The Sullen Route – Last Day In Utter Diseases

Quello che resta di Last Day In Utter Diseases è la sensazione di un lavoro da rifinire ma anche suggestivo di una band dalle potenzialità ancora da esprimere, oltre che indecisa sulla direzione da intraprendere.

I russi The Sullen Route si erano fatti notare nel 2016 con un lavoro piuttosto interessante come Last Day In Utter Diseases: il lavoro viene riproposto oggi da Grimm Distribution con l’intento di ridare un po’ di visibilità alla band.

Il death doom del gruppo formatosi a Volgograd è più aspro che melodico e, comunque, non resta più di tanto nei canoni del genere grazie ad un andamento dal buon groove, anche se magari privo dei picchi e della profondità necessaria in ogni frangente.
Anche l’uso della voce non è neppure troppo scontato con il ricorso, oltre al growl e a rivedibili cleans, anche a tonalità tipiche del metal alternativo.
Quello che resta di Last Day In Utter Diseases è la sensazione di un lavoro da rifinire ma anche suggestivo di una band dalle potenzialità ancora da esprimere, oltre che indecisa sulla direzione da intraprendere. Non resta quindi che ascoltare con curiosità buoni brani come Jack the Sinner e Lead Undone, in attesa di nuovo materiale inedito.

Tracklist:
1. Sullen Overcome
2. Bonesacs
3. Other Side of Pillars Truth
4. Pintacry
5. Dead Horizon
6. Jack the Sinner
7. Town Constructor
8. Lead Undone
9. Last Process of Falling (Morton’s Fork)

Line-up:
Elijah – Vocals, Guitars
Serge – Guitars, Vocals
Dmitry – Drums
Maks – Guitars (lead)

THE SULLEN ROUTE – Facebook

Lurk – Fringe

Fringe è un’opera di devastante potenza, nel corso della quale il quartetto esibisce un doom che, alla preponderante componente sludge, aggiunge anche elementi black e death, andando a formare un quadro davvero intrigante per tutti gli appassionati di sonorità oscure

Quella denominata Lurk è l’ennesima mostruosa creatura che avanza strisciante, questa volta non in fangose paludi americane bensì tra le nevi ed i ghiacci dei mille laghi finlandesi.

Fringe è un’opera di devastante potenza, nel corso della quale il quartetto esibisce un doom che, alla preponderante componente sludge, aggiunge anche elementi black e death, andando a formare un quadro davvero intrigante per tutti gli appassionati di sonorità oscure.
Abbiamo così un sound che, nella sua monolicità di fondo, a tratti può richiamare i primissimi Cathedral, come nell’opener Ostrakismos, oppure srotolarsi nel mid tempo black di Reclaim; lo sludge viene offerto nella sua forma più esasperata nella notevole Elan, mentre un più movimentato death doom prende forma in Furrow.
Proteus Syndrome chiude al meglio il lavoro, racchiudendo in sé buona parte delle caratteristiche sopra accennate, a suggello di un operato che lascia ben poco spazio alla melodia ma che offre più di uno spunto capace di agganciare l’ascoltatore, al netto dello snodarsi di un sound sulfureo e pachidermico.
I Lurk sono l’ennesima band che viene portata all’attenzione grazie al meritorio lavoro della Transcending Obscurity, label indiana specializzata nello scavare in profondità nell’undergroung fino al reperimento di grezzi diamanti sonori come questo Fringe.

Tracklist:
1. Ostrakismos
2. Tale Blade
3. Reclaim
4. Elan
5. Offshoot
6. Furrow
7. Nether
8. Proteus Syndrome

Line-Up:
Kimmo Koskinen – Vocals
Kalle Nurmi – Drums
Arttu Pulkkinen – Guitar
Eetu Nurmi – Bass

Guest vocals by Aleksi Laakso on Elan
Alto saxophone by Aino Heikkonen on Ostrakismos

LURK – Facebook

Fading Bliss – Journeys in Solitude

Journeys in Solitude è gradevole, ben suonato e ben prodotto, tutti i tasselli sono al loro posto ma non penetra in profondità, come dovrebbe e potrebbe, con la necessaria continuità.

I belgi Fading Bliss arrivano con Journeys in Solitude al loro secondo full length in circa un decennio di attività.

Il precedente From Illusion to Despair, risalente al 2013, era stato un buon esordio che attingeva a piene mani dalla tradizione del gothic doom novantiano, con tanto di voce femminile a sostenere un growl profondo, entrambi adagiati su un tappeto melodicamente malinconico.
Nonostante siano trascorsi cinque anni non c’era da attendersi che le coordinate sonore potessero subire una variazione, visto che alla fine il genere, così come lo amiamo, è questo, prendere o lasciare; quello che viene richiesto alle band che vi si cimentano è produrre emozioni e metterci comunque qualcosa di proprio per evitare di apparire delle copie, seppur ben riuscite, delle band che hanno fatto la storia.
Ecco, se devo trovare un difetto ai Fading Bliss è proprio la mancanza di una maggiore personalità, che è poi l’ingrediente che rende irrinunciabile l’ascolto di un album: a tratti, infatti, sembra d’essere al cospetto di un gruppo abile nell’assemblare tutte le istanze provenienti dal passato senza però riuscire, se non a tratti, nell’intento di far scaturire quella scintilla capace di scuotere emotivamente l’ascoltatore.
Journeys in Solitude è gradevole, ben suonato e ben prodotto, tutti i tasselli sono al loro posto ma non penetra in profondità, come dovrebbe e potrebbe, con la necessaria continuità: indubbiamente l’opener Ocean è il brano migliore dei quattro con le sue notevoli intuizioni melodiche, mentre alla successiva Mountain manca il cambio di passo necessario per dare continuità all’evocativa chiusura della traccia precedente.
La cover di A Forest dei Cure è coraggiosa nel suo intento (cimentarsi con brani iconici come questo è sempre un’arma a doppio taglio), ma se è vero che è inutile proporre composizioni altrui in maniera eccessivamente fedele, qui i Fading Bliss eccedono in senso opposto, visto che in comune con il capolavoro di Robert Smith ci sono fondamentalmente solo il titolo ed il testo (apprezzabile comunque il lavoro della chitarra solista, come del resto avviene un po’ in tutto il disco).
I diciassette minuti di Desert, che regalano nuovamente un bellissimo assolo nella sua parte finale, chiudono un album gradevole e ben costruito ma che, al di là dei notevoli ma non sempre adeguatamente sfruttati guizzi chitarristici, fatica ad imprimersi con forza nella memoria: la dicotomia tra voce maschile e femminile funziona sulla carta ma, all’atto pratico, è troppo netto lo scostamento dei livelli di tensione percepibili allorché entra in scena l’una o l’altra voce.
Parlando di una band di Liegi mi si consenta il paragone ciclistico: con Journeys in Solitude i Fading Bliss dimostrano di reggere agevolmente l’andatura sostenuta del gruppo in pianura ma, allo stato attuale, manca loro quello spunto per restare con i migliori allo scollinamento della di Côte de Saint-Nicolas; questo almeno oggi, ma non è detto che non ci possano riuscire in futuro, visti i buonissimi mezzi a loro disposizione.

