Obsolete Theory – Mudness

Mudness è un lavoro pressoché perfetto nel quale, all’interno di una base black metal, confluiscono death e doom amalgamati da un senso della melodia non comune, capace di rendere ognuno dei cinque lunghi brani altrettanti episodi in grado di nobilitare, da soli, un intero album.

Il full length d’esordio per questa band milanese rappresenta una delle tipiche folgorazioni alle quali si viene periodicamente sottoposti, e che è uno dei motivi (se non IL motivo) per il quale si spende buona parte del proprio tempo nell’ascoltare musica inedita proposta da realtà note a pochi.

Mudness è un lavoro pressoché perfetto nel quale, all’interno di una base black metal, confluiscono death e doom amalgamati da un senso della melodia non comune, capace di rendere ognuno dei cinque lunghi brani (dieci minuti medi di durata) altrettanti episodi in grado di nobilitare, da soli, un intero album.
Il bello è che, oltretutto, gli Obsolete Theory ci offrono un album in costante crescendo, visto che la partenza affidata a Salmodia III e Six Horses Of Death è all’insegna di un black relativamente più canonico, pur se proposto nella sua forma maggiormente atmosferica e ricca di punteggiature di varia natura, fino ad arrivare, attraverso la ruvida Dawn Chant (in qualche modo debitrice dei Forgotten Tomb), alla splendida Sirius’ Blood, maiuscola prova di black doom melodico che è nelle corde solo di chi possiede un talento compositivo superiore alla media, e alla conclusiva The God With The Crying Mask, che si snoda invece tra sfumature post black.
Mudness dimostra come sia ancor possibile muoversi all’interno del genere risultando freschi ed imprevedibili senza per forza spingersi su lidi avanguardistici: la bravura degli Obsolete Theory risiede sostanzialmente nell’essere riusciti a regalare cinquanta minuti di musica intensa, vibrante e in grado di restare impressa anche dopo molti ascolti.
Uno dei migliori album italiani dell’anno, al di là delle suddivisioni in generi o sottogeneri.

Tracklist:
1. Salmodia III
2. Six Horses Of Death
3. Dawn Chant
4. Sirius’ Blood
5. The God With The Crying Mask

Line up:
Ow Raygon: Guitars
Mordaul: Guitars
Tote Arthroeat: Percussions and Glockenspiel
Bolthorn: Bass
Savanth: Drums
Daevil Wolfblood: Vocals

OBSOLETE THEORY – Facebook

Hegemone – We Disappear

Un’opera di sicuro interesse per le sue atmosfere post metal intinte in un plumbeo black, in un’oscura darkwave e in un post-punk d’annata.

Un plumbeo riff di chitarra ci introduce nel mondo degli Hegemone, quartetto polacco di Poznan, attivo dal 2014 con l’autoprodotto Luminosity e ora con la Debemur Morti ad editare il loro secondo sforzo creativo.

Territori desolati, grigi senza alcuna possibilità di luce inondano i sei brani del disco. Lavoro serio che non si rivela al primo ascolto e presenta, come coordinate, un suono postmetal molto black con influssi hardcore e linee di synth che devono molto a certa darkwave e post punk di annata.Il lento iniziale andamento di Raising Barrows, attraversato da un atmosferico synth, si anima con un gigantesco riff di matrice sludge che si adagia su ritmiche black e lo scream disperato del bassista Jakub Witkowski ci conduce in territori aspri e post black piuttosto personali. La faccia moderna del black metal che si trasfigura in paesaggi non più figli della grande natura del Nord ma in suoni grigi, plumbei, metropolitani, figli di un disagio interiore che sfocia in desolazione, angoscia e oppressione come in Π, cavalcata che cresce di intensità su uno scream oscuro fino a raggiungere vette disperate e avvilite. Il senso di disagio è intenso, come suggerisce la frase “what will remains of me after I decay”, e suggestioni dei Cult of Luna si diffondono nelle atmosfere visionarie di Хан Тәңірі prima del lungo finale di Тәңірі (più di quindici minuti),  dall’intenso attacco black condotto da uno scream ardente mentre il synth oscura l’atmosfera prima di sfrangiarsi in note di piano fredde che cambiano il mood del brano portandolo in zone post metal crude e allucinate dagli influssi industrial. Purtroppo questo lavoro meritevole si perderà nelle tante produzioni che invadono il mercato, ma l’opera è di valore e sarebbe giusto non lasciarla nel limbo dove tanti lavori rimangono inascoltati .

