METEORE: EXORCIST

Primo ed unico disco di una band misteriosissima, dietro la quale si celano in realtà gli statunitensi Virgin Steele (i nomi dei componenti degli Exorcist sono del resto palesi pseudonimi).

ExorcistNightmare Theatre

L’uscita di questo disco nel 1986 venne subito accompagnata dalla voce secondo la quale dietro alla band degli Exorcist (che in effetti nessuno aveva visto in faccia e che non si esibivano dal vivo), si celassero in realtà i newyorkesi Virgin Steele, campioni dell’epic metal e dell’hard rock più cromato di gran classe desiderosi di misurarsi con un album thrash, allora al culmine della popolarità, specie in America. La biografia ufficiale degli Exorcist affermava soltanto che il quartetto proveniva dalle terre canadesi. Da parte sua, il vocalist dei Virgin Steele, il cantante e tastierista David De Feis, non fece altro che negare ogni forma di coinvolgimento suo e dei suoi compagni d’arme. Tutti, peraltro, si convinsero della cosa, che oggi viene in buona sostanza data per assodata. Le coincidenze, d’altra parte, non erano poche: ambedue le band appartenevano alla scuderia della Cobra, erano prodotte da De Feis stesso e impiegavano il medesimo studio di registrazione, il Sonic Sound. Inoltre, dopo che Nightmare Theatre fu stampato, gli Exorcist scomparvero nel nulla: una vera meteora, insomma. Lo sfogo thrash dei Virgin Steele, ristampato giusto un anno fa dalla HR Records in edizione doppia, è da riascoltare: un thrash assai oscuro e tetro, non distante da certo horror metal di qualità, intriso di atmosfere dark e con una gran dose di occulta ferocia sonora. Detto altrimenti: un classico, con titoli e testi degni delle evil stories di King Diamond.

Track list
1- Black Mass
2- The Invocation
3- Burnt Offerings
4- The Hex
5- Possessed
6- Call For the Exorcist
7- Death By Bewitchment
8- The Trial
9- Execution of the Witches
10- Consuming Flames of Redemption
11- Megawatt Mayhem
12- Riding to Hell
13- Queen of the Dead
14- Lucifer’s Lament
15- The Banishment

Line up
Damian Rath – Vocals
Marc Dorian – Guitars
Geoff Fontaine – Drums
Jamie Locke – Bass

Prima del successo: note e appunti sull’alba della new wave britannica

Quando il purismo, non importa di quale segno, ha fatto solo danni. Potremmo iniziare così questa nostra inchiesta storico-musicale, volta a riconsiderare – e rivalutare, perché bisogna, ora, deporre i pregiudizi – dischi e gruppi, emersi al tempo della new wave, che, a causa della fama, hanno fatto (e tuttora fanno) storcere il naso a molti. Ingiustamente, però, dato che prima di svoltare verso suoni e soluzioni di tipo sfacciatamente commerciale, quegli artisti hanno fatto talvolta altro, e sovente con risultati tanto eccellenti quanto purtroppo dimenticati o misconosciuti.

L’anno-cardine, terminato il primo e più noto fermento punk (1976-78), fu il 1979. Nel giro di pochi mesi videro la luce dischi importanti ed iniziatori. Tra questi, sono assolutamente da segnalare il LP d’esordio di Adam and the Ants (Dirk Wears White Sox fu un formidabile incrocio di retaggio punk e dark sperimentale, ed il successo arrivò solo dopo) e Life in a Day, debutto degli scozzesi Simple Minds. Il gruppo di Jim Kerr e Charlie Burchill si spinse ancora più in là, con il successivo Real to Real Cacophony (1979, impregnato di umori alla Can di Tago Mago) e soprattutto con Empires and Dance (1980, permeato di oscura e obliqua ricerca elettronica). Suoni tedeschi, con membri dei Can in cabina di regia, anche per il primo Eurythmics (In the Garden, 1981), proprio due anni prima di Sweet Dreams. Ed entusiasmante new wave sintetica pure per gli australiani INXS degli anni 1980-84, prima che virassero verso un (peraltro brillante) hard pop da classifica.
Anche la fase 1978-80 degli Human League di Sheffield (formatisi sulle ceneri dei Future), prima cioè del successo mondiale di Dare (1981), produsse un EP (The Dignity of Labour) con marziali e incalzanti strumentali di sintetizzatore, nonché due dischi che mostravano apertamente il debito del nuovo pop-rock elettronico verso il varco aperto in Gran Bretagna dal post-punk, varco per il quale passarono pure gli avventurosi – e, almeno a inizio carriera, quasi rumoristici – Cabaret Voltaire. Il primo disco degli OMD di Liverpool, inciso nel 1979 e pubblicato nel 1980, mostrava anch’esso un taglio freddo e minimalista (Colonia e Dusseldorf restavano evidentemente due modelli, cui rifarsi e guardare). Ed anche Organisation, il disco (del 1980) che conteneva il fortunatissimo 45 giri Enola Gay, era un album completamente diverso dal suo singolo trainante, con scelte sonore malinconiche ed autunnali, poco appariscenti e quasi impalpabili nella loro colta orchestrazione di fondo. Occorre rimarcarlo e rifletterci sopra adeguatamente. Anche qui, scelte più facili furono compiute soltanto in seguito, dal pessimo Junk Culture (1984) in poi.

E che dire dei Visage? Si trattava, per riprendere la terminologia in voga tra fine anni ’60 e primi ’70 sulla carta stampata, di un super-gruppo, che comprendeva membri e collaboratori di Ultravox, Rich Kids e Gary Numan, con sugli scudi arrangiamenti sopraffini, recitati femminili, ottime capacità di scrittura ed esecutive (pensiamo solamente al grande violinista e tastierista Billy Currie, il Paganini della new wave inglese, senza voler esagerare). Altro fondamentale anello di congiunzione tra punk del 1978 e ‘nuova onda’ britannica fu l’ex Generation X Billy Idol, che da solista – come il massimo giornalista e storico del punk, Jon Savage, ha sottolineato, in England’s Dreaming – ha ottenuto il suo meritato successo. L’artista, nel prosieguo della sua carriera, si è confrontato anche con la fanta-scienza (in Cyberpunk, del 1993) ed è, di recente, tornato sulle scene, con Kings and Queens of the Underground, ottimo lavoro di AOR moderno e moderatamente tecnologico. A suonare le tastiere e i sintetizzatori sul disco è stato tra l’altro un maestro del pomp rock, Geoff Downes, l’ex leader (con alla voce Trevor Horn, poi con lui negli Yes e celeberrimo produttore) dei Buggles di Video Killed the Radio Stars, una delle canzoni simbolo del 1980 in tutta Europa.
Eccoci quindi a trattare – ebbene sì, è giunta l’ora di farlo – dei Duran Duran. Nati a Birmingham, nel 1978, con uno stile tra glam rock e post-punk, in principio con Stephen Duffy alla voce, i cinque debuttarono con l’ottimo e troppo sottovalutato esordio omonimo, nel 1981: un grande disco di new wave elettronica, con il fantastico strumentale Tel Aviv in chiusura, lavoro che ben poco poteva fare presagire del successo planetario di qualche anno dopo. Rio (1982) iniziò a sbancare i botteghini – è vero – però conteneva ancora un brano eccellente, The Chauffeur, scritto nel 1978 ed intriso di echi progressivi, che si dipanano nei sette minuti del pezzo soprattutto con il notevole lavoro tastieristico di Nick Rhodes. La svolta, totalmente e solo commerciale, giunse con il terzo disco, Seven and the Ragged Tiger (1983), insipido e banale. Le quotazioni del gruppo si risollevarono tuttavia subito col live Arena (1984, molto rock nelle esecuzioni). Dalla band di Birmingham derivarono a quel punto gli Arcadia (1985, David Gilmour fra i prestigiosi collaboratori) ed i techno-funkers Powerstation (con alla voce Robert Palmer, che aveva scoperto il synth-pop in Clues nel 1980). I Duran Duran si rimisero assieme solo nel 1986, per il debole Notorius, che sprecava il riferimento ad Hitchcock del titolo per una sciatta e commerciale mistura mal digerita di pop, dance, r ‘n’ b e smooth jazz. Meglio (almeno in parte) fece Big Thing, due anni più tardi. Quindi crisi, sbandamenti ed abbandoni, sino al ritorno, qualche anno fa, con una serie di CD discreti, che guarda il caso ritornano parzialmente alle origini. Risale al 1987, infine, l’esordio solista Thunder, di Andy Taylor, classico lavoro di hard rock inglese, inserito dagli specialisti d’oltremanica tra i 100 top album nella storia della chitarra. Forse troppo, comunque un disco di qualità e da riscoprire, edito un anno prima che Taylor producesse (e suonasse magistralmente, da vero e autentico professionista) in Out of Order di Rod Stewart (1988).

Discorso assai simile si può fare per i ‘cugini-rivali’ Spandau Ballet. Dal loro terzo disco, col quale svoltarono verso un soul-pop levigato, e baciato da enorme successo commerciale, nessun critico o giornalista li ha mai voluti considerare. Anche, mi permetto di dirlo, per pregiudizio o partito preso: chi e quando ha stabilito che chi ‘vende’ non vale nulla? Rammentiamo che, nella storia del rock, si sono trovati ai primi posti delle classifiche mondiali nomi storici ed imprescindibili, come Jefferson Airplane, Grateful Dead, Bob Dylan, Pink Floyd, Yes, Genesis, Jethro Tull, Elton John, Billy Joel, Supertramp, BJH, ELO, ELP, Asia, Journey, Foreigner, REO Speedwagon, Springsteen, U2, Guns ‘n Roses, Iron Maiden, Metallica, Marillion… E che in Germania, paese da sempre attento al valore e alla qualità della cultura musicale, ai primi posti delle charts abbiamo avuto, proprio in questi mesi, band metal, inossidabili ed incorruttibili, come i Powerwolf e gli Immortal. Ma lasciamo perdere: chi scrive non vuole di certo fare polemica, solo ricostruire verità di fatto, colpevolmente ignorate o volutamente fatte passare sotto silenzio a causa di preconcetti arbitrari.
Torniamo agli Spandau Ballet. Quando non erano ancora nessuno, i cinque inglesi realizzarono, nel 1981, il loro debutto, Journeys to Glory. Intanto, il disco era prodotto da Richard James Burgess, un vero mago della ricerca elettronica inglese. Inoltre, i pezzi del disco palesavano un approccio molto post-punk, con due chitarre affilate e taglienti, suoni squadrati e geometrici, atmosfere tese e spesso cupe, due sintetizzatori, dalle timbriche gelide ed algide, canzoni freddissime e molto ‘tedesche’: un rock elettronico e quasi futuristico, che flirtava sommamente con le nuove tecnologie di allora, non senza una produzione pazzesca e avveniristica. Un capolavoro, anche se nessuno osa ammetterlo. E si tratta di un grave errore, diciamolo chiaro. Con il secondo disco – rifiutando intelligentemente di ripetersi – il quintetto albionico continuò il suo lavoro con il geniale Burgess: sulla prima facciata, a parte lo stupendo singolo Instinction (che rimandava alle sonorità dell’esordio), gli altri tre pezzi si rivolgevano piuttosto a soluzioni ritmate ed accattivanti di marca funky rock; le tracce della seconda facciata, a cominciare da una sublime cavalcata, alla Ultravox, She Loved Like Diamond, tornavano al sound del primo album, con, in più, le suggestioni e misteriose e rarefatte di Pharaoh, e le scale orientali degli ultimi due brani, in grado di anticipare certi schemi cari, in seguito, al duo Sylvian-Sakamoto. Il resto è storia nota: dal 1983 gli Spandau Ballet furono, di fatto, un altro gruppo, che cambiò genere ed incontrò una fama crescente (con dischi comunque gradevoli, per quanto di puro easy listening).