Tracklist:
1. Ocean
2. Mountain
3. A Forest
4. Desert

Line up:
Mélanie : Vocals
Dahl : Vocals
Steph : Guitars
Michel : Drums
Kaz : Guitars
Arnaud : Bass
Venema : Keyboards

FADING BLISS – Facebook

In Tenebriz – Winternight Poetry

Wolfir offre un’interpretazione del death doom melodica e convincente, denotando una certa abilità nell’alternare ampie aperture atmosferiche a passaggi di natura ambient e a riff robusti e decisi.

Non è una novità imbattersi in one man band eufemisticamente definibili prolifiche, specialmente quando ad essere esplorato è lo sterminato territorio russo.

Gli In Tenebriz appartengono a questo novero e se, come sempre, in simili casi ci si chiede se tali caratteristiche non vadano a detrimento della qualità delle uscite, è anche vero che il più delle volte questi workaholic del metal sorprendono per l’ottimo livello medio espresso.
Con questo Winternight Poetry, Wolfir (al decimo full length in poco più di un decennio di attività, oltre ad un nugolo di ep e split album) offre un’interpretazione del death doom melodica e convincente, seppure a tratti un po’ minimale a livello di soluzioni tastieristiche.
Il tutto non penalizza più di tanto la resa finale, dato che il musicista moscovita è abile nell’alternare ampie aperture atmosferiche a passaggi di natura ambient e a riff robusti e decisi.
Winternight Poetry si esaurisce in poco meno di quaranta minuti lasciando buone sensazioni e qualche rimpianto relativo al fatto che, se il buon Wolfir si avvalesse di qualche aiuto ai vari strumenti, il risultato sarebbe potuto essere ancora più soddisfacente, come testimoniano ampiamente tracce come III e IV, le più emblematiche di doti compositive nient’affatto trascurabili.

Tracklist:
1. Winternight Poetry I
2. Winternight Poetry II
3. Winternight Poetry III
4. Winternight Poetry IV
5. Winternight Poetry V
6. Winternight Poetry VI
7. Winternight Poetry VII

Line up:
Wolfir – Guitars, Bass, Vocals, Synth

IN TENEBRIZ – Facebook

2018

Karseron – Nail Your God Down

Il sound rispecchia il death metal dei primi anni novanta, quello che si muoveva lento tra doom ed un tocco gotico alla Crematory, ma senza il tappeto tastieristico in uso dal gruppo tedesco.

I Karseron sono un quartetto portoghese attivo dalla prima metà degli anni novanta, ma che non ha ancora dato alle stampe un album ufficiale.

La loro discografia infatti è fatta di una manciata di demo e di una compilation, almeno fino al 2005, anno in cui la band ha uno stop di ben dodici anni prima che questo demo torni a far parlare di sè, almeno in ambito underground.
Questo ulteriore demo, che risulta una sorta di ripartenza, vede la band con la formazione a quattro composta da: Gualter (voce, chitarra e batteria), Lois (voce), Nuno (basso) e Pika (chitarra).
Nail God Down è composto da cinque brani più intro ed outro, tre inediti e altri due, For War We Ride e Evil Forces, che provengono rispettivamente dai demo Krux Krucis (2005) e Frozen Tears (1999).
Il sound rispecchia il death metal dei primi anni novanta, quello che si muoveva lento tra doom ed un tocco gotico alla Crematory, ma senza il tappeto tastieristico in uso dal gruppo tedesco, con accelerate black accompagnate da uno scream che si manifesta come quello  di un’anima dannata, un growl profondo che accentua la componente estrema del sound e tratti in cui la musica appare violenta e brutale.
Rispetto ad altri act portoghesi, come per esempio gli Heavewood, i Karseron risultano più estremi in At The Gardens of Moria e nella devastante Evil Forces, la coppia di brani che alza non poco la qualità di questo lavoro.
Hanno perso molto tempo, ma se Nail Your God Down è un nuovo inizio, allora il momento dell’agognato full length potrebbe arrivare presto, teneteli d’occhio.

Tracklist
1.Praised Be
2.Dethroned Altars
3.At The Gardens Of Moria
4.I Bleed (For You, Never Again)
5.For War We Ride
6.Evil Forces
7.Damien Dethroned

Line-up
Gualter – Vocals, Guitars, Drums
Lois – Vocals
Nuno – bass
Pika – Guitars

KARSERON – Facebook

Self-Hatred – Hlubiny

Hlubiny è l’album che consacra i Self-Hatred tra le migliori nuove band in ambito death doom melodico, in virtù di una cifra stilistica che li colloca sulla scia dei protagonisti storici del genere.

Secondo full length per i cechi Self-Hatred, ottima doom band segnalatasi con l’esordio Theia del 2016.

Curiosamente le due band di punta della scena del paese dell’est escono a poco tempo di distanza l’una dall’altra (nonostante la presenza in line up di due membri in comune, il chitarrista Aleš Vilingr ed il batterista Michal “Datel” Rak): ma, mentre gli Et Moriemur hanno intrapreso una strada volta alla ricerca di sonorità quasi liturgiche, i Self-Hatred restano fedeli ad un death doom più atmosferico e diretto.
Questi ragazzi di Plzen si muovono all’interno del genere con una grande disinvoltura e se, inizialmente, sembrano venire meno quei picchi emotivi che erano disseminati nel precedente lavoro, in realtà, ascolto dopo ascolto, tali elementi emergono progressivamente, ponendosi quali indicatori di una profondità compositiva che connota fortemente un sound costantemente pervaso dal giusto grado di tensione ed oscurità.
Anche lo stesso passaggio alle liriche in lingua madre è funzionale al concept e non rappresenta alcun problema (se non di comprensione immediata, ovviamente) consentendo piuttosto ai Self-Hatred di arricchire di maggiori sfumature il loro racconto e aumentandone se possibile, l’impatto drammatico ed emotivo.
La bravura della band ceca risiede proprio nella capacità di comporre un lavoro profondo e convincente senza dover ricercare soluzioni diverse, rischiando di smarrirsi in qualche passaggio interlocutorio di troppo come accaduto in alcuni frangenti ai “cugini” Et Moriemur.
Hlubiny è l’album che consacra i Self-Hatred tra le migliori nuove band in ambito death doom melodico, in virtù di una cifra stilistica che li colloca sulla scia dei maggiori protagonisti del genere, tra i quali i When Nothing Remains, ai quali si avvicinano molto allorché sono struggenti melodie a prendere il proscenio.
L’accoppiata KonecOdraz ed il conclusivo strumentale Epitaf racchiudono alcuni tra i passaggi più toccanti ed esemplificativi della bontà di un lavoro che, da buon concept, va comunque consumato tutto d’un fiato, senza tralasciare di fare le necessarie “ripetute” che consentiranno di cogliere quei momenti preziosi che inizialmente potevano essere sfuggiti.