Tracklist
1. Mara
2. Fracture
3. Raising Barrows
4. Π
5. Хан Тәңірі
6. Тәңірі

Line-up
Jakub Witkowski – bass, vocals
Tomasz Towpik – drums
Kacper Jachimowicz – guitars
Tomasz Stanuch – keyboards, electronics

HEGEMONE – Facebook

Trautonist – Ember

La proposta dei Trautonist si rivela impeccabile formalmente ma pecca di quella componente emotiva che invece non dovrebbe latitare in un genere come il post black/shoegaze.

Ember è il secondo full length per questa band di Coblenza denominata Trautonist, dopo l’esordio omonimo del 2016.

Il duo formato da Katharina e da Dennis, con l’ausilio di Hendrik alla batteria, ripropone un post black dalle sfumature shoegaze di buona fattura e nella media delle proposte attuali.
La vocalist si disimpegna bene sia con lo screaming che con le cleans, anche se i brani che vedono prevalere quest’ultima soluzione appaiono più a fuoco degli altri.
La proposta dei Trautonist si rivela impeccabile formalmente ma pecca, a mio avviso, di quella componente emotiva che invece non dovrebbe latitare in un genere come questo: per esempio, un brano come Smoke and Ember rappresenta nel migliore dei modi ciò che intendo, con un’ultima parte che cresce a livello d’impatto all’interno di una struttura ritmica più ragionata.
Il fatto è che, nonostante diversi ascolti di Ember, ciò che mi resta una sensazione gradevole che non è sufficiente a spingermi ad ulteriori passaggi del disco nel lettore perché, in un lavoro che non dubito possa trovare buoni riscontri tra chi frequenta il genere con maggiore assiduità, quello che non sono riuscito a rinvenire è il momento chiave, quello capace di conquistare l’attenzione rendendo la fruizione di un album un’esperienza in qualche modo unica.
Nè valgono, in tal senso, una traccia bizzarra e del tutto a sé stante come la conclusiva Woody Allen o la bellissima copertina a modificare sostanzialmente tale opinione.

Tracklist:
1. Fire and Ember
2. Vanish
3. The Garden
4. Smoke and Ember
5. Hills of Gold
6. Sunwalk
7. Woody Allen

Line-up:
Katharina – Vocals (female)
Dennis – All instruments, Vocals
Hendrik – Drums

TRAUTONIST – Facebook

 

Phendrana – Sanctum: Sic Transit Gloria Mundi

Anuar Salum offre una sua personale interpretazione del black metal avvolgendolo in un involucro progressivo ed atmosferico, optando così per un approccio più melodico che avanguardista.

Phendrana è il nome di questa one man band messicana al suo primo full length anche se, in effetti, risultano altri due lavori pubblicati in precedenza con il monicker Pakistum.

