Dury Dava – Dury Dava

Dentro si possono trovare tantissimi generi, dal krautrock al prog, dal kosmische alla psichedelia anni sessanta, e anche alcune strutture della jazz fusion.

Dalla Grecia arriva uno dei gruppi più estremi per quanto riguarda la psichedelia più oscura e generatrice di visioni.

Il nuovo lavoro del gruppo ateniese, che canta in greco, è un rito panico che attraverso l’astrazione e la interdimensionalità conduce in uno spazio fisico molto diverso da quello attuale. Dentro si possono trovare tantissimi generi, dal krautrock al prog, dal kosmische alla psichedelia anni sessanta, e anche alcune strutture della jazz fusion. Ma si badi bene che questo disco non è un guazzabuglio di suoni, quanto un bellissimo collettore di tanti momenti diversi, e chi ama certe sonorità che sanno essere sia eteree che pesanti in questo album troverà molta gioia. Le canzoni sono costruite in modo da svilupparsi in maniera mai lineare, ma cercando spazio nello spazio, usando quasi tutti gli strumenti presenti nel globo, per andare molto lontano. Si perde la cognizione del tempo, anche perché non esiste nessuna fretta, non ci sono obiettivi o soft skills, si cerca e si trova nutrimento per il nostro cervello stremato da cose ed orpelli inutili, ma che noi consideriamo essenziali. I Dury Dava riportano tutto al suo posto, confezionando un disco che è allo stesso tempo febbrile e curativo. Come quando si assume del peyote, prima qualcosa esce dal nostro corpo e poi si comincia il viaggio, e dopo non si è più come prima. Infatti nelle canzoni che sono contenute in questo disco la forma canzone è davvero obsoleta, e si supera anche quella della jam, per entrare in un altro stato mentale. E proprio la diversione psichica ciò che ricerca questo incredibile gruppo con un disco che pesca anche nella tradizione musicale greca e turca, l’oriente più vicino a noi. Dentro si possono trovare tantissimi generi, dal krautrock al prog, dal kosmische alla psichedelia anni sessanta, e anche alcune strutture della jazz fusion: un altro sguardo e tanta ottima psichedelia per un gruppo da scoprire.

Tracklist
1. Africa
2. Triptych
3. Come Again to
4. Satana
5. Zoupa
6. Summer
7. 34522
8. Ataxia
9. Tarlabasi
10. Kane Ligo Alithina

DURY DAVA – Facebook

Stellar Master Elite – Hologram Temple

Hologram Temple è una prova matura e al contempo ricca degli slanci compositivi necessari per portare le sonorità estreme su un piano differente e più elevato, senza snaturarne l’abrasiva essenza

Gli Stellar Master Elite sono un band tedesca che, in questo decennio, si è messa in luce grazie ad una davvero interessante trilogia basata su un black doom di elevata qualità.

Hologram Temple è quindi il quarto full length che alza ulteriormente l’asticella qualitativa per questo gruppo che ha ben tre elementi in comune con un’altra intrigante realtà del black metal germanico come i Der Rote Milan.
Fin dalle prime note si intuisce che qui il tutto viene trattato in maniera tutt’altro che manieristica o derivativa, perché gli Stellar Master Elite riescono a creare un black doom/death nell’accezione più autentica del termine, nel senso che i generi vengono perfettamente amalgamati per un risultato finale che soddisfa il palato sia in senso melodico che per intensità.
Il gruppo di Trier (città che in Italia conosciamo meglio come Treviri) vi aggiunge poi anche un pizzico di avanguardia ed un ricorso sapiente a sampler o spunti ambient atmosferici senza far scemare mai la tensione.
L’aspetto che maggiormente colpisce è che, nonostante le premesse ed una profondità compositiva rilevante, gran parte dei brani godono di un andamento tutt’altro che ostico all’ascolto, testimonia ampiamente una traccia formidabile quale l’opener Null, senza dimenticare che i nostri sanno anche toccare corde più profonde come in Ad Infinitum oppure spingersi verso territori più avanguardistici senza perdere in incisività come in Black Hole Dementia.
Hologram Temple è una prova matura e al contempo ricca degli slanci compositivi necessari per portare le sonorità estreme su un piano differente e più elevato, senza snaturarne l’abrasiva essenza; nonostante questi musicisti, per forza di cose, attingano ad un background ben definito non ci sono mai momenti in cui si palesa in maniera fragorosa ed evidente l’influenza di una specifica band. Tutto ciò depone a favore di un sound personale, ricco e in costante evoluzione senza sconfinare in un arido sperimentalismo, come neppure avviene nel quarto d’ora ambient di Tetragon, minaccioso episodio opportunamente collocato in conclusione del lavoro e sorta di appendice volta a rinsaldare ancor più il forte legame tra il concept fantascientifico ed il contenuto musicale.

Tracklist:
1. Null
2. Freewheel Decrypted
3. Apocalypsis
4. Ad Infinitum
5. The Beast We Have Created
6. Agitation – Consent – War
7. Black Hole Dementia
8. The Secret of Neverending Chaos
9. Tetragon

Line-up:
M.S. – Drums, Vocals
D.F. – Guitars, Bass, Programming
T.N. – Bass
E.K. – Vocals
S.K. – Vocals

STELLAR MASTER ELITE – Facebook

Son Of The Morning – Son Of The Morning

Son Of The Morning scorre lento, solo ravvivato da mid tempo che lasciano spazio a parti atmosferiche dark , in cui la band viene ispirata dall’occult rock che ricorda anche la scena italiana.

Uscito originariamente lo scorso anno in vinile per la DHU Records, Son Of The Morning è il debutto dell’omonima band statunitense guidato dalla magica ed eterea voce di Lady Helena.