Tracklist:
1. Konec
2. Odraz
3. Hlubiny
4. Střepy
5. Vzplanutí
6. Apatie
7. Očistec
8. Epitaf

Line up:
Štěpán Eret – Bass
Michal “Datel” Rak – Drums
Aleš Vilingr – Guitars
Pavel Janouškovec – Guitars
Michal Šanda – Keyboards
Kaťas – Vocals

SELF-HATRED – Facebook

Matalobos – Until Time Has Lost All Meaning

Breve ep per i messicani Matalobos, fautori di un death doom melodico di buona fattura.

Breve ep per i messicani Matalobos, fautori di un death doom melodico di buona fattura.

La band centroamericana ha all’attivo un solo full length, ma decisamente il contenuto di Until Time Has Lost All Meaning fa pensare che i tempi siano maturi per compiere un ulteriore sotto di qualità.
Il lavoro si apre con la traccia più lunga, Of Ghosts and Yearning, un esempio pratico del buon potenziale in possesso del quartetto di Leon, il quale ovviamente si muove lungo le coordinate ben codificate del genere ma mettendoci abbastanza del proprio, tra passaggi acustici, dolenti progressioni melodiche ed un growl incisivo; il secondo più breve brano, In Flesh Engraved, appare più orientato al death metal andandosi a collocare sulla scia dei Novembers Doom in più di un frangente.
Chiude l’ep il sognante strumentale La luz del día muere, episodio che depone a favore anche di un sicuro talento esecutivo.
Se con Arte Macabro i Matalobos avevano posto le basi per arrivare a produrre un death doom di sicuro spessore, con Until Time Has Lost All Meaning arriva quel consolidamento che non può che sfociare in un’opera su lunga distanza in grado di imporre all’attenzione della scena il gruppo messicano, almeno questo è l’auspicio.

Tracklist:
1. Of Ghosts and Yearning
2. In Flesh Engraved
3. La luz del día muere

Line-up:
E. Santamaría – Guitars
Dante – Vocals
De Anda – Bass
C. Escalona – Drums
Germán N. – Guitars, strings

MATALBOS – Facebook

2017

Assumption – Absconditus

Un biglietto di sola andata verso i meandri dell’esistenza con Absconditus, per un funeral doom che non lascia nulla al caso e si colloca in uno stile fortemente innovativo.

Grande forza e motivazione per questa band italiana di recente formazione, ovvero gli Assumption, un duo direttamente da Palermo con il loro primo effettivo full-length, dopo un demo ed un EP nel quale avevano già sperimentato diversi orizzonti di un genere mai facile da approcciare, ovvero il funeral death doom, tanto di nicchia quanto musicalmente vasto.

Questa volta gli Assumption sembrano davvero aver trovato una loro dimensione, tirando fuori dal cilindro un album variegato, deciso ma mai pretenzioso. Il ridotto numero di brani, solo tre, è una scelta di grande coraggio in un mercato in cui si abbonda per accontentare un pubblico sempre affamato, perdendone in qualità. Ma non si tratta nemmeno di “brevis”, perché la durata totale dell’album è di quasi 40 minuti, fedelmente alla tradizione funeral.
I tre brani si intrecciano come se avessero una storia comune che trova la sua sintesi, culmine e conclusione naturale con l’ultimo evocativo brano Beholder of the Asteroid Oceans Part I & II.
Il percorso della band palermitana ha portato a sonorità raramente udibili nel doom, e sta contemporaneamente nel mezzo ma anche fuori da band come Disembowelment, Evoken e non solo, dalle quali sicuramente i due musicisti hanno tratto grandissima ispirazione.
Un biglietto di sola andata verso i meandri dell’esistenza con Absconditus, per un funeral death doom che non lascia nulla al caso e si colloca in uno stile fortemente innovativo. L’album è quindi fortemente consigliato per tutti i fan di un genere che mantiene pur sempre quella sacra classicità che lo contraddistingue, ma che possiede anche la curiosità di esplorare.

Tracklist
1. Liberation
2. Resurgence
3. Beholder of the Asteroid Oceans (Part I & II)

Line-up
D. – Drums
G. – Guitars, Bass, Vocals, Keyboards, Flute

ASSUMPTION – Facebook

Eye Of Solitude – Slaves To Solitude

Slaves To Solitude si va a collocare a metà strada tra i due lavori che l’hanno preceduto, recuperando, anche grazie agli arrangiamenti, il senso drammatico di Canto III ma conservando l’incedere più controllato di Cenotaph.

Gli Eye Of Solitude sono stati i protagonisti indiscussi del funeral death doom di questo decennio, non solo per la loro prolificità, inusuale per chi si cimenta con il genere (basti pensare ai tempi biblici che sono intercorsi tra un lavoro e l’altro per band seminali come Mournful Congregation o Skepticism, oppure da quanto tempo siamo in attesa di nuove opere da parte di Evoken, Esoteric o Worship), ma soprattutto per la qualità che accomuna ogni singola uscita, partendo dai cinque full length per arrivare ai vari split album ed ep.

