Slivovitz – All You Can Eat

In questa civiltà fatta di tanto a poco o di poco a tanto, il valore delle cose si è perso, come negli all you can eat che ormai riempono ogni luogo di questa nostra nazione.

Eppure qualcosa di valoroso e di tenace c’è ancora, soprattutto nella musica. Ad esempio questo disco degli Slivovitz, ensemble napoletano di gran valore. Nati nel 2001 sono il collettore per molti tipi di musica, dal free jazz, al prog più moderno, addirittura qualcosa di easy listening. Il tutto composto e suonato con grande sagacia e bravura, in totale controllo nell’esplorazione di anfratti conosciuti all’interno delle nostre ovvie esistenze. Ascoltandoli, ed ognuno nella musica può e deve sentirci ciò che più gli aggrada o gli pare, mi fanno venire in mente un incrocio tra Indukti, Ozric Tentacles e il free jazz. Insomma, situazioni nuove e musica che ti porta dove non sai e sarà bellissimo. I partenopei incidono per la newyorkese Moonjune Records, una Tzadik molto più malleabile e varia. All You Can Eat è molto bello e davvero free da tante cose, libero di essere ascoltato e gustato.
Il disco è stato stampato grazie ad una raccolta fondi su Musicraiser.

TRACKLIST
1. Persian Night
2. Mani In Faccia
3. Yahtzee
4. Passannante
5. Barotrauma
6. Hangover
7. Currywuster
8. Oblio

LINE-UP
PIETRO SANTANGELO: tenor & alto sax
MARCELLO GIANNINI: electric & acoustic guitars
RICCARDO VILLARI: acoustic and electric violin
CIRO RICCARDI: trumpet
DEREK DI PERRI: harmonica
VINCENZO LAMAGNA: bass guitar
SALVATORE RAINONE: drums

SLIVOVITZ – Facebook

In Memory – LaKrima

Un’opera che mette d’accordo fans dai gusti prog con chi ama i nuovi suoni dai rimandi sinfonici guidati da bellissime sirene dall’ugola d’oro.

Perso nelle note dell’ultimo, meraviglioso lavoro dei prog metal nostrani Eldritch, ecco che faccio mia l’opera dei toscani In Memory, gruppo fondato dai fratelli Ginanneschi, dove Dario è alle prese con il drumkit e Rudj, da un po’ di anni alla corte di Terence Holler e Eugene Simone, è il chitarrista.

Non una band di giovine nascita, gli In Memory sono al terzo lavoro sulla lunga distanza di una storia iniziata a cavallo del millennio, con vari cambi nella line up e due lavori, licenziati nel lontano 2003 il primo (Intoxicating Mind) e otto anni fa il secondo (Glyptic).
Era il 2007 infatti, quando la band diede alle stampe il suo secondo lavoro, otto anni che non sono passati invano visto la qualità della musica proposta, un ottimo esempio di prog metal, molto melodico e dalle sfumature gothic, non troppo accentuate ma presenti, anche per l’ottima interpretazione della vocalist Cristiana Musella che fa per un’attimo dimenticare le ormai troppe cantanti dallo stile classico per procurare brividi rock, sentiti, emozionali, ma pur sempre rock oriented.
La musica del gruppo livornese ha nel dna il prog metal, questo è sicuro, ma lo dissemina di atmosfere dark, dall’aura intimista, che non se ne va neppure nei brani più metallici, contornando la sua proposta di sfumature grigiastre, lasciando il sound in mano agli strumenti rock e relegando le tastiere ad accompagnatrici non troppo invadenti e suonate dall’ospite Gabriele Caselli (ex Eldritch, ora negli Ensight, protagonisti del bellissimo esordio Hybrid, uscito in questi giorni).
Alternando brani di prog power metal, ad altri dove la stupenda voce della singer è protagonista emozionando non poco, galleggiando su acque ferme, ma buie, Lakrima regala attimi di musica raffinata che si confronta con cavalcate metalliche dal buon impatto, suonate con l’ottima padronanza di mezzi a disposizione dei musicisti ed un songwriting maturo ed equilibrato.
La forza dell’album è proprio quella di mantenere la stessa atmosfera sia nelle parti più ruvide, sia in quelle dall’alto potenziale melodico, che non finiscono mai di regalare spunti emozionali dal buon potenziale dark/gothic: ne esce un’opera che mette d’accordo fans dai gusti prog con chi ama i nuovi suoni dai rimandi sinfonici guidati da bellissime sirene dall’ugola d’oro.
My Strenght, The Past Of Steel, la title track, Sweet Deceiver e She sono esempi di come la musica del gruppo toscano, guardi al prog( Eldritch e DGM ), come al dark/gothic di Lacuna Coil e The Gathering, rivelandosi una gradita sorpresa ed un’altra band da sottolineare nel vasto panorama metallico nazionale.

TRACKLIST
01. Buried Alive
02. Dust
03. LaKrima
04. Inexorable
05. Beautiful Doubt
06. My Strength
07. The Past Of Steel
08. Sweet Deceiver
09. Still Alive
10. I’m So Excited
11. She
12. The Jewel Of My Life

LINE-UP
Emiliano di Rosa – Bass
Dario Ginanneschi – Drums
Rudj Ginanneschi – Guitars
Cristiana Musella – Vocals

IN MEMORY – Facebook

Myridian – We, The Forlorn

La musica di questi ragazzi merita di essere esportata e posta all’attenzione del pubblico dell’emisfero nord, dove potrebbe trovare i meritati riscontri: nel frattempo non facciamo l’errore di ignorare un album come We, The Forlorn.

Nel 2012 gli australiani Myridian si erano fatti notare con un album d’esordio (Under the Fading Light) decisamente riuscito e già maturo.