La band, oltre alla sacerdotessa dietro al microfono è composta da Lee Allen al basso, H.W. Applewhite alla batteria e Levi Mendes alla sei corde, macchina macina riff sabbathiani, in un contesto stoner e psichedelico.
La nostrana BloodRock Records ha curato la versione cd di questo bellissimo debutto, composto da otto brani ispirati dall’occult rock di matrice settantiana, in cui riti pagani, atmosfere messianiche e culti antichi creano un’affascinate esempio di musica del destino.
Desertiche visioni si fanno spazio nella nostra mente, mentre le ritmiche monolitiche iniziano a dettare tempi drogati di magia; la chitarra produce riff pesantissimi e il canto etereo ed ipnotico di Lady Helena attira verso la collina dove i muri della vecchia casa parlano di sacrifici e riti fuori dal tempo.
Adoranti lasciamo che lentamente la musica ci accompagni in questo sabba, tra le note venate di una psichedelia lasciva incastonata nei rituali della varie The Rule Of Three, The Wild Hunt e Left Hand Path.
Son Of The Morning scorre lento, solo ravvivato da mid tempo che lasciano spazio a parti atmosferiche dark , in cui la band viene ispirata dall’occult rock che ricorda anche la scena italiana, creando un sound che accoglie tra il suo spartito, i vari generi descritti che si manifestano come antichi spiriti evocati dal gruppo tra le trame dell’album.

Tracklist
1.Introduction
2.The Rule of Three
3.The Midwife
4.The Wild Hunt
5.Release
6.Left Hand Path
7.House of our Enemy
8.Eyes Sewn Closed

Line-up
Lady Helena – Vocals, Organ
Lee Allen – Electric Bass Guitar
H.W. Applewhite – Trap Kit
Levi Mendes – Electric Guitar

SON OF THE MORNING – Facebook

Shallow Grave – Threshold Between Worlds

In meno di quaranta minuti i quattro brani riversano sull’ascoltatore una montagna di fango intersecata da sequenze droniche, il tutto con la necessaria chiarezza d’intenti per evitare di rendere il tutto un coacervo di suoni indistinguibili.

Quello dei neozelandesi Shallow Grave è uno sludge doom portato alle sue estreme conseguenze.

La band di Auckland, in questa sua seconda fatica risalente allo scorso autunno e successiva di circa cinque anni rispetto all’esordio omonimo, esibisce il volto meno suadente (ammesso che ve ne sia uno} del genere optando per un’esplorazione nel suo ambito più rumoristico e sperimentale.
In meno di quaranta minuti i quattro brani riversano sull’ascoltatore una montagna di fango intersecata da sequenze droniche, il tutto con la necessaria chiarezza d’intenti per evitare di rendere il tutto un coacervo di suoni indistinguibili.
Anche nella lontana Auckland si vuole rovistare i meandri più profondi dell’esistenza fino a rivoltarne le viscere, e questo gli Shallow Grave lo fanno molto meglio della gran parte delle band affini per approccio e modus operandi. Un motivo che basta e avanza per dare una chance a questo ottimo Threshold Between Worlds.

Tracklist:
1. The Horrendous Abyss
2. Garden of Blood
3. Master of Cruelty
4. Threshold Between Worlds

Line-up:
Brent Bidlake – Bass
James Bakker – Drums
Tim Leth – Guitars, Vocals
Michael Rothwell – Guitars, Vocals

SHALLOW GRAVE – Facebook

Dun Ringill – Welcome

Un disco frutto di passione e di amicizia, e di un livello musicale molto alto per un progetto davvero interessante.

Gran bel disco di stoner doom da parte di veterani della scena underground svedese di Gothenburg.

La sezione ritmica degli Order Of Israfel, ottimo gruppo con suoni simili, il bassista Patrik Andersson Winberg e il batterista Hans Lilja, decide di radunare un po’ di amici per suonare, durante l’anno sabbatico che si è preso il gruppo. Nasce così questa avventura, nella quale il primo ad essere chiamato è il cantante dalla possente voce Tomas Eriksson, militante negli Intoxicate ed ex membro dei Grotesque. A seguire arrivano i tre chitarristi, perché i Dun Ringill hanno tre chitarre che gli danno un suono unico, Tommy Stegemann dei Silverhorse, Jens Florén dei Lommi e un passato da chitarrista dal vivo per i Dark Tranquillity, e Patric Grammann, SFT, Neon Leon. Il risultato è un disco con un groove bellissimo ed avvolgente, una dimostrazione molto valida di come si possa fare musica pesante con gusto ed eleganza, creando qualcosa di nuovo in generi e sottogeneri molto inflazionati, ma Welcome è un piccolo gioiello. Molto forte nella musica, ma soprattutto nell’immaginario della tradizione folkloristica svedese, ma dimenticate i vichinghi perché qui siamo dal 1600 in giù, tra fate, folletti e foreste. Anche l’horror ha la sua importanza ed il tutto concorre a creare un disco che si fa ascoltare molto volentieri, con un importante peso specifico, in bilico fra doom, stoner e metal. La musica dei Dun Ringill è insieme affascinante, eterea e fisica, composta e suonata da musicisti appassionati e di alta levatura tecnica. Le tre chitarre fanno la loro parte, creando un suono davvero incredibile, e tutto il gruppo è più che all’altezza. Le canzoni hanno un ritmo che fondendosi con la metrica delle parole ottiene un ritmo che non ti fa scappare. Anche la produzione è notevole (Julien Fabré ha fatto un ottimo lavoro) e a curare l’artwork troviamo il loro amico Niklas Sundin, autore davvero di un ottimo lavoro. Un disco frutto di passione e di amicizia, e di un livello musicale molto alto per un progetto davvero interessante.

Tracklist
1. Welcome To The Fun Fair Horror Time Machine
(feat. Emil Rolof on Piano + Björn Johansson on Flute)
2. Black Eyed Kids (feat. Emil Rolof on Mellotron)
3. Open Your Eyes (And See The Happiness And Truth)
4. The Door
5. Snow Of Ashes
6. The Demon Within (feat. Per Wiberg on Hammond + Matilda Winberg on Intro Vocals)

Line-up
Thomas Eriksson – Vocals
Hans Lilja – Drums
Patrik Andersson Winberg – Bass
Jens Florén – Guitar
Tommy Stegemann – Guitar
Patric Grammann – Guitar

DUN RINGILL – Facebook

Altar Of Oblivion – The Seven Spirits

L’unione tra heavy metal old school, doom classico ed epic metal è la ricetta usata dagli Altar Of Oblivion, in apparenza semplice ma non così facile da mettere in pratica.