Slaves To Solitude arriva due anni dopo Cenotaph, che rappresentò un momento molto delicato per gli Eye Of Solitude proprio perché, a sua volta, veniva dopo Canto III, il capolavoro che ne fece letteralmente deflagrare il potenziale, e allo splendido ep Dear Insanity; in quell’occasione Daniel Neagoe, con una band rinnovata rispetto a quella che, come Caronte, ci traghettò nelle sonorità aspre e disperate dell’inferno dantesco, optò per l’approdo a sonorità più rarefatte, che riconducevano in parte a quanto fatto dal musicista rumeno con l’altro suo splendido progetto Clouds, senza smarrire comunque i tratti peculiari di un sound che ai fruitori più esperti palesa tutta la sua unicità.
Slaves To Solitude, fin dalle dichiarazioni d’intenti di Daniel, si va a collocare a metà strada tra i due lavori che l’hanno preceduto, recuperando anche grazie agli arrangiamenti il senso drammatico di Canto III ma conservando l’incedere più controllato di Cenotaph: il risultato è l’ennesimo grande disco che offre oltre cinquanta minuti di musica oscillante tra il funeral ed il death doom melodico, sempre avvolta da un’aura tra il tragico ed il maestoso, che l’ineguagliabile growl del vocalist, ogni qualvolta sale al proscenio, fa piombare in una plumbea oscurità.
Gli Eye Of Solitude erano nati nel 2010 come progetto solista di Neagoe ma, dopo l’esordio The Ghost, da Sui Caedere in poi avevano assunto una struttura di band a tutti gli effetti, anche in sede di registrazione: in Slaves To Solitude, invece, ad accompagnare il leader troviamo il solo connazionale Xander, musicista che conosciamo per la sua militanza negli ottimi Descend Into Despair, oltre che nei Deos e oggi anche nei Clouds, nelle vesti di chitarrista ritmico in sede live.
Questo ovviamente non va a detrimento della riuscita dell’album, non scalfendo minimamente l’eccellenza qualitativa associata ad ogni uscita degli Eye Of Solitude: Slaves To Solitude, il cui magnifico artwork è curato da Gogo Melone, inizia con un brano come The Blind Earth che, dopo una lunga introduzione fatta di voci sussurrate, esplode nel consueto drammatico connubio tra il growl e le atmosfere da tregenda tessuta da un mirabile sfondo tastieristico. E questo è, in fondo, il trademark dell’album, fatto di sospensioni punteggiate da passaggi pianistici (in questo almeno si riscontra anche a livello compositivo una corrispondenza con i Clouds) per poi esplodere in quel drammatico parossismo che è l’elemento peculiare degli Eye Of Solitude, capaci di esprimere in maniera unica la devastazione psichica e morale che assale l’uomo “pensante” allorché realizza la propria insignificanza di fronte all’immensità dello spazio e del tempo, ed il senso di caducità che ne deriva.
Ogni uscita di questo prolifico musicista non può essere mai banale, perché il il suo impulso compositivo non è frutto di un manierismo calligrafico ma trae linfa da una sensibilità superiore, e se gli scostamenti possono apparire minimi, se si prendono superficialmente in esame le varie uscite, questo deriva essenzialmente dalla natura stessa del sound offerto e dalle sue finalità.
Tra i cinque brani, dovendo sceglierne forzatamente uno opterei per The Cold Grip Of Time, ma farei torto ad ogni singola nota di un’altro lavoro magnifico: Canto III rimarrà probabilmente un capolavoro ineguagliabile in questo decennio, questo non solo per gli Eye Of Solitude, ma ogni uscita della creatura di Daniel Neagoe si rivela un appuntamento sempre imperdibile per chiunque voglia trovare un’ideale valvola di sfogo per l’angoscia e la tristezza che sono compagne fedeli della nostra esistenza, anche se si cerca sempre di dissimularne la presenza relegandole in un angolino della nostra mente.

Tracklist:
1. The Blind Earth
2. Still Descending
3. Confinement
4. The Cold Grip Of Time
5. Boundless Silence

Line-up:
Daniel Neagoe
Xander

EYE OF SOLITUDE – Facebook

TRAILER VIDEO

Postmortal – Soil

Soil è un ep altamente consigliato a chi ama il funeral death doom, che avrà così la possibilità di scorgere gli eventuali prodromi di una futura band di primo livello.

Primo ep per i polacchi Postmortal, che si erano già messi in mostra la scorsa estate con il singolo Heart of Depair che è valsa loro l’attenzione di una label importante in ambito doom come la Solitude.

Ogni uscita sotto l’egida dell’etichetta russa crea sempre un certa aspettativa, per cui da Soil ci sia attendeva quanto meno di scoprire se i Postmortal fossero un nome sul quale puntare qualche euro.
Da questi circa venticinque minuti, distribuiti su tre tracce, otteniamo risposte senz’altro positive ma non ancora definitive, nel senso che la band di Cracovia dimostra di maneggiare con tutta la padronanza del caso una materia ostica come quella del funeral death doom, offrendo nel complesso una buona prova alla quale manca ancora la scintilla, il momento memorabile che è poi l’unico modo per rendere peculiare un’offerta musicale collocata all’interno di un genere dal ridotto spazio di manovra.
Elusion, Nighttime Serenity e Seven sono tre buoni brani, dall’andamento dolente e sufficientemente melodico, ben punteggiato da un riffing preciso e da un growl al’altezza della situazione: il tutto rende Soil un ep altamente consigliato a chi ama queste sonorità, che avrà così la possibilità di scorgere gli eventuali prodromi di una futura band di primo livello.

Tracklist:
1. Elusion
2. Nighttime Serenity
3. Seven

Line-up:
Paweł – Bass
Kamila – Drums
Kamil – Guitars
Michał – Guitars
Dawid – Vocals

POSTMORTAL – Facebook

Ekpyrosis – Primordial Chaos Restored

Una bomba doom/death metal ispirata dai primi anni novanta e dalle cose migliori delle due principali scene estreme: quella statunitense e quella scandinava.

Una bomba doom/death metal ispirata dai primi anni novanta e dalle cose migliori delle due principali scene estreme: quella statunitense e quella scandinava.

Gli Ekpyrosis sono un combo estremo proveniente dalla Lombardia, hanno iniziato la loro attività cinque anni fa e hanno dato alle stampe due demo un ep e soprattutto il full length Asphyxiating Devotion, licenziato lo scorso anno.
Tornano con un nuovo ep, composto da quattro brani più la cover di Devoured Death degli Incantation (una delle maggiori ispirazioni del gruppo), di monolitico doom/death metal intitolato Primordial Chaos Restored, in uscita per la Terror From Hell Records.
Il quartetto nostrano è protagonista di una prova che conferma tutto il bene scritto per il precedente lavoro sulla lunga distanza, il nuovo ep può senz’altro essere considerato come un’appendice delle nove tracce che componevano Asphyxiating Devotion.
Anche quest’opera mostra ancora una volta le capacità di questa creatura estrema, bravissima nel ripercorrere le strade battute dai gruppi storici con personalità ed un impatto straordinario.
Monolitici e pesantissimi passaggi doom sono investiti da tempeste di death metal classico: Abyssal Convergence, opener di questo ep, ne è l’esempio lampante, un lento prepararsi alle scudisciate che arrivano inesorabili, in un altalena tra l’incedere di un moloch musicale di stampo doom e le accelerazioni di stampo death. La sezione ritmica detta tempi ed atmosfere, assecondata dal growl catacombale e dalla chitarra che vomita riff serrati e lunghe litanie, lungo le quali le corde sanguinano come in un interminabile via crucis estrema (Instigation Of Entropy).
Primordial Chaos Restored è un buon modo per non perdere l’attenzione degli amanti del genere, in attesa del nuovo album che probabilmente non tarderà ad arrivare.