Dopo qualche aggiustamento di line up e tre anni in più di esperienza, i ragazzi di Melbourne ritornano con una prova su lunga distanza che li conferma a pieno titolo quali autori di un death doom di grande classe ed altrettanta qualità.
We, The Forlorn è un un lavoro privo di punti deboli, prodotto benissimo ed altrettanto perfettamente eseguito, evidenziando un costante equilibrio tra tutte le componenti del sound. Fermo restando il pallino in mano ai due membri fondatori, Scott Brierley (chitarrista ed autore di tutte le musiche) e Felix Lane (vocalist e bassista), i nuovi entrati Ian Mather (chitarra) e Dan Liston /tastiere), entrambi dei Catacombs, e Zebådee Scott (batteria), degli Adamus Exul, portano nuova linfa e allo stesso tempo ulteriore compattezza al sound.
Lo stile dei Myridian attinge alla frangia più melodica del genere e, tutto sommato, si rivela un ideale mix tra i suoni della scuola europea e di quella statunitense, con riferimenti più che normali rinvenibili rispettivamente nei Swallow The Sun e nei Daylight Dies.
Il lavoro è piuttosto lungo, con i suoi quasi settanta minuti di durata, ma riesce a tenere costantemente desta l’attenzione in virtù dell’elevata qualità media dei brani anche se, nel corso dei primi ascolti, sembrerebbe mancare il brano sopra le righe capace di inchiodare l’ascoltatore in un loop ininterrotto. In realtà, insistendo nei passaggi, esplode infine in tutta la sua dolente bellezza una traccia come Snowscape, trasudante malinconia da ogni nota, e non lontano da tali livelli si vano a collocare la title track, A Lone Rose e la conclusiva Mourning Tide. Notevoli anche These Weary Bones, che vede il particolare contributo dell’ospite Nick Magur, (vocalist dei già citati blacksters Adamus Exul, band nella quale peraltro ha suonato lo stesso Lane), con il suo screaming estremo ai limiti del depressive, Silent Death e Desolace, mentre l’episodio più breve, I, the Bereft, è uno strumentale acustico che di fatto divide in due parti il lavoro, introducendone l’ultima mezz’ora, invero splendida.
Felix Lane si rivela un ottimo vocalist, buono nell’alternare, novello Kotamäki, growl, scream e clean vocals senza accusare cedimenti ma, davvero, questi cinque musicisti australiani si sono espressi tutti al loro meglio per regalarci questa ennesima perla partorita da un genere musicale che continua a riservare sorprese provenienti da ogni angolo del pianeta.
Forse i Myridian rischiano di pagare in parte il loro isolamento geografico, muovendosi per di più in un ambito di nicchia per sua definizione, ma se oggi i Swallow The Sun escono per Century Media, non vedo perché la band di Melbourne non possa ambire almeno ad un contratto con qualche label del settore tipo Solitude o Weird Truth, tanto per citarne due tra le più qualitative a livello di roster. La musica di questi ragazzi merita di essere esportata e posta all’attenzione del pubblico dell’emisfero nord, dove potrebbe trovare i meritati riscontri: nel frattempo non facciamo l’errore di ignorare un album come We, The Forlorn.

Tracklist:
1. We, the Forlorn
2. Silent Death
3. These Weary Bones
4. A Lone Rose
5. I, the Bereft
6. Snowscape
7. Desolace
8. Mourning Tide

Line-up:
Felix Lane – Vocals, Bass
Scott Brierley – Guitars
Ian Mather – Guitars
Dan Liston – Keyboards
Zebådee Scott – Drums

MYRIDIAN – Facebook

Stonewitch – The Godless

Il quintetto si ispira alla discografia di mezzo dei Cathedral immettendo nel proprio monolitico sound iniezioni di Witchfinder General e Saint Vitus, per un vero ed ottimo tributo al doom classico.

Il successo commerciale dello stoner, fratellino del doom, ha distolto lo sguardo sulla pura musica del destino, che per circa un decennio ha avuto il suo momento di gloria con le opere di Cathedral, Solitude Aeturnus, Revelations e per via di questo il ritorno in auge di vecchie glorie come i Pentagram.

Nell’underground il lento incedere del sound sabbathiano più classico trova però terreno fertile e le sorprese per i gli amanti del genere non mancano di certo.
La Terror From Hell, etichetta specializzata nei suoni classici, ristampa in cassetta il primo demo di questa ottima band transalpina, composto da cinque brani di doom metal che riportano a l sound di quella che io considero la più grande band del genere, i Cathedral del sacerdote Lee Dorrian.
Inutile spiegare l’importanza della band britannica ed il carisma innato del proprio leader, primo vocalist  dei grindsters Napalm Death e poi cerimoniere della cattedrale, autrice di capolavori indiscussi come l’esordio Forest Of Equilibrium dell’ormai lontanissimo 1991.
Il quintetto, formato da ex membri di Acarus Sarcopt e Manzer, si ispira alla discografia di mezzo della band britannica ( The Carnival Bizarre) immettendo nel proprio monolitico sound iniezioni di Witchfinder General e Saint Vitus, per un vero ed ottimo tributo al doom classico.
Tra i brani proposti la title track e la splendida e “dorriana” Miry Green Dome Arise, nella parte centrale del lavoro, accentuano le buone impressioni suscitate dall’opener Death Seed, con riffoni che colano sangue spesso come lava, solos scolpiti nella riccia del monte Fato e la voce del singer Serge, che ricorda non poco quella ruvida e declamatoria del buon Dorrian.
Un gruppo sicuramente da seguire e ascolto consigliato agli amanti del doom; sembra che la band nel prossimo anno licenzierà il secondo demo, sempre per Terror From Hell, dunque orecchie aperte e seguiteci, noi ci saremo.

TRACKLIST
1. Death Seed
2. The Godless
3. Miry Green Dome Arise
4. Wintery Falls
5. The Godless (reprise)

LINE-UP
Joss – Bass
Cédric – Drums
Aymeric – Guitars
Romain – Guitars, Bass
Serge – Vocals

STONEWITCH – Facebook

Cemetery Fog – Towards the Gates

Musica affascinante, almeno per chi è ancora innamorato del sound catacombale dei primi anni novanta.

Un’altra ottima ristampa licenziata dalla nostrana Terror From Hell, label specializzata nei suoni estremi classici, risulta questo quarto lavoro del trio finlandese, abituato a passeggiare tra cimiteri avvolti nella spessa coltre di nebbia che raffredda le ossa e sveglia le anime dei defunti.

Il gruppo attivo dal 2012 aveva precedentemente dato alle stampe un terzetto di demo per la Iron Bonehead Productions, che si era occupata di rilasciare anche questo ep rigorosamente in vinile, ora uscito in versione cd per l’etichetta vicentina.
I Cemetery Fog sono J. Filppu,J. Väyrynen e V. Kettunen e fanno death metal dai richiami doom/dark, un genere che, nei primi anni novanta regalò pietre miliari come i primi album di Katatonia, Paradise Lost e My Dying Bride ed il loro Towards The Gates sembra in tutto per tutto un disco uscito in quel periodo.
Produzione sporca, atmosfere dark e funeree, lunghe parti di lento ed oscuro doom/death che, se non lascia granché in personalità, punta tutto sulle atmosfere, creando musica dall’elevato fascino.
Il cuore di questo lavoro sono tre brani mediamente lunghi, composti da riff lenti e mortiferi, giri pianistici melanconici e il growl sofferto, accompagnato talvolta da clean vocals che sinceramente sono il punto debole della musica del gruppo di Hamina.
Molto meglio quando il growl oscuro si erge sul lento incedere del sound e sembra davvero di perdersi in oscuri cimiteri, dove tra la nebbia, le statue tombali si ergono e richiamano angeli caduti, malinconici altari innalzati per l’altro mondo, un sofferto e drammatico passaggio dalla vita alla morte, che non lascia nessuna speranza e ci avvolge nella più tragica oscurità.
Tra le songs spicca Shadow of Her Tomb, notevole marcia verso l’oblio del purgatorio, brano che nella track list di quel capolavoro che è As The Flower Withers, primo full length della sposa morente, avrebbe fatto la sua figura.
Musica affascinante, almeno per chi è ancora innamorato del sound catacombale dei primi anni novanta, nel frattempo aspettiamo buone nuove, godendoci questo salto nel tempo.

