Blackslash – Sinister Lightning

Dal buio della foresta nera,torna a ruggire una creatura nata e forgiata nel sacro fuoco dell’heavy metal

Dal buio della foresta nera, una creatura nata e forgiata nel sacro fuoco dell’heavy metal old school, torna a ruggire con il secondo full length, riuscito esempio del più classico, epico e fiero metallo ottanta style.

I Blackslash sono un gruppo di giovani metallers tedeschi, attivi dal 2007, con un esordio sulla lunga distanza datato 2013 ( Separate but Equal ) e due lavori minori.
Sinister Lightning, accompagnato da un artwork in puro stile fantasy guerresco, possiede tutti i crismi del metal classico ottantiano, rimanda alla new wave of british heavy metal, senza risultare un’operazione nostalgia.
La produzione cristallina e l’ottimo songwriting risvegliano il guerriero che è in noi, signore della guerra, dio dall’armatura d’acciaio, eroe di battaglie con maghi e truppe giunte dai confini del mondo, protagonisti di epici scontri , con lo sferragliare di lame pronte ad affondare le punte nelle carni di soldati dalla forza disumana.
Il sound affonda nel metal più classico, le influenze si sposano tanto con la vergine di ferro, come con gli Warlord e gli Stormwitch, ma quello che salta all’orecchio è la qualità dei brani proposti, che, nella loro ignoranza metallica sono tutti di ottima qualità.
Perché il gruppo rallenti il ritmo bisogna aspettare Made Of Steel, penultima song, per il resto si va alla grande tra crescendo maideniani e ritmiche surriscaldate da una fierezza metallica mai doma e l’album ne giova risultando un susseguirsi di esaltanti brani, dove il buon Clemens Haas sfodera una prestazione tutta grinta al microfono, dotato com’è di un tono pulito ma maschio e di una buona estensione vocale, che gli permette di guidare la sua truppa composta dalle infuocate asce di Christian Haas e Daniel Hölderle, il basso martellante di Alec Trojan e la batteria torturata da David Hofmeier.
Non un chorus che non sia perfetto per urlare all’infuocato cielo sopra il campo di battaglia, Sinister Lightning è un ottimo album da ascoltare e riascoltare, senza stancarsi un attimo delle atmosfere old school di brani che ancora bruciano del fuoco in cui sono stati forgiati e di cui Lucifer’s Reign, la cavalcata maideniana Edge Of The World, la trascinante Rock’N’Roll e la sassone Wild And Free sono le songs che più hanno alimentato la fiamma metallica nel sottoscritto.
Davvero un gran bel disco questo Sinister Lightining, era dai tempi dello storico debutto degli Hammerfall che un album del genere non mi esaltava così … e ho detto tutto!

TRACKLIST
1. Empire Rising
2. Lucifer’s Reign
3. Stellar Master
4. Edge of the World
5. Rock ‘n’ Roll
6. Steel Stallions
7. Wild and Free
8. Made of Steel
9. Don’t Touch Me

LINE-UP
David Hofmeier – Drums
Daniel Hölderle – Guitars
Christian Haas -Guitars (lead)
Clemens Haas – Vocals
Alec Trojan – Bass

BLACKSLASH – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=0rN8lHCe-Mk

Secrets Of The Moon – Sun

In extremis arriva uno dei dischi migliori del 2015, consacrazione di una band che oggi ha raggiunto il punto più alto della propria evoluzione.

Uno dei rari momenti in cui viene accolto in maniera gradita qualcosa che arriva a scombinare i piani è senz’altro quando ci si ritrova alla fine dell’anno a stilare la consueta playlist, comprensiva delle migliori uscite degli ultimi 12 mesi: il fatto stesso di metterla in discussione significa che, in extremis, si è palesato un disco di livello superiore alla media e ciò, ovviamente, non può che fare piacere.