Tracklist
1. Abyssal Convergence
2. Instigation Of Entropy
3. Conception From Nothingness
4. Chaos Condensing
5. Devoured Death (Incantation cover)

Line-up
Nicolò Brambilla – Vocals, Guitar
Marco Teodoro – Vocals, Guitar
Gianluca Carrara – Bass, Backing Vocals I
Ilaria Casiraghi – Drums

EKPYROSIS – Facebook

Shrine Of The Serpent – Entropic Disillusion

Nel caso degli Shrine Of The Serpent, piuttosto che della nascita di una nuova stella, è meglio parlare dell’apparizione di un nuovo buco nero musicale, la cui densità del sound tende inevitabilmente all’infinito.

Avevamo incontrato gli Shrine Of The Serpent in occasione dello split album con i Black Urn, ricevendone impressioni più che positive.

Il passaggio dalle due tracce proposte l’anno scorso (per quanto lunghe) ad un full length di quasi un’ora di durata nasconde più di un insidia, ma il trio di Portland non ha certo fatto calcoli e ci regala uno sludge/death doom che non fa sconti e non lascia dubbi o incertezze sui biechi intenti che animano i nostri.
Entropic Disillusion si dipana seguendo pulsioni che riportano ai primissimi Cathedral, come detto anche in occasione dello split (dal quale viene recuperata la mortifera Desecrated Tomb), con variazioni sul tema che non sono previste da alcun copione, il che significa l’ascolto di un riffing sordo e martellante a sostenere il growl del chitarrista e fondatore della band Todd Janeczek.
Tutto questo piace e non poco, visto che gli Shrine Of The Serpent triturano note senza soluzione di continuità, concedendo solo alcuni sprazzi pseudo melodici di chitarra, compressi tra il limaccioso incedere di un sound che è linfa per l’appassionato e veleno puro per chi ama già poco di suo il doom, figuriamoci in queste vesti.
L’ambient drone di Returning è la pausa attiva che introduce alla rara pesantezza dei riff di Epoch of Annihilation, alla quale segue, quasi ne fosse l’ideale prosecuzione, la conclusiva Rending the Psychic Void.
Cathedral di Forest Of Equlibroium (scremati da ogni tentazione psichedelica, però), certo, ma anche Winter, Evoken o gli stessi più recenti Bell Witch, confluiscono in un monolite che non lascia scampo sotto ogni aspetto, inclusa la splendida copertina.
Nel caso degli Shrine Of The Serpent, piuttosto che della nascita di una nuova stella, è meglio parlare dell’apparizione di un nuovo buco nero musicale, la cui densità del sound tende inevitabilmente all’infinito.

Tracklist:
1. Descend into Dusk
2. Hailing the Enshrined
3. Hope’s Aspersion
4. Desecrated Tomb
5. Returning
6. Epoch of Annihilation
7. Rending the Psychic Void
Line-up:
Todd Janeczek Guitars, Vocals (2014-present)
See also: Aldebaran, Roanoke, ex-Anger Management, ex-Authority Fights Majority, ex-Tenspeed Warlock
Chuck Watkins Drums (2015-present)
See also: Anon Remora, Ephemeros, ex-Uzala, Bird Costumes, Litter Bearer, ex-Graves at Sea, ex-SubArachnoid Space
Adam DePrez Guitars, Bass (2015-present)
See also: Eosphoros, ex-Lung Molde, ex-Triumvir Foul, ex-Sod Hauler

Et Moriemur – Epigrammata

Un tocco di solennità ed un altro di malignità per questa band ceca, che esibisceun ottimo potenziale ancora però da esprimere a pieno.

Gli Epigrammata sono dei componimenti in versi usati dai poeti latini perlopiù per elogi funebri. Su questa scia si muovono gli Et Moriemur, band della Repubblica Ceca di recente formazione, con un ep e tre full-length all’attivo (compreso quest’ultimo).

Ascoltando Epigrammata ci si trova immersi in quell’universo funebre d’altri tempi. Nonostante ciò, per tutta la durata del disco, non si avverte mai una sensazione di pesantezza o noia, e grande merito va ai musicisti in egual misura per aver creato un’atmosfera coinvolgente e a tratti magica. La solennità la fa da padrona, ma va di pari passo con una giusta dose di death/doom che rasserena gli animi più metallari all’ascolto.
Una intro molto azzeccata come Introitus spalanca le porte ad uno scenario evocativo che ha probabilmente il suo picco in Dies Irae, brano variegato ma in pieno accordo con lo stile di Epigrammata. Il monito lanciato dagli Et Moriemur assomiglia tanto ad un “memento mori”, e l’idea che si ha alla fine dell’ascolto è quella che il messaggio sia passato anche più del necessario.
Per concludere, con Epigrammata la band ceca ha calcato molto più la mano sulla magnificenza rispetto all’album precedente, datato 2014, che invece valorizzava soprattutto la loro componente death. Il risultato è di alto livello ma resta l’impressione che gli Et Moriemur esprimano il loro meglio in chiave diabolica piuttosto che sacrale. Resta da vedere se la strada tracciata con quest’album verrà proseguita oppure no, e in che modo.

Tracklist
1. Introitus
2. Requiem Aeternam
3. Agnus Dei
4. Dies Irae
5. Offertorium
6. Communio
7. Libera Me
8. Absolve Domine
9. Sanctus
10. In Paradisum

Line-up
Zdeněk Nevělík – Vocals, Keyboards
Michal “Datel” Rak – Drums
Aleš Vilingr – Guitars
Karel “Kabrio” Kovařík – Bass

ET MORIEMUR – Facebook

Altars Of Grief – Iris

Iris gode di una produzione eccellente, che ne esalta sia i toni cupi che le parti più aggressive, e favorisce quell’amalgama tra i musicisti che è uno dei segreti della riuscita di questo lavoro, senza dimenticare ovviamente l’alchimia di una band autrice dell’opera perfetta, un qualcosa che accade solo a pochi nell’arco di un’intera carriera.

I canadesi Altars Of Grief sono nati nel 2013, fondamentalmente come progetto estemporaneo per Evan Paulson e i suo compagni, per poi diventare di fatto per tutti loro la band principale nella quale convogliare ogni sforzo.