TRACKLIST
1. Intro
2. Withered Dreams of Death
3. Embrace of the Darkness
4. Shadow of Her Tomb
5. Outro – Towards the Gates

LINE-UP
J. Filppu – Guitar, Vocals
J. Väyrynen – Guitar
V. Kettunen – Drums

CEMETERY FOG – Facebook

Ephemeral Ocean – The Efflorescence

La giovane band proveniente da Mosca licenzia un ottimo esempio di death metal dall’incedere doom, oscuro e drammatico, in linea con le produzioni di metà anni novanta, con un particolare gusto per melodie malinconiche e buone digressioni progressive.

Immaginate l’inquietudine che può suscitare la maestosa oscurità dell’oceano in una notte dove solo i lampi di una tempesta in lontananza, lasciano trasparire un poco di luce tra il buio del cielo e del mare, dove noi, nel mezzo galleggiamo, mentre l’oscurità ed il mare profondo aspettano un nostro attimo di debolezza per inghiottirci nel buio più profondo, metafora dell’animo umano, sempre più attratto dalla parte più oscura, drammatica e, molte volte malvagia.

Questo quadro inquietante può trovare la propria espressione in musica tra le note del primo full length dei death doomsters russi Ephemeral Ocean, arrivati al debutto dopo aver dato alle stampe Honour in the Mask, ep dello scorso anno.
La giovane band proveniente da Mosca licenzia un ottimo esempio di death metal dall’incedere doom, oscuro e drammatico, in linea con le produzioni, di metà anni novanta, con un particolare gusto per le melodie malinconiche e buone digressioni progressive.
L’album si sviluppa in sette movimenti dove armonie acustiche, andamenti rallentati e sfuriate estreme, sono ben congegnate ed accompagnate da un growl cavernoso ed una voce pulita all’altezza della situazione, molto espressiva e dai rimandi dark/prog.
I brani sono molto suggestivi, nel genere ben delineati e per nulla scontati, grazie ad una buona varietà di umori che pur mantenendo i colori su tonalità nere, rendono l’ascolto piacevole anche per chi non è propriamente un’anima oscura.
Si entra subito nell’aurea drammatica dell’opera con l’opener The Semblance of Eternal Mist, una death metal songs scritta su di un arcobaleno dai colori di un nero intenso che piano, si attenuano verso un grigio, come quando i lampi di luce schiariscono e ci fanno vedere le ombrose nuvole sopra di noi.
E’ un attimo, un battito di ciglia, in Inanimate Diary torniamo a galleggiare nell’immenso del mare e del cielo, la splendida voce pulita introduce il brano che di colpo vira ancora verso territori estremi, dalle ritmiche pressanti di nuovo aggrediti dal canto estremo di Dmitriy Stempkovskiy, protagonista di un’ottima interpretazione anche con le clean vocals.
Lullaby to Our Grudges risulta il brano più bello e struggente del lotto, insieme alla conclusiva No Will, quasi dieci minuti dove il gruppo russo affronta demoni, tra sfuriate estreme e armonie dark prog, con risultati davvero notevoli per teatralità, atmosfere e l’innato talento per i suoni melanconici e drammatici.
Le influenze si riscontrano nei primi lavori dei gruppi diventati icone del genere come Katatonia e Opeth, con riff e solo che richiamano i Dark Tranquillity, nelle parti più death oriented, anche se la band le inserisce in un contesto proprio, con ottima personalità, così che The Efflorescence risulti un ottimo ascolto per gli amanti del genere.
Gruppo dalle indiscutibili capacità gli Ephemereal Ocean vanno seguiti con attenzione, al prossimo giro potrebbero regalarci grosse soddisfazioni, consigliati.

TRACKLIST
1. The Semblance of Eternal Mist
2. Inanimate Diary
3. One More Carnation
4. Lullaby to Our Grudges
5. Angel That Conducted
6. Black Cobra
7. No Will

LINE-UP
Alexey Kostovitskiy – Guitars/Synths
Dmitriy Stempkovskiy – Vocals
Roman Vedeneev – Bass
Efim Burak – Drums/Percussion
Anton Garm – Guitars

EPHEMEREAL OCEAN – Facebook

Stielas Storhett – Drownwards

Drownwards vive di momenti davvero intensi come in Constant, Spyglass, la cavalcata metallica Ode To My Slaves e la conclusiva TMS, ma sono certo che, se scrivessi queste righe fra un paio di mesi citerei altri brani, altri momenti, altri attimi di questo bellissimo ed emozionante lavoro.

Che la Wormholedeath negli ultimi anni sia diventata un punto di riferimento per il metal underground, specialmente in ambito estremo è un fatto, ma non contenta riesce nella non facile impresa di scovare realtà di un certo spessore in ogni parte del mondo, a livello musicale e non solo.

Mai un gruppo o un album che non abbia una elevata maturità, anche concettuale e atmosferica, lasciando in noi l’impressione di valutare molto attentamente tutti gli aspetti di un’artista e non solo la bravura strumentale o l’appeal che il lavoro svolto può avere sugli appassionati.
Premessa dovuta e complimenti fatti per il nuovo acquisto dell’etichetta nostrana, la one man band proveniente dalla Russia Stielas Storhett, creatura oscura e drammatica del polistrumentista Damien T.G, fresco di firma per la label italiana.
Certamente non un novellino, il musicista russo arriva così al terzo full length, di una carriera solista iniziata circa una decina d’anni fa con il primo album, Vandrer… e proseguita con Expulsè del 2011, con in mezzo un paio di spilt e un mini cd.
Veniamo a Dronwards, nuova opera che alternando black metal, atmosfere dark ed un tocco progressivo dal taglio moderno, riempie le orecchie di ottima musica colma di atmosfere drammatiche, intimiste, a tratti rabbiose come sa essere il black metal, contornandolo da un’aura di eleganza, anche quando la forza d’urto del metal estremo si fa pressante, regalandoci bellissimi momenti dove le note che galleggiano nelle acque tranquille del post metal dai contorni darkeggianti riescono a tenere comunque alta la tensione, che esplode come un vulcano nelle tragiche cavalcate metalliche.
Ottimo il lavoro sulle voci, che si alternano e riempono di varie sfumature i passaggi di quest’opera oscura, d’impatto lo scream, stupenda e molto personale la voce pulita.
Un album da far vostro con la dovuta calma, la musica di Damien T.G non nasconde assolutamente le proprie influenze, girando intorno a chi, del genere è stato maestro indiscusso (primi Opeth e Katatonia), ma interpretando il tutto con molta personalità e quel quid moderno nel sound, che ottiene i maggiori consensi da parte del sottoscritto.
Un sali e scendi di colori e sfumature che hanno il nero come base per il proprio quadro musicale, tenendo sempre per le briglie la parte estrema, non ammorbidita ma resa ancora più tragica dalle parti melodiche e quando una voce femminile, entra nel cuore di songs come la notevole Null (The Last Journey), le emozioni diventano tangibili, travolgendoci di drammatica passionalità.
Prodotto benissimo, Drownwards, vive di momenti davvero intensi come in Constant, Spyglass, la cavalcata metallica Ode To My Slaves e la conclusiva TMS, ma sono certo che, se scrivessi queste righe fra un paio di mesi citerei altri brani, altri momenti, altri attimi di questo bellissimo ed emozionante lavoro, fatelo vostro.