Chiudiamo questa breve rassegna con la scuola definita, già a quel tempo e non senza toni alquanto dispregiativi, new romantic: molto facile e assai sbrigativo, allora come oggi, sottostimare gruppi in realtà interessantissimi, come i Classix Nouveaux, campioni di un decadentismo in musica capace di unire le morbide songs esotiche dei Japan con le progressioni sinfoniche degli Ultravox. E sono, ad ogni modo, tanti i gruppi poco o nulla considerati, perché ritenuti troppo easy (come se scrivere una bella canzone di successo fosse una colpa!): pensiamo agli Alarm (che solo distrattamente sono stati bollati come una ‘brutta copia’ degli U2), agli americani Animotion (che seppero portare negli USA, la tradizionale patria del rock più sanguigno, le melodie del synth-pop), i nostri indimenticati Krisma (passati da sperimentazioni alla Tangerine Dream negli anni Settanta ad un intelligente pop elettronico, durante la decade successiva), sempre in Italia al primo Garbo (che riecheggiava Eno e il Bowie berlinese del 1977-79), ai tedeschi DAF (nati con il kraut rock più astratto e sperimentale) e Alphaville (numeri 1 con Forever Young, ma anche collaboratori del grande Klaus Schulze), agli Art of Noise ed agli Yello (lo spessore delle cui sperimentazioni non può e non deve esser appiattito solo svalutando alcuni singoli di più facile presa), ai Talk Talk (capaci sempre di reinventarsi e di rimettersi in gioco), ai Level 42 (che non furono solo il gruppo della hit Lessons in Love, ma anche una grande band di jazz rock, come attestano il primo omonimo, il doppio live e il primo LP solista del tecnicissimo Mark King, uno dei più grandi bassisti degli ultimi quattro decenni). Né dobbiamo, poi, condannare senza diritto di replica Mission e Bolshoi, solo per avere reso più fruibile il gothic-dark di Leeds e di Londra.
Altro mito da sfatare è quello di una new wave che romperebbe i ponti con il passato (leggasi i ’70), quando, in realtà, è vero spessissimo il contrario: i grandiosi Magazine, di Manchester, ed i Fiction Factory (una splendida meteora del 1984) seppero riportare in auge ed aggiornare in una chiave più melodica la lezione dei Roxy Music di Brian Ferry. Questi ultimi influenzarono non poco anche gli A Flock of Seagulls, di Liverpool, tra i pochissimi artisti che introdussero nel synth-pop la chitarra, strumento che era stato, per un certo periodo, accantonato. Né vanno dimenticati gli All About Eve (che rilessero con gusto ed in una direzione tra ambient e dark-wave il prog lirico e neo-classico dei Renaissance), i comunque gradevolissimi New Musik, il geniale Thomas Dolby (che iniziò con il kraut elettronico tedesco, prima di diventare solista di pregio, produttore ricercatissimo ed autore di colonne sonore, tra le quali Gothic, il visionario e barocco film dedicato da Ken Russell a Shelley e Byron). Persino i norvegesi A-Ha, dopo il boom di Take on Me (1985), seppero maturare, donando, con Scoundrel Days (1986) e Stay on These Roads (1988), perle luminose di nordica intensità. Oggi come riascoltare i dischi ed i gruppi censiti in questa rassegna? Accantonando idiosincrasie, aprendo la mente, evitando letture pre-costituite, allontanando una volta per sempre rigidi quanto ideologici e vuoti schematismi. E soprattutto mettendo finalmente da parte la sciocca equazione successo=pop commerciale=musica senza valore.

Siege of Power – Warning Blast

Il disco di crust punk dell’anno, un perfetto e feroce incrocio di hardcore anglo-americano e di death metal old school, eseguito da musicisti che sono autentici e noti maestri.

A volte da un progetto nato quasi per gioco o per semplice divertimento estemporaneo, può nascere bella musica.

Così è stato per Schmier dei Destruction con i suoi Panzer (già due dischi), così è per i Siege of Power, creati da musicisti americani (Chris Reifert degli Autopsy) ed olandesi (l’ex Asphyx Bob Bagchius), di chiara fama ed apprezzate qualità. I Siege of Power non fanno, peraltro, death – a parte le linee vocali, simili, nello stile, ai Morbid Angel di Abomination of Desolations (1986) – ma uno strepitoso crust-core con venti canzoni al fulmicotone, che si assestano più o meno tutte intorno ai due minuti, ad eccezione della più elaborata (e con qualche rallentamento doom) The Cold Room, sul finire del lavoro. E i suoni e lo stile sono pertanto molto anni Ottanta, ovviamente aggiornati dal quartetto in maniera attenta ed implacabile. Non vi è infatti un attimo di tregua nei solchi laser delle songs che vanno a comporre questo magistrale Storming Blast, quasi un omaggio alla tradizione di New York (leggasi Carnivore e SOD) e soprattutto anglo-britannica (i seminali Discharge ed anche gli indimenticati Amebix, dello storico capolavoro Arise, targato 1985), con opportuni inserti speed di classica matrice venomiana. Il disco è formidabile, tra i migliori dell’anno: non soltanto – si badi bene – un tributo al passato, ma un omaggio sincero quanto sentitissimo ad un approccio musicale e ad una visione della vita che non si estingueranno mai.

Tracklist
1- Conquest For What?
2- For the Pain
3- Bulldozing Skulls
4- Born Into Hate
5- Torture Lab
6- Uglification
7- Trapped and Blinded
8- Diatribe
9- Wraning Blast
10- Mushroom Cloud Altar
11- Lost and Insane
12- Bleeding For the Cause
13- Escalation ‘til Extermination
14- Privileged Prick
15- Short Fuse
16- Violence in the Air
17- It Will Never Happen
18- The Cold Room
19- Servant of Nothing
20- Mushroom Cloud Altar (bonus version)

Line-up
Chris Reifert – Vocals
Bob Bagchius – Drums
Paul Baayens – Guitars
Theo Van Eekelen – Bass

SIEGE OF POWER – Facebook

Dopo il 1977 – Il punk inglese anni Ottanta

Che il ’77 sia stato un anno cardine, un crocevia temporale imprescindibile, nessuno lo discute più o lo ha mai discusso.

Fu realmente l’anno zero del rock, non solo nel Regno Unito, che fu e il luogo e il motore della svolta e della rivolta (non solo artistico-canora). Correttamente, i giornali e la stampa dedicati alla musica sono soliti affermare che la linfa vitale del punk britannico primevo si esaurì in circa due anni scarsi, dalla nascita dei Sex Pistols nel 1976 (anche se i seminali Stranglers erano nati addirittura nel 1974) sino alla morte di Nancy Spugen e Sid Vicious all’inizio del 1978. Vero. Si dice giustamente che presto – dal 1978-79 in poi, per l’esattezza – vennero il post punk (PIL, Pop Group, Killing Joke, ed altri nomi storici) e la new wave (ramificatasi in fretta in tre filoni fondamentali: il synth-pop elettronico, inaugurato dai Tubeway Army di Gary Numan e dagli Ultravox; il dark, sorto grazie ai Cure; la neo-psichedelia di Liverpool). Vero, di nuovo. Altrettanto vero è che chi dal primo punk inglese veniva e rimase in circolazione, cambiò spesso genere nel nuovo decennio. Al riguardo si può ripensare alla bella e brava Siouxie, oppure ai mitici Damned, che flirtarono, dapprima, con l’eredità dei Doors (nel Black Album, del 1980) e in seguito con sonorità gotico-elettroniche pregne di atmosfere prog e tastieristiche (lo stupendo Phantasmagoria, 1985: un vero spartiacque). Anche i Clash di Joe Strummer e Mick Jones cercarono nuovi orizzonti, dopo London Calling (1979). Tanto il reggae quanto il funk andarono infatti ad innervare le trame sonore del complesso Sandinista nel 1980. Alla asciutta ed abrasiva essenzialità del punk i Clash ritornarono poi nel 1982, con il classico Combat Rock (un titolo, una garanzia). Il loro ultimo lavoro, il discusso ma fantastico Cut the Crap (1985) uscì in una Gran Bretagna raggelata dalla Tatcher e fu, comunque, una fotografia dello stato della nazione, a partire dal magnifico singolo This Is England, forte di cori da stadio, drum machine e sperimentazioni con il sintetizzatore ai limiti del dub e del rap newyorkese di allora.

Tuttavia – e non si tratta certo di sopravvivenze marginali, come anche la pubblicistica di settore ha, seppure tardivamente, riconosciuto – il punk non morì, né scomparve. Vi fu, in Gran Bretagna, chi continuò a suonarlo e, soprattutto, a credere nei suoi principi, incarnando il nichilismo, la ribellione sociale e il pessimismo in nuove forme, tutte comunque fedeli ai modelli originali e da esso derivate attraverso una filiazione cronologica e valoriale diretta. Anche quella inglese degli anni ’80, in altre parole, fu una generazione del No Future. Ripensiamo al tatcherismo, alle periferie londinesi (e non solo), alle condizioni di vita dei minatori ed in generale ai problemi lavorativi della low class, allo stesso fenomeno degli Hooligans contiguo allo street punk nonché a certe frange dell’estrema destra britannica (la mente va qui agli scontri tra gli ultras del West Ham e quelli del Millwall, immortalati splendidamente dal film intitolato appunto Hooligans, diretto nel Lexi Alexander da 2005).

Tra i gruppi che portarono lo spirito del punk – eccola l’espressione giusta – negli Eighties vi furono in primis gli appartenenti al movimento Oi! e si tratta di grandi band, senza discussioni. Impossibile non ricordare in questa sede i Chelsea, i Lurkers, i Blood, i Vice Squad, i Last Resort (veri leader della corrente skinhead, insieme ai più famosi 4 Skins), i Menace, i capostipiti Sham 69, i Ruts (in seguito collaboratori dell’americano Henry Rollins post Black Flag). Né si può dimenticare qui, poi, la scena di Sunderland, legatissima alla squadra di calcio: i Wall di Personal Troubles and Public Issues, i Red Alert (che misero lo stemma dei loro beniamini sulla copertina di Wearside), gli stessi Red London, che si esibivano sul palco con la maglia dei Black Cats. Esponenti di spicco del filone Oi!, anche i grandi Cocksparrer, importante punto di riferimento pure per il thrash metal europeo: la loro We’re Coming Back è stata superbamente coverizzata dai tedeschi Tankard nel loro Beast of Bourbon (2004). Da molteplici punti di vista, anche se di rado membri ed esponenti hanno voluto ammetterlo, l’Oi! ha ripreso, aggiornato, radicalizzato ed indurito il messaggio dei Mods inglesi più disincantati di metà anni Sessanta: all’alba di tutto, ancora una volta, ritroviamo così My Generation degli Who, autentica pietra miliare e punto di partenza irrinunciabile, anche per il discorso che, qui, si sta svolgendo.

Molte volte, in relazione al movimento Oi!, si è parlato di stretti legami con la destra radicale. Altre volte, la cosa è stata invece smentita. Una vexata quaestio, si potrebbe dire, che si trascina dal 1981-82 almeno. La verità è probabilmente nel mezzo. Gruppi fondamentali come gli Angelic Upstarts, effettivamente, furono socialisti (come idee politiche) e nazionalisti (per animo patriottico: si ascolti la loro stupenda ed emblematica ballata England), ma non nazisti. In altri casi – gli Skrewdriver di Ian Stewart, successivamente leader del National Front – i rapporti con il cosmo dell’estrema destra vi furono e anche alquanto forti. Altre volte ancora, come nel caso degli scozzesi Skids, il discorso fu assai più sfumato: il loro capolavoro Days in Europa (1980), prodotto nel 1979 da Bill Nelson, dei glamsters Be-Bop Deluxe, attinse sin dalla copertina all’iconografia dei Giochi Olimpici di Berlino del 1936. Il disco conteneva almeno due pezzi-simbolo: Working for the Yankee Dollars (un’invettiva dura ed esplicita contro il capitalismo statunitense) e Dulce et decorum est pro patria mori (un grande inno in effetti ultranazionalista). Una considerazione da fare riguardo agli Skrewdriver di Stewart: al di là delle posizioni ideologiche (furono, in effetti e dichiaratamente, neo-fascisti), la loro fu grande musica, che in un’Inghilterra e in un Europa che soltanto a parole amano dirsi democratiche, liberali, tolleranti ed aperte, non ha mai visto una ristampa ufficiale su compact per mero pregiudizio, benpensante e bigotto. Un’indecenza. Senza contare, inoltre, che diverse punk band giudicate magari a torto neo-naziste erano in realtà anarchiche di destra. Punto.