Se già il full length d’esordio forniva segnali incoraggianti sul potenziale del gruppo ed il successivo split con i Nachtterror rafforzava non poco tali impressioni, è con il meraviglioso Iris che i ragazzi dello Saskatchewan esplodono letteralmente, dando alle stampe quello che rischia seriamente d’essere in assoluto uno degli album migliori di quest’anno.
Gli Altars Of Grief non sono da considerarsi una doom band nel senso più puro del termine, visto che gli influssi black entrano pesantemente in scena a livello ritmico, creando così un’alternanza tra momenti  ruvidi ed altri relativamente melodici resa con grande fluidità e, soprattutto, sempre avvolta da una cappa di disperazione che aleggia su tutto il lavoro (il piano emotivo sul quale si snoda il disco è quello di Canto III degli Eye Of Solitude, tanto per fornire un esempio tangibile).
Del resto il concept su cui si basa Iris non lascia spazio a bagliori di ottimismo, in uno snodarsi di testi che raccontano di malattia, abbandono, morte e disincanto religioso, divenendo parte integrante e fondamentale dell’album e non solo un grazioso orpello.
La bravura della band canadese risiede appunto nel suo riuscire a sintetizzare al meglio ogni diverso aspetto di una proposta artistica curata nei particolari, esibendo anche il contributo in buona parte dei brani del violoncellista Raphael Weinroth-Browne, abile con il suo strumento a fornire quell’ulteriore tocco decadente ad un album che sovente scorre rabbioso, prima di stemperarsi in momenti di struggente malinconia.
Isolation inaugura l’opera nella maniera migliore, rivelandosi un brano di rara intensità nel quale possiamo già apprezzare l’ottima alternanza tra growl e clean vocals offerta dall’ottimo ed espressivo Damian Smith, andando a creare un percorso di dolorosa bellezza, mentre Desolation è una sorta di quintessenza del black doom, nel suo scorrere su ritmiche forsennate ma sempre intrise di quel sentire dolente che è il tratto dominante dell’intero lavoro.
La title track cambia registro, avviandosi con un incedere che ricorda le migliori band di death doom melodico ma è uno spunto che si riscontra soprattutto in tale frangente, perché le sfuriate in doppia cassa subentrano impetuose a creare quel carico di insostenibile tensione emotiva che si confà alla perfezione ad un brano nel quale il racconto trova il suo climax emotivo, evocato anche da una splendida linea chitarristica.
Qui si chiude il trittico iniziale, fatto di canzoni di un livello tale da rendere il resto dell’album impercettibilmente meno efficace ma, come detto, ciò è dovuto alla bellezza di quelle tracce, perché già Broken Hymns fa capire che l’album non scenderà mai al di sotto di quella soglia di eccellenza che gli Altars Of Grief, soprattutto nella persona del principale compositore Evan Paulson, hanno costruito con pazienza nel corso egli anni, mettendo la loro ispirazione al servizio di un sound vario ma sempre contraddistinto da un’intensità capace di fare la differenza.
I nostri fanno tesoro delle proprie radici canadesi e, così, nel loro sound possiamo trovare qualche riferimento a connazionali di un certo peso come i magnifici Woods Of Ypres, a livello musicale, mente gli Into Eternity di un album drammatico come The Incurable Tragedy, probabilmente, hanno aperto una strada importante nella costruzione di un concept terribilmente crudo, per la sua espressione dello sgomento di fronte al dolore legato alla malattia, al terrore provocato dalla paura della morte e all’angoscia derivante da tutte le incognite di un “dopo” tanto auspicato quanto temuto.
Iris gode di una produzione eccellente, che ne esalta sia i toni cupi che le parti più aggressive, e favorisce quell’amalgama tra i musicisti che è uno dei segreti della riuscita di questo lavoro, senza dimenticare ovviamente l’alchimia di una band autrice dell’opera perfetta, un qualcosa che accade solo a pochi nell’arco di un’intera carriera.

Tracklist:
1. Isolation
2. Desolation
3. Iris
4. Broken Hymns
5. Child of Light
6. Voices of Winter
7. Becoming Intangible
8. Epilogue

Line-up:
Donny Pinay – Bass, Vocals (backing)
Zack Bellina – Drums, Vocals (on track 5)
Evan Paulson – Guitars, Programming, Vocals (backing)
Damian Smith – Vocals
Erik Labossiere – Guitar, Vocals (backing)

Cello on tracks 1, 4, 5, 6 and 7 written and performed by Raphael Weinroth-Browne
Track 8, “Epilogue” written and performed by Raphael Weinroth-Browne

ALTARS OF GRIEF – Facebook

Anguish – Magna Est Vis Siugnah

Un intenso e arcano profumo di doom impregnato di death si sprigiona fin dalle prime note di Magna Est Vis Siugnah degli svedesi Anguish, che ci presentano una terza opera vibrante, intensa e oscura.

Un intenso e arcano profumo di doom impregnato di death si sprigiona fin dalle prime note della terza opera completa degli svedesi Anguish, che dopo aver prodotto due full length (Through the archdeamon’s head del 2012 e Mountain del 2014) per Dark Descent, esordiscono per High Roller con un album intenso e vibrante.

Sei brani dall’alto minutaggio e dall’andamento solenne e dolente creano un bel disco che cresce con gli ascolti e ci dona momenti carichi di atmosfera; i musicisti sembra che ci vogliano far immergere in antichi rituali e basta dare un’occhiata alla bella cover per cogliere tale suggestione. La musica, che può ricordare in alcuni tratti i Candlemass, è ricca di belle parti chitarristiche, si nota una ricerca di suoni e momenti non scontati. La title track nel suo alternarsi di riff e accordi tratteggia parti tragiche e veementi, aiutata anche dal growl del vocalist J.Dee, carico ed espressivo; i toni più estremi di Of the Once Ravenous con l’incedere solenne e ipnotico mostrano un lato introspettivo molto intenso tipico di partiture death doom di alta classe. La band non ricerca strade facili, è molto concentrata e ispirata, crea atmosfere opprimenti e angoscianti in tutti i brani avvolgendoli in una coltre dark e plumbea dove non filtra nessun raggio di luce (Requiescat in Pace). Le note addolorate di Elysian Fields of Fire con il loro lento incedere marchiano nel fuoco il doom della band, così come il pesante suono di organo e il vibrante guitar sound di Our Daughters Banner suggellano un’opera solida da parte di questi artisti scandinavi.

Tracklist
1. Blessed Be the Beast
2. Magna est vis Siugnah
3. Of the Once Ravenous
4. Requiescat in Pace
5. Elysian Fields of Fire
6. Our Daughters Banner

Line-up
J.Dee – Vocals,bass
Rasmus – drums
David – guitar
LInus -guitar

ANGUISH – Facebook

Owl – Orion Fenix

Orion Fenix va lavorato con una certa pazienza, cercando soddisfazione all’interno di un sound minaccioso e pesante per riuscire infine a rendersi conto della sua oggettiva bontà.

Torna dopo alcuni anni, con un ep composto da un solo lungo brano della durata di circa venti minuti,
il progetto solista denominato Owl di Christian Kolf, vocalist dei Valborg.