TRACKLIST
1) Gasp For Change
2) Playfields Of Gods
3) Null (The Last Journey)
4) Just Walking Around
5) Constant
6) Spyglass
7) Backdoor Mate
8) Ode To My Slaves
9) Omnivores
10) Tms

LINE-UP
Damien T.G. – Everything

STIELAS STORHETT – Facebook

Degial – Savage Mutiny

Non un disco imperdibile, ma un buon esempio di come la scena underground continui a sfornare nel metal estremo lavori che guardano con assoluta devozione ai maestri, magari senza troppa personalità, ma con abbondante attitudine ed impatto.

I Degial of Embos, attivi dal 2004 al 2006 nella scena estrema svedese e autori di due demo si sciolsero per ritornare come Degial lo stesso anno e da qui ripartire per portare nel mondo il verbo del death metal old school, contaminato da iniezioni di blasfemia black in un delirio di musica oscura e cattiva.

L’esordio in formato ep arrivò nel 2010 seguito dal primo full length, Death’s Striking Wings nel 2012.
Sono passati tre anni e la band nell’anno di Satana 2015, tornano tramite Sepulchral Voice Records con questo oscuro Savage Mutiny, un concentrato di death/black dissacrante e blasfemo.
Growl cartavetrato proveniente direttamente da qualche catacomba, ritmiche che variano dal classico thrash alla primi Slayer, al black dei connazionali Dissection, fanno da avvisaglia per la proposta del gruppo che guarda al sound di matrice old school, senza compromessi, in uno tsunami di atmosfere infernali, con la morte e la blasfemia come uniche compagne nel metal primordiale della band.
Nessuna concessione ad orpelli inutili, si parte in quarta e non ci si ferma più, in questa mezzora abbondante di suoni provenienti da più parti del mondo musicale estremo.
Morbid Angel, un po’ di death scandinavo e tanto death/thrash anni ottanta, fanno da cornice a questo altare al maligno, grezzo, ruvido e tremendamente ignorante, ma che a tratti sprigiona una violenza riscontrabile solo negli act più efferati della nostra musica preferita.
Aiutati da un paio di personaggi della scena estrema come Set Teitan (Dissection, Watain), Pelle Åhman (In Solitude / Invidious) e lasciate in mano a Gottfrid Åhman (In Solitude / Invidious / Degial) registrazione e mixing del disco, la band risulta un concentrato di torture estreme in musica, dove come strumenti di dolore vengono usati brani devastanti come Uncoiling Chaos, Revenants e Sanguine Thirst, tracce migliori di questo lavoro.
Non un disco imperdibile, ma un buon esempio di come la scena underground continui a sfornare nel metal estremo lavori che guardano con assoluta devozione ai maestri, magari senza troppa personalità, ma con abbondante attitudine ed impatto.

TRACKLIST
1. Doomgape
2. Savage Mutiny
3. Uncoiling Chaos
4. Deathsiege
5. Pallor
6. Revenants
7. Sanguine Thirst
8. Transgression

LINE-UP
Hampus Eriksson – Guitars, Vocals
Rickard Höggren – Guitars
P.J – Bass
Emil Svensson – Drums

DEGIAL – Facebook

Fungi From Yoggoth / Liturgia Maleficarum

Split in cassetta di altissima qualità, direttamente dagli abissi di un inferno che striscia nel sottobosco musicale, e che fortunatamente non ci lascia mai, grazie ad etichette come la Diazepam.

Split in cassetta da sessanta minuti per la Diazepam, etichetta che continua a popolare i nostri incubi.

Il lato a è territorio dei Fungi From Yoggoth con un suono dark ambient rituale vecchio stile, che ci da la possibilità di ascoltare qualcosa che non gira molto negli ultimi tempi. Fungi From Yoggoth più che musica fa ambientazioni sonore, come un gas che passa da sotto una porta chiusa ed invade il nostro ambiente in silenzio. Il darkambient è un genere particolare, e caricato di ritualità come in questo caso è ancora più particolare. I cinque pezzi sono malati ed insani, prodotti molto bene con passione e dedizione, ed ululano come si deve.
L’altro lato della cassetta contiene qualcosa che non ti aspetteresti solo se non conosci la Diazepam, ecco quindi il nerissimo doom ambient con tocchi black metal dei Liturgia Maleficarum. Il gruppo proviene da Dunwich e fa una musica morbosa e quasi fastidiosa nella sua tenebrosa bellezza, e le tastiere sullo sfondo danno una pennellata particolare, quasi che una primitiva elettronica contaminasse la tavolozza di un pittore già morto.
Split in cassetta di altissima qualità, direttamente dagli abissi di un inferno che striscia nel sottobosco musicale, e che fortunatamente non ci lascia mai, grazie ad etichette come la Diazepam.
Edizione limitta in quarantasette copie ordinabile su http://dzpm.blogspot.it/p/store.html

TRACKLIST
01 Fungi From Yuggoth : I
02 Fungi From Yoggoth : II
03 Fungi From Yoggoth : III
04 Fungi From Yoggoth : IV
05 Fungi From Yoggoth : V
06 Liturgia Maleficarum : Ex Divina Luce Repulsus Sum
07 Liturgia Maleficarum : Humanae Vitae Taedemus
08 Liturgia Maleficarum : Mater Abominationum, Ante Te Genuflecto
09 Liturgia Maleficarum : In All His Fathomless Glory, He Appears
10 Liturgia Maleficarum : In Perpetua Obscuritas Iacebo

DIAZEPAM – Facebook

• URL YouTube, Soundcloud, Bandcamp

• DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Inhuman – Conquerors of the New World

Un album difficile, forse apprezzabile solo da chi stravede senza riserve per il death metal più tecnico

Il death metal è di per se un genere difficilissimo da suonare, magari agli ascoltatori superficiali le note estreme di cui è composto possono sembrare un’accozzaglia di suoni, ma il feeling e la bravura strumentale devono obbligatoriamente camminare a fianco di attitudine ed impatto, per far sì che una band abbia quel qualcosa in più.