Per gli amanti della musica del destino di stampo classico, il ritorno dei danesi Altar Of Oblivion non può che essere un appuntamento imperdibile in questa prima metà dell’anno.

Gruppo di culto nella scena epic doom, il quintetto torna sul mercato tramite la Shadow Kingdom Records (label che di sonorità classiche se ne intende) a distanza di tre anni dall’ep Barren Grounds e a sette dall’ultimo lavoro su lunga distanza, Grand Gesture of Defiance.
Con il suo heavy doom metal dal piglio epico, anche questo nuovo The Seven Spirits non delude le aspettative grazie a sette capitoli che, come da tradizione, si rivelano impregnate della pesante atmosfera del doom ed esaltate da sfumature epiche.
L’ottima prova del singer Mik Mentor, teatrale ed ispirato dai cantanti che hanno fatto la storia del genere, è assecondata da un buon songwriting che permette a brani come Solemn Messiah, Gathering At The Wake e Grand Gesture Of Defiance di farsi ricordare positivamente dall’ascoltatore.
L’unione tra heavy metal old school, doom classico ed epic metal è la ricetta usata dagli Altar Of Oblivion, in apparenza semplice ma non così facile da mettere in pratica: la band danese riesce nell’intento di regalare agli amanti del genere un album piacevole e senza sbavature, portando nel nuovo millennio le sonorità dei vari Candlemass, Count Raven, Atlantean Codex e Solitude Aeturnus.

Tracklist
1.Created in the Fires of Holiness
2.No One Left
3.Gathering at the Wake
4.The Seven Spirits
5.Language of the Dead
6.Solemn Messiah
7.Grand Gesture of Defiance

Line-up
Mik Mentor – Lead & backing Vocals
Martin Meyer Sparvath – Guitars, backing Vocals & additional Keyboards
Jeppe Campradt – Guitars and Keyboards
Cristian Nørgaard – Bass
Danny Woe – Drums

ALTAR OF OBLIVION – Facebook

Thronehammer – Usurper of the Oaken Throne

L’album riesce ad incorporare nelle stesse trame, in modo assolutamente convincente, ispirazioni che vanno dai Bathory, ai Count Raven, dai Celtic Frost ai Saint Vitus, dai Candlemass ai Cathedral, in una sorta di versione sludge dell’epic doom tradizionale.

Un’opera straordinariamente epica ed evocativa, un lungo incedere doom/sludge che non conosce pause ma continua imperterrito nella sua marcia in direzione dell’Olimpo, mentre l’esercito avanza inesorabilmente verso la vittoria o la sconfitta e le note di questo monumentale lavoro accompagnano il passo cadenzato dei guerrieri.

I Thronehammer sono un trio che unisce musicisti provenienti da Germania e Regno Unito e dopo un demo ed uno split, insieme ai Lord Of Solitude, licenziano tramite The Church Within questo monolitico e pesantissimo primo album, intitolato Usurper of the Oaken Throne.
Sette brani per quasi ottanta minuti di musica del destino, davvero suggestiva, pesantissima ed epica al punto di sbaragliare qualsiasi gruppetto tutto scudi e spadoni.
In questo lavoro la parte evocativa ed epica del sound si amalgama perfettamente ad un potentissimo doom/sludge, spesso reso ancora più solenne da tastiere debordanti: la potenza della parte ritmica entra in contatto con un cantato evocativo che accentua l’aspetto epico/guerresco del sound in brani che per lo più superano abbondantemente i dieci minuti.
I diciassette minuti (appunto) dell’opener Behind The Wall Of Frost ci calano in un’atmosfera in cui predomina la forza evocativa di una musica che riesce ad incorporare nelle stesse trame, in modo assolutamente convincente, ispirazioni che vanno dai Bathory, ai Count Raven, dai Celtic Frost ai Saint Vitus, dai Candlemass ai Cathedral, in una sorta di versione sludge dell’epic doom tradizionale.
Il risultato è un lavoro pesantissimo, da affrontare con la dovuta pazienza, cercando di entrare nel mondo creato da Kat Shevil Gillham, Stuart Bootsy West e Tim Schmidt senza perdere nemmeno una nota del loro notevole lavoro.

Tracklist
1.Behind the Wall of Frost
2.Conquered and Erased
3.Warhorn
4.Svarte Skyer
5.Thronehammer
6.Usurper of the Oaken Throne

Line-up
Stuart Bootsy West – Guitars, Synthesizer
Tim Schmidt – Bass, Drums
Kat Shevil Gillham – Vocals

THRONEHAMMER – Facebook

Destroyer Of The Light – Mors Aeterna

Mors Aeterna è uno dei motivi per cui amiamo così tanto l’underground pesante.

Il terzo disco dei texani Destroyer Of The Light è semplicemente uno dei migliori dell’anno in ambito heavy.