Visto che abbiamo parlato di Scozia, impossibile fare passare sotto silenzio gli Exploited, assieme agli UK Subs di Diminished Responsibility (1981, nella Top Twenty britannica) ed ai Disorder di Distortion to Deafness i veri creatori del punk-metal. Il gruppo di Wattie, forse la voce più sgraziata di sempre, ha scritto la storia con il manifesto Punk’s Not Dead (1981) ed ha poi saputo reinventarsi con il più cupo e sinistro Horror Epics (1985), sino a fondare di fatto il metal-core nel 1987 (anche se definizioni ed etichette sono arrivate dopo) con lo storico e magnifico Death Before Dishonour. Il titolo del come-back in studio degli scozzesi, nel 2002, è stato non a caso Fuck the System, il segno che lo spirito dell’82 vive ancora incessantemente, puro ed incontaminato. Affini allo street punk – sia pure molto meno estremi, rispetto agli Exploited – e prossimi all’Oi!, abbiamo, inoltre, i Blitz, i Total Chaos, i giustamente celebri Anti-Nowhere League ed in anni più recenti i Tempars, ultimi epigoni di una scena davvero gloriosa.
Gli Exploited sono altresì il trait-d’union fra street punk e anarco-punk. Di quest’ultimo genere sono assolutamente da ascoltare Icons of Filth, Exit-stance, Instigators, Conflict, Xpozez, Zounds e i Kronstadt Uprising, che presero il nome dall’insurrezione anti-sovietica di marinai e soldati russi nel 1921. Quasi tutti i lavori di queste band sono stati ristampati su CD – all’epoca incisero singoli e demo tapes, split e mini soprattutto – e si possono dunque recuperare oggi con relativa facilità.

Per ragioni lirico-tematiche, oltre che stilistiche e di approccio, l’anarco-punk è sfociato, presto, nel crust punk (da cui, con i Napalm Death, è nato il grind). Padrini del crust punk sono stati gli storici Discharge, nati proprio nel 1977 e quindi al momento dell’origine di tutto, autentico e solido anello di congiunzione tra il primissimo punk inglese e i suoi itinerari ottantiani. Il crust punk del gruppo – un modello per moltissimi colleghi, a partire dai Metallica – è un hardcore minimalista e metallico, screziato di speed-thrash a tratti rumoristico. Veri pionieri i Discharge, ispiratori dei Charged GBH di Birmingham (memorabile il loro periodo su Clay Records 1981-1984). Poi Antisect – costituitisi, nel 1982, a Daventry, nel Northamptonshire – Extreme Noise Terror (fondati da membri dei Chaos UK) del masterpiece A Holocaust in Your Head (1988) ed Amebix del capolavoro Arise (1985) han definito in forma compiuta le coordinate del crust punk, ponendo le basi per gli sviluppi successivi, ad opera delle singole scuole nazionali: finlandese (Impaled Nazarene, in un contesto black e grind), svedese (Driller Killer, Skitsystem e Wolf Brigade), americana (Disrupt e Nux Vomica), brasiliana (i leggendari antesignani Ratos de Porao) e giapponese (i blacksters Gallhammer).

Il crust punk, nel Regno Unito di fine anni Ottanta, si è fuso – una naturale evoluzione – con l’allora neonato crossover thrash. In merito, le band basilari sono state Cerebral Fix, Hellbastard, English Dogs ed Unseen Terror tra gli altri. A loro volta, questi ultimi appartengono altresì alla prima storia del grind albionico, raccontata nel documentario (su VHS) Punk As Fuck, per la visione del quale sono debitore all’amico ‘helvetiano’ Michele Massari. In quel filmato, amatoriale e casalingo, come del resto l’etica spartana del punk impone, sono ripresi dal vivo, tra gli altri, artisti quali i Joyce McKinney Experience, i melodici HDQ, i laceranti proto-grinders Heresy e Ripcord (tutte band riedite dalla Boss Tuneage) e i Doom (ristampati dalla Peaceville), così come i Deviated Instinct, i quali traghettarono il crust punk in direzione death metal, con il sette pollici Welcome to the Orgy (1987) ed i due LP seguenti (Rock ‘n Roll Conformity e Guttural Breath, rispettivamente del 1988 e del 1989). Sulla medesima falsariga, segnaliamo anche Concrete Sox e Sore Throat.
Oggi, riattingere all’universo del punk inglese anni ’80 è facilissimo e assai comodo grazie alle tante ristampe, molto ben curate, anche sotto il profilo grafico ed informativo, della Cherry Red (sovente in cofanetto) e della Westworld (Anti-Pasti, Business, Chaotic Dischord, The Dark, Infa Riot, Chron Gen, Outcasts, Toy Dolls e 999, i formidabili One Way System e gli storici Broken Bones). Buona caccia. Perché quel mondo merita, e non poco. Tra le sue canzoni, vi si legge – controluce – anche la storia della Gran Bretagna, in una decade difficile e controversa. Ed i più giovani lo tengano bene a mente: il vero punk non sono Green Day, Lagwagon e company.

Overruled – Hybris

L’anello mancante, nell’Olanda odierna, fra il thrash e l’heavy classico: un gran bel disco di speed metal tradizionale.

Dopo un EP nel 2013 (ad un anno dalla nascita), gli olandesi Overruled esordiscono ora sulla lunga distanza per Punishment 18 Records, con le nove tracce di questo ottimo Hybris.

Il loro è un thrash, energico e brillante, che bada decisamente al sodo, molto vicino al più tradizionale heavy metal anni Ottanta, quindi diretto e con pochi fronzoli, duro e violento. Sistemata la formazione, il quartetto di Drenthe riesce ad essere diretto e melodico, stile Megadeth per capirci. Il vocalist è davvero bravo e gli assoli si segnalano positivamente per la loro tessitura, mentre la sezione ritmica pare più cupa. Il suono è comunque abbastanza moderno in termini di produzione, pulita ed incisiva. Dopo la bella e deflagrante Pawns of War, la seguente Burning Bridges è un determinato speed metal vecchia scuola nella vena degli Accept del sommo Restless and Wild. La title-track è emozionante e coinvolge non poco, con molta qualità nel lavoro di riffing. Una sfavillante doppia cassa illumina She-Devil. Assai costruita la successiva Purgatory, una vera narrazione musicale elettro-acustica, alla Running Wild, tra dark ed epic metal. Follow His Order è un omaggio alla NWOBHM, mentre i rimanenti pezzi di Hybris tornano con efficacia alla tradizione speed più classica. Veramente un bel cd.

Tracklist
1- Pawns of War
2- Burning Bridges
3- Hybris
4- She-Devil
5- Purgatory
6- Follow His Order
7- Lust For Power
8- Run For Your Life
9- Losing Sanity

Line-up
Remco Smit – Vocals / Guitars
Ronald Reinders – Guitars
Joeri Klaassens – Bass
Gerald Warta – Drums

OVERRULED – Facebook

Deathcrush – Hell

Un favoloso disco di brutal death italiano, per amanti ed affezionati di Incantation, Morbid Angel e Vader, con pregevoli tocchi black.

Chiamarsi Deathcrush è senz’altro impegnativo, visto che fu il titolo del primo disco dei Mayhem.

I sardi non temono comunque confronti, con oramai quindici anni di vita e varie uscite discografiche, tra demo, singoli e split, oltre a vari concerti, con Obituary e Hour of Penance. Questo loro secondo lavoro è un fantastico disco di brutal-black, in linea con le migliori cose di Immolation, Acheron ed Angel Corpse. Nei brani più tecnici ed epici, magniloquenti e marziali, ci possono altresì venire in mente i Nile e i Behemoth. Ma i Deathcrush sono i Deathcrush: devastanti e brutali, con un basso ed una voce realmente da paura. L’interplay chitarre-batteria è poi davvero da applausi, con riff ottimi e molto floridiani. King of Rats è, inoltre, puro e gelido black metal di alta scuola, mentre nella conclusiva Deny the Crucifix aleggia potente il fantasma dei Deicide del masterpiece Legion (1992). Hell è un disco fenomenale e i Deathcrush sono una grandissima band, null’altro da dire. Da avere senza se e senza ma.

Tracklist
1- Incest Of The Wretched
2- Eucharisty Of Worms
3- Lost In The Vortex Of Heretics
4- Blasphemik Souls
5- Dethroned Arcangels
6- Mors Mori 3002
7- Crowning The Beast
8- Spreading The Chaos
9- King Of Rats
10- Deny The Crucifix

Line-up
Luigi Cara – Vocals / Bass
Andrea Sechi – Guitars
Giampiero Serra – Drums

DEATHCRUSH – Facebook

Grind Zero – Concealed in the Shadow

Ottima conferma da parte della band lombarda, la cui proposta rivede con gusto e buona personalità la tradizione del miglior death di marca svedese.

Tornano a farsi sentire gli ottimi deathgrinders milanesi Grind Zero, a quattro anni di distanza dal debutto Mass Distraction.

In quaranta minuti, questo nuovo Concealed in the Shadow migliora in modo ulteriore le quotazioni del quintetto lombardo, ora con un nuovo e preparatissimo batterista. Il sound s’è fatto più ricco e professionale, del resto a masterizzare il CD è stato il grande Dan Swanö. Concealed in the Shadow aggiorna, si può dire, lo Swedish Death più old school, con chitarre grattugiate, sorrette da una passione posta al servizio dell’impatto complessivo dei singoli brani. In particolare, songs come Corrosion e Sodomizing The Sun palesano con forti vibrazioni sonore tutta la carica, l’enfasi e l’entusiasmo di questi ragazzi. Anche in Lost Shrine, dalla verve più melodica, i Grind Zero di certo non deludono. La strada imboccata è pertanto quella giusta ed il prodotto finale è ottimo, sotto tutti i punti di vista. Impeccabile la registrazione.

Tracklist
1- Soul Collected
2- Corrosion
3- See You in Hell
4- Master’s Pleasure
5- Sodomizing the Sun
6- A Shadow
7- Lost Shrine
8- Buried Deception
9- The Horde
10- Cursed By My Path

Line-up
Alex Colombo – Bass
Marco Piras – Vocals
Udo Usvardi – Guitars
Mr. D. – Guitars
Emanuele Prandoni – Drums

GRIND ZERO – Facebook

Tales From the Thousand Lakes: prog rock e metal in Finlandia

La Finlandia, terra dai mille laghi, ha avuto ed ha una storia, culturale e musicale, tutta sua, in linea, del resto, con l’orgoglio nazionale che da sempre contraddistingue i Lapponi.

La attuale Repubblica finlandese fece parte del vicino Regno di Svezia, dal XII secolo sino al 1809, quando si trasformò in un Granducato indipendente all’interno dell’Impero russo (il nemico di sempre ad Est) e diventò uno Stato a partire dal 1917, quando i conservatori di Helsinki sconfissero i rossi filo-bolscevichi.
Anche in Finlandia, vi fu il Rinascimento. Nel corso del secolo XVI, durante la Riforma luterana, si distinse al riguardo la grande figura del vescovo protestante e padre della lingua finlandese Michele Agricola. Nel XVIII secolo, l’Illuminismo trovò un appassionato sostenitore in Anders Chydenius (1729-1803), tra i più autorevoli esponenti nord-europei delle arti – difese e il valore e l’importanza delle nuove tecniche moderne, in linea con l’Enciclopedia dei philosophes francesi – e fu seguace di vaglia del liberalismo settecentesco. Matematico, naturalista, medico-chimico, docente universitario a Uppsala, Chydenius si batté in difesa della tolleranza e della libertà di stampa (caratteristici valori dei Lumi europei), contribuendo a diffondere in Finlandia il pensiero scientifico di Newton, e quello politico-economico moderato dello scozzese Adam Smith.
Il padre della musica – lasciando da parte il tradizionale folk medievale, tutt’oggi coltivato, in modo interessante e con spirito patriottico – fu in Finlandia il grande Sibelius, un eroe nazionale per il suo popolo, capace di raccontare in un poema sinfonico intitolato alla sua terra l’oppressiva aggressione da parte dei russi ai confini orientali.
Il sinfonismo di Sibelius ha lasciato, anche nel rock e nel metal finlandesi, un segno incancellabile e profondo, rimasto indelebile nel tempo, e tuttora presente. Echi dell’approccio di Sibelius anche nel prog lappone anni ’70, con gli Haikara (molto influenzati dalla musica classica, con archi e fiati, a tratti quasi cameristici) ed i Wigwam (il maggior gruppo di rock sinfonico finlandese, collaboratore anche di Mike Oldfield). L’immenso chitarrista Jukka Tolonen (ex Tasavallan Presidentti), solista innamorato di Hendrix e Coltrane, è sulla scena addirittura dal 1969, tra blues, free, hard e folk. Tra Caravan e Focus, vanno rammentati i Finnforest (li ristampò la americana Laser’s Edge, negli anni ’90), mentre i Fantasia (1975) e i Nova (1976) aderirono invece a schemi fusion. Tanta psichedelia nei dischi di Nimbus e Jukka Hauru (ieri), Moon Frog Prophet e Groovector (oggi). Se i Giant Hogweed Orchestra si rifacevano, sfacciatamente, sin dal nome, ai Genesis era-Gabriel, gli Hoyry Kone optarono per scelte più dissonanti e avanguardistiche. I Piirpauke (1975) incisero un solo LP, omonimo, per la Love Records: un prodotto all’insegna di una world music etnica e ante litteram. In ambito di prog acustico, sono da segnalare pure Scapa Flow, Tabula Rasa, Uzva, Viima e XL. Ma il più grande gruppo finlandese anni Settanta furono i Kalevala, che prendevano il nome dal titolo del poema epico nazionale. Per loro – in tre dischi, pubblicati tra il 1972 e il 1977 – un fantasioso e ottimamente eseguito ibrido di hard prog e folk rock. I Jethro Tull di Finlandia, veramente.