Se poi si scende nell’ala tecnica del genere, la linea che passa tra un’opera straordinaria ed un clamoroso flop è sottilissima.
Gli Inhuman provengono dal Costa Rica, si sono formati quattro anni fa e sono al secondo lavoro, successore del debutto Course of Human Destruction, uscito nel 2013.
Il loro sound si può sicuramente considerare un esempio di technical death metal, a suo modo devastante e strabordante di cambi di tempo, forse troppi.
Molto bravi i musicisti, su questo non ci piove, ma purtroppo in molti di questi brani, manca la forma canzone, elemento importantissimo anche per un genere estremo come il death.
Possiamo sicuramente dire che il troppo stroppia, anche se non tutto è da buttare, le idee ci sono, ma sono esposte in modo confusionario, almeno in gran parte delle tracce che compongono Conquerors of the New World.
Buono e d’impatto il growl del vocalist Sergio Munoz e tecnicamente sufficiente il lavoro della sezione ritmica (Carlos Venegas al basso e Eduardo “Tato” Chavez alle pelli), mentre la chitarra inciampa in una produzione che non le dà il giusto spazio, relegandola a poco più di un soffio nella tempesta di suoni creato dal gruppo.
Si salvano gli ultimi due brani, The Chalice, e la lunghissima Stabbed to Death, che in virtù di un songwriting più ragionato, alzano la media della musica proposta dal gruppo costaricano.
Un album difficile, forse apprezzabile solo da chi stravede senza riserve per il death metal più tecnico.

TRACKLIST
1. Conquerors of the New World
2. Soulless Dead Eyes
3. Hold Your Crucifix
4. Extermination by Depopulation
5. Feed on Human Flesh
6. America Rises
7. The Chalice
8. Stabbed to Death

LINE-UP
Sergio Munoz – Vocals
Jonathan Sanchez – Guitar
Carlos Venegas – Bass
Eduardo “Tato” Chavez – Drums

INHUMAN – Facebook

Lucid Recess – Alive And Aware

Siamo in territori cari al moderno rock alternativo, mantenendo però un mood progressivo, come capita in molte delle band uscite negli ultimi tempi e che prendono spunto dalle opere di Tool e dei gruppi alternative più maturi

L’India non è solo paese di metal estremo o classico, ma nell’underground, vivono e si generano realtà musicali che si dedicano ad ogni genere di cui si può vantare il metal/rock e infatti ecco che, a portare alta la bandiera dell’alternative ci pensano i bravissimi Lucid Recess, band di Guwahati al secondo lavoro, che segue il debutto Engraved Invitation di cinque anni fa.

Il trio è composto dai fratelli Barooa, Amitabh voce e basso e Siddharth alla sei corde e responsabile di registrazione, mixaggio e masterizzazione di questo Alive And Aware.
Completa la line up il batterista Partha Boro,per una band che risulta un’autentica sorpresa, dall’alto di un songwriting ispirato e maturo, dal sound che mantiene per tutta la sua durata un approccio molto intimista ed elegante, non mancando di elettrizzare con buone sfuriate che si avvicina al metal.
Siamo in territori cari al moderno rock alternativo, mantenendo però un mood progressivo, come capita in molte delle band uscite negli ultimi tempi e che prendono spunto dalle opere di Tool e dei gruppi alternative più maturi (gli indimenticabili Creed, per esempio, o gli A Perfect Circle) creando musica che, con calma e il dovuto tempo per essere assimilata, lascia la piacevole sensazione di essere al cospetto di un gruppo di buon spessore.
Si può scrivere di tutto su questo lavoro, ma è indiscutibile la voglia dei Lucid Recess di uscire da spartiti banali, per un approccio intellettuale alla materia, i brani, anche nei momenti leggermente più metallici, mantengono quel quid di progressiva eleganza che affascina, accompagnati dall’interpretazione al microfono di Amitabh molto sentita, senza strafare, ma artisticamente perfetta.
Gli strumenti in mano ai musicisti indiani, si trasformano nelle calde voci di sirene ammaliatrici e veniamo così ipnotizzati per un’oretta di musica sognante, sempre in bilico tra l’urgenza del rock alternativo e le atmosfere dilatate del rock progressivo, in un viaggio musicale dove non mancano le sorprese, senza però uscire dai binari del genere suonato.
Non mancherà di piacere questo lavoro ai rockers moderni, magari lascerà qualcosa indietro per i fans del classico prog, ancorati allo scoglio che li lega a vecchi dinosauri settantiani, ma brani come The Clock That Is Us, Metamorphosis, Island e la conclusiva suite Sphere of Nothingness, dimostrano come il gruppo, riesce nell’intento di rispecchiare il rock moderno, staccato da cordoni ombelicali ormai obsoleti, creando musica non solo suonata bene, ma che emoziona … provateli, meritano.

TRACKLIST
1. Dead Deep End
2. The Clock That Is Us
3. Wireless Junkies
4. Madness
5. Metamorphosis
6. You May Have Everything
7. Time Walk
8. What Made This Burn
9. Island
10. Changes Are Sold
11. Sphere of Nothingness

LINE-UP
Amitabh Barooa – Vocals, Bass
Siddharth Barooa – Guitars, Backing Vocals
Partha Boro – Drums, Percussion

LUCID RECESS – Facebook

Tarot – The Warrior’s Spell

Un disco per chi ha ancora nelle orecchie il rock duro vecchia scuola, una stupefacente macchina del tempo che porta indietro negli anni fino ai primi settanta, per risalire di un po’ ma senza superare i primi anni del decennio successivo.

The Warrior’s Spell è una compilation che riassume, in quasi settanta minuti di musica, il credo del musicista australiano, conosciuto come The Hermit, che in questa mastodontica opera di hard rock d’ispirazione purpleiana, raccoglie i suoi tre mini cd usciti finora per la Heavy Chains Records.

Non solo profondo porpora, ma Rainbow ed Uriah Heep, sono le fonti primarie da cui il musicista si abbevera, costruendo su di loro un sound totalmente devoto alla causa del rock dal sapore vintage.
Un disco per chi ha ancora nelle orecchie il rock duro vecchia scuola, una stupefacente macchina del tempo che porta indietro negli anni fino ai primi settanta, per risalire di un po’ ma senza superare i primi anni del decennio successivo.
Produzione ad hoc per non scendere a compromessi e via tuffandosi in questo trip temporale che vi porterà tra i solchi di In Rock o Salisbury, Machine Head o Rising, imprigionati in questa gabbia di suoni che anche le band citate non suonano più da anni.
Rimane l’alto fascino che una proposta del genere suscita, almeno in chi queste avventure musicali le ha più o meno vissute e con un po di nostagia ritrova quei suoni che poi sono i colpevoli dell’amore incondizionato per la musica dura e tutto il rock in generale.
Certo è che il polistrumentista australiano ci sa fare, ed i brani sono molto belli e non si fatica ad arrivare in fondo alla tracklist, seguendo percorsi musicali che se non portano a camminare sulla Starway To Heaven, seguono arcobaleni di Blackmoriana memoria, in un susseguirsi di suoni capitanati da tasti d’avorio lordiani e perle che da Very’eavy Very’umble, primo straordinario lavoro degli Uriah Heep, prendono linfa vitale.
Non manca una certa vena psichedelica, che rende le songs una bellissima colonna sonora per tirare fuori dal vecchio sacchetto in pelle, cartine ed un po di quella vecchia erba rinsecchita, ormai dimenticata, ma compagna di lunghe serate in compagnia di questi suoni, vecchi amici ed ispiratori di una ribellione intima che non muore neanche dopo tanto tempo, risvegliata dalle note di Eyes In The Sky, Leaving This Place, Life And Death, inni ad un’era passata e da molti dimenticata.
Un’opera che aldilà del valore musicale è un tributo ad uno dei periodi più fruttosi a livello qualitativo della storia del rock, ascoltatelo.

TRACKLIST
1. The Watcher’s Dream
2. Twilight Fortress
3. The Wasp
4. Eyes in the Sky
5. The Warrior’s Spell
6. Street Lamps Calling
7. Leaving This Place
8. Mystic Cavern
9. Dying Daze
10. Life and Death
11. Sound the Horn
12. Vagrant Hunter
13.Take A Look Around
14. Leaving This Place

LINE-UP
The Hermit Vocals, Guitars, Organ, Keyboards

Deos – … To Depart

Anche se non si tratta del capolavoro che mi sarei aspettato, il voto comunque elevato corrisponde in toto al valore oggettivo di … To Depart.

Scommetto che, se foste dei tifosi del Barcellona, quando Leo Messi segna in una partita meno di due goal o, comunque, non si esibisce in una di quelle azioni in cui dribbla tutti gli avversari (e già che c’è anche qualche omino delle bibite), uscireste dallo stadio velatamente delusi.

Quando mi trovo a che fare con Déhà e Daniel Neagoe mi sento più o meno come i sostenitori blaugrana nei confronti della “Pulga” argentina, e così la pubblicazione di un nuovo album che li vede entrambi protagonisti rischia di scontentarmi relativamente pur risultando vincente.
Il secondo disco a nome Deos, il progetto funeral che vede i due corresponsabili ciascuno al 50% dello sforzo compositivo, è appunto una dimostrazione ineccepibile di come si debba interpretare il genere, ma non è il capolavoro che mi sarei atteso.
Questo perché, dei quattro brani che vanno a formare la tracklist di … To Depart, solo due sono le perle che possono scaturire da poche altre menti oltre a quelle del geniale duo, mentre sia la traccia di apertura (The Vigil), sia quella di chiusura (The Emptiness) non si rivelano all’altezza di cotanto splendore.
Ovviamente questi due brani farebbero la fortuna di molte band, che li utilizzerebbero ben volentieri per edificarvi attorno un intero album, ma rispetto al precedente disco sia il ricorso molto più frequente delle clean vocals, sia una rarefazione che rende più interlocutorio il sound, indeboliscono parzialmente l’impatto emotivo del lavoro.
In fondo le caratteristiche citate sono presenti anche in The Last Journey e The Silence, ma ciò avviene in maniera più organica in alternanza ai momenti ricchi di pathos provocati dall’irrobustimento del sound, associato al mortifero growl di Daniel: il titolo della prima delle due tracce calza davvero ad un andamento capace di evocare sensazioni dolorose difficili da descrivere a parole (per aiutarvi provate a pensare ai migliori Ea, ma molto più bravi tecnicamente ed ulteriormente rallentati), mentre la seconda è, se possibile, ancor più drammatica nel suo incedere ma viene stemperata da aperture melodiche con clean vocals che, qui, sono molto più funzionali alla causa rispetto ad altri frangenti.
Se vogliamo, si può trovare un certo parallelismo tra le accoppiate Fortitude, Pain, Suffering –  … To Depart e Gaia – IV Mythologiae degli Slow, progetto solista di Déhà, nel senso che in entrambi i casi l’album più recente vede una parziale attenuazione delle ruvidezze ed un incremento contestuale delle parti ambient e di quelle cantate con voce pulita. In tutto ciò, poi, finiscono inevitabilmente e giustamente per confluire anche le altre esperienze musicali dei due, a partire dai Clouds, dai quali vengono attinti certi passaggi pianistici di stampo intimista, che del resto ritroviamo anche negli stessi Eye Of Solitude.
In buona sostanza … To Depart è, come detto in fase introduttiva, un bellissimo lavoro, anche se il suo predecessore mi aveva offerto sensazioni ancor più dolorosamente lancinanti; non posso escludere a priori che dietro a tutto ciò possa esserci una sorta di pregiudizio affettivo, visto che fu proprio grazie a Fortitude, Pain, Suffering che scoprii l’esistenza di Déhà e Daniel, due tra i musicisti che più stimo al giorno d’oggi, e forse “accontentarsi” di un album come … To Depart è la cosa migliore da fare: non stupisca, quindi, un voto piuttosto elevato, visto che corrisponde in toto al valore oggettivo di quanto ascoltato.
Da citare, infine, e non solo per dovere di cronaca, il prezioso contributo alla resa finale del disco del chitarrista rumeno Alex Cozaciuc dei Descend Into Despair.

Tracklist:
1.I The Vigil
2.II The Last Journey
3.III The Silence
4.IV The Emptiness

Line-up:
Daniel N. – All instruments, Vocals
Déhà – All instruments, Vocals
Alex Cozaciuc – Guitars

DEOS – Facebook

Instigator – Bad Future

La prova sulla lunga distanza potrebbe essere un passo più deciso, per ora questo 7′ rimane ad esclusiva dei soli fans del metal old school e delle band da cui gli Instigator traggono ispirazione.

Si aprono le porte dell’inferno e dalle viscere del girone più lontano e buio spuntano gli Instigator, autori di questi quattro brani licenziati, appunto, dalla Gates Of Hell records in edizione limitata in vinile.

La band svedese autrice di un solo demo nell’ormai lontano 2010, ci scaraventa nel suo mondo, tra horror e sci-fi, ed il 7′ in questione, dall’assoluto impatto old school, lascia intravedere buone potenzialità, anche se la produzione è un po troppo vintage.
Old school senza compromessi, un heavy metal dai tratti speed tra voci cartavetrate, falsetti che richiamano il re diamante e tutto il metal horror/satanico direttamente dagli anni ottanta.
Il gruppo sa creare atmosfere soffocanti e i brani, dall’opener Anabolic, sono circondati da un’aurea diabolica e blasfema che a tratti risulta suggestiva, manca però un riff che entri in testa, una linea melodica che faccia alzare l’orecchio, specialmente nelle prime due songs, la già citata Anabolic e Inseminoid.
Le cose migliorano con la seconda parte, che vede il gruppo alle prese con Black Magic e Undetectable, la prima vede un metal veloce, alla primi Slayer/Venom, con uno stacco a metà brano ed una voce teatrale dal buon effetto, che da varietà alla song, mentre la seconda è il classico brano tra Venom e new wave of british heavy metal, questa volta con un ottimo riff portante e dal mood che torna su argomenti fanta/horror.
Dopo cinque anni dal primo demo, direi che la band non ha lasciato intravedere grossi passi avanti, le influenze sono tutte nell’old school di matrice ottantiana, anche se qualche spunto lascia intravedere buone discrete potenzialità.
La prova sulla lunga distanza potrebbe essere un passo più deciso, per ora questo 7′ rimane ad esclusiva dei soli fans del metal old school e delle band da cui gli Instigator traggono ispirazione.

TRACKLIST
Side A
1. Anabolic
2. Inseminoid
Side B
3. Black Magic
4. Undetectable

LINE-UP
Persecutioner – Bass
Transgressor – Drums
D. Retaliator – Guitars
D. Slaughter – Guitars
Hiroshima – Vocals

GATES OF HELL – Facebook

Desecresy – Stoic Death

Album estremo per intensità e atmosfere, Stoic Death risulta un lavoro davvero ben fatto e sicuramente il punto più alto della discografia del gruppo finlandese, meritando molto di più che un distratto ascolto

Torna il duo finlandese composto dal polistrumentista Tommi Grönqvist e dal vocalist Jarno Nurmi, che sotto il monicker Desecresy continuano imperterriti il loro lento discendere nell’abisso del metal estremo, con questo Stoic Death, successore del buon Chasmic Transcendence, uscito lo scorso anno e di cui Iyezine vi aveva illustrato le caratteristiche.

Un bel passo avanti risulta il nuovo lavoro per la band di Helsinki, Stoic Death licenziato anch’esso per l’arcigna Xtreem (un monumento per il death metal underground), accentua le virtù del precedente lavoro, lima qualche difetto e si accinge a conquistare nuovi fans, risultando un muro sonoro niente male, vorticoso e soffocante il giusto per mantenere inalterata la buona dose di forza bruta tra death metal e doom.
Sempre brutale e senza compromessi il growl di Nurmi e di sicuro effetto i suoni della sei corde, che creano un mulinello pericolosissimo di suoni lancinanti, molto scandinavi come nella tradizione del death nord europeo dei primi anni novanta.
Ancora più estremo nei rallentamenti di stampo doom/death che, come nell’album precedente, ricordano a grandi linee gli Asphyx, in generale il mood del disco non si discosta dalla musica creata fin qui dai Desescresy, ma il tutto risulta più convincente e ben congegnato.
Come una lunga suite estrema i brani si succedono, oscuri e pressanti, regalando momenti di soffocante e diabolico death metal, riff che si ripetono e sfiancano come in un rituale oscuro, dove la forza metallica, viene accompagnata dalla inesauribile e monolitica potenza lavica della musica del destino, in un sabba nero come la pece e labirintico, traumatico e doloroso.
Remedies of Wolf’s Bane da il via alla lunga passeggiata verso la morte e la band va subito all’attacco, risultando uno dei brani più veloci del disco, l’inizio della seguente The Work of Anakites continua a martellare, fino a metà brano dove una parte lentissima, smorza non di poco la velocità e da qui in poi si entra nel mondo di questo Stoic Death.
Riff che arrivano direttamente da un altro mondo, frenate che lasciano sulla strada note bruciate da bruschi rallentamenti, e chitarre torturate all’inverosimile, creano labirinti dove non esiste altro modo che perdersi e sono parte importante di tracce ipnotiche come Passage to Terminus, Sanguine Visions e Cantillate in Ages Agone.
Album estremo per intensità e atmosfere, Stoic Death risulta un lavoro davvero ben fatto e sicuramente il punto più alto della discografia del gruppo finlandese, meritando molto di più che un distratto ascolto, consigliato.

TRACKLIST
1. Remedies of Wolf’s Bane
2. The Work of Anakites
3. Passage to Terminus
4. Abolition of Mind
5. Sanguine Visions
6. Funeral Odyssey
7. Cantillate in Ages Agone
8. Unantropomorph

LINE-UP
Jarno Nurmi – Vocals
Tommi Grönqvist – Guitars, Bass, Drums

DESECRESY – Facebook

Majestic Downfall – …When Dead

Bellissimo disco ed ennesima conferma del valore di un musicista che sarebbe delittuoso sottovalutare.

Ho seguito Jacobo Córdova con il suo progetto Majestic Downfall fin dal full-length d’esordio Temple Of Guilt, risalente al 2009, e già quei primi passi riuscirono a convincermi attraverso la proposta di un death-doom piuttosto aspro ma decisamente bilanciato, ben eseguito e dal livello compositivo sempre al di sopra della media.

Lo split dello scorso anno con The Slow Death, poi, aveva messo in evidenza un’ulteriore maturazione in virtù di una manciata di brani molto efficaci e per certi versi più diretti che in passato, rendendolo così propedeutico alla pubblicazione di un album in grado di elevare il nome Majestic Downfall all’altezza delle migliori band del genere.
… When Dead, quarto full-length per Córdova, centra il bersaglio senza per forza di cose soggiacere ad una ammorbidimento del sound, anzi, il musicista messicano continua a martellare i timpani con un death doom sovente orientato sulla prime delle due componenti, senza tralasciare di inserire pregevoli passaggi chitarristici di stampo heavy, ad infiorettare un album di notevole valore.
Il quarto d’ora di Escape My Thought rappresenta la quintessenza del disco, grazie ad uno sviluppo che va ad abbracciare tutte le sfumature stilistiche compatibili con il genere proposto, contribuendo a collocare i Majestic Downfall su un piano molto vicino ad un altro interessantissimo progetto solista come quello dei Doomed del tedesco Pierre Laube: a differenza del suo collega teutonico, Jacobo Córdova pare possedere una maggiore propensione a repentine aperture melodiche che, per esempio, riescono ad dare respiro magnificamente, nel suo finale, ad un brano a lungo piuttosto tetragono come The Brick, the Concrete.
Se Doors è ottimamente in linea con le tracce precedenti (fa eccezione la breve quanto evocativa intro atmosferica …When Dead), The Rain of the Dead chiude l’album rappresentando il death doom più ortodosso e rallentato. ma senza che si rinunci mai a quelle caratteristiche accelerazioni che impediscono al songwriting di avvitarsi su sé stesso.
Bellissimo disco ed ennesima conferma del valore di un musicista che sarebbe delittuoso sottovalutare.

Tracklist
1. …When Dead
2. Escape My Thought
3. The Brick, the Concrete
4. Doors
5. The Rain of the Dead

Line-up:
Jacobo Córdova – Vocals, Guitar, Bass, Keyboards, Drums
Alfonso Sánchez – Drums

MAJESTIC DOWNFALL – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=NUIU_2lloy0

The Order Of Chaos – Apocalypse Moon

Prendete l’heavy metal, quello adrenalinico e powerizzato di Painkiller dei Judas Priest o dei primi bellissimi lavori dei Primal Fear, aggiungetevi sfumature street cattivissime, ed avrete un sunto del sound di questo devastante Apocalypse Moon.

Prendete l’heavy metal, quello adrenalinico e powerizzato di Painkiller dei Judas Priest o dei primi bellissimi lavori dei primal Fear, aggiungetevi sfumature street cattivissime, ed avrete un sunto del sound di questo devastante Apocalypse Moon.

Se poi a spaccarvi i padiglioni auricolari ci pensa una gentil donzella dall’ugola stratosferica per attitudine, impatto e cattiveria, il risultato non può che essere esplosivo.
Il gruppo si chiama The Order Of Chaos e di rumore ne fanno davvero tanto con il nuovo lavoro, il terzo sulla lunga distanza, dopo il debutto omonimo del 2009 e Burn These Dreams del 2011, che precede l’ep Sexwitch (2012), prima che Apocalypse Moon esploda in tutta la sua furia metallica in questo 2015.
Amanda “The Wench” Kiernan, una bellissima strega dotata di una voce che più metal, nel vero senso del termine, non si può e che letteralmente deflagra dagli altoparlanti del mio povero impianto è la ciliegina sulla torta, per un lavoro dal sound che è una bellezza, sopratutto per chi ama il metal classico, anche se di vintage qui neanche l’ombra.
La band spara dodici cartucce ad altezza d’uomo, senza fare prigionieri, con ritmiche d’assalto (Tim Prevost alle pelli e Barrett Klesko al basso) e chitarre lanciate su e giù per scale suonate come se non ci fosse un domani dalla coppia John Simon Fallon e John Saturley e l’inizio è di quelli che stenderebbero un bisonte impazzito al primo colpo, con un terzetto di brani figli del prete di giuda ( The Anthem of Pain, Death After Life, Indoctrination).
Con lo scorrere dei brani, il sound, pur mantenendo inalterata la carica heavy, viene sfiorato da una leggera brezza street, i solos si infiammano e la vocalist accenna qualche passaggio pulito ( Evil Surrounds Me, Survival of the Richest) ma con l’arrivo della title track, si torna a glorificare l’heavy metal, facendo piazza pulita degli ormai rimasugli di dubbi sul valore di questo lavoro.
Cinquantadue minuti, zero ballad, tanto per chiarire di che pasta è fatta la band canadese, che non ne vuol sapere di abbassare volumi e toni di questo attacco frontale, portato con determinazione ed assoluta precisione ai bassi fondi dei true metallers in giro per il mondo così che Sexwitch (Skid Row), Deceiver e la conclusiva The Devil That You Know, mettono l’ombrellino al dinamitardo cocktail preparato dai The Order Of Chaos.
Album che letteralmente spacca, suonato alla grande e cantato meglio, Apocalypse Moon è assolutamente obbligatorio per chiunque si professi un amante dell’heavy metal.

TRACKLIST
1. The Anthem of Pain
2. Death After Life
3. Indoctrination
4. Downfall
5. Evil Surrounds Me
6. Survival of the Richest
7. Apocalypse Moon
8. The Venom
9. Sexwitch
10. Victim of Circumstance
11. Deceiver
12. The Devil That You Know

LINE-UP
John Simon Fallon Guitars (lead)
Tim Prevost Drums
Amanda Kiernan Vocals
John Saturley Guitars (rhythm)
Barrett Klesko -Bass

THE ORDER OF CHAOS – Facebook

Ape Machine – Coalition Of The Unwilling

La produzione è sontuosa e tutto funziona alla perfezione, e il quartetto di Portland ci regala la sua migliore prova.

Suono potente e psichedelico totalmente calato negli anni settanta, eseguito con grande passione e talento. Ma se ci fermasse a questo piano sarebbe fare un’ingiustizia agli Ape Machine.

La loro musica è fortemente anni settanta ma è rielaborata da un gusto moderno che la arricchisce ancora di più. La psichedelia pesante la fa da padrone in Coalition Of The Unwilling, insieme ad uno stile compositivo di ampio respiro che rende questo disco un piccolo gioiello per gli amanti di certe sonorità che vengono da lontano ma che non si sono mai perdute.
Negli Ape Machine convivono elementi dei Clutch con scatti alla Mastodon, e schitarrate più pro, il tutto in salsa psych.
La produzione è sontuosa e tutto funziona alla perfezione, e il quartetto di Portland ci regala la sua migliore prova.
Disco da meditazione psichedelica.

TRACKLIST
1. Crushed From Within
2. Disband
3. Give What You Get
4. Under This Face
5. Ape’N’Stein
6. Never My Way

LINE-UP
Caleb Heinze – Vocals
Ian Watts – Guitar
Brian True – Bass
Damon De La Paz – Drums

APE MACHINE – Facebook

Abyssus – Into The Abyss

L’album nel suo insieme non potrà che piacere ai fans dell’old school, anche se il songwriting non ha niente di clamoroso, la band picchia che è un piacere e le atmosfere, violente e oscure, sono di sicuro impatto.

Si continua imperterriti a scrivere di death metal old school, questa volta proveniente dalla Grecia e precisamente dalla capitale Atene, con il full length degli Abyssus, che del metal estremo targato Stati Uniti ne fa la sua religione.

Nato come one man band del vocalist Kostas Analytis nel 2011 e poi diventati un trio, per l’entrata stabile nella formazione di Panos Gkourmpaliotis alla sei corde e Costas Ragiadakos al basso, il gruppo di Atene prima di quest’opera ha già licenziato un paio di ep e tre split che li vedeva impegnati con Nocturnal Vomit ( No Life In The Coffin del 2013), con i Morbider nel 2014 ( From the Abyss Raised the Morbid) e sempre lo scorso anno con gli Slaktgrav (Obscure).
Into The Abyss non fa che rimpolpare il nutrito numero di lavori incentrati sul death classico, la band offre i fianchi alle sue influenze che partono dagli storici Obituary dei primi lavori ( il growl di Analytis assomiglia non poco a quello di John Tardy) per arrivare agli Slayer in qualche accelerazione di stampo thrash.
L’album nel suo insieme non potrà che piacere ai fans dell’old school, anche se il songwriting non ha niente di clamoroso, la band picchia che è un piacere e le atmosfere, violente e oscure, sono di sicuro impatto.
Riffoni pesanti e neri come la pece si susseguono lungo tutto il tragitto che porta il trio nei meandri nauseabondi nascosti tra i solchi della title track, Echoes of Desolation, Those of the Unholy e The Ritual, con partenze a razzo e rallentamenti che assomigliano a cascate di lava incandescente e dove gli Abyssus si trovano a meraviglia, vero è che i momenti più riusciti sono proprio quelli dove monolitici passaggi doom/death colmano il gap con quelli più veloci ma anche meno ispirati.
Ne esce un lavoro discreto, che niente aggiunge e niente toglie al genere proposto, acquisendo lo status di album only for fans.

TRACKLIST
1. Into the Abyss
2. Across the Fields of Death
3. Echoes of Desolation
4. Intent to Kill
5. Revenge
6. Those of the Unholy
7. Enthrone the Insane
8. Visions of Eternal Pain
9. R.I.P.
10. The Ritual

LINE-UP
Kostas Analytis – Vocals
Panos Gkourmpaliotis – Guitars
Costas Ragiadakos – Bass

ABYSSUS – Facebook

childthemewp.com