Mors Aeterna possiede una profondità ed una complessità rarissimi da trovare in musica. Nati ad Austin in Texas, là dove per le imperscrutabili leggi del destino c’è una bellissima e florida scena musicale in uno degli stati americani più reazionari, nel 2012 i nostri sono uno di quei gruppi che compiono un’evoluzione continua e senza requie fin dai loro inizi. Nel disco troviamo stili musicali diversi, tutti funzionali al progetto superiore, come nella massoneria. Ed infatti l’occulto qui è presente in tutto, dal titolo alla copertina, dalle musiche ai testi. Mors Aeterna è una narrazione, una ricerca di qualcosa che va oltre le umane capacità ma che è insita in noi, ed in fondo l’importante è la ricerca più che lo scopo finale. Musicalmente si può trovare qualcosa come il post doom, ovvero doom fuso con il post rock, stoner, momenti di new wave, come anche di doom classico, oltre a molto altro. Quello che conta in questo caso è chiudere gli occhi ed ascoltare: ad esempio Falling Star è un pezzo commovente, un perfetto esempio di musica pesante fatta con il cuore e con il cervello posseduto da qualche entità di un’altra dimensione. Un’altra cose che colpisce dei Destroyer Of The Light è la delicatezza, la leggiadria con la quale si sviluppa la loro musica, sembra davvero che suonino con una grazie immane e bellissima. I loro suoni si diffondono nel cervello come una benefica droga oppiacea, non ci si preoccupa più di nulla, perfettamente allineati con il globo terracqueo e non solo. L’ascolto dell’album può essere fatto continuativamente, ma anche ogni singola canzone è indicata come terapia. Perché questo lavoro dei texani è qualcosa di terapico, e lo sanno fare solo i grandi gruppi. Mors Aeterna è uno dei motivi per cui amiamo così tanto l’underground pesante. Oltre all’insieme, la miriade di particolari e di intarsi distribuiti per tutto il disco vi garantiranno molti ascolti, grazie ai quali se ne comprenderà la natura profonda.

Tracklist
1. Overture Putrefactio
2. Dissolution
3. Afterlife
4. The Unknown
5. Falling Star
6. Burning Darkness
7. Pralaya’s Hymn
8. Loving the Void
9. Into the Abyss
10. Eternal Death

Line-up
Steve Colca: guitar/vocals
Keegan Kjeldsen: guitar
Penny Turner: drums
Nick Coffman: Bass

DESTROYER OF LIGHT – Facebook

October Tide – In Splendor Below

In Splendor Below è senza dubbio un disco che merita d’essere ascoltato e che, probabilmente, convincerà pienamente più di un ascoltatore ma per quanto mi riguarda l’appuntamento con un nuovo capolavoro, se non all’altezza almeno vicino a Rain Without End, è nuovamente rimandato alla prossima occasione.

Riguardo agli October Tide ho sempre avuto la sensazione di essere al cospetto di una bella incompiuta, almeno prendendo in considerazione gli album pubblicati dopo la reunion del 2010, considerando i due lavori del secolo scorso (in particolare il magnifico Rain Without End) un qualcosa a sé stante.

La band dei fratelli Norrman si è sbarazzata piuttosto in fretta, in questo decennio, del potenziale fardello emotivo del death doom più cupo spingendo il sound verso un death melodico, comunque oscuro, che finisce per restare a metà strada tra le due vie maestre senza optare in maniera decisa per una di esse.
Il risultato non può certo definirsi insoddisfacente perché la risaputa maestria di questi musicisti garantisce appieno riguardo la qualità sonora espressa, però quel che resta alla fine dell’ascolto di In Splendor Below è quella di un album roccioso, ineccepibile a livello formale ma privo sia dei segnanti spunti emotivi del doom sia delle inarrestabili cavalcate tipiche del melodic death.
Stars Starve Me, per esempio, è un brano potente e accattivante ma che, a un certo punto, si avvita invece di proseguire con decisione sulla strada inizialmente intrapresa con quello che è forse il chorus più catchy dell’intero lavoro. Meglio, quindi, una traccia più cupa come We Died in October, il cui diritto di cittadinanza in abito death doom non viene mai messo in discussione grazie a un lavoro chitarristico più dolente e al notevole growl di Alexander Högbom, oppure Our Famine, dai ritmi ben più rallentati che riportano l’album in ambiti più prossimi al passato degli October Tide, o ancora la più dissonante e conclusiva Envy the Moon.
Poi è innegabile che canzoni come I, the Polluter e Guide My Pulse esibiscano quell’impatto tipico del death melodico che non è nelle corde di una band qualsiasi, per cui a livello di consuntivo In Splendor Below non può che essere considerato un lavoro più che mai riuscito e privo di particolari pecche.
L’unico vero appunto che mi permetto di fare a musicisti inattaccabili come i fratelli Norrman è che, ascoltando questo lavoro, non emerge un forte tratto distintivo tale da rendere immediatamente riconoscibile il sound, nonostante si parli di una band che ha raggiunto quasi un quarto di secolo di attività.
Per il resto, In Splendor Below è senza dubbio un disco che merita d’essere ascoltato e che, probabilmente, convincerà pienamente più di un ascoltatore ma per quanto mi riguarda l’appuntamento con un nuovo capolavoro, se non all’altezza almeno vicino a Rain Without End, è nuovamente rimandato alla prossima occasione.

Tracklist:
1. I, the Polluter
2. We Died in October
3. Ögonblick av nåd
4. Stars Starve Me
5. Our Famine
6. Guide My Pulse
7. Seconds
8. Envy the Moon

Line-up:
Fredrik “North” Norrman – Guitars
Mattias “Kryptan” Norrman – Guitars
Alexander Högbom – Vocals
Johan Jönsegård – Bass
Jonas Sköld – Drums

OCTOBER TIDE – Facebook

Burning Gloom – Amygdala

I Burning Gloom costruiscono un possente groove sonoro che travolge l’ascoltatore e, cosa non affatto facile, tengono molto alta la tensione per tutto il disco.

I Burning Gloom da Milano sono la nuova veste degli ex My Home On Trees, gruppo attivo dal 2012 al 2018 che ha cambiato per cominciare una nuova avventura.