E lo è ancor più, per certi versi, quando tutto questo avviene per mano di una band che si conosce piuttosto bene ma che, nonostante una carriera costellata di buonissimi album, non era ancora riuscita a piazzare un colpo in grado di farle spiccare definitivamente il volo.
I Secrets Of The Moon sono una gruppo tedesco che da quasi un ventennio opera in un ambito stilistico che ha sempre avuto quale matrice di riferimento il black metal, al quale in maniera graduale sono stati aggiunti nel corso degli anni elementi progressivi fino al precedente Seven Bells, ottimo album che manteneva comunque le caratteristiche di album ascrivibile a quel genere, pur se edulcorate in più di un aspetto.
Sun giunge a segnare un distacco deciso da questo cordone ombelicale: se tutto sommato l’opener No More Colours può richiamare in parte un’altra band decisamente anomala nel panorama come i compagni di etichetta A Forest Of Stars, già dalla successiva Dirty Black comincia a manifestarsi in maniera compiuta quell’improbabile (almeno a livello teorico) quanto impressionante mix capace di far convergere nel sound pulsioni che rimandano a nomi come Fields Of The Nephilim, Alice In Chains, David Bowie, Cure, Ihsahn e diversi altri che si manifestano in una forma folgorante e repentina tanto da non poter essere identificati con certezza.
Il tutto produce un risultato esaltante in ogni sua parte, attraverso sette brani meravigliosi, ascoltabili e pure cantabili, ma con una profondità non comune dal punto di vista lirico e compositivo, pervasi da un’ aura cupa e introspettiva, nonostante certe aperture melodiche memorabili.
sG è il cantore e l’artefice di tanta bellezza:il musicista tedesco, pur essendo ancora molto giovane, è l’unico membro della band che ne ha vissuto quasi per intero un cammino costellato di pochi album (6 con questo, a partire da Stronghold of the Inviolables del 2001), un dato sintomatico della necessità di elaborare con la dovuta calma quella progressione compositiva che ha portato i Secrets Of The Moon ad essere oggi una creatura magnificamente cangiante.
Sun vive i suoi momenti topici nella parte centrale rappresentata dal trittico Man Behind The Sun,
Hole e Here Lies The Sun: tre canzoni superbe e differenti tra loro, con la prima, dall’incedere drammatico, nella quale sG si rivela una sorta di “duca bianco” deviato regalando una splendida interpretazione, bissata nel capolavoro Hole, uno dei brani più belli ascoltati quest’anno, nel suo passare in un amen da pulsioni gotiche ad aperture post grunge, con un chitarrismo alla Yates a donare quel tocco di oscurità che si addice a liriche quanto mai calzanti rispetto ai tempi in cui viviamo (church and temple / synagogue / it’s time to speak the truth / there is no hope / just wait and see right through)
A seguire un’altra perla come Here Lies The Sun, brano ancor più “nefiliano” e dall’intensità spasmodica, forse più robusto nel suo incedere, ma dotato come gran parte delle altre tracce di un crescendo finale che culmina in un refrain impossibile da rimuovere dalla memoria.
Il semi grunge di I Took The Sky Away rappresenta forse il momento più ordinario prima che Mark Of Cain giunga a chiudere in maniera aspra e a tratti rabbiosa un disco meraviglioso, che in un mondo normale dovrebbe mettere d’accordo appassionati dal background più svariato.
L’evoluzione stilistica dei Secrets Of The Moon non è stata prevedibile come gran parte di quella delle band provenienti dal black metal, le quali il più delle volte cercano sbocchi diversi lasciandosi irretire da pulsioni avanguardiste che non di rado sfociano in uno sperimentalismo fine a se stesso: il combo teutonico ha convogliato invece tutte le proprie ispirazioni su una forma canzone che non tradisce affatto lo spirito che ne ha animato i primi passi, fornendogli solo una sembianza più fruibile ma non meno avvolta da un manto di oscurità.
Nell’aprile di tre anni fa chiudevo la mia recensione di Seven Bells con la frase “metal estremo senza barriere”: ecco, togliendo la parola estremo il concetto viene esaltato ancor di più da un album che porta i Secrets Of The Moon su un piano non solo differente ma definitivamente superiore, rispetto al proprio passato, certo, ma anche e soprattutto nei confronti di gran parte della concorrenza.

Tracklist:
1. No More Colours
2. Dirty Black
3. Man Behind The Sun
4. Hole
5. Here Lies The Sun
6. I Took The Sky Away
7. Mark Of Cain

Line-up:
sG – Vocals (lead), Bass, Guitars, Keyboards
Ar – Guitars, Vocals (backing)
Naamah Ash – Bass
Erebor – Drums

SECRETS OF THE MOON – Facebook

Jameson Raid – Uninvited Guests

Uninvited Guests è un album d’altri tempi, una buona rivisitazione della NWOBHM da parte di chi l’ha vissuta sulla propria pelle

La Pure Steel è diventata una delle label di riferimento per il metal classico e old school, non mancando un appuntamento con i nuovi lavori di band storiche del panorama metallico internazionale underground, delizia per i vecchi metallers e scuola per chi, ancora giovane, vuole assaporare le atmosfere del vecchio ma più che vivo heavy metal.