Ad ogni buon conto il bravo Anuar Salum offre una personale interpretazione del black metal avvolgendolo in un involucro progressivo ed atmosferico, optando così per un approccio più melodico che avanguardista.
Il primo brano di Sanctum: Sic Transit Gloria Mundi, la quasi title track, si rivela sufficientemente emblematico delle caratteristiche del sound con un impatto inizialmente piuttosto tradizionale ma diretto, per poi aprirsi in un rincorrersi travolgente tra chitarra e basso che, stranamente,  ricorda addirittura So Lonely dei Police.
Molto più eterea la terza traccia Ethereum, non solo per il titolo ma anche e soprattutto per il ricorso ad una voce femminile che ben conosciamo, trattandosi di quella di Vera Clinco dei Caelestis, solo sporadicamente sporcata dallo screaming del leader.
E’ sempre la brava Vera ad essere protagonista di Where Ages Meet che decolla, però, quando il musicista messicano sfoga la sua buon tecnica unita ad un indole compositiva di sicuro spessore, esaltata poi nella bellissima traccia conclusiva Gjenganger.
Forse Sanctum: Sic Transit Gloria Mundi soffre di un minimo di frammentarietà dovuta proprio all’anima progressiva che, talvolta, spazza via con prepotenza le più lineari partiture di matrice estrema; al riguardo non va sottovalutato il fatto che Anuar Salum, nonostante i cenni biografici iniziali possano far pensare il contrario, in realtà è giovanissimo essendo da poco diventato maggiorenne e sicuramente questo dato, alla luce delle basi già importanti gettate con questo suo primo lavoro su lunga distanza a nome Phendrana, ci induce a pensare a margini di miglioramento pressoché illimitati dei quali probabilmente vedremo i frutti in un prossimo futuro.

Tracklist:
1. Sanctum
2. The Threshold
3. Ethereum
4. The Dream
5. Where Ages Meet
6. The Bog
7. Gjenganger

Line-up:
Anuar Salum – All instruments, Vocals

Guests:
Vera Clinco – Vocals (tracks 3, 5)
AraCoelium – Vocals (choirs) (track 7)

PHENDRANA – Facebook

Eschatos – Mære

Ascoltare questo ep per chi apprezza il post black/metal è un passo fondamentale, in attesa che giunga auspicabilmente quanto prima un nuovo full length che potrebbe definitivamente far brillare come una supernova il nome degli Eschatos.

Mi sto sempre più convincendo che, alla fine, la quantità di grande musica che ci perdiamo sarà infinitamente superiore a quella che riusciamo ad intercettare.

Allora diventa una questione di mera fortuna imbattersi in un lavoro come questo ep dei lettoni Eschatos, band con due full length all’attivo che a occhio e croce sembrano essere passati del tutto inosservati dalle nostre parti.
Quindi siamo costretti a cominciare, volenti o nolenti, dal fondo, con Mære e le sue due lunghe tracce che squarciano ogni velo su una band dal talento enorme.
Intanto revisioniamo l’etichetta affibbiata agli Eschatos: progressive black metal vuol dire tutto e niente, perché in realtà del genere nato tra fiordi e le foreste della Norvegia troviamo prevalentemente l’attitudine, alcune sfuriate ritmiche e lo screaming che la stupefacente Kristiana Karklina esibisce all’interno di un’ interpretazione teatrale e a tratti spasmodica.
Mære consta di due soli brani per un fatturato complessivo di poco superiore ai venti minuti ma dal peso specifico notevole: Luminary Eye Against the Sky è un lento crescendo che può ricordare per impostazione gli olandesi Dool, benché con caratteristiche di base più metal e con un parossismo vocale che culmina con il disperato ripetuto urlo “is my death”.
The Night of the White Devil è una traccia divisa in tre parti, con la prima che pare ripartire da dove era terminato il precedente brano con l’isterica reiterazione della frase “I step into the sun with face covered in blood“, preludio ad un incedere più atmosferico e melodico che asseconda uno sviluppo ritmico che con il trascorrere dei minuti si increspa e si placa senza soluzione di continuità: gli Eschatos manipolano la materia con la spiccata personalità della band di livello superiore, esaltata dall’apporto di una vocalist fuori dal comune alla quale offre talvolta un valido supporto il più profondo growl del tastierista Marko Rass (anche se quello di Kristina non è affatto da meno per ferocia).
La band lettone proviene come detto da due lavori di buona fattura che non le è valsa ancora la fama che pare meritare incondizionatamente, fosse solo in base a quanto offerto in Mære; ascoltare questo ep per chi apprezza il post black/metal è un passo fondamentale, in attesa che giunga auspicabilmente quanto prima un nuovo full length che potrebbe definitivamente far brillare come una supernova il nome degli Eschatos.

Tracklist:
1. Luminary Eye Against the Sky
2. The Night of the White Devil (part I, II and III)

Line-up:
Kristiana Karklina — vocals
Edgars Gultnieks — guitars
Martinš Platais – guitars, bass, keyboards
Tomass Bekeris — bass,
Edvards Percevs — drums,
Marko Rass — keyboards, organ, effects, vocals.

ESCHATOS – Facebook

[‘selvǝ] – D O M A

Due lunghe immense jam, con le quali i [‘selvǝ] fermano un attimo della loro catarsi, perché i [‘selvǝ] non sono solo musica, sono emozione e smarrimento.

I [‘selvǝ] sono un gruppo che va ben oltre la mera indicazione di qualche genere, producono suoni che non possono essere collegati, un cavalcare un flusso furioso di emozioni e di forze che stanno dentro e fuori di noi.

Nati nel 2013, sono un’entità in continua evoluzione, dal primo Life Habitual al successivo Eléo, dove ogni nuovo lavoro marca un’ulteriore passo in avanti nella loro poetica. Ora arriva D O M A ed il viaggio verso nuovi pianeti sonori continua, dato che il loro suono sta mutando di nuovo, e ciò sta avvenendo senza forzature, facendo divenire il tutto molto naturale e precisamente come hanno intenzione che sia. Il trio di Lodi ha suonato due pezzi di lunga durata in questo disco, e forse ciò potrebbe sembrare poco alle menti poco aperte, mentre invece c’è tutto quanto deve esserci, anche di più. I [‘selvǝ] sono fondamentalmente un gruppo da gustare dal vivo, chi li ha visti capirà cosa intendo, e D O M A ne è un’ulteriore conferma. Questo disco è uno dei migliori esempi di come si possa fare un hardcore mutato, che diventa post black metal o potentissimo screamo. E forse la definizione migliore potrebbe essere proprio screamo black metal, ma come detto poc’anzi provare a definire questa musica è davvero poco importante. Ciò che deve importare del disco è la sua durezza, il suo sputarti in faccia per provare a svegliarti dal sonno in rete nel quale viviamo. Ci sono molti modi di descrivere le nostre vie, i [‘selvǝ] scelgono la loro musica, che è un dono molto prezioso ed importante, basta ascoltare questi due capolavori, che partono da basi conosciute per andare davvero molto lontano, andando oltre il grigio per calarsi nella nera realtà. D O M A è la prova fin qui migliore di questo gruppo, ed uno dei migliori dischi degli ultimi di black metal inteso in senso largo, anche perché il black non può essere inteso in un senso solo. Due lunghe immense jam, con le quali i [‘selvǝ] fermano un attimo della loro catarsi, perché i [‘selvǝ] non sono solo musica, sono emozione e smarrimento, ed è bellissimo.

Tracklist
1) silen
2) joy

Line-up
Alessandro Andriolo – Guitars, Voice
Andrea Pezzi – Bass, Voice
Tommaso Rey – Drums

[‘selvǝ] – Facebook

Devlsy – Private Suite

Ascoltando Private Suite si capisce che è un disco di caratura superiore, che unisce vari linguaggi musicali in una miscela di qualità superiore.

Nella continua ed inarrestabile avanzata e crescita del black metal arriva questa seconda opera dei lituani Devlsy , fautori di un post black metal molto interessante.

In realtà si può parlare di opera black metal tout court, anche se l’impostazione è sicuramente diversa rispetto a quella classica. Le chitarre molto ribassate ed un ritmica pulsante ci portano in giro per mondi distorti, dove menti lontane nello spazio hanno rinchiuso le nostre anime, e non è prevista la salvezza. I Devlsy sono un gruppo dalla grande fantasia sonora, ed infatti i signori dell’ATMF, etichetta triestina con un catalogo di gran valore, non hanno perso l’occasione per pubblicare questo disco. Lo scopo di Private Suite è di creare un labirinto sonoro che ci metta in contatto con dimensioni che sono oltre la nostra comprensione, perché dischi come questo non sono mera musica, ma rituali per andare da qualche altra parte. Ancora una volta il black metal è un contenitore incredibile, sorgente che fa scaturire molteplici codici diversissimi fra loro, in grado di far ragionare le menti che lo vogliano. Il distorto universo sonoro dei Devlsy è un qualcosa che va esplorato, sono moltissimi gli angoli molto notevoli, e su tutto aleggia un disegno superiore. Ascoltando Private Suite si capisce che è un disco di caratura superiore, che unisce vari linguaggi musicali in una miscela di alta qualità. Questi lituani fanno piangere e sognare, abbeverandoci alla fonte del nostro eterno dolore, là dove si può solo lenire con la fuga, senza mai curare. Il disegno sonoro dei Devlsy è di gran valore e traccia una traiettoria che crescerà ancora, e già questo è un disco assai notevole. Nella traccia sonora Bring MyWord canta anche un certo Dave Ed dei Neurosis, che non necessitano certo di presentazione.

Tracklist
1.Corridors
2.Hatching Tomb
3.Bring My Word
4.Patient #6
5.Porta Formica
6.Horizon Attached

DEVLSY – Facebook

Ah Ciliz / Chiral – Origins

Uno split album che merita di finire stabilmente tra gli ascolti di chi ama le forme di black metal più oblique e meno scontate.

Devo ammettere che c’è stato un momento, in passato, in cui ritenevo che gli split album fossero uno spreco di risorse, soprattutto per le band già attive da tempo, ritenendoli eventualmente un mezzo utile per far conoscere realtà emergenti.

La qualità crescente di questo tipo di uscite, la frequente cura immessa nei formati e l’abilità delle label coinvolte nell’abbinare le band, mi ha fatto da diverso tempo ricredere ed è quindi con enorme piacere che mi ritrovo a parlare di questo Origins.
Lo split in oggetto vede all’opera Ah Ciliz e Chiral, due realtà simili per approccio al black metal ma differenti a livello di approdo.
Ah Ciliz è un progetto dell’omonimo musicista di Seattle che ha già alle spalle diversi lavori su lunga distanza di grande spessore, in virtù di una proposta che mette in mostra un black metal atmosferico e dalle naturali venature cascadiane, non solo per il titolo del primo brano. La novità in quest’occasione è la consegna del ruolo di lead vocalist ad un altra persona, nello specifico Boris Iolis, che gli appassionati di doom conoscono quale bassista degli ottimi Marche Funebre.
Il musicista belga si rivela un bel valore aggiunto con il suo buonissimo screaming lasciando al mastermind il solo compito di tessere le proprie trame,  prima incalzanti in Cascadia, poi quasi carezzevoli nello splendido strumentale Moonlight in Night Season e infine melodicamente irresistibile (il lavoro chitarristico nel finale è davvero notevole) in People of The Stars, brano che più di tante parole riesce a descrivere pienamente quali siano le qualità compositive di Ah Ciliz.
Di Chiral abbiamo già parlato diverse volte in passato, trattandosi di un progetto italiano con il quale l’omonimo musicista piacentino sta dimostrando ormai da diversi anni il proprio spessore artistico, confermandolo con questi due brani, il breve ma intenso A Feeble Glare of Autumn ed il lungo (oltre un quarto d’ora di durata) Queen of The Setting Sun, che prende le mosse da un liquido post black per incresparsi con forza nella fase centrale, lasciando che la seconda meta ritorni a quelle atmosfere evocative che sappiamo essere naturalmente nelle corde di questa sempre più convincente realtà.
Ecco spiegato perché questo split album, dietro al quale c’è un’etichetta che propone lavori sempre di grande qualità come la Hypnotic Dirge (qui in collaborazione con la Throats Productions), merita di finire stabilmente tra gli ascolti di chi ama le forme di black metal più oblique e meno scontate.

Tracklist:
Ah Ciliz
1. Cascadia
2. Moonlight in Night Season
3. People of The Stars
Chiral:
4. A Feeble Glare of Autumn
5. Queen of The Setting Sun

Line-up
AH CILIZ
Ah Ciliz – Guitars, Bass, Vocals, Lyrics
Boris Iolis – Lead Vocals

CHIRAL
Chiral – Everything

AH CILIZ – Facebook

CHIRAL – Facebook

Párodos – Catharsis

La speranza è che questo, per i Párodos, sia solo il primo passo del brillante cammino intrapreso da una nuova band formata da musicisti che, forse proprio in quest’ambito, paiono aver trovato la loro ideale dimensione.

Anche se il monicker Párodos è una novità nella scena metal italiana, si tratta in realtà del prodotto dell’unione di musicisti già attivi in diverse band dell’area salernitana.

Catharsis dimostra in ogni passaggio d’essere frutto di un lavoro di squadra nel quale nulla è stato lasciato al caso, partendo dal pregevole songwriting per arrivare alla realizzazione curata da Marco Mastrobuono ai Kick Recordings Studio di Roma, in quella che si può considerare la fucina sonora per eccellenza del metal italiano centro-meridionale.
L’etichetta di avantgarde/post black attribuita ai Párodos può starci anche se, come spesso accade, vuol dire tutto e niente, visto che qui troviamo certamente qualche accelerazione di matrice black, ma anche una ricerca melodica che spinge spesso il sound su versanti heavy progressive, mantenendo quale tratto comune un’oscurità di fondo che ben si addice ai contenuti lirici dell’album.
Catharsis, infattiscaturisce dall’elaborazione di un lutto entrando a far parte di quella categoria di dischi che, oltre ad essere riusciti da un punto di vista prettamente artistico, racchiudono quella scintilla di creatività derivante dalla volontà di omaggiare qualcuno che non c’è più ottenendo, appunto, il desiderato effetto “catartico”.
L’album è brillante in ogni sua parte, a partir dall’interpretazione vocale versatile di Marco Alfieri, per arrivare all’elegante ed  incisivo lavoro tastieristico di Giovanni Costabile, passando per la puntualità ritmica della coppia Gianpiero “Orion” Sica (basso) ed Alessandro Martellone (batteria), e per il sobrio ed efficace lavoro chitarristico di Francesco Del Vecchio: è notevole l’equilibrio che i Párodos riescono a mantenere tra la tensione drammatica e l’impatto melodico, che sovente squarcia con decisione il velo di oscurità che attanaglia un album di grande intensità emotiva.
Space Omega, la title track e Metamorphosis sono i brani che spiccano in un contesto di spessore talvolta sorprendente, e gli ospiti illustri nelle persone dello stesso Marco Mastrobuono (Hour Of penance), Massimiliano Pagliuso (Novembre) e Francesco Ferrini (Fleshgod Apocalyspe) arricchiscono del loro personale marchio di qualità un’opera che si dimostra già dopo pochi ascolti ben superiore alla media.
La speranza è che questo, per i Párodos, sia solo il primo passo del brillante cammino intrapreso da una nuova band formata da musicisti che, forse proprio in quest’ambito, paiono aver trovato la loro ideale dimensione.

Tracklist:
1. Prologue
2. Space Omega
3. Catharsis
4. Heart of Darkness
5. Stasima
6. Black Cross
7. Evocazione
8. Metamorphosis
9. Exodus

Line-up:
Marco “M.” Alfieri – Vocals
Giovanni “Hybris” Costabile – Synth & Keyboards
Francesco “Oudeis” Del Vecchio – Guitars
Gianpiero “Orion” Sica – Bass
Alessandro “Okeanos” Martellone – Drums & Percussions

Special Guests :
Marco Mastrobuono – fretless bass in “Space Omega”, “Black Cross”, “Evocazione”
Massimiliano Pagliuso – guitar solo in “Black Cross”
Francesco Ferrini – “Stasima”, fully arranged and composed

PARODOS – Facebook

Alcest – Souvenirs D’Un Autre Mond

Questa opera è davvero ciò che dice il titolo, ricordi di un altro mondo, e il disco è la narrazione folclorica di questo mondo che è dentro di noi.

Sono passati dieci anni dalla data di pubblicazione di questo flusso onirico messo in musica, di un disco che ha sparigliato tutte le carte, di uno dei dischi preferiti da molti, come Pitchfork che lo ha inserito nella classifica dei migliori dischi di shoegaze di sempre.

In origine Souvenirs D’Un Autre Mond dovevca essere un breve progetto solista di Neige, chitarrista dei Peste Noire e dei Forgotten Woods, ma questo disco ha cambiato tutto, e ora Alcest è un nome consolidato nel metal altro.
Questa opera rielaborava in maniera molto personale sonorità che fino a quel momento si erano incontrate solo sporadicamente, come il post black metal, che è uno sviluppo del black metal, uno sfruttare alcune sue caratteristiche per portare avanti una musica di più ampio respiro. Lo shoegaze è un grande protagonista di questo disco, quel muro del suono che porta a galla il nostro subconscio e che qui si sposa benissimo con sfuriate black metal. La voce di Neige è un sogno nel sogno, come se qualcuno ci parlasse nell’orecchio durante il sonno. Come nelle opere maggiori delle arti, c’è un ribaltamento fra realtà e sogno, i piani si capovolgono e veniamo catturati da un’altra dimensione, nella quale il dolore e la gioia sono puri e un senso di leggerezza permea tutto. L’immaginario di questo disco è fortemente francese, infatti i cari significati sono occulti e le canzoni sono brevi romanzi di cose che nell’esagono sono molto sentite.
Come ristampa ci saranno varie sorprese sia per l’edizione in cd che per quella in vinile, come la copertina originale della prima stampa su lp, un libretto sull’anniversario, foto inedite, commenti di Andy Julia, il fotografo che è praticamente un membro del gruppo, e di Aaron Weaver dei Wolves In The Throne Room per testimoniare l’enorme influenza di questo disco.
Soprattutto ci sarà questo capolavoro che ci fa tornare bambini, un disco profondamente diverso e quasi perfetto, in grado di scatenare tempeste di emozioni, e che chiede solo di toglierci le zavorre e di chiudere gli occhi, perché questa opera è davvero ciò che dice il titolo, ricordi di un altro mondo, e il disco è la narrazione folclorica di questo mondo che è dentro di noi.

Tracklist
1. Printemps Émeraude
2. Souvenirs d’un autre monde
3. Les Iris
4. Ciel Errant
5. Sur l’autre rive je t’attendrai
6. Tir Nan Og

Line-up
Neige : guitars/bass, synths and vocals
Winterhalter : drums

ALCEST – Facebook

Sorrow Plagues – Homecoming

Homecoming è un lavoro che non mostra cedimenti e riesce a mantenere sempre un invidiabile equilibrio tra le diverse componenti del sound.

Sorrow Plagues è il nome del progetto solista di David Lovejoy, musicista inglese che ha iniziato questa sua avventura nel 2014, pubblicando diversi ep e singoli fino ad approdare all’esordio su lunga distanza l’anno scorso, per giungere infine a questo suo secondo full length intitolato Homecoming.

L’ambito entro il quale si muove il ragazzo britannico è un black atmosferico con spiccata propensione verso lo shoegaze: una soluzione che abbiamo già incontrato più volte ma che si rivela sempre gradevole ed opportuna, in special modo se esibita con il buon talento e la sensibilità che contraddistinguono questo album.
La malinconia di fondo che pervade il lavoro è percepibile anche dai titoli dei brani che non lasciano molto spazio all’immaginazione: David si dimostra anche un musicista a tutto tondo, esibendo un buon gusto dal punto di vista tastieristico ed un bel tocco chitarristico, mentre come da copione nel genere la voce viene un po’ sopraffatta dagli strumenti a livello di produzione.
Continuo a pensare che questa soluzione stilistica abbia un senso solo quando proviene dai bassifondi dell’underground musicale, come avviene appunto in questo caso, rivelandosi frutto di un’espressione spontanea, fresca e ricca di spunti eccellenti, ben lontana dai tentativi di rendere più fruibile, con solo il risultato di farlo apparire artefatto, un sottogenere che per finalità e tematiche dovrebbe posizionarsi esattamente agli antipodi di ogni tentazione commerciale (ogni riferimento agli ultimi Ghost Bath è del tutto voluto …).
Del resto David fa propri gli insegnamenti del maestro Neige e ne sviluppa in maniera competente e spesso emozionante le coordinate tipiche, grazie ad ariose ed ampie aperture melodiche che vengono sporcate solo da uno screaming di stampo DSBM.
Homecoming è un lavoro che non mostra cedimenti e riesce a mantenere sempre un invidiabile equilibrio tra le diverse componenti del sound, trovando il suo picco ideale nella più lunga e magnifica Disillusioned ed il suggello con una title track che vede anche l’utilizzo di parti di sax, a testimoniare la volontà di Lovejoy di non rendere troppo monodimensionale la proposta.
Al momento il nostro ha chiamato a sé altri musicisti per poter offrire anche dal vivo la propria musica: una scelta condivisibile e che, spesso, consente ai titolari di one man band di ampliare ulteriormente i propri orizzonti con ricadute ovviamente positive anche sull’approccio compositivo; già così, comunque, i Sorrow Plagues si dimostrano una delle migliori espressioni odierne dello shoegaze abbinato al black atmosferico.

Tracklist:
1. Departure
2. Disillusioned
3. Isolated
4. Irreversible
5. Relinquish
6. Homecoming

Line up:
David Lovejoy – All Instruments

SORROW PLAGUES – Facebook

Lascar – Saudade

Il titolo Saudade, nel senso di sentimento di rimpianto, di malinconia nostalgica, si adatta alle perfezione a queste sonorità che non possono mai lasciare indifferenti gli animi sensibili, specialmente quando vengono maneggiate con questa perizia.

Secondo full length in un breve lasso di tempo per il cileno Gabriel Hugo ed i suo progetto solista Lascar, dopo Abscence uscito all’inizio del 2016.

Saudade continua con lo stesso canovaccio, ovvero quella di un post black dalle terminazioni shoegaze e depressive, sulla falsariga di nomi come Ghost Bath ma, ovviamente molto meno curato a livello di produzione e sicuramente più genuino e sentito dal punto di vista compositivo.
Lo screaming di matrice DSBM del musicista di Santiago si staglia su un tessuto sonoro che sovrappone accelerazioni in blast beat a passaggi ariosamente malinconici leggermente affossati da un lavoro alla consolle non proprio impeccabile, senza che però il tutto vada a vanificare la buona propensione melodica dell’opera nel suo insieme.
Il modus operandi si ripete puntualmente in ognuna delle quattro tracce dalla lunghezza media di una decina di minuti, senza presentare quindi variazioni sul tema ma neppure smarrendo il pathos che Hugo riversa nelle proprie composizioni, capaci di restituire in maniera compiuta quel senso di perdita, fragilità e disperazione che viene opportunamente citato in sede di presentazione.
Allo stesso modo il titolo Saudade, nel senso di sentimento di rimpianto, di malinconia nostalgica, si adatta alle perfezione a queste sonorità che non possono mai lasciare indifferenti gli animi sensibili, specialmente quando vengono maneggiate con questa perizia, trovando a mio avviso i propri picchi nella seconda metà dell’album con Uneven Alignment e Bereavement.
Al netto dello schema compositivo forse un po’ troppo reiterato e di suoni non sempre limpidissimi, quest’opera nome Lascar dovrebbe trovare senz’altro i favori del pubblico di nicchia che ama questo particolare sottogenere del black.

Tracklist:
01) Tender Glow
02) Thin Air
03) Uneven Alignment
04) Bereavement

Line up:
Gabriel Hugo – All instruments, Vocals

LASCAR – Facebook