L’inizio di questa nuova avventura è notevole, i milanesi propongono uno stoner con voce femminile, ruvido e molto ben suonato, mai ovvio, cosa non facile in un genere trito e ritrito come questo. Rispetto all’incarnazione precedente e al suo stoner blues, qui le atmosfere diventano più tenebrose e i ritmi si fanno più serrati. Il gruppo ha affermato di essere fiero del risultato e ne hanno tutte le ragioni, dato che Amygdala è un disco estremamente godibile, prodotto molto bene e costruito ancora meglio. La voce potente e versatile di Laura si completa al meglio con uno stoner desertico molto incalzante e che non lascia tregua. La musica di Amygdala è la perfetta colonna sonora per narrare storie di disordini mentali che provengono in gran parte proprio dall’Amygdala del titolo, e che sono un po’ il nostro pane quotidiano. I Burning Gloom costruiscono un possente groove sonoro che travolge l’ascoltatore e, cosa non affatto facile, tengono molto alta la tensione per tutto il disco. Ci sono momenti in cui il gruppo crea un climax sonoro e rituale nel quale ci si perde e si sta benissimo. Con la gradita presenza come ospite nella traccia Nightmares della sempre ottima Mona Miluski dei tedeschi High Fighter, Amygdala è un album che rimane in testa, contribuendo a creare un bel disordine nei nostri cervelli, un abito sonoro che si indossa benissimo. Un disco sulle cui canzoni non si può fare skip, perché le sorprese sono dietro l’angolo in ogni momento.

Tracklist
1. The Tower I
2. The Tower II
3. Eremite
4. Modern Prometheus
5. Nightmares (feat. Mona Miluski of High Fighter)
6. Warden
7. Beyond The Wall
8. Obsessive-Compulsive Disorder

Line-up
Laura Mancini – Vocals
Marco Bertucci – Guitar
Marcello Modica – Drums
Giovanni Mastrapasqua – Bass

BURNING GLOOM – Facebook

Lord Vicar – The Black Powder

I Lord Vicar non inventano nulla, suonando un genere circoscritto, ma lo fanno con una forza espressiva ed una qualità sopra la media che li rendono una delle massime espressioni del classic doom attuale.

Nati dalle ceneri dei Reverend Bizarre, i Lord Vicar proseguono il loro viaggio nel doom metal più classico con il il quarto lavoro su lunga distanza, questo nuovissimo e monolitico The Black Powder.

Registrato ai Noise for Fiction Studio di Turku in Finlandia, con il produttore Joona Lukala, ed accompagnato come tradizione da uno splendido artwork, l’album, partendo proprio dalla copertina si rivela un’opera d’arte, un bellissimo esempio di musica del destino dai rimandi classici, ma dotato di una forza ed un’eleganza straordinarie.
La band finlandese torna dunque con più di un’ora di sound pesante, monolitico, pregno di melanconiche melodie e dalla forza prorompente, alternate ad atmosfere in cui il metal lascia spazio a momenti musicali di stampo progressivo, accennati tra un dark sound che improvvisamente esplode in parti grondanti watt.
I nove brani partono dai diciassette minuti di Sulphur, Charcoal and Saltpetre, brano posto in apertura che non lascia spazio a dubbi su quello che si troverà tra le note delle varie Descent (brano che ricorda non poco gli statunitensi Revelation), la più vigorosa The Temple in the Bedrock e la conclusiva e travolgente A Second Chance, top song di questo ottimo lavoro.
I Lord Vicar non inventano nulla, suonando un genere circoscritto, ma lo fanno con una forza espressiva ed una qualità sopra la media che li rendono una delle massime espressioni del classic doom attuale.

Tracklist
1.Sulphur, Charcoal and Saltpetre
2.Descent
3.World Encircled
4.Levitation
5.The Temple in the Bedrock
6.Black Lines
7.Impact
8.Nightmare
9.A Second Chance

Line-up
Gareth Millsted – Drums
Kimi Kärki – Guitars
Chritus – Vocals
Rich Jones – Bass

LORD VICAR – Facebook

Old Night – A Fracture in the Human Soul

Siamo al cospetto di un gruppo che riesce a fondere mirabilmente, con il proprio sound, il dolente incedere del doom con l’impatto melodico vibrante del migliore hard’n’heavy ossequiando al meglio la tradizione, da qualsiasi punto di vista lo si voglia guardare, senza che il tutto faccia mai sorgere dubbi sia sulla freschezza compositiva, sia sulla personalità esibita.

A Fracture in the Human Soul è il secondo full length  per gli Old Night, band croata che si era rivelata agli appassionati di doom con lo splendido esordio Pale Cold Irrelevance di due anni fa.

Questo nuovo lavoro offre la necessaria continuità a quanto fatto in precedenza e se da un lato viene meno quell’effetto sorpresa derivante dalla scoperta di un nuovo gruppo di tale spessore, dall’altra non si può fare a meno di constatare quanto il livello continui ad essere ben al di sopra della media.
I cinque lunghi brani offerti sono un altro magnifico esempio dell’ideale incontro tra il doom evocativo dei Procession e le soluzioni vocali e melodiche degli Alice In Chains e, sinceramente, non ci può essere notizia migliore per chi, come il sottoscritto, adora sia la band cilena che i giganti di Seattle .
Il viaggio degli Old Night nel lato nascosto della mente umane non avviene evocando il dolore e la disperazione del doom più estremo, ma si snoda in maniera malinconica e ugualmente dolente, pur sotto le sembianze di canzoni ben memorizzabili e canoniche nel loro sviluppo, nonostante la lunghezza.
Il gruppo istriano, guidato da Luka Petrovic, componente anche di una band storica delle scena doom croata come gli Ashes You Leave, offre una soluzione compositiva che dovrebbe essere apprezzata da un ampio bacino di ascoltatori perché, anche chi non adora il doom nella sua accezione più classica, può comunque trovare grande soddisfazione in questo lavoro, che vede come in quello precedente la magnifica interpretazione vocale di Matej Hanžek stagliarsi sul sound a tratti roccioso ma più spesso avvolgente costruito dai propri compagni, con passaggi di chitarra solista ben posizionato ed efficaci ad impreziosire ogni traccia.
La bellezza rara quanto abbagliante di una canzone come Hearken and Remember è forse il picco, negato a molti, raggiunto dagli Old Night nel corso di un lavoro che grazie ad altre quattro gemme come Entwined, Elder, Glacial e The Reaping of Hearts, li rende decisamente molto più di una band in forte ascesa come era accaduto in occasione del primo full length; qui siamo al cospetto di un gruppo che riesce a fondere mirabilmente, con il proprio sound, il dolente incedere del doom con l’impatto melodico vibrante del migliore hard’n’heavy ossequiando al meglio la tradizione, da qualsiasi punto di vista lo si voglia guardare, senza che il tutto faccia mai sorgere dubbi sia sulla freschezza compositiva, sia sulla personalità esibita. Gli Old Night sono oggi, semplicemente, una delle migliori band europee, non solo in ambito doom.