Il musicista tedesco, sin dall’inizio del decennio con questo monicker si è reso protagonista di un death doom piuttosto dissonante e sperimentale, con un’ampia componente ambient: Orion Fenix mantiene queste coordinate dimostrando come “il gufo” non intenda derogare dalla strada maestra intrapresa.
Ne viene fuori quindi un lavoro interessante, anche se non per tutti i palati, in quanto privo di decise aperture melodiche, salvo un più arioso frammento finale, o di passaggi comunque in grado di catturare l’attenzione al primo colpo; Orion Fenix va così lavorato con una certa pazienza, cercando soddisfazione all’interno di un sound minaccioso e pesante per riuscire infine a rendersi conto della sua oggettiva bontà, che si svela in maniera definitiva attorno al quindicesimo minuto, quando parte appunto una bella progressione di natura post metal.
L’eterea chiusura di matrice ambient rafforza le sensazioni positive prodotte da un ep che costituisce l’ideale antipasto al già programmato ed imminente full length Nights In Distortion: Kolf conferma d’essere un musicista di vaglia, capace di costruire una proposta sonora solidamente introspettiva anche se, inevitabilmente, di non troppo semplice fruizione.

Tracklist:
1. Orion Fenix

Line-up:
Christian Kolf

OWL – Facebook

Antichrist – Pax Moriendi

Pax Moriendi si rivela un esordio su lunga distanza di assoluto livello per gli Antichrist, capaci di mostrare un potenziale tutt’altro che banale e foriero quindi di altri luttuoso frutti nel prossimo futuro.

Dopo alcuni anni di attività costellati dall’uscita di diversi demo e singoli, anche per i peruviani Antichrist è arrivato il momento del debutto su lunga distanza.

Pax Moriendi è un lavoro intriso di un death doom ruvido ed essenziale, reso appena più morbido da una tastiera volta a dare al tutto un tocco vagamente orrorifico, con il growl che si attesta invece su una modalità rantolo che nulla concede, men che meno all’intelligibilità dei testi.
Siamo quindi dalle parti dell’interpretazione del genere più vicina a band come Disembowelment, ma in maniera meno aspra e dissonante, e il tutto riesce in maniera apprezzabile alla band sudamericana, la quale offre talvolta squarci di melodia come nella parte finale dell’opener Forgotten in Nameless Suffering, e comunque mantenendo lungo i tre quarti d’ora dell’album un buon livello, anche quando i ritmi si intensificano spostando la barra verso un putrido death di scuola floridiana accompagnato dalla sempre presente tastiera in sottofondo.
Nei precedenti casi in cui mi ero imbattuto in doom band provenienti dal paese andino non ero rimasto particolarmente impressionato, trattandosi per lo più di lavori apprezzabili per genuinità ma, allo stesso tempo, approssimativi e troppo scarni per resa sonora; al contrario, gli Antichrist, pur non essendo tra gli interpreti più raffinati del genere, sanno decisamente il fatto proprio e mettono a frutto l’esperienza maturata attraverso un approccio cupo, diretto e dalla produzione adeguata alla bisogna.
Da rimarcare anche la bontà della lunga traccia conclusiva You Will Never See Sun Light, valido esempio di funeral che va a pescar oltre che dalla già citata seminale band australiana anche dagli Evoken: Pax Moriendi si rivela un esordio su lunga distanza di assoluto livello per gli Antichrist (ai quali di certo non giova più di tanto un monicker impegnativo ed un po’ inflazionato), capaci di mostrare un potenziale tutt’altro che banale e foriero quindi di altri luttuoso frutti nel prossimo futuro.

Tracklist:
1. Forgotten in Nameless Suffering
2. Obscurantism
3. In the Dark and Mournful Corner
4. Screams and Lamentations Drowned
5. You Will Never See Sun Light

Line-up:
Agalariept – Vocals
Sargatanaz – Drums
Zaren – Guitars, Keyboards
Gustavo Rodriguez – Bass

ANTICHRIST – Facebook

Maze Of Feelings – Maze Of Feelings

Questo primo passo targato Maze Of Feelings si può considerare decisamente riuscito, in virtù di una resa sonora invidiabile e di una serie di canzoni complessivamente valide, collocando la band polacco/russa in una fascia di gradimento in grado di attrarre sia chi apprezza il doom sia gli appassionati di death melodico.

I polacchi Maze Of Feelings per proporre il loro ottimo death doom hanno pescato due vocalist dalla scena russa nelle persone di Andrey Karpukhin (Abstract Spirit, Comatose Vigil) e Ivan Guskov (Mare Infinitum).

In effetti l’interpretazione del genere in questo caso è piuttosto variegata, grazie anche all’uso della doppia voce, improntata per lo più sul profondo growl di Karpukhin e sulla stentorea tonalità clean di Guskov, che conferisce ulteriore dinamica ad un sound oscillante tra passaggi molto più robusti come l’ottima opener Drained Souls Asylum, ed altri maggiormente in linea con il death doom melodico come Where Orphaned Daughters Cry, o Cold Sun Of Borrowed Tomorrow e Grey Waters Of Indifference, nelle quali appare anche una voce femminile.
La band, guidata dai due chitarristi Marcin Warzyński e Krzysztof Wieczerzycki, dimostra comunque diverse pulsioni progressive il che apporta più di una variazione ai canonici temi del genere, senza che il lavoro ne risenta dal punto di vista dell’omogeneità; va detto che invece un minimo scostamento avviene in termini di qualità distribuita lungo l’album, visto che le prime tre tracce sono davvero molto belle ed appaiono sensibilmente superiori al resto della tracklist, che rimane attestata sempre su un buon livello medio ma senza colpire più di tanto, salvo la conclusiva Dreamcatcher, nella quale si ritorna ad atmosfere più aspre e nel contempo lentamente cadenzate.
Nel complesso questo primo passo targato Maze Of Feelings si può considerare decisamente riuscito, in virtù di una resa sonora invidiabile e di una serie di canzoni complessivamente valide, collocando la band polacco/russa in una fascia di gradimento in grado di attrarre sia chi apprezza il doom sia gli appassionati di death melodico.

Tracklist:
1. Drained Souls Asylum
2. Adherents Of Refined Severity
3. Where Orphaned Daughters Cry
4. Necrorealistic
5. Grey Waters Of Indifference
6. Cold Sun Of Borrowed Tomorrow
7. Dreamcatcher

Line-up:
Szymon Grodzki – Bass, Keyboards, Piano, Samples
Marcin Warzyński – Guitars
Krzysztof Wieczerzycki – Guitars
Ivan Guskov – Clean Voice, Screams, Growls & Whispers
Andrey Karpukhin – Growls, Screams & Monologs

Guest/Session
Dariusz “Daray” Brzozowski – Drums

MAZE OF FEELINGS – Facebook

Towards Atlantis Lights – Dust of Aeons

I Towards Atlantis Lights mettono in scena un ottimo funeral death doom dai tratti melodici, caratterizzato da una costante ricerca di atmosfere intense ed emotivamente impattanti.