Uninvited Guests è il nuovo lavoro dei britannici Jameson Raid, gruppo storico della scena metallica, conosciuta da tutti come new wave of british heavy metal.
Fondati addirittura a metà anni settanta, il gruppo è tornato in pista nel 2010 con una compilation, dopo essere stata ferma per quasi trent’anni, da quel Electric Sun del 1982, demo che di fatto fu l’ultima release della band prima del lungo silenzio.
Il vocalist Terry Dark, unico superstite della formazione originale, ha preso in mano le redini del gruppo e dopo qualche lavoro di rodaggio (il singolo Truth and Heresy e l’ep 9 Reasons usciti lo scorso anno) ha dato al gruppo quella che, di fatto è la prima uscita sulla lunga distanza in così tanti anni di attività.
L’album è un buon esempio di hard & heavy vecchia scuola, composto da un lotto di brani grintosi e melodici, strutturati sui suoni graffianti della chitarra, ritmiche che si rifanno alla musica dura degli anni ottanta, e tanta attitudine old school.
Qualche piccolo passaggio a vuoto, ma almeno una manciata di canzoni sopra la media, fanno di Uninvited Guests un sano tuffo nel mondo dell’hard & heavy britannico, vintage sicuramente, ma ben bilanciato tra aggressività e melodie, interpretato con eleganza dal singer che ha mantenuto intatta la carismatica voce ( vicina a quella di Biff dei Saxon) e ben suonato dai nuovi musicisti che accompagnano lo storico vocalist, Dave Rothan alla sei corde, Peter Green al basso e Lars Wickett alle pelli.
Riff di scuola Saxon e primi Judas Priest e ritmiche secche alla Accept, sono le peculiarità di songs dal dna ottantiano come l’opener Mr. Sunset, la title track, l’inno Metal People, l’oscura semiballad Red Moon e Reasons.
Uninvited Guests è un album d’altri tempi, una buona rivisitazione della NWOBHM da chi l’ha vissuta sulla propria pelle, per i metallers dai gusti old school un ascolto è consigliato.

TRACKLIST
1. Mr. Sunset
2. Uninvited Guests
3. Metal People
4. Breaking Point
5. Red Moon
6. Roll on Tomorrow
7. SS Idol Tearz
8. Maze of Rats
9. Haunted
10. Reasons
11. Truth & Heresy

LINE-UP
Terry Dark – vocals
Dave Rothan – lead guitars
Peter Green – bass
Lars Wickett – drums

JAMESON RAID – Facebook

Fatal Embrace – Slaughter To Survive

Slaughter To Survive arriva a far sbattere capocce ai thrashers più incalliti

Vecchi lupi del thrash metal i teutonici Fatal Embrace tornano con un nuovo album, il quinto di una carriera che li ha visti calcare i palchi dalla prima metà degli anni novanta e completare la propria discografia con un buon numero di mini cd e demo.

Slaughter To Survive arriva a far sbattere capocce ai thrashers più incalliti, cinque anni dopo The Empires of Inhumanity buon lavoro di genere e conferma delle caratteristiche peculiari del gruppo berlinese, feroce e compatto combo di thrash metal old school.
Il nuovo lavoro non cambia di una virgola la proposta dei Fatal Embrace, siamo nell’old school ed il genere o lo si odia o lo si ama alla follia, se puoi è suonato da un gruppo che unisce mestiere, impatto, attitudine e sufficiente tecnica, non può che uscirne un devastante esempio di metallo velocissimo, furioso e senza compromessi, insomma una goduria per gli amanti del vecchio thrash metal.
Scoppiettante, ruvido e stupendamente ignorante il sound del gruppo, si sviluppa su canzoni veloci, dalle ritmiche frenetiche e solos maligni, acidi e taglienti, la voce cattiva e maschia di Dirk Heiland racconta come consuetudine di anticristianesimo, guerra e violenze varie in un tripudio di rallentamenti e accelerazioni, cavalcate metalliche alla velocità della luce, ed ottime songs dove spirano venti di metallo classico ottantiano, nascosti tra la furia di brani come Penetrate The Night, apice del lavoro e brano da applausi.
Il gruppo tedesco con più di vent’anni sul groppone il suo mestiere lo sa fare molto bene, ed infatti, sia quando le canzoni corrono veloci, o mantengono un ritmo potente e cadenzato ( Possession) si ha subito l’impressione di essere al cospetto di un gruppo navigato e questo fa perdere un po’ di freschezza in certe composizioni di Slaughter To Survive.
Un dettaglio, che non inficia sicuramente la qualità di un lavoro che i fans del genere ameranno, truce ed esplosivo metallo old school, da chiodo perenne, jeans stretti e corna levate al cielo con fierezza mai doma, buon ascolto.

TRACKLIST
1. The Upcoming Cruelty (Intro)
2. Revelation
3. Hellhounds
4. Dungeons Of Dread
5. Enslaved And Fallen
6. The Order To Kill
7. Penetrate The Night
8. Stay Hungry
9. Possession 4:40
10.Slaughter To Survive
11.Captured In Spite
12. From The Ashes

LINE-UP
Dirk Heiland – Vocals
Jörg Trabalski – Guitars
Tobias – Guitars
Philip Zeuschner – Drums
Ronald Schulze – Bass

FATAL EMBRACE – Facebook

Plagueprayer – Forgotten Witchery

Un ascolto interessante, che va a costituire un buon corollario a quello che per il musicista transalpino resta comunque il progetto principale per qualità e peculiarità, ovvero Abysmal Growls Of Despair.

Dopo aver parlato dell’ultimo album targato Abysmal Growls Of Despair, facciamo un passo indietro andando ad esaminare un lavoro uscito nella scorsa primavera con il monicker Plagueprayer, altro progetto solista dell’iperattivo Hangsvart.

Rispetto a quella che, personalmente, ritengo essere l’incarnazione migliore del musicista francese, questo Forgotten Witchery mostra tratti più sperimentali, pur conservando quelli catacombali strettamente connessi al genere funeral.
La componente ambient è infatti piuttosto corposa e si manifesta un po’ in tutti i brani, occupando per intero l’intro autointitolata e la ben più lunga Dead Town posta in chiusura del lavoro; nelle altre tracce vengono fatte convivere le due anime, che finiscono per integrarsi piuttosto bene evidenziando nel complesso un sound riconducibile a tratti ai seminali Worship, specie nei due episodi migliori, quali Dark Arcane e Germ Deliverance, dove una tremebonda vena melodica umanizza un sound la cui registrazione lo fi è sintomatica di una vis compositiva claustrofobica e ripiegata su sé stessa.
La scelta di ricorrere allo screaming rispetto al più consueto growl (che Hangsvart presta anche agli ottimi Arrant Saudade) aumenta il senso di straniamento provocato da questa prima uscita a nome Plagueprayer.
Un ascolto interessante, che va a costituire un buon corollario a quello che per il musicista transalpino resta comunque il progetto principale per qualità e peculiarità, ovvero Abysmal Growls Of Despair.

Tracklist:
1.Plagueprayer
2.Dark Arcane
3.Villagers’ Fear
4.Purification
5.Germ Deliverance
6.Contamination
7.Dead Town

Line-up:
Hangsvart – all lyrics, music, voices, concept

PLAGUEPRAYER

CORPORATION OF CONSUMPTION / CxOxSx – Eat My Tail

Split di furioso fastcore, musica violenta per gente pensante.

Split di furioso fastcore, musica violenta per gente pensante. L’incontro tra Corporation of ConsumptionCxOxSx dà vita a questo bel lp split di musica cattiva, thrash death metal geneticamente mutato.

I Corporation Of Consumption sono veneti e suonano un bel grind veloce dal 2009. Il loro suono non è contraddistinto solo dalla velocità ma anche da un suono potente e maturo molto simile agli ultimi Napalm Death. Nella loro discografia c’è un demo del 2012, la partecipazione alla raccolta Italia Violenta a.k.a. Crash Mandolino 2.0 e questo bel split. Il cantato rende ancora più potente il loro suono, di stampo cara vecchia scuola.
Dall’altra parte del vinile troviamo i CxOxSx storica band in attività dal 1995, che partendo dai capisaldi del genere rimasta vecchia scuola e sforna un grind in stile Cripple Bastards con grossi riferimenti al thrash anni ottanta e novanta. Il loro suono e i loro testi sono una radicalizzazione dell’hc, ed hanno ragione quando essi stessi affermano che non amano le classificazioni, ed in effetti alla fine fanno ottima musica violenta.
I due gruppi ci regalano un ottimo split, divertente come musica ma descrivere il nostro mondo non è divertentissimo, anche se il fastcore è un ottimo modo per sdrammatizzare. Questo sottogenere è per fortuna praticamente non commerciabile e rimane fortemente di nicchia, anche se davvero valido e il perchè lo si può ascoltare in questo split.

TRACKLIST
1.C.O.C. – le cose che vedo dall’alto
2.C.O.C. – out of control
3.C.O.C. – frail
4.C.O.C. – nails feed
5.C.O.C. – parhiadise
6.C.O.C – along + tv whore
7.CxOxSx – birdbrains
8.CxOxSx – troppe volte
9.CxOxSx – ???
10.CxOxSx – California fodder’s leader
11.CxOxSx – real lies (realize)
12.CxOxSx – power’ass kickin’violence
13.CxOxSx – who wanna be a star
14.CxOxSx – no chop (monitorati)

LINE-UP
Corporation Of Consumption
Cesare – Guitar
Baietto – Drums
Borni – Vocals
Barney – Guitar

CxOxSx
Il Mugnaio Falloppi – Drums
Albi – Throat
Jabba – Growls
Bari – Bass
Massi – Guitars

CORPORATION OF CONSUMPTION – Facebook

CxOxSx – Facebook

http://hereandnowrecords.bandcamp.com/album/corporation-of-consumption-cxoxsx

Carma – Carma

Album d’esordio per i portoghesi Carma all’insegna di un funeral doom sui generis ma ricco di sfumature interessanti.

Album d’esordio per i portoghesi Carma all’insegna di un funeral doom sui generis ma ricco di sfumature interessanti.

Il gruppo di Coimbra arriva a questo suo primo passo dopo qualche anno di attività e, in effetti, il lavoro non risente dei difetti e delle ingenuità che talvolta affliggono le prime uscite discografiche.
Su uno sviluppo relativamente breve, Carma si estrinseca in sei brani validi e soprattutto vari, che passano da aperture di ambient atmosferica ad accelerazioni che si spingono fino a ritmiche black; detto di una scelta stilistica certo non monocorde, per contro ai lusitani manca il colpo del campione, nella fattispecie il brano capace di inchiodare alla sedia l’ascoltatore schiacciandolo sotto un peso emotivo insostenibile.
In effetti ci andrebbe piuttosto vicino una traccia come Reflexo, i cui spunti, se ben sviluppati, potrebbero consentire in futuro un importante salto di qualità, ma alla fin fine le note dell’album che si imprimono maggiormente nella mente sono quelle della conclusiva Adeus, strumentale semplice nella sua struttura ma indubbiamente dotato di una certa carica evocativa, nel suo andare anche ad attingere dalla pregevole tradizione folk della nazione iberica.
Pur se non indimenticabile l’album rappresenta una prima prova di indubbio interesse e, quindi, foriera di buoni sviluppi futuri.

Tracklist:
1. Sonhos
2. Procissão
3. Feto
4. Reflexo
5. Lamento
6. Adeus

Line-up:
Æminus – Bass, Guitars
Nekruss – Bass, Vocals
Igniferum – Drums

CARMA – Facebook

Bloodstrike – In Death We Roth

Qualità media più che sufficiente per entrare nel cuore dei fans, i brani di In Death We Roth sprigionano aggressività e attitudine, confermando le buone impressioni avute lo scorso anno.

Lo scorso anno ci eravamo occupati dell’esordio autoprodotto di questa ottima band statunitense, capitanata dalla devastante voce di miss Holly Wedel, singer death coi fiocchi, dotata di un growl da far impallidire molti dei suoi colleghi maschi, ed intenta a valorizzare il sound del gruppo, un metal estremo di derivazione old school dai
richiami allo tsunami scandinavo abbattutosi sul mondo metallico nei primi anni novanta.

Necrobirth risultava così un ottimo biglietto da visita per il gruppo di Denver, composto da tre brani di pesantissimo death metal classico, ed infatti la band ha trovato una label pronta a licenziare il primo lavoro sulla lunga distanza, e In Death We Roth vede la luce tramite la Redefining Darkness Records in questa ultima parte dell’anno.
L’album consta di undici brani, compreso la title track, già apparsa sull’ep dello scorso anno e la cover di un brano dei seminali Grave (Soulless) a ribadire la totale devozione dei cinque musicisti americani all’old school scandinavian death metal.
Death metal aggressivo e feroce, un tornado che si abbatte senza pietà e affonda gli artigli nella carne degli amanti del genere come un coltello nel burro, undici lame affilate che tagliano, squartano e dilaniano, un arcobaleno di tutte le tonalità del nero, tra classiche bordate e improvvise accelerazioni.
Qualità media più che sufficiente per entrare nel cuore dei fans, i brani di In Death We Roth sprigionano aggressività e attitudine, confermando le buone impressioni avute lo scorso anno.
Ottima la coppia d’asce che sforna riff su riff, da tregenda la sezione ritmica e superba la prestazione della Wedel al microfono, fanno di questo primo lavoro, un’opera estrema riuscita, ben inserita nel ritorno in auge dei suoni classici, iniziata da un paio d’anni nell’underground e dove i Bloodstrike trovano la propria consacrazione.
I brani dalla tensione altissima, creano un monolito sonoro notevole, ma non si fatica ad arrivare agevolmente in fondo al cd, i clichè e le varie influenze sono ben evidenti tra i meandri di songs come l’opener Abomination, Cancer Among Man, Bells Of Death e Silent Killer, perciò cari miei deathsters, Entombed, Grave e Dismember continuano ad essere i totem a cui verrete legati e torturati dal gruppo statunitense.
Ottima conferma…avanti così.

TRACKLIST
01. Abomination
02. Putrefied Rapist
03. In Death We Rot
04. Cancer Among Men
05. Death Storm
06. Maggots for a Whore
07. Bells of Death
08. Bloodrotten
09. S.S.B. (Sex, Satan, Beer)
10. Silent Killer
11. Soulless (Grave Cover)

LINE-UP
Holly Wedel- Vocals
Jeff Alexis- Guitars
Joe Piker- Guitars
Rhiannon Wisniewski – Bass
Ryan Alexander Bloom – Drums

BLOODSTRIKE – Facebook

Ephyra – Along The Path

Le buone prove dei musicisti e l’ottima produzione (che per il lavori targati Bakerteam è una costante), fanno di Along The Path un’opera convincente e consigliata a tutti gli amanti del genere proposto.

La scena estrema nazionale si riempe ogni giorno di più, di realtà coinvolgenti in ogni sottogenere di cui è composta, dando l’impressione finalmente, di un mondo unito e compatto, visto che i suoi protagonisti, si scambiano favori e si ospitano a vicenda sui propri lavori.

Un mondo quello del metal che più di ogni altro, in questi anni di discesa verso l’abisso di mediocrità, che sembra coinvolgere la razza umana, acquista ancora più valore con i suoi principi e la sua voglia di fratellanza, fiero portavoce di un life style che nella vita normale sembra ormai una chimera.
Gli Ephyra sono un gruppo lombardo (Como) al secondo lavoro, uscito per l’ottima Bakerteam, etichetta nostrana che nel metal è sinonimo di qualità, si sono formati una decina d’anni fa e hanno esordito nel 2013 con il full length Journey.
Il loro sound è strutturato su di un ruvido folk metal, dai tratti estremi, con l’anima death ben in evidenza, così da risultare epico, drammatico e guerresco.
Perfettamente bilanciate l’uso delle due voci, con la dolce ugola della vocalist Nadia Casali a duettare in armonia con il growl di Francesco Braga, in un epico rincorrersi tra lo spartito dell’album e in un sali e scendi di atmosfere che non lasciano una sola nota al folk da locanda, ma tengono alta la tensione epico/oscura anche nei momenti di apparente calma data dagli strumenti classici.
Graditi ospiti danno il loro supporto affinché Along The Path sia un album imprescindibile per chi ama il genere, Lisy Stefanoni (Evenoire), Davide Cicalese (Furor Gallico),Silvia Bonino (Folkstone) e Mattia Stancioiu che ha anche registrato il tutto agli Elnor Studio.
Il guerriero alla ricerca della propria strada da intraprendere nella vita e sempre in lotta con le trappole che il destino gli tende, potrebbe essere la storia di ognuno di noi, guerrieri senza spade e scudi, ma in continua guerra con la vita di tutti i giorni e Along The Path potrebbe essere la colonna sonora di chi non si arrende e continua per la propria strada fiero e mai domo, come un cavaliere d’altri tempi.
Melodie folk e sfuriate death accompagnano il nostro eroe in questo viaggio, non c’è tregua, nessuna apertura, solo epicità, e tanta convinzione nei propri mezzi per la band lombarda che regala ottime cavalcate di death metal melodico e bellissime parti folk celtiche, mantenendo un’elevata qualità nel songwriting per tutto il lavoro.
Sinceramente ho trovato l’album, a suo modo originale, l’alchimia creata tra la parte folk e quella metallica viaggia in perfetta simbiosi, così come le voci e chiaramente ne guadagnano i brani che hanno in On At One, Cruel Day, Last Night e Land’s Calling le parti cruciali e a mio avviso le songs trainanti di questo ottimo album.
Le buone prove dei musicisti e l’ottima produzione (che per il lavori targati Bakerteam è una costante), fanno di Along The Path un’opera convincente e consigliata a tutti gli amanti del genere proposto.

TRACKLIST
1.Melancholy Rise
2.Human Chaos
3.All At Once
4.Cruel Day
5.Flaming Tears
6.Hope
7.Last Night
8.Riding With The Sun
9.Land’s Calling
10.No Dream
11.Alive

LINE-UP
Nadia Casali – Vocals
Francesco Braga – Vocals
Matteo Santoro – Guitars & Choirs
Paolo Diliberto – Guitars & Choirs
Alessandra Biundo – Bass
John Tagliabue – Drums

EPHYRA – Facebook

Crimson Chrysalis – Enraptured

Il nuovo lavoro supera e di tanto le più rosee aspettative sui Crimson Chrysalis, incoronando René Van Den Berg come una delle migliori interpreti del rock sinfonico internazionale.

Due anni fa Crimson Passion Cry giunse come biglietto da visita per questa ottima band sudafricana, capitanata dalla bravissima René Van Den Berg, passionale e carismatica singer, dotata di una splendida voce e valorizzata da un buon lotto di canzoni.

Accompagnata dalla sempre presente Elben Schutte e da un manipolo di ottimi musicisti, la band di Pretoria, licenzia questo secondo lavoro, qualitativamente superiore al già buon debutto e assolutamente sopra le righe per interpretazione e songwriting.
La musica dei Crimson Chrysalis rimane elegante e raffinata, un symphonic rock d’autore, ma questa volta accompagnata da una forte connotazione sinfonica e drammatica, valorizzata dall’interpretazione di Rene e dall’intervento di graditi ospiti che mettono l’accento ad un’opera sontuosa.
Con tutti i crismi per essere considerata(musicalmente) un’opera rock, Enraptured dilaga tra orchestrazioni, accenni metallici, ed ottime e sentite ballate, dove a farla da padrona è la prova della cantante sudafricana, interprete praticamente perfetta, macchina emozionale alla pari della musica creata, a tratti magniloquente ed epica, molte volte nobile ed elegante.
Una raccolta di brani che producono valanghe di brividi, forti di uno stato di grazia in tutte le sue componenti, Enraptured vive di momenti musicali altisonanti, ad iniziare dalle due songs che vedono impegnate le ospiti di cui accennavo, Andrea Casanova( Rainover) sulla splendida Elegy e Jessica Mercy (Anaria) sulla bombastica Burning Fire With Fire.
Il resto è Symphonic Rock da applausi dall’opener Soul Stalker, passando per Sacred Vow, Fear, la ballad Virgin Death e la chiusura lasciata alla cover di Poison, famoso brano del mostro sacro Alice Cooper in versione sinfonica e dark.
Il nuovo lavoro supera e di tanto le più rosee aspettative sui Crimson Chrysalis, incoronando Rene Van Den Berg come una delle migliori interpreti del rock sinfonico internazionale.

TRACKLIST
01. Soul Stalker
02. Surrender
03. Elegy (ft. Andrea Casanova)
04. Sacred Vow
05. Infinity
06. Burning Fire With Fire (ft. Jessica Mercy)
07. Enlightenment
08. Fear
09. The Raven
10. Virgin Death (The classical rendition)
11. Grace
12. Poison

LINE-UP
Keyboards and programming: Elben Schutte
Guitars: Mauritz Lotz, Cobus Schutte
Bass: Cobus Schutte, Denny Lalouette
Drums & percussion: Vinnie Henrico
Strings: Serge Cuca, Miro Chakaryan, Jacques Fourie, Camelia Onea, Waldo Luc Alexander, Evert van Niekerk, Lizelle le Roux, Leoni Greyling, Dorota Drews (violin); Vladimir Ivanov, Judith Klins, Violetta Miljkovic (viola); Susan Mouton, Carel Henn, Maciej Lacny, Laurie Howe, Toni Ivanov, Kerryan Wisniewski (cello)
Solo cello: Susan Mouton
Solo violin: Serge Cuca, Miro Chakaryan
French horn: Shannon LaBonte Armer
African drummers on “Burning fire with fire”: Thabo Legae, Mandla Ngwenya, Enock Hlatswayo, Bonginkosi Ngwenya, Gregory Mkhabela.
Xhosa vocals on “The Raven”: The Gugulethu tenors
Strings & French horn scoring & sheet music: Marlene Hay & Evert van Niekerk
Lead vocals: René van den Berg, except “Elegy” ft. Andrea Casanova (Rainover) & “Burning fire with fire” ft. Jessica Mercy (Anaria).
Backing & choir vocals: Ruan Xen, René van den Berg & Elben Schutte, Amryl Twigg, Elzanne Crause, Adolph de Beer

CRIMSON CHRYSLAIS – Facebook

Поезд Родина / Funeral Tears – Frozen Tranquility

Buon split album proveniente dalla sempre attiva scena dell’est europeo, con protagoniste due realtà del funeral doom minori, ma non per questo trascurabili come Поезд Родина e Funeral Tears.

Buon split album proveniente dalla sempre attiva scena dell’est europeo, con protagoniste due realtà del funeral doom minori, ma non per questo trascurabili come Поезд Родина e Funeral Tears.

La prima band (la cui traslitterazione nel nostro alfabeto diventa Poezd Rodina) è un duo formato dal russo Andrey T., che si occupa di tutti gli strumenti, e dall’ucraino Eugene, che presta il proprio aspro screaming; nel caso dei Поезд Родина parlare di funeral doom è forse un po’ forzato, visto che nel loro sound affiorano non pochi elementi che riportano direttamente al depressive più malato e melanconico.
Un discorso che tutto sommato si può fare in parte anche per la one man band Funeral Tears del russo Nikolay Seredov che, sebbene si muova su territori più propriamente doom, mantiene comunque quei tratti disperati tipici del DSBM
Detto questo, per amor di precisione e per non ingenerare equivoci di sorta in chi si apprestasse all’ascolto, Frozen Tranquillity si rivela un lavoro ispirato, capace di esibire un mood doloroso, spesso in maniera lancinante e sempre con una certa continuità; mediamente più lunghi, i brani dei Поезд Родина sono più atmosferici e dall’impatto maggiormente drammatico, mentre quelli dei Funeral Tears sfruttano frequentemente il contributo della chitarra solista per spingere sul lato malinconico del genere proposto, con una prestazione vocale da parte di Seredov che si fa preferire rispetto a quella del suo dirimpettaio.
Nel complesso, i brani migliori di ciascuna band sono forse i primi in scaletta, Ледяная Голгофа e Разливая по венам усталость, ma se non vengono raggiunti picchi memorabili va detto che il livello medio si mantiene sempre su standard piuttosto buoni, facendo sì che entrambi i nomi entrino di diritto tra quelli da tenere sotto stretta osservazione in occasione di un prossimo full length.

Tracklist:
1.Поезд Родина – Ледяная Голгофа
2.Funeral Tears – Разливая по венам усталость
3.Поезд Родина – Всего лишь смерть
4.Funeral Tears – Eternal Tranquility
5.Поезд Родина – Мертві квіти
6.Funeral Tears – Hope

Line-up:
Поезд Родина
Andrey T. – All instruments, Lyrics
Eugene – Vocals

Funeral Tears
Nikolay Seredov – Everything

FUNERAL TEARS – Facebook

Gaijin – Gaijin

Ottima partenza e piccolo assaggio delle capacità del gruppo Indiano, che potrebbe riservare grosse soddisfazioni agli amanti del genere, specialmente per quelli che seguono le vicende musicali del metallico paese asiatico.

Mumbai, tra i meandri della megalopoli indiana si aggirano entità che si nutrono di metal estremo che, sempre più voraci, crescono a dismisura, invadendo, come un virus il mercato underground metallico, quello più violento ed estremista.

I Gaijin fanno parte di questa covata malefica, ed arrivano anche loro, dopo un’onorata gavetta al primo parto discografico, sotto forma di un ottimo ep di tre brani roboanti, veloci e tecnicissimi.
Un metal estremo che travolge a colpi di technical death metal, dalle indubbie risorse, suonato dannatamente bene e neanche troppo cervellotico.
Il quintetto ha stoffa da vendere e lo dimostra subito, completando l’ep con un brano in chiusura strumentale (Anamnesis) roba da band navigata, non certo da pischelli al primo vagito discografico.
Labirinti ed intrecci chitarristici( Jay Pardhy e Vinit Jani, davvero bravi con le sei corde), evidenziano una personalità debordante, il sound, strutturato su devastanti prove di forza della sezione ritmica(Karan Oberoi al basso e Ajit Singh al drumkit) che, non contenta, arricchisce la sua prova con fenomenali cambi di tempo ed elergisce potenza ed un mood progressivo che coccia con il growl brutale del buon Malcolm Soans.
Dead Planet e Meiosis accentuano il vortice in cui il gruppo asiatico ci scaraventa, siamo nel death metal tecnico, quindi niente smancerie e via per scale e solos virtuosissimi, lasciando che le influenze o meglio, le ispirazioni(Obscura, Cynic e Cannibal Corpse), escano dai solchi dell’album in tutta la loro inesauribile potenza.
Ottima partenza e piccolo assaggio delle capacità del gruppo Indiano, che potrebbe riservare grosse soddisfazioni agli amanti del genere, specialmente per quelli che seguono le vicende musicali del metallico paese asiatico.

TRACKLIST
1. Dead Planet
2. Meiosis
3. Anamnesis

LINE-UP
Malcolm Soans – Vocals
Vinit Jani – Guitar
Jay Pardhy – Guitar
Karan Oberoi – Bass
Ajit Singh – Drums

GAIJIN – Facebook

Heathen Beast – Trident

Benissimo ha fatto la Transcending Obscurity a prendersi cura della distribuzione di questa compilation che riassume il lavoro di un grande gruppo.

L’India è ormai un laboratorio sempre attivo dove nascono creature musicali