Tracklist:
1. Entwined
2. Hearken and Remember
3. Elder
4. Glacial
5. The Reaping of Hearts

Line-up:
Luka Petrović – Bass, Vocals, Songwriting, Lyrics
Nikola Jovanovic – Drums
Bojan Frlan – Guitars (lead)
Ivan Hanžek – Guitars (lead), Vocals
Matej Hanžek – Vocals (lead), Guitars

OLD NIGHT – Facebook

Circle Of Witches – Natural Born Sinners

Quasi cinquanta minuti di metal diretto, epico e roccioso grazie ad una serie di tracce che hanno nel songwriting e nell’impatto il loro punto di forza.

Nuovo full length per i campani Circle Of Witches, quartetto attivo dal 2004 e con un paio di album alle spalle, di cui l’ultimo (Rock The Evil) uscito cinque anni fa.

Natural Born Sinners, mixato agli Alpha Omega Studios da Alex Azzali e prodotto assieme a Nicholas Barker (Cradle of Filth, Brujeria, Testament) è un buon lavoro di heavy metal dalle ispirazioni stoner/doom, molto vicino a quanto proposto dai Grand Magus, leggermente meno evocativo ma possente ed epico quanto basta per non lasciare indifferenti chi ama questi suoni.
Riff e mid tempo potenti fanno da struttura a brani di buona fattura, la voce del cantante Mario “HELL” Bove si alza fiera verso montagne su cui dimorano gli dei del metal classico, qui lasciato nelle mani di quattro musicisti che nei loro ascolti non si sono fatti mancare la discografia dei Candlemass.
Il sound degli undici brani facenti parte della tracklist del disco si potrebbero semplicemente riferire alle due citate band svedesi, ma è pur vero che i nostri eroi ci mettono del proprio, confezionando un’opera assolutamente convincente.
Il genere è questo dunque, un heavy metal potenziato da ritmiche possenti e groove, squarciato da lampi chitarristici di matrice ottantiana e valorizzato da una serie di brani che esaltano l’anima guerriera che è in ognuno di noi, come in Spartacus (Prophecy Of Riot), una delle tracce più riuscite di questo monumentale lavoro.
Quasi cinquanta minuti di metal diretto, epico e roccioso grazie ad una serie di tracce che hanno nel songwriting e nell’impatto il loro punto di forza.

Tracklist
01. Tongue Of Misery
02. The Black House
03. Giordano Bruno
04. The Oracle
05. First Born Sinner
06. Spartacus (Prophecy of Riot)
07. Your Predator
08. Deus Vult
09. Death To The Inquisitor
10. You Belong To Witches
11. Cult Of Baphomet

Line-up
Mario “HELL” Bove – Vocals, Guitars
Joe “WISE MAN” Dardano – Guitars
Tony “FARAWAY” Farabella – Bass
Joey “HELMET” Coppola – Drums

CIRCLE OF WITCHES – Facebook

Clouds Taste Satanic – Evil Eye

Evil Eye è molto vicino ad essere una sinfonia di rock pesante, con tanta psichedelia interpretata in maniera differente rispetto alla normale concezione, per un risultato al di fuori del comune.

I Clouds Taste Satanic sono uno dei migliori gruppi stoner psych in giro, non hanno mai sbagliato una canzone e con questo disco sanciscono la loro netta superiorità musicale.

Riff oceanici di sangue infetto travolgono comitive di non morti che partono per una crociata con direzione l’inferno. Questi newyorchesi hanno un suono unico che si sviluppa nei meandri di canzoni lunghe alle quali non si può resistere. Per questo ultimo lavoro, che sarà come annunciato il primo dei due loro dischi che usciranno nel 2019, hanno confezionato due canzoni di venti minuti circa l’una, una per ogni lato del vinile, per una magia nera che non lascerà scampo. Ogni riff ha una vita a sé stante, ed il gruppo trova sempre una soluzione sonora, uno svolgimento di un passaggio altresì difficile con naturalezza e gran classe. Scrivere di musica non è facile, e se si trattano i Clouds Taste Satanic è ancora più difficile, perché su Evil Eye ci si potrebbe scrivere un libro. Questo è un disco che contiene dolore, morte, estasi e tanti viaggi, ha un suo peso corporeo e fisico ma al contempo fa volare lontano, facendo dimenticare tutto ciò che ci sta intorno. Musicalmente è qualcosa vicino ad una sinfonia di rock pesante, con tanta psichedelia interpretata in maniera differente rispetto alla normale concezione per un risultato al di fuori del comune. Non è difficile capire perché i Clouds Taste Satanic godano di una grandissima reputazione underground, sono uno di quei gruppi che compiono un’evoluzione continua e di alta qualità proponendo un qualcosa di unico ed originale. Fare due pezzi di oltre venti minuti con dentro mille mondi, tenendo sempre alta la tensione e l’attenzione dell’ascoltatore può riuscire a pochi, e si tratta di musica pura, senza parole. Già dai primi riff di Evil Eye veniamo portati in una dimensione molto diversa dalla nostra, dove possiamo aspettarci di tutto, cosa che infatti accade. Evil Eye è uscito il 30 aprile, la notte di Valpurga, data di inizio dell’estate esoterica e cara ai satanisti. E non ci potrebbe essere colonna sonora migliore di questa. Il prossimo disco sarà fuori per Halloween 2019.