I Towards Atlantis Lights sono una nuova band formata da musicisti di un certo nome all’interno della scena doom internazionale.

Il progetto vede all’opera il musicista italiano Ivano Zara (Void Of Silence) alla chitarra e con lui arriva dalla capitale anche il batterista Ivano Olivieri: assieme a loro troviamo un altro nome che tradisce le medesime origini, quello dell’inglese Riccardo Veronese (Aphonic Threnody, Dea Marica, Arrant Saudade), qui al basso, e del tastierista e cantante greco (ma attivo nella sua carriera soprattutto tra Belgio Olanda e Inghilterra in band come Pantheist, Wijlen Wij, nei Clouds di Daniel Neagoe e, in passato, negli stessi Aphonic Threnody).
Da una simile squadra era lecito attendersi un lavoro di un certo pregio e il risultato non delude affatto le attese: i Towards Atlantis Lights mettono in scena un’idea di funeral death doom dai tratti alquanto melodici, caratterizzato da una costante ricerca di atmosfere intense ed emotivamente impattanti.
Dust of Aeons è un lavoro che si protrae per quasi un’ora, con il solo brano iniziale che ne occupa metà dello spazio: The Bunker Of Life si snoda esibendo due aspetti del sound offerto, in quanto presenta una parte tipicamente funeral, con ritmiche bradicardiche ed un lavoro chitarristico volto a tessere magnifiche melodie, alla quale si alternano passaggi con voce pulita che apparentemente sembrano spezzare la tensione ma che, in realtà, sono propedeutici al suo ulteriore incremento ogni volta che tornano a farsi sentire il growl e i più canonici e granitici riff.
Il successivo Babylon’s Hanging Gardens è un brano piuttosto interlocutorio, nel senso che non lascia particolari tracce fungendo di fatto da cuscinetto tra i due episodi chiave del lavoro, ovvero la già citata The Bunker Of Life ed Alexandria’s Library che, forse anche per una maggiore sintesi, si rivela il momento più alto di Dust of Aeons, specie nella sua seconda parte quando Ivan Zara tesse una splendida melodia chitarristica che conduce ad un finale dall’elevato potenziale evocativo.
Greeting Mausolus’ Tomb chiude al meglio un album che è ovviamente rivolto, per le caratteristiche sopra enunciate, agli appassionati di doom più puri, quelli che hanno la pazienza di attendere tutto il tempo necessario alla mole di note riversate nel lavoro di ricomporsi, dopo diversi ascolti, nell’ennesima esperienza musicale in grado di fornire emozioni in quantità.
Detto ciò, sperando che i Towards Atlantis Lights non si rivelino un progetto estemporaneo bensì possano trovare una loro continuità discografica anche negli anni a venite, la sensazione è che questo quartetto di pregevoli musicisti abbia margini per migliorare ulteriormente una proposta già di ottimo livello, sfrondandola di qualche passaggio interlocutorio che affiora qua e là nel corso del lavoro.
Da rimarcare infine il magnifico artwork, anch’esso made in Italy essendo opera di Francesco Gemelli, uno dei grafici più richiesti ed apprezzati del momento.

Tracklist:
1. The Bunker of Life
2. Babylon’s Hanging Gardens
3. Alexandria’s Library
4. Greeting Mausolus’ Tomb

Line-up:
Kostas Panagiotou (Pantheist, Landskap) – Vocals and keyboards
Riccardo Veronese (Aphonic Threnody, Dea Marica, Arrant Saudade) – Bass
Ivan Zara (Void of Silence) – Guitar
Ivano Olivieri – Drums

TOWARDS ATLANTIC LIGHTS – Facebook

Polynove Pole – On the Edge of the Abyss

L’album viene eseguito con tale competenza e credibilità da renderlo un ascolto tutt’altro che superfluo, non solo per gli appassionati più attenti alle produzioni provenienti dall’est europeo.

Gradito ritorno per i Polynove Pole (Полинове Поле), band che tiene fede ad una ormai consolidata tradizione ucraina in ambito gothic death doom.

Il gruppo di Lviv ha iniziato la propria carriera nello scorso decennio ma, aver pubblicato due ep ed un full length tra il 2008 ed il 2009, è rimasta a lungo in silenzio prima di rifarsi viva con questo nuovo ep, On the Edge of the Abyss, sul quale in teoria non ci sarebbe moltissimo da dire, nel bene e nel male, trattandosi della riproposizione di un modello oramai consolidato da quasi due decenni.
In realtà l’unico dato relativamente negativo è proprio quello legato ad una inevitabile prevedibilità del sound, che non si sposta di una virgola dagli stilemi del genere, incluso il ricorso alla doppia voce (in growl maschile e operistica femminile); in compenso, però, il tutto viene eseguito con tale competenza e credibilità da rendere l’album un ascolto tutt’altro che superfluo, non solo per gli appassionati più attenti alle produzioni provenienti dall’est europeo.
I Polynove Pole, infatti, sciorinano cinque brani molto belli nei quali la fa da padrona la bravissima Marianna Laba, con la sua impeccabile impostazione da soprano operistico, un elemento determinante che va ad inserirsi all’interno di un contesto nel quale le quattro canzoni (la quinta è un beve interludio strumentale) sono sapientemente costruite attorno alla dicotomia tra le due voci, rimarcando il pregevole doppio lavoro di Yurii Krupiak alle prese con la chitarra ed il growl.
Valga come esempio e spinta ad approfondire la conoscenza della band, per l’ipotetico ascoltatore, la conclusiva title track, brano sognante, a tratti epico e capace di toccare le giuste corde emotive senza scadere nella stucchevolezza di certe proposte similari.
I Polynove Pole esibiscono nel migliore dei modi le coordinate di un genere nel quale lo spazio per particolari variazioni sul tema è piuttosto ridotto, per cui non resta, per chi lo propone, che focalizzarsi sulla scrittura e sulla concretezza della forma canzone, aspetti riguardo ai quali il gruppo ucraino dimostra ampiamente di sapere il fatto proprio.

Tracklist:
1. Сивий ангел (Grey Angel)
2. Каїнові діти (Cain’s Children)
3. Вогні в тумані (Lights in the Fog)
4. Нічні птахи (The Nightbirds) – Remake 2017
5. On the Edge of the Abyss

Line-up:
Andriy Kindratovich – Bass, Vocals
Yurii Krupiak – Vocals (backing), Guitars
Marianna Laba – Vocals
Sergiy Vladarsky – Drums
Andriy Divozor – Keyboards

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