, sia una più insipida Burden, con un chorus simil Ten che sembra appiccicato a forza, la sensazione d’avere già sentito qualcosa di molto simile chissà dove e quando è tangibile.
Il risultato di tutto questo è un album che si lascia ascoltare con un certo agio, lasciando una sensazione gradevole ma dalla durata nel tempo effimera come l’esistenza di una farfalla: se nel tirare le somme i brani migliori dell’album sono quelli che sembrano degli outtakes di The Cold White Light e The Funeral Album (Fountain Of Grief e Lullaby For The Innocent) è evidente come gli Ode In Black difficilmente potranno essere ricordati per la loro personalità.
Va detto che la band, comunque, prova ogni tanto ad immettere nel proprio sound iniezioni di più tradizionale hard rock e, quando ciò avviene in maniera più fluida, i risultati non sono affatto disprezzabili (la title track e Burn The Candle From Both Ends) lasciando aperta una strada che, pur essendo già stata calpestata da altre centinaia di band, non costringerebbe l’ascoltatore a fare dei paragoni con uno specifico gruppo storico nei riguardi del quale il confronto non può che risultare impari.
Tracklist:
1. Fountain Of Grief
2. The Sea In Which We Drown
3. Goodbye
4. Seeds Of Chaos
5. The Mirror
6. Burden
7. The Lone Wolf
8. Burn The Candle From Both Ends
9. Devil’s Kin
10. Of A Thousand Lies
11. Lullaby For The Innocent
Line-up:
Pasi Mäenpää – vocals
Iiro Saarinen – guitars & backing vocals
Juhani Saarinen – lead guitar
Ville Puustinen – bass
Taisto Ristivirta – drums