Tracklist
1.Evil Eye
2.Pagan Worship

Line-up
Steve Scavuzzo
Sean Bay
Greg Acampora
Brian Bauhs

CLOUDS TASTE SATANIC – Facebook

Inter Arma – Sulphur English

Incandescente fusione di sludge, death, black e doom per la band statunitense, che abbina con grande personalità pesantezza e atmosfera.

Arde senza tregua il furore creativo degli statunitensi Inter Arma che, attivi dal 2007, giungono al loro quarto full length dopo lo splendido Paradise Gallows del 2016.

Credevo fosse difficile superare il livello del sopracitato album, ma i cinque musicisti della Virginia portano a compimento una mastodontica opera, abbondantemente sopra i sessanta minuti, dove sono fuse ad alta temperatura incandescenti scorie sludge, doom, death e black. L’approccio alla materia è brutale e personale  ed ogni musicista non si risparmia e dà il meglio della sua arte. Da rimarcare, senza indugi, la prova del drummer T.J.Childers, che rende il suono di quest’opera qualcosa di sensazionale per la ferocia, la vitalità e l’intensità che lasciano a bocca aperta, portandoci su un piano emozionale molto alto. L’opera è esplicitamente dedicata a due amici e musicisti importanti della scena sludge, Bill Bumgardner betterista di Indian, Lord Mantis e Alan Guerra, batterista dei Bell Witch, e colpisce per la totale mancanza di punti deboli; ogni brano, nove in tutto, rappresenta un’ esperienza sensoriale magistrale che prosciuga ogni energia presente nel nostro corpo. La band colpisce duro con inventiva e personalità fin dall’inizio e non teme di inerpicarsi anche in strade difficili come il breve strumentale Observances of the path, cosi come le cadenze dark blues di Stillness dove l’interpretazione del singer Mike Paparo ci trascina lentamente in abissi di perdizione e catarsi; stupefacente la sua capacità, durante l’intera opera, di esprimersi in growl, scream e harsh vocals sempre con personalità, ”colorando” il tutto con tinte dark e sinistre. L’opera non è facile, tante sono le suggestioni emanate, ma la band sembra non avere alcun limite creando muri di suono dove non filtra alcuna luce e la densità della materia è soffocante (The Atavist Meridian) e mi ripeto, con un lavoro della batteria che lascia a bocca aperta. Ogni brano offre momenti di esaltazione, sia per potenza, convinzione e ispirazione; la ferocia di Citadel, con le chitarre che ci regalano una parte solistica da pelle d’oca mi ha tramortito, cosi come le atmosfere notturne, atmosferiche di Blood on the lupines, che contorcono il blues con aromi psichedelici portandoli a un punto di fusione lacerante e apocalittico. Questi artisti sono in costante crescita e sale già l’ aspettativa per le prossime opere che non potranno che essere avvincenti. Per me uno dei dischi dell’anno.

Tracklist
1. Bumgardner
2. A Waxen Sea
3. Citadel
4. Howling Lands
5. Stillness
6. Observances of the Path
7. The Atavist’s Meridian
8. Blood on the Lupines
9. Sulphur English

Line-up
T.J. Childers – Drums, guitars, bass, acoustic guitars, lap steel, keyboards, percussion, noise, vocals
Steven Russell – Guitars
Trey Dalton – Guitars, percussion, vocals
Mike Paparo – Vocals, percussion
Joe Kerkes – Bass

INTER ARMA – Facebook

Padus – Diva Sporca

Diva Sporca è un disco che sa di antico, di qualcosa che si muove nelle nebbie, di sguardi impauriti al cielo verso la luna nera che sta sopra di noi da millenni, è anche ricerca musicale e passione che porta oltre.

Padus è il progetto molto particolare ed originale di Matteo Zanella, un abitante del delta del Po che suona il basso in un’orchestra di musica da ballo.

E proprio il basso come strumento è messo al centro di questa singolare opera, specialmente il basso distorto, che diventa in pratica un gruppo musicale a sé stante. Matteo Zanella è uno di quei musicisti totali e straripanti, ha la musica nel cervello e la crea in maniera ricercata ed originale. Scrive e suona tutto lui, e come genere siamo dalla parti di un doom che si incrocia con il dark ambient, ma molto forte è la connotazione teatrale del tutto, infatti le canzoni sono vere e proprie storie sceneggiate. Di solito gli strumenti impiegati sono il basso distorto per l’appunto, un organo a canne ed una batteria campionata, ma ci sono anche il vento, i tuoni ed incombe la figura del Po, questo fiume misterioso che attraversa terre antiche e difficili da decifrare. Matteo non si ferma però qui, e dato che ha anche la passione per la pittura, ha disegnato anche l’ermetica copertina del lavoro musicale. Diva Sporca è un viaggio nelle tenebre, nell’occulto e nella disperazione umana, nella vera e propria sporcizia del mistero umano, e anche in una natura che per noi è cattiva, ma semplicemente è se stessa, è l’uomo che inventa categorie di pensiero altrimenti inesistenti. Il disco è una continua sorpresa, il cantato è in italiano ed è molto incisivo, e contribuisce in maniera notevole a contribuire alla cifra stilistica del disco. La tecnica di Matteo è notevole, ma non è quella al centro del suo suono, bensì è al suo servizio. Diva Sporca è un disco che sa di antico, di qualcosa che si muove nelle nebbie, di sguardi impauriti al cielo verso la luna nera che sta sopra di noi da millenni, è anche ricerca musicale e passione che porta oltre. Ci sono anche brani sperimentali come Elocubrazione che fanno perdere le proprie attuali coordinate e conducono molto lontani, in quello stato particolare di trance leggera che solo certa musica può indurre. Si consiglia anche di seguire la pagina facebook di Padus, poiché Zanella vi posta i notevoli quadri ispirati ai pezzi del progetto.
Un disco unicamente tenebroso, un lavoro molto compiuto di un musicista che sa essere e dire molte cose differenti.