La Finlandia ha prodotto molte band, pregevoli, quando non fondamentali, negli ambiti del melodic death e del folk metal spesso con ispirazione volutamente weird. I grandiosi Amorphis, in tal senso, sono solo la punta di un iceberg, che ha saputo guardare con frutto particolare alle sonorità locali.

Si spiega anche così la specifica identità di rock e metal, in Finlandia. Lo stesso discorso vale poi per i Korpiklaani nel campo del folk metal. Quest’ultimo genere, si sa, è strettamente collegato al Viking che, nella terra dei mille laghi, ha visto esprimersi, ed al meglio, gli Ensiferum (prodotti dal grande Fleming Rasmussen), i Finntroll, i Moonsorrow e i Turisas.

Il death melodico vanta, in Lapponia, forse i suoi migliori epigoni: Manifacturer’s Pride (prossimi al groove metal in più punti) e Mors Principium Est, mentre gli ormai famosi Children of Bodom sono partiti dal power black neo-classico dell’esordio di oltre vent’anni fa per approdare a un ottimo death ‘n’ roll. Più classicamente death metal, sono gli interessanti Gorephilia, mentre nel settore del funeral doom vanno menzionati senz’altro Thergothon e Skepticism.

Qualcuno forse ricorderà i finnici Decoryah, attivi negli anni Novanta, ed autori di tre dischi, rimasti molto importanti: progressive doom il primo, più sperimentale e crimsoniano il secondo, elettronico e oscuro il terzo ed ultimo. Una grande band, purtroppo scioltasi ed ingiustamente dimenticata. Nel dominio del gothic metal più classico (e spesso sinfonico), segnaliamo qui almeno i Sentenced (nati con il death primevo), i Poisonblack, in parte i Lullacry (maggiormente legati all’heavy classico), i fantastici Sonata Arctica e Apocalyptica, senza scordare naturalmente i popolarissimi Nightwish e Stratovarius (i campioni del pomp metal orchestrale).

Tra atmosfere gotiche, metal melodico e dark wave elettronica, si collocano altri gruppi, contigui tra loro, tra cui gli ottimi To Die For e Entwine, con inflessioni alla Depeche Mode. Partono invece da lidi dark per arrivare prepotentemente all’horror metal, i Lordi, gli alfieri di uno shock rock memore di quanto fatto da Alice Cooper a partire dagli anni Settanta a Detroit.
Come d’altra parte in tutta la Scandinavia, anche in Finlandia possiamo oggi trovare tutta una scena di notevole qualità in ambito street e sleaze metal. Sovente con un occhio di riguardo rivolto all’hard rock del passato, questi ultimi anni hanno consacrato i Reckless Love (i nuovi eroi dell’hair metal) e i Santa Cruz. Il modello rimangono naturalmente gli storici Hanoi Rocks di Michael Monroe (poi anche con i Demolition 23), un mito dell’hard-glam e non certo solo finlandese degli anni Ottanta. I favolosi 69 Eyes sono stati da parte loro protagonisti di un significativo passaggio da sonorità street a schemi gothic-glam di classe. Alla ricerca di una vena ancora più melodica e malinconica, si sono mossi gli HIM, padrini del cosiddetto love metal (un incrocio di neo-glam gotico e dark pop). Assai più rock, comunque moderni e molto accattivanti nel sound, i noti Rasmus.

Se l’industrial metal ha riscontrato, in Finlandia, il grande successo dei Ruoska (a tutti gli effetti, i Rammstein nordici), il crust punk ha goduto e gode ancora oggi di una scena sotterranea vivissima e assai florida, in continua espansione. I Terveet Kadet di Lapin Helvetti ne sono solo un esempio. Il crust, mixato con grindcore, speed metal, death and roll, e soprattutto black, ha visto ed ancora oggi vede primeggiare gli inossidabili Impaled Nazarene. Ultra-nazionalista, il gruppo di Mika Luttinen ha manifestato tutto il proprio orgoglio patriottico in canzoni indimenticabili e rappresentative come Total War Winter War (dal capolavoro Suomi Finland Perkele), dedicata alla resistenza finlandese – nella Guerra di Inverno del 1939-40 – contro l’invasore sovietico, e con ferocia persino maggiore in una canzone come la cruda e durissima Healers of the Red Plague (dal bellissimo Rapture, uno dei loro migliori lavori in assoluto).

Chiudiamo con lo speed e il thrash metal. I due gruppi di punta della scena sono adesso certamente i sensazionali Home Style Surgery (tra Dark Angel e Anthrax) ed i Ranger (molto alla Exciter). Ma va altresì ricordata la fondamentale scena underground sviluppatasi in Finlandia tra il 1987 e il 1991 con band quali Stone, Defier, Statue, Waltari, Protected Illusion, Warmath, Airdash, Charged, Dirty Damage, Die, Skeptical Schizo, Dethrone, Prestige e Necromancer, tra gli altri. Chi vuole scoprirli si può tuffare nella compilation Real Delusions, edita dalla Svart. Una meteora del techno-thrash sono stati inoltre i fenomenali ARG, attivi tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta. Li stampò l’attenta Black Mark dei Bathory. Chiusura con la scena black metal. Qui troneggiano gli IC Rex e i Clandestine Blaze (legati al movimento del NSBM), ma i nomi da fare sarebbero davvero tantissimi. Appuntamento, magari, ad una prossima puntata.

Home Style Surgery – Trauma Gallery

Un fantastico disco di thrash finlandese: tecnico, melodico e potente nel medesimo tempo, di certo tra i migliori del genere quest’anno.

La forza dell’underground, quello puro ed autentico.

Questo gruppo finlandese è in pista da dieci e più anni, una storia la sua fatta di demo, mini, singoli e split (come nel Nord Europa di fine anni ’80 e primissimi ’90). Questo secondo full length degli Home Style Surgery segna un nettissimo passo in avanti, rispetto all’esordio di Painfilled Noise, risalente ormai ad un lustro fa. Il quintetto lappone suona un techno-thrash che in oltre quaranta minuti di musica si rivela molto godibile, con una bella varietà sonora e pezzi che si stampano subito nella mente dell’ascoltatore (cosa che oggi non accade certo sempre). Anche i brani più melodici, quali Sachiko Even After e Verge Of Confrontation, non fanno altro che confermare l’avvenuta crescita degli Home Style Surgery, che si sono lasciati oramai alle spalle le inclinazioni gore-metal dei loro primi anni. Notevolissimi, inoltre, pezzi come Beware The Lurkers e Haunted Mindscape, che colorano di tinte vagamente prog la lezione degli Havok: la cosa migliore sono qui le sezioni strumentali, quasi geometriche nella loro impostazione. Se la band finnica è dunque stilisticamente assai varia nella sua proposta complessiva, lo stesso si deve dire in relazione al cantato: la voce del singer è perfettamente a suo agio, molto dinamica, nel saper passare da parti pulite allo screaming del black o al growl del death. Tutta l’abilità degli Home Style Surgery emerge, credo, nella title-track conclusiva: oltre nove minuti, di grande classe, a spasso fra gli Anthrax di fine anni Ottanta e i Dark Angel del capolavoro, storico e incompreso, Time Does Not Heal (1991).

Tracklist
1- Explore the Dimensions
2- Atomosophobia
3- Sachiko Ever After
4- The Red Ripped Case
5- Beware the Lurkers
6- Haunted Mindscape
7- Verge of Confrontation
8- Trauma Gallery

Line-up
Tommi Lakkala – Bass
Joel Mantyranta – Vocals
Jussi Keranen – Guitars
Joonas Hiltunen – Guitars
Joni Jarra Jarlstrom – Drums

HOME STYLE SURGERY – Facebook

Sick of It All – Wake the Sleeping Dragon

Ritorno in gran spolvero da parte di una band davvero leggendaria all’interno della scena hardcore e skate punk newyorkese.

Dodicesimo album per la storica hardcore band di New York, che ancora una volta si conferma per mezzo di un grandissimo disco.

A oltre trent’anni dalla nascita – sono sorti nel 1985 – i Sick of It All rappresentano uno dei pochi elementi di continuità con la gloriosa tradizione hardcore e skate punk della Grande Mela anni Ottanta. Anche in questo nuovo lavoro il sound resta granitico, ferocissimo e pesante, non scendendo mai a compromessi. Duri e puri, nonché abili tecnicamente, gruppi come i Sick of It All non sono del resto mai stati succubi della tendenza a logiche di tipo commerciale e per ciò meritano il massimo rispetto e la più alta considerazione. Possiamo credo parlare di album della definitiva maturità, meditato ed articolato, irruento e furioso, avvincente ed ineccepibile. Insomma, l’ulteriore dimostrazione di una coerenza ed integrità estreme nell’applicare i propri principi di vita e di musica, non lontano dall’etica straight edge. Parliamo inoltre di una band che, in Our Impact Will Be Felt (2007), ha visto il tributo di Ignite, Hatebreed, Madball, Napalm Death, Pennywise, Rise Against, Sepultura, Walls of Jericho ed Unearth. I Sick of It All sono oramai un pezzo importante di storia e queste ultime canzoni lo attestano inequivocabilmente. Inoltre, ci ricordano qualcosa d’assai importante ed anzi fondamentale: senza l’hardcore – ed il loro è sempre molto metallizzato – non ci sarebbero stati né il thrash, né il death, né il grind che ne sono derivati.

Track list
1- Inner Vision
2- That Crazy White Boy Shit
3- The Snake
4- Bull’s Anthem
5- Robert Moses Was a Racist
6- Self Important Shithead
7- To the Wolves
8- Always With Us
9- Wake the Sleeping Dragon
10- 2+2
11- Beef Between Vegans
12- Hardcore Horseshoe
13- Mental Furlough
14- Deep State
15- Bad Hombres
16- Work the System
17- The New Slavery

Line up
Pete Koller – Guitars
Lou Koller – Vocals
Armand Majidi – Drums
Craig Setari – Bass

SICK OF IT ALL – Facebook

Rawfoil – Evolution in Action

Eccellente esordio per questa promettente band lombarda, titolare di un debutto sulla distanza che è un vero omaggio alla grande tradizione dello speed metal anni Ottanta.

Dopo aver firmato per la Punishment 18 Records, la formazione italiana di speed metal dei Rawfoil si presenta ora al debutto, con Evolution in Action, album la cui bellissima grafica si deve a Roberto Toderico (Pestilence, Tygers of Pan Tang, Athlantis, Sadistic Intent e Sinister, tra gli altri).

Il gruppo è nato a Monza, nel 2009 ed in quasi dieci anni ha potuto maturare e perfezionarsi sempre di più, la ragione per la quale questo compact di esordio si presenta già come un prodotto decisamente valido e all’altezza. Il quintetto brianzolo, fondato da ex membri di Ignorance Flows e Theory of Chaos, ci propone otto canzoni veloci ed entusiasmanti, che colmano l’attuale vuoto in Italia tra il più classico heavy anglo-europeo e il thrash metal americano meno radicale. Gli appassionati di Anvil, Raven e Liege Lord sono quindi avvisati.

Tracklist
1- Evolution in Action
2- Josey Wales
3- Broken Black Stone
4- Fail
5- Demons Inside
6- Reflect the Death
7- Circle of Hate
8- Wrath of War Mankind

Line-up
Lorenzo Riboldi – Bass
Francesco Ruvolo – Vocals
Giacomo Cappellin – Guitars
Ruben Crispino – Guitars
Sborradamatti – Drums

RAWFOIL – Facebook

Abrin – Hell on Earth

Ottimo disco della band moscovita, con sonorità germaniche che molto piaceranno, sia ai thrashers, sia ai defenders.

I russi Abrin arrivano con Hell on Earth al quarto disco, in otto anni.

Un’ottima media, per una band che con questo nuovo lavoro abbandona in via definitiva il cirillico in favore dell’inglese. La line-up sembra essere adesso finalmente stabile e risultano più che apprezzabili i contributi di ospiti esterni, membri di Udo e Arkona. Il gruppo di Mosca esplora quei territori thrash più vicini al metal classico e in particolare allo speed dei primi Helloween, con canzoni ricche di velocità e potenza, freschezza e belle melodie. Il prodotto finale è quindi decisamente tedesco per stile e suoni, con azzeccatissime armonizzazioni chitarristiche che scorrono più che bene e lasciano il segno. La produzione è ottima, il sound assai limpido. Molto intensa 1939 (dedicata all’anno che vide scoppiare la Seconda Guerra mondiale) e davvero emblematica la conclusiva Heavy Metal, un pezzo che sin dal titolo si propone come un autentico manifesto di pensiero true metal. Avanti così.

Tracklist
1- Hell on Earth
2- Prisoners of the Abyss
3- A Monster in Disguise
4- Slavery
5- Looking All Around
6- Deception
7- The Willpower
8- The Last Run
9- 1939
10- Heavy Metal

Line-up
Maxim Garanin – Bass
Vahktang Zadiev – Vocals
Vyacheslav Zavershnev – Guitars
Alexander Mavromatidis – Drums

ABRIN – Facebook

Sperimentazioni newyorkesi: la storia dei Prong

Una delle band in assoluto più importanti e sottovalutate del post-metal, originali e innovativi, che senza rinunciare mai alle proprie radici ha saputo costruirsi in maniera coraggiosa un approccio a se stante nel panorama internazionale. Ancora oggi, a oramai oltre trent’anni dalla nascita, i Prong assomigliano solo a se stessi. Una cosa che oggi si può dire davvero di pochissimi artisti.

I newyorkesi Tommy Victor e Mike Kirkland, che lavorano ambedue al CBGB’s della Grande Mela, creano i Prong nel 1986 insieme al batterista Ted Parsons degli Swans. In quello stesso anno vede la luce il loro primo demo tape e nel 1987 pubblicano il mini Primitive Origins, un lavoro di hardcore-punk puro, che dice molto – anzi, moltissimo – circa le loro origini stilistiche e culturali.
Nel 1988, la Southern’s Studio licenzia il primo album dei Prong. Si tratta di Force Fed, che vede il retaggio hardcore del trio tingersi di sfumature avanguardistiche e sperimentali, con inserti massicci di crossover thrash (stile Anthrax, Corrosion of Conformity, Suicidal Tendencies, Cro-Mags e DRI), mentre i concerti europei del 1989 confermano la classe, non comune, dei tre musicisti. Sempre nel 1989, i Prong fanno uscire su singolo Third From the Sun, cover dello storico brano dei Chrome, la grande band californiana di space rock e post-punk elettronico, da loro sempre amatissima e fonte di ispirazione primaria.
Arriva finalmente la grande e meritata opportunità per una major. I Prong firmano infatti per la CBS e con l’ottima produzione di Mark Dodson (Metal Church, Ozzy Osbourne, tra gli altri) registrano il loro primo capolavoro, l’eccellente ed avventuoso Beg to Differ (1990). Si tratta di un disco, molto piacevole e sorprendente, che non perde un’oncia della carica propria del gruppo, rivelandosi, nello stesso tempo, assai ben costruito e ricco di cambi di tempo. Musicalmente, Beg to Differ si colloca fra techno-thrash e punk americano, con un lavoro sulle ritmiche che di fatto fonda il groove metal, con qualche anno di anticipo sulla nascita ‘ufficiale’ del genere. All’uscita del disco, accolto in modo positivo da critica e pubblica, segue una tournée europea di spalla ai Faith No More. Ritornati a NY subentra il nuovo bassista Troy Gregory, primo cambio di line-up nella storia della band.

Il quarto album dei Prong è sempre prodotto da Dodson e si intitola Prove You Wrong (1991). Qui il retaggio hardcore punk muove in una direzione industrial, accentuando il groove ed impartendo una lezione di cui faranno tesoro i Ministry e i White Zombie. In successione giungono poi due mini-LP – Whose Fist Is This Anyway (1992) e Snap Your Fingers (1993), il secondo un EP di remix – i quali reagiscono alla crisi innescatasi oramai nel movimento thrash indicando la via che i Prong da questo momento in avanti percorreranno, in maniera lucida e personale, creativa e mai banale.
Nel 1994, appare Cleansing, un favoloso concentrato di groove metal, industrial e hardcore punk. Il disco viene prodotto da Terry Date (Soundgarden, Chastain, Dream Theater, Dark Angel, Incubus, Unearth, Limp Bizkit, Deftones, Dredg, Staind). Un gran beneficio viene dal contributo del nuovo bassista, il grande Paul Raven dei Killing Joke, che si occupa di tastiere e programmazione e spinge per un sound più elettronico e futuristico, con influenze gothic-dark mutuate dai Christian Death. Il risultato è un nuovo capolavoro nella storia dei Prong, che consolidano il loro status nei concerti in giro per il mondo di quel medesimo anno, in compagnia di Sepultura, Pantera e Life of Agony.

Nel 1995, il gruppo di New York partecipa con il pezzo Corpus Delicti alla compilation Tonnage e l’anno successivo esce il nuovo capitolo in studio, Rude Awakening. Di fatto, terzo capolavoro della band, l’album è realizzato con Charlie Clouster, dei Nine Inch Nails ai synth e presenta sonorità che, senza minimamente accantonare groove ed hardcore punk, reggono superbamente il confronto con il noise degli Helmet. Il lavoro è promosso quindi da un nuovo tour, questa volta insieme ai Type O Negative del compianto Peter Steele, un altro figlio illustre della NY anni ’80.

Nel 1997, i Prong tornano alle origini e partecipano, con London Dungeon, a Violent World, tributo ai Misfits. Il gruppo entra, di fatto, in stand-by: Victor comincia a lavorare con Danzig e Parsons si trasferisce in Inghilterra, dove entra nei Godflesh del geniale sperimentatore Justin Broadrick. Ma la parola fine per i Prong non è affatto detta. Dopo una lunga pausa, nel 2002, esce infatti 100% Live, realizzato dal solo Victor con nuovi collaboratori.
Finalmente, nel 2003, troviamo nei negozi il nuovo lavoro in studio dei Prong, dopo sette anni. Si tratta di Scorpio Rising, che conferma l’oramai consolidata diade groove metal-hardcore punk e che aggiunge porzioni industrial questa volta molto più new wave che in passato. In diversi momenti, in effetti, possono venire in mente gli inglesi Throbbing Gristle. I Prong sono di nuovo in pista – vivi più che mai – e partecipano con il bel rifacimento di Enter Sandman a Metallic Attack, compilation-tributo ai Metallica, nel 2004.
Arriva anche il momento della celebrazione dal vivo e la band fa le cose in grande. Esce, infatti, un DVD, dal titolo The Vault (2005) con tre magnifici concerti interi – un’attestazione dell’energia che i Prong sprigionano sul palco – registrati per l’occasione ad Amsterdam, in Svezia e Germania.

Dopo una pausa di due anni, nel 2007, è quindi la volta di Power of the Demager. Un grandissimo disco, che ritorna al thrash di fine anni Ottanta e ne rivede la formula, con opportune intromissioni di tipo nu metal: in pratica l’eredità della Bay Area e della New York che fu viene riscritta tenendo conto di quanto vanno facendo nuove leve quali Machine Head e Korn. L’uso sapiente della tecnologia, poi, rammenta la cura dei suoni caratteristica di Fudge Tunnel e Static X.
Nel 2009 esce, un po’ inatteso, ma sempre interessantissimo, Power of the Damn Mixxxer, album di remix, per realizzare il quale vengono appositamente chiamati dai Prong i Dillinger Escape Plan (tra gli altri), campioni del nuovo math-core. Nel 2010, una nuova tournée mondiale, assieme stavolta ai Fear Factory. Arriviamo così al 2012, anno in cui esce Carved Into Stone, solidissimo come-back in cui il gruppo statunitense ribadisce il proprio approccio al groove metal, diversissimo – si badi bene – da quello di quasi tutte le altre band che aderiscono al genere, con un riffing granitico eppure assai vario e cangiante. Come del resto tutta la musica dei Prong.
Nel 2014 i Prong danno alle stampe altri due ottimi lavori, il live Unleashed in the West, registrato a Berlino, durante una serie di esibizioni europee con gli Overkill, e Ruining Lives, un altro fantastico mix di fantasioso ed obliquo techno-thrash con inflessioni groove metal. Ai Prong preme comunque sempre riannodare le fila con il passato e ricordare, a tutti, le proprie origini musicali, non senza un giusto orgoglio. Ecco così spiegato Songs From the Black Hole (2015), un album fatto di sole cover (Discharge, Sisters of Mercy, Adolescents, Black Flag, Killing Joke, Husker Du, Fugazi, Bad Brains più il Neil Young dell’indimenticabile Cortez the Killer). Punk, post-punk, hardcore, dark: queste le radici – non solo musicali, anche culturali – dei Prong e della scena newyorkese da cui provengono, la cosa va tenuta a mente. Come molti altri colleghi illustri della Grande Mela – in ambito thrash, crossover, groove, industrial – al metal i Prong ci sono arrivati, non ne sono partiti. E la base, pure in America, è stato neanche a dirlo il 1977, con tutto quello che è ne derivato. Aspetto su cui si deve sempre riflettere. Solo in tale maniera, si possono realmente capire ed apprezzare i Prong – i Killing Joke del metal, a tutti gli effetti – e di tanti altri acts che hanno fatto la Storia della nostra musica.

Gli ultimi due episodi in studio dei Prong, X-No Absolutes (2016) e Zero Days (2017), anche se, a parere di alcuni, non aggiungono più moltissimo alla loro entusiasmante parabola (ma non avrebbe, davvero, senso alcuno chiederlo o pretenderlo), ci restituiscono nondimeno tutta la grande maestria di chi ha saputo ogni volta reinventarsi con intelligenza e spirito di ricerca sonora, senza mai cedere a compromessi di sorta o logiche commerciali. Questi sono i Prong da New York City: un gruppo da sempre ‘avanti’.

Meteore: SKEPTIC SENSE

Gruppo di culto del techno-thrash tedesco, tra gli antesignani del prog metal più intricato e teatrale in più punti. Per quanti apprezzano Watchtower, Target, Psychotic Waltz e primissimi Sieges Even.

Pensiamo tutti sappiano cosa sia una meteora. Un corpo celeste che entrando nella nostra atmosfera si incendia a causa dell’attrito e con elevata velocità passa alla nostra vista seducendoci con la sua bellezza per poi scomparire. La meteora può passare accanto al nostro pianeta senza impattarlo mai, in alcuni casi può anche creare sconvolgimento e panico colpendolo. In senso musicale molte ne sono cadute ed a volte ancora ne cadono sul pentagramma della storia della musica. Questa rubrica vuole essere uno strumento astronomico in grado di individuarle e permetterci di analizzarle, catalogarle per capire se saranno in grado di colpirci oppure solamente sfiorarci per poi morire.

SKEPTIC SENSE

Tra le meteore del thrash più tecnologico, possiamo di certo annoverare i tedeschi Skeptic Sense. Il quintetto della Germania meridionale, con base a Meckenbeuren, nel Baden-Wurttemberg, si formò nel 1988, dalle ceneri degli Sluggard, e sin dai primi due demo, Demonstration (1990) ed Harmony of Souls (1991) mise in mostra uno stile complicatissimo, persino troppo, infarcito di tempi dispari e cambi di tempo repentini, sorretto da una tecnica a dir poco mostruosa (si ascolti al riguardo quanto fa la sezione ritmica, degna di certa fusion più rock). Gli Skeptic Sense realizzarono un solo disco, Presence of Mind, forte di otto brani, velocissimi e molto articolati, quasi senza pause. Il successo, tuttavia, non arrise loro e si sciolsero l’anno successivo. A nuocergli, furono certamente le difficoltà che la loro musica ispirava negli ascoltatori: troppo thrash per chi ascoltava il neonato metal prog e troppo progressivi per chi veniva dal thrash teutonico. Il triste destino dei pionieri che si muovono sul confine tra i generi, con intelligenza e preparazione. Un vero peccato, perché questa meteora – adesso ristampata su compact, assieme ai due nastri precedenti, dalla Divebomb (The Anthology è il titolo) – meritava un’altra e ben migliore sorte. Membri della band hanno poi militato, senza troppa fortuna, in poco note entità minori connazionali (Strike, Entente e Varix).

Tracklist
1- Structures of Interruptions
2- Harmony of Souls
3- Human Indulgence
4- Raped
5- Downfall
6- Norm Always Wins
7- Last Moments
8- Capital Punishment

Line up
Cornelius Halder – Vocals
Peter Sugg – Guitars
Stephen Thumm – Guitars
Joachim Klinkosch – Drums
Jurgen Knorble – Bass

Infernal Forces Festival – Live Music Club 27/10/8

Il report della prima edizione dell’Infernal Forces, festival dedicato appositamente all’estremo tenutosi sabato 27 ottobre 2018 a Trezzo sull’Adda, nella bellissima e collaudata location del Live Club.

Sabato 27 ottobre 2018, a Trezzo sull’Adda, nella bellissima e collaudata location del Live Club, si è svolta la prima edizione dell’Infernal Forces, festival dedicato appositamente all’estremo. I cancelli sono stati aperti poco dopo le due.

Ricchissimo il merchandising presente e nutritissimo, e di elevata qualità, l’elenco delle otto band che hanno reso indimenticabile la giornata e la serata. Fuori la pioggia incessante, dentro la grande musica.
I primi a salire sul palco sono stati i tedeschi The Spirit, ottimo gruppo di black-death, volutamente scelto dai co-headliners Hypocrisy e Kataklysm per la tournée. Il combo germanico, con all’attivo il validissimo esordio Sounds From the Vortex su Nuclear Blast, non ha purtroppo avuto quel pubblico che avrebbe meritato (alle 14,30 la platea era ancora da riempire), ma ha eseguito una performance impeccabile e molto professionale, con una scelta di brani dal debutto eseguiti con una sicurezza già alquanto pronunciata, che fa ben sperare in vista di quello che poi sarà – ci auguriamo presto – il secondo lavoro.

Una breve pausa – come anche in seguito, ovviamente, tra un act e l’altro – e si sono presentati gli storici Distruzione. Vera grande cult-band (sono nati nel 1990), seguitissima da uno zoccolo duro di fans scatenati, gli emiliani hanno sfoderato una prestazione decisamente muscolare, con una scelta di pezzi da pressoché tutti i loro lavori, primariamente dallo storico Endogena (1996) e dall’ultimo e notevole disco omonimo. Dal vivo, il loro thrash-death ha rivelato tutta la propria attitudine di tipo hardcore-punk, in stile Sepultura-Cavalera Conspiracy, come a volerci ricordare che l’extreme metal non è nato per fare atmosfera, ma per portare a grande velocità violenza, morte – casino, ha voluto, coerentemente, rammentare il singer – e appunto distruzione. Un set davvero incandescente, caldo e rumoroso.

Gli Antropofagus si sono confermati una stella di prima grandezza del nostro panorama musicale. I musicisti liguri hanno oramai compiuto – e la loro esibizione ne è stata una brillante conferma – la transizione definitiva dal death-grind a tinte gore dei primi anni (ne hanno ben 21 sulle spalle) ad un brutal efficacissimo e chirurgico, velocissimo e marziale, supportato da una una tecnica veramente fuori dal comune, in linea con le nuove leve del genere pubblicate in America da Unique Leader. Se fossero statunitensi, avrebbero probabilmente altri riconoscimenti.

Altro cambio di scena, altra grande band italiana: i romani Hour of Penance. Autori di svariati ed eccellenti dischi – fenomenali gli ultimi due, Cast the First Stone e Regicide – i laziali hanno sfoderato una prestazione davvero maiuscola, tutta all’insegna d’un brutal death tecnico ed eseguito in maniera formidabile. Anche per loro si può giustamente parlare di una caratura artistica a tutti gli effetti internazionale, come il set ha attestato in maniera inequivocabile e ammirevole.

La seconda parte della giornata – intanto, fuori si è fatta sera – si è aperta cogli Enthroned. I belgi hanno confermato tutto il proprio valore. Lo storico (attivo da un quarto di secolo) quintetto di Bruxelles è stato il primo gruppo di puro black metal della giornata ad esibirsi e non ha certo deluso le aspettative (anzi), con una performance maligna e cattivissima che ha rinunciato del tutto alle aperture sinfoniche, per abbeverarsi alla fonte del BM primigenio di scuola nordeuropea, freddo ed evocativo.

A ruota sono venuti gli Impaled Nazarene, grandiosi e pieni di energia. Unici al mondo nella loro originale e personalissima commistione di black metal, crust punk e grindcore, sempre orgogliosi di essere finlandesi, hanno eseguito per intero il loro capolavoro Suomi Finland Perkele con una carica a dir poco impressionante, non senza divertirsi e divertire il pubblico, oltre a una scelta di altri loro brani storici (ricordiamoci che sono in pista da oltre ventotto anni, sempre coerenti con sé stessi). Il loro è stato un set di grind-metal alla velocità della luce, tra provocazione e squarci melodici con un sostrato punkeggiante che dal vivo emerge e si fa strada prepotentemente, molto più che in studio e con un impatto granitico. Mika Luttinen, neanche a dirlo, si è dimostrato ancora una volta frontman incredibile. L’Udo Dirckschneider dell’estremo. E gli Impaled Nazarene hanno lasciato intendere, tra le loro note, di essere stati – forse inconsapevolmente, ma le etichette sono del resto venute dopo – i padri fondatori di ciò che oggi si chiama war metal. Questo dicono in fondo i loro show.

L’emozione di assistere allo show di Mr. Tägtgren, la voglia di poter presenziare all’esibizione degli Hypocrisy ci conduce intanto quasi alla pazzia; la spasmodica attesa di veder ascendere (perché Loro non salgono sui palchi, ascendono) la band di Peter e soci provoca tachicardia e fibrillazioni…
Ore 22.10: avviene il miracolo. Salgono sul palco, scatenando applausi, esaltanti cori, scene di delirio di massa e ogni qualsivoglia sorta di solenne celebrazione, i Signori del Death Svedese.
La presenza scenica è all’altezza: i nostri irrompono nel nostro campo visivo, attraverso l’arte comunicativa di un vero showman, quale è Tägtgren. Gesti e movenze ci appaiono come pura estensione spontanea della voce e degli strumenti. Un suono pulito, terso come una fresca, limpida giornata primaverile. La potenza e la ferocia compositiva espressa dai nostri, saggiamente guidate da un ingegno musicale non comune, raggiunge apici stratosferici. Competenze strumentali, interpersonali e sistemiche, tra cui la grande abilità di dialogare col pubblico, non solo grazie alla voce, ma anche a gesti, posa e movimento, trasformano un semplice show in un affresco sociale della scena Death moderna, dove attori e spettatori agiscono univocamente, quasi fossero un’entità singola e non – come, spessissimo, accade – i differenti astanti di un evento musicale. La scelta di uno show Best of, cuore pulsante dell’attuale Death… is just the beginning tour 2018 (in onore della famosissima serie di compilation della Nuclear Blast, a cui i Nostri hanno sempre aderito, sin dal Volume II), sicuramente determinata dalla mancanza di un nuovo album, non ha fatto che enfatizzare il legame tra gli Hypocrysy e i loro fan, enunciando pubblicamente l’amore reciproco. Trenta anni esatti di carriera (ricordiamo che i nostri nacquero nel 1988 come Seditious, solo project di Peter), sciorinati con sapiente cura dei dettagli, in poco più di un’ora di musica (da Penetralia sino ad Osculum Obscenum, da Abducted a Virus e a Catch 22, e così via) ci hanno donato ricordi memorabili e scaldato i nostri cuori, nella spasmodica attesa del nuovo album, promesso (e quindi segnato col sangue), recentemente dallo stesso Tägtgren.

Esaltante chiusura in bellezza con i canadesi Kataklysm, forti del loro ultimo lavoro, Meditations – dal quale sono state estratte molte songs, con, in più, i classici del repertorio – e gruppo di assoluta prima classe, esaltante e grandioso, nella sua capacità (più unica che rara) di unire brutal americano (e in effetti la performance è stata realmente devastante, oltre che tecnicamente ineccepibile) e il più melodico death di matrice svedese. Il cantante, originario del nostro paese, non ha mancato mai di esprimere tutto il suo sincero amore per la nostra terra, alla quale è sentimentalmente legato dall’età di sedici anni. Per tutta la durata dell’esibizione – che i collaboratori presenti di MetalEyes hanno potuto comodamente seguire, ospiti allo stand dei gentilissimi ragazzi della Punishment 18 Records – si è rivolto in italiano al pubblico, coinvolgendolo e mostrando una naturale carica di simpatia. La sua frase finale – “noi siamo insieme in un mondo solo nostro, che nessuno ci può toccare” – resta il suggello, non solamente del concerto dei Kataklysm e di un indimenticabile evento, ma di tutto un movimento musicale. Perché la musica è la colonna sonora della nostra vita.

Dazagthot – Michele Massari

Pestilence – Dysentery

Un nastro che è una pietra miliare: l’alba del death metal nell’Europa continentale.

Un po’ di storia. I primi dischi death metal escono in Florida tra il 1987 e il 1988.

L’Europa risponde con la concomitante scuola svedese (i cui primi album, a partire dallo storico Left Hand Path degli Entombed, escono dal 1990 in poi) e – cronologicamente addirittura prima, sia pure di poco – con i Pestilence di Consuming Impulse (Roadrunner, 1989). In precedenza, la band olandese aveva dato alle stampe il suo esordio (Malleus Maleficarum nel 1988, un concept sulla caccia alle streghe e sul libro tardo-quattrocentesco che l’aveva avviata). All’origine di tutto vi era un demo davvero di culto, Dysentery, inciso naturalmente su cassetta nel 1987 dai Pestilence: qui, con testi che anticipano gli Autopsy e i Defecation, assistiamo a una primissima commistione – che rimane pressoché unica sul continente europeo – di speed-thrash (nello stile degli Slayer di Show No Mercy) e del nuovo genere inventato dai Death, in America. I quattro pezzi di Dysentery sono stati successivamente ristampati, insieme al secondo demo Penance, su CD dalla Vic Records nell’ottobre del 2015.

Track list
1- Against the Innocent
2- Delirical Life
3- Traitor’s Gate
4- Throne of Death

Line up
Patrick Mameli – Vocals / Guitars / Bass
Randy Meinhard – Guitars
Marco Foddis – Drums

https://www.youtube.com/watch?v=6hJYy7L9akU

1987 – Autoprodotto

In Britain: i Napalm Death dal crust punk al death-grind

1. Un anno basilare il 1977. Il rock, come sempre voce del disagio giovanile, riesce ad oltrepassare i limiti di una lettura razionale ed a cogliere tutto il lato simbolico ed emotivo di questo disagio, trasformandolo in ribellione. Dall’Inghilterra, arriva l’urlo nichilistico dei Sex Pistols, No Future. In Italia i centri sociali lo amplificheranno in tutta la sua potenza anarcoide. Band come Clash, Carcass e gli oscuri Cure daranno vita ad una scena musicale capace di evolversi, in seguito, in altre forme più estreme (crust punk, hardcore, grind, thrash e death), come qui di seguito andremo a analizzare.

2. Dici Grindcore e pensi ai Napalm Death. Descrivere questo genere, senza citarne i veri padri fondatori, sarebbe come parlare del Futurismo dimenticandoci del Manifesto di Filippo Tommaso Marinetti. Quando un genere musicale nasce, notoriamente possiede più padri (ed un’unica madre, ossia la passione per la musica stessa). Pensiamo al thrash o al death e ci vengono in mente almeno dieci band genitoriali (e tre o quattro nazioni). Il caso del Grindcore è forse più unico che raro. Esso possiede un’identità ben definita, un’unica terra Natale (l’Inghilterra) e un solo ed unico padre. Per riprendere il paragone con il Manifesto del poeta, scrittore e drammaturgo italiano, non possiamo esimerci dal citare almeno i primi due punti essenziali del testo che paiono scritti ad emblema del messaggio che i Nostri, esattamente settantadue anni dopo, hanno voluto lasciare ai posteri: a) noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità; b) il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
Vogliamo parlare del coraggio, dell’amor del pericolo, dell’audacia e dell’abitudine all’energia, di questi ragazzacci di Birmingham, che agli albori degli anni ’80 (a quei tempi si facevano chiamare Civil Defence), si permisero di proporre un genere assolutamente in contro-tendenza con i canoni fondamentali della musica (almeno quella di allora)? Nel 1981, per estremo si intendeva al massimo Welcome to Hell dei Venom (Reign in Blood uscì solo nel 1986 e i Death, così come i Bathory, uscirono solo nel 1984, e comunque sempre uno step indietro – in termini di violenza sonora – da quanto proposto dal combo inglese). Certo, ai tempi di demo come Halloween e And, Like Sheep, We Have All Gone Astray (i primi due, usciti nel lontano 1982) c’era ancora tanto Punk e Hardcore. Comprensibile! D’altronde, l’allora terzetto di Birmingham (Nic Bullen alla voce, Miles Ratledge alla batteria e Daryll Fideski alle chitarre, poi divenuto quartetto con l’ingresso di Finbar Quinn al basso) arrivava direttamente dagli sconquassi social-musicali della stravolgente scena punk inglese. Ma già a quei tempi preistorici, si intravvedeva una ricerca di un’energia al di là di quanto espresso dalla scena di allora. Un’estenuante necessità di correre alla velocità della luce, quasi a fuggire dalle meschinità della società post anni ‘70 (almeno nella visione punk del periodo) o a corrergli contro, urlando il proprio disprezzo. E forse, ad un certo punto, si accorsero che il nome di Civil Defence fosse troppo ‘leggero’. Ci voleva qualcosa di potente e distruttivo, che ardesse tutto e tutti, e che emanasse forte odore di bruciato: Napalm Death, appunto! Ma, tutto ciò, non rappresentava che l’inizio; il progetto era ancora grezzo, indefinito; un diamante sì bello, ma ancora finemente da tagliare.
Nel 1985 – la leggenda racconta – in un negozio di dischi di Birmingham, Nic Bullen incontra un giovanissimo chitarrista – Justin Broadrick – che si unisce al gruppo. E’ un momento decisivo per la band (onestamente nella loro storia, di circostanze determinanti per i loro cambiamenti, ce ne sono state poi parecchie). Esce Hatred Surge, il demo tape che abbandona, quasi definitivamente, ogni collegamento col passato: non più anarcho-punk o crust punk, non più Amebix o Crass. Un suono nuovo, devastante, mai ascoltato prima di allora. Per inciso, la chiave del loro successo, probabilmente fu proprio la demo del 1985. E’ con questa uscita, infatti, che scandalizzati critici musicali iniziarono ad appioppare alla musica dei ND, il sostantivo di ‘rumore’; pensando di cucinare per bene questi “presunti musicisti da quattro soldi”, stroncandoli con piogge di critiche, spesso mai troppo benevole, finirono – a loro insaputa – per farne la loro fortuna.
Ma fu l’arrivo di Mick (Harris) a fa virare i Napalm Death verso lidi molto più caotici, assordanti, passando attraverso velocità mai sperimentate, prima di allora. Sostituendo Ratledge alle pelli (mentre Bullen divenne anche bassista, sostituendo Shaw, che a sua volta aveva sostituito il primo Quinn), rielaborò quasi tutti i pezzi sino ad allora composti, riducendone drasticamente le durate, ri-arrangiando il sound, rendendolo molto più brutale e più veloce. Con questi presupposti si arrivò all’incisione di due demo: From Ensalvement to Obliteration e Scum, poi divenuti i celeberrimi omonimi album (con alcune eccezioni, nelle rispettive track list), e fiori all’occhiello della storia musicale dei Nostri.
Ma è il 1987 che consacra il combo a vera icona dell’estremo. Oramai diciamo che si era già sparsa la voce e, grazie anche al tape-trading, i Napalm Death incominciavano a farsi conoscere, anche nella scena d’oltre oceano. Iniziarono a condividere idee e pensieri con band (allora nascenti) del calibro di Heresy , Unseen Terror, Extreme Noise Terror e Ripcord (tutti loro connazionali) e ancora Siege, Macabre, Cryptic Slaughter, Repulsion (USA). La fama giunse alle orecchie di un certo Digby Pearson, proprietario dell’allora minuscola etichetta Earache. Pearson ne vide le potenzialità (e sicuramente la possibilità di rendere famosa la propria etichetta) e li mise sotto contratto; uscì quindi Scum. Le novità rispetto alla precedente formazione furono: al basso un allora sconosciuto Jim Whitely (divenuto poi front-man di famosissime band, con diversi pseudonimi come ‘Jimbo’ e ‘Big Jim Grinder’, quali Extinction of Mankind, Prophecy of Doom, Filthkick, Doom e Ripcord), e alla chitarra un certo Bill Steer (Carcass) e uno sconosciutissimo Lee Dorrian (anche se molte track erano allora ancora cantate da Bullen).
Se Scum, lo possiamo affermare con certezza, rappresentò il primo vero album di Grindcore (l’album che sconvolse le masse, con accelerazioni spaventose, sonorità più affini ai rumorismi sperimentali di storiche band quali i Throbbing Gristle e gli Swans, vocalizzi più simili a schizoidi gorgoglii di un lavandino, tracce di una brevità sconcertante – You Suffer tocca l’apice, con il suoi eterni 00:01 secondi…), From Enslavement To Obliteration (uscito l’anno dopo) ne rappresentò il vero Manifesto Futurista. Qui troviamo una formazione che si consolida nella storia, e che rimarrà, negli anni a venire, nei cuori di tutti i ‘grinders’ più nostalgici e malinconici. Chi può affermare di non aver amato Lee Dorrian alla voce (cupissimi growls e schizoidi urli che hanno tracciato le linee guida del genere), Bill Steer alla chitarra (un favoloso chitarrista, divenuto, poi, un’icona con i suoi Carcass), Shane Embury al basso (anche lui un prime-mover, con i suoi Unseen Terror, poi successivamente leader incontrastato di Brujeria e Lock Up, per citarne qui solo alcuni), ed infine, ovviamente l’anima e core della band, Mr. Mick Harris alla batteria?
Il seguito, tra centinaia di concerti, alcuni split (tra cui quello famosissimo con i giapponesi S.O.B.) e una seconda edizione delle celebri Peel Sessions (la prima è datata 1987), ci porta ad un fatidico agosto del 1989, che vede l’uscita di un mini, non capito da molti fan, Mentally Murdered. Anzi, ad onore del vero, considerato da alcuni un vero e proprio tradimento. Un mini lp di 4 canzoni… della durata totale di 15 minuti e mezzo! Signori, il Grindcore – per come era stato inteso, sino a quel momento – venne considerato definitivamente defunto… o almeno defunta era la fase Grindcore dei Nostri. Sonorità estreme si, ma molta più ricerca e tecnica compositiva, sounds spesso accostabili al death (oramai divenuto l’estremo più ascoltato di quegli anni), cancellarono ogni parvenza musicale riconducibile al primo Grindcore, all’Hardcore, al Crust Punk.
Forse per questa ragione (e forse per svariate altre: Bill Steer lasciò, per esempio, la band solo per dedicarsi completamente ai suoi Carcass, che divenivano, ogni giorno di più, leader incontrastati del Goregrind), la formazione cambiò. Entrarono, alle chitarre, Mitch Harris (già leader dei grinders Righteous Pigs) e il compianto Jesse Pintado (come non ricordare i Terrorizer di World Downfall?); ma soprattutto, Lee Dorrian (che fondò, a quel tempo, i doomsters Cathedral), fu sostituito da un allora giovanissimo (ma già divenuto famoso per i suoi Benediction) Mark “Barney” Greenway.

3. Trovata la stabilità cercata, i Napalm decisero, assecondando anche la passione mai sopita e mai nascosta di Embury e del chitarrista Harris, di rendere più pesante il loro suono, non svoltando completamente verso il death ma incorporandolo in modo naturale nel loro sound. Affidandosi alle sapienti mani di Scott Burns, ai tempi il re Mida del death, andarono ai famosi Morrisound Studios, un passaggio obbligato per ogni gruppo dedito a queste sonorità. Il risultato, nel 1990, fu Harmony Corruption, che sconvolse il popolo Grindcore, non pronto a una svolta così decisa da parte dei loro beniamini; non tutto, ma molto death si trova nei solchi di quest’opera, che esce nello stesso anno (1990), di Left Hand Path degli Entombed, non sfigurando, ma neanche centrando completamente il bersaglio; la produzione, nonostante Burns, non è ancora perfettamente calibrata, con le due chitarre un po’ schiacciate dal suono della batteria, ma brani come Suffer the children e It the truth be known dimostrano, ampiamente, che la convinzione è notevole e che la strada si deve percorrere. Mick Harris, guru e prime mover del Grindcore, lascia la band, forse non convinto completamente della direzione intrapresa e viene prontamente sostituito da Danny Herrera. Così la band instancabile nel 1992 propone Utopia Banished, maturando ulteriormente quella fusione tra grind, (crust) punk e death. Pintado sforna riff memorabili ed il sound è selvaggio, violento e in alcune parti decisamente anche tecnico. Christening of the Blind e Aryanism sono autentiche mazzate in faccia, sorrette dalle vocals di Barney, incisive e pronte a declamare testi mai banali, improntati sul sociale e sulla degradazione umana. La tesissima e claustrofobica Contemptuous dimostra che la band ha anche altre frecce da scoccare nella sua faretra. Incredibilmente, la band non ha variazioni di formazione e prosegue lo sviluppo del suo suono proponendo nel 1994 Fear, Emptiness, Despair, forse l’apice da quando hanno ‘osato’ abbandonare il puro grind; i cinque musicisti, in grande spolvero, ci donano undici brani cattivi, strutturati con grandi riff, semplici e travolgenti, accostati a suoni dissonanti, generando un’atmosfera devastante ed allo stesso tempo claustrofobica (State of Mind); la ferocia hardcore rimane immutata, ma è innestata in una materia cangiante e assolutamente ispirata. Scena musicale in continuo movimento negli anni ’90 ed i Napalm Death forse si fanno prendere troppo la mano; in perenne movimento in sede live, dal punto di vista discografico, nel 1995 (Greed Killing, un EP) e nel 1996 (Diatribes), danno alle stampe due dischi non perfettamente centrati: vogliono incorporare nel loro sound parti di groove metal, tracce industrial, nu metal ed il risultato non da i frutti sperati. Intendiamoci, se si togliesse il monicker Napalm Death sarebbero due buoni dischi, ma chi ha fatto la storia non può permetterselo; il sound sembra stratificato su diversi piani, con la voce di Barney troppo pesante per la struttura dei brani, che oltrettutto sono a volte poco ispirati per la presenza di troppi ingredienti forse mal pesati. Sono quasi irriconoscibili i ND, mancando la ferocia e la cattiveria a cui ci hanno abituati; riescono raramente ad accendere l’interesse (Cold forgiveness), senza però riuscire a mantenerlo alto. Due dischi che chiaramente divisero la critica e il pubblico, che apprezzò molto relativamente la loro scelta; invito il lettore a mettere nel lettore cd in successione Fear e Diatribes per capire la differenze di suono ed emozionali che ne derivano. I Napalm Death hanno però troppo credito, hanno fattto la storia e non si può credere che possano aver imboccato una strada che non li rappresenti, è giusto guardare al futuro, trarre ispirazione per produrre arte sempre nuova e coinvolgente; sono transitati dal grind al death, con buona naturalezza e hanno rilasciato opere fondamentali, ma forse ora hanno bisogno di correggere la rotta. A distanza di solo un anno, nel 1997 esce Inside the torn apart che inizia a riportare il loro suono su coordinate più consone ai Napalm: introdotto da un opener fantastica come Breed to Breathe, potente e agile il disco, non tutto dello stesso livello, non depone completamente i suoni del precedente, ma mostra incoraggianti segnali di cattiveria che forse ora è meno selvaggia, ma più controllata. Assolutamente non è tra i primi acquisti da fare per conoscere questa band seminale, forse non ci sono brani cosi memorabili, ma rappresenta un buon ritorno a qualcosa che si svilupperà poi successivamente di lì a poco.

4. Nel 1998 i Napalm Death pubblicano sempre per la Earache Words From the Exit Wounds. Qui, il sound aggressivo e moderno degli ultimi dischi viene confermato, non senza sperimentazioni di tipo industrial, sulla scia dei Killing Joke più claustrofobici e violenti. Si tratta di un lavoro di notevole e grande maturità artistica, anche sotto il profilo della scrittura musicale, con una marcata attenzione per la cura dei suoni e le nuove e più aggiornate tecnologie di incisione.
A questo punto, il gruppo di Birmingham sente evidentemente di avere concluso una stagione della propria storia e puntuale arriva il live (semi-ufficiale), Bottlegged in Japan, pubblicato soltanto nel paese del sol levante: un doppio CD che vede i Napalm Death davvero al massimo della forma pure sul palco, con un’ottima carrellata di pezzi più recenti e di classici del loro repertorio.
Senza alcuna fretta sulla strada da intraprendere, i nostri si concedono un’ulteriore – ma fruttuosa – pausa di riflessione, dando alle stampe un interessante Leaders Not Followers (1999), per la Dream Catcher: trattasi, questa volta, di un disco di sole covers, tese (come si evince chiaramente a partire sin dal titolo scelto) a riconoscere l’importanza storica di coloro che sono stati, nella storia del metal e dell’hardcore punk, iniziatori se non pionieri che hanno saputo aprire una strada seguita in seguito da altri. Troviamo così brani dei Death di Chuck Schuldiner, dei doomsters Pentagram, degli italiani Raw Power (la loro Politicians resta evidentemente un pezzo-manifesto noto e amato in Inghilterra, a conferma della statura internazionale dell’act emiliano), degli Slaughter, dei Repulsion e dei Dead Kennedys. Finalmente, nel 2000, sempre per la Dream Catcher, esce il nuovo capitolo in studio dei ND: Enemy of the Music Business, fin dal titolo una (programmatica ed esplicita) dichiarazione di intenti e musicali e lirici, si segnala positivamente come uno dei più feroci ed intransigenti episodi, nella discografia del gruppo inglese. Dal punto di vista stilistico, l’assoluto diniego verso qualsiasi forma di concessione commerciale si trova poi confermata da un approccio non dissimile da quello del coevo brutal death metal d’oltreoceano: un monolite compattissimo ed inflessibile, una grande testimonianza di coerenza e di integrità, da parte della band britannica. Nello stesso anno, vengono stampate anche le Complete Radio One Sessions, gli storici provini radiofonici incisi per John Peel, disc jockey che tanto fece in favore del riconoscimento del movimento punk inglese.
Da questo momento in poi, i Napalm Death si orientano sempre più verso il death-grind: ricuperano cioè il grindcore da loro inventato nella seconda metà degli anni Ottanta, ne rivedono e aggiornano la formula portandola nel terzo millennio e facendo, soprattutto, tesoro dell’esperienza death. Order of the Leech vede la luce nel 2002 per la Spitfire ed è un fantastico affresco di grindcore moderno, con piccoli tocchi black metal alla Immortal. Nel 2003, appare Noise for Music’s Sake, una raccolta di materiale registrato in concerto e di EP con il tempo divenuti piuttosto rari, edita dalla Earache, in formato doppio. Si tratta di una chicca davvero imperdibile: il secondo CD in particolare ripropone il mitico mini Mentally Murdered e pezzi dallo split con gli svedesi At the Gates.
Nel 2004 esce il secondo capitolo di Leaders Not Followers. Questa volta tocca a Cryptic Slaughter, Devastation, Hellhammer, Discharge, Master, Kreator, Massacre, Attitude Adjustment e Agnostic Front, Sepultura e Hirax tra gli altri venire coverizzati in chiave death-grind, con risultati grandiosi; passa solo un anno e nel 2005 è nei negozi il nuovo The Code is Red / Long Live the Code, in linea sotto ogni aspetto con il suo predecessore in studio. Qualche variazione introduce Smear Compaign (licenziato, nel 2006, dalla tedesca Century Media), che vede ospite la vocalist degli olandesi The Gathering. Tre anni e Time Waits For No Slave (2009) ritorna al più classico e collaudato grindcore-death. Dodici mesi dopo esce sul mercato per la Snapper (pure in versione DVD) il live Punishment in Capitals, dall’infuocata esibizione registrata a Londra nel 2002.
I due dischi successivi dei Napalm Death, Utilitarian (2012) ed Apex Predator – Easy Meat (2015), pur non aggiungendo forse più moltissimo in termini di novità – ma è possibile dopo oltre trent’anni e poi può essere cosa che alla band interessa? – ci restituiscono un gruppo ormai intoccabile, sicuro di sé ed entrato di diritto nella storia, incorruttibile e inossidabile come l’etica crust punk impone.
Assolutamente irrinunciabile è l’ultimo Coded Smears and More Uncommon Slurs (2018), antologia doppia, costituita da sessions inedite dagli ultimi lavori, due covers dei Melvins (i veri padrini dello sludge), B-sides e brani dagli split realizzati con Voivod, Converge e Heaven Shall Burn a conferma di un interesse anche verso math-core, SCI-FI metal e post-core melodico. Napalm Death: la Storia.

Roberto Grassi – Michele Massari – Massimo Pagliaro – Dazagthot

Letture essenziali
– Stefano Cerati e Barbara Francone, I 100 migliori dischi death metal (Tsunami)
– Gianni Della Cioppa, Il grande libro dell’heavy metal (Giunti)
– Ian Glasper, Anarcopunk (Shake)
– Ian Glasper, Quando bruciammo l’Inghilterra (Shake)
– Albert Mudrian, Choosing Death (Tsunami)
– Jason Netherton, Profondo estremo (Tsunami)

Mentaur – No Mortal Man

Una interessante band britannica della seconda ondata new prog, abile nel sapere aggiungere ai suoi pezzi una componente più metallica rispetto ai tanti altri colleghi albionici di allora.

Formatisi a metà degli anni Ottanta nel Regno Unito come Mordred – innamorati, dunque, del ciclo arturiano e dei suoi aspetti più oscuri – i Mentaur ebbero la sfortuna di proporsi nel momento in cui il neo-progressive anglo-britannico iniziava ormai la sua parabola discendente.

Eppure il gruppo era dotato di una certa personalità e lo spessore compositivo di certo non gli mancava. Solo nastri per i Mentaur: il primo demo tape uscì nel 1989 con il titolo No Mortal Man. In questa cassetta, il tipico new prog inglese di Marillion e Abel Ganz, Pallas ed Aragon veniva riletto – attraverso brani anche piuttosto lunghi ed elaborati – in chiave oscura ed a tratti quasi medievaleggiante, con liriche intrise di misticismo. La musica, dominata dall’ottimo interplay di chitarre melodiche e tastiere pompose, dialogava inoltre proficuamente anche con un approccio sovente hard e metal, come se i Pendragon andassero a braccetto con Saga, Magellan, Shadow Gallery, World Trade ed i Rush tecnologici degli anni ’80. In seguito, i Mentaur rilasciarono altri quattro demo tapes: Try Your Brakes (1990), Verdict (1991), Time Being (1992) e Silencing the Alarm Bells (1993, dal vivo). Tutto il loro materiale è poi stato raccolto e ristampato su compact, dalla Cyclops, nel 1997, con il suggestivo titolo di Darkness Before Dawn. Una band da rispolverare.

Track list
1 Imperatrix
2 Cracks
3 The Last Battle

Line up
Carlton Evans – Vocals
Robin Barter – Guitars
Tim Ridley – Keyboards
Nick Ridley – Bass
Ed Lepper – Drums

Autoprodotto 1989

Akroterion – Decay of Civilization

Alle soglie del capolavoro, la conferma della qualità assoluta di quello che è un grandioso gruppo italiano: l’oscurità e le tenebre in musica, raccontate in maniera creativa e personale.

L’opera seconda di questa eccezionale band italiana – un trio composto da Skrat (voce), BP Gjallar (chitarre, basso, sintetizzatori) e Francisco Verano (batteria) – esce non casualmente il 21 settembre, giorno dell’equinozio di autunno: gli Akroterion sono infatti da sempre attenti cultori di tematiche di matrice esoterico-occulta ed astrologico-ermetica.

Decay of Civilization presenta sette nuove tracce, splendidamente tenebrose e drammatiche, intarsiate di elementi dark, doom, ma soprattutto thrash e black mutati, sulla scia di Celtic Frost e in parte Coroner. In certi frangenti e nella costruzione delle atmosfere, poggiando su di una competenza artistico-musicale e tecnico-compositiva di prim’ordine, gli Akroterion paiono inoltre guardare ancora più indietro, a certo oscuro prog, per proiettarlo poi in questo nostro assurdo terzo millennio. Fondamentale al riguardo, secondo l’opinione di chi scrive, è l’uso di tastiere e synth, che rendono abilmente il sound tanto antico ed ancestrale quanto moderno e futuristico. Siamo in presenza di un gioiello, che risplende di luce (nera), possente e meditativo nel medesimo tempo, sperimentale ed originale, che merita – a mio avviso – un posto di assoluto primo piano tra i dischi dell’anno.

Tracklist
1- Initiatory Death
2- Blood Label
3- Red Dawn Under a Chemical Sky
4- Soul Corruption
5- Brains
6- Decay of Civilization
7- The Gift of Lady Death

Line-up
Skrat – voce
BP Gjallar – chitarre. basso, sintetizzatori
Francisco Verano – batteria

AKROTERION – Facebook

Wyatt Earp – Wyatt Earp

Un ottimo disco che profuma di antico, di hard pomp inglese settantiano per la precisione, calato nel nostro tempo in forma aggiornata ed impeccabile.

Provenienti da Verona, i Wyatt Earp sono all’esordio su compact.

Il nome del quintetto – composto da Leonardo Baltieri alla voce, Matteo Finato alla chitarra, Fabio Pasquali al basso, Silvio Bissa alla batteria e Flavio Martini alle tastiere – viene da quello del famoso sceriffo e cacciatore di bisonti del selvaggio West. Non si tratta però di una band southern, ma di cinque musicisti, insieme dal 2013, innamorati della storica lezione dell’hard anni Settanta e del pomp rock (Deep Purple, Uriah Heep, Kansas e Grand Funk Railroad). Una tradizione che il gruppo scaligero ripensa in chiave personale, realizzando un debutto che suona molto fresco e con ottime idee, per nulla schiavo del passato, ma capace semmai di confermarne oggi la forza espressiva e meta-temporale attraverso sei tracce che ci lasciano ben sperare in vista del futuro. Da ascoltare, in particolare, Ashes e Back From Afterworld, ma tutte le songs si attestano su un ottimo livello globale. La strada per diventare i nuovi Vanadium è quella giusta.

Tracklist
1- Dead End Road
2- Ashes
3- Live On
4- With Hindsight
5- Back From Afterworld
6- Gran Torino

Line-up
Leonardo Baltieri – voce
Matteo Finato – chitarra
Fabio Pasquali – basso
Silvio Bissa – batteria
Flavio Martini – tastiere

WYATT EARP – Facebook