Tracklist
1 – Diva Sporca
2 – La luna nera
3 – Elocubrazione
4 – La peste
5 – La strada per l’oblio

PADUS – Facebook

Blind Monarch – What Is Imposed Must Be Endured

I Blind Monarch offrono un lavoro di grande sostanza e convincente dalla prima all’ultima nota: certo, qui il sound è volto ad evocare solo sofferenza e stoica sopportazione, per cui ognuno si prenda la propria croce con la prospettiva di portarsela appresso per il resto dei suoi giorni, senza che possa arrivare il Cireneo del caso ad alleviarne il peso.

Ciò che ci viene imposto deve essere sopportato: questo è quanto ci viene comunicato dai Blind Monarch con il titolo del loro album d’esordio, intitolato appunto What Is Imposed Must Be Endured.

Del resto tutto ciò è la sintesi estrema del doom, che non deve essere scambiata come una forma passiva di rassegnazione bensì quale presa di coscienza dell’ineluttabile.
Il quartetto di Sheffield sembra provenire direttamente dal secolo scorso, sia come approccio che come immagine e questo non è affatto un male, considerando che di quest’ora scarsa ci musica suddivisa in quattro lunghi brani resta la viva sensazione d’aver ascoltato il genere in una delle sue forme più pure ed incontaminate.
La band inglese prende sicuramente sputo dal seminale Forest Of Equilibrium dei connazionali Cathedral (nella parte centrale della traccia autointitolata è riscontrabile un incedere non dissimile a quello di Ebony Tears), rielaborandone però la lezione sostituendo l’anima psichedelica con una ben più pesante e vischiosa componente che può rimandare a protagonisti invece d’oltreocaeno come i magnifici Bell Witch: il risultato che ne consegue è un lavoro ruvido, corposo e privo di spunti melodici, perché se bisogna proprio caricarsi sulle spalle il peso di questa esistenza lo si deve fare senza palliativi di sorta.
E’ anche per questo, quindi, che Tom Blyth non fa sconti a livello vocale passando dal growl ad un aspro screaming non facendo nulla per apparire gradevole, mentre il fratello Adam sciorina riff rocciosi dimostrando però di saperci fare anche quando è chiamato a tessere qualche trama solista.
Solo nell’ultimo brano, Living Altar, appaiono passaggi più rarefatti, con tanto di vocalizzi femminili (forniti sempre dalla famiglia Blythe), decisamente ben costruiti e funzionali all’alternanza con i più canonici momenti basati su un impietoso e monolitico doom.
I Blind Monarch offrono un lavoro di grande sostanza e convincente dalla prima all’ultima nota: certo, qui il sound è volto ad evocare solo sofferenza e stoica sopportazione, per cui ognuno si prenda la propria croce con la prospettiva di portarsela appresso per il resto dei suoi giorni, senza che possa arrivare il Cireneo del caso ad alleviarne il peso.

Tracklist:
1. Suffering Breathes My Name
2. My Mother, My Cradle, My Tomb
3. Blind Monarch
4. Living Altar

Line-up:
Paul Hubbard – Bass
Lee Knights – Drums
Adam Blyth – Guitars
Tom Blyth – Vocals

Fiona Blyth Vocals (track 4)

BLIND MONARCH – Facebook

Marianas Rest – Ruins

Ruins va ben oltre le già elevate aspettative, proiettando i Marianas Rest ai vertici di una scena melodic death doom che, in Finlandia, pare davvero attingere ad un filone aureo apparentemente inesauribile.

Dopo un primo album splendido come Horror Vacui, pubblicato nel 2016, c’era una certa attesa per una sorta di prova del nove che per una band è il secondo full length, quello che ha il compito di consolidare e magari evolvere quanto di buono già mostrato in occasione dell’esordio.

Ruins in realtà va ben oltre le aspettative, proiettando la band finlandese ai vertici di una scena melodic death doom che, nella terra dei mille laghi, pare attingere ad un filone aureo apparentemente inesauribile.
I Marianas Rest si presentano con Kairos, un brano che per ritmica ed interpretazione vocale mostra più di una inclinazione black che ben si sposa con l’incedere ricco di tensione, addolcita con il contributo melodico di un sempre superbo lavoro chitarristico; la successiva canzone, The Spiral, è un’altra delle travi portanti del lavoro, in virtù di uno sviluppo a tratti più pacato ma altamente drammatico.
Dopo aver regalato un quarto d’ora di musica magnificamente intensa il gruppo finnico continua a sciorinare brani che non lasciano spazio ad indugi o riempitivi: i ritmi tendono mediamente ad accelerare senza che, però, il senso di malinconia che pervade l’intero lavoro finisca per essere messo in secondo piano; tra queste tracce spicca una trascinante Unsinkable, che appare l’ideale sintesi di un sound che collega al meglio il tragico incombere dei migliori Swallow The Sun con la vocazione melodica degli Insomnium.
Quando si arriva al termine di un’altra gemma come Restitution, ben più che soddisfatti di quanto già ascoltato, con la traccia conclusiva Omega l’archiviazione di Ruins come ottimo disco viene messa in discussione visto che tale valutazione rischia di apparire persino ingenerosa: il brano capolavoro trova spazio proprio in coda, con il suo crescendo emotivo irresistibile che conduce ad un finale dominato da un lunghissimo e commovente assolo di chitarra.
Come l’aquila, che è il simbolo ed il nome in lingua madre della loro città, Kotka, i Marianas Rest spiccano un maestoso volo verso le vette più altre del genere, sedendosi con pari dignità allo stesso tavolo di quelle band che hanno rappresentato la naturale quanto inevitabile fonte d’ispirazione.

Tracklist:
1. Kairos
2. The Spiral
3. Hole in Nothing
4. The Defiant
5. Unsinkable
6. Shadows
7. Restitution
8. Omega

Line-up:
Harri Sunila – Guitars
Nico Mänttäri – Guitars
Jaakko Mäntymaa – Vocals
Nico Heininen – Drums
Niko Lindman – Bass
Aapo Koivisto – Keyboards

MARIANAS REST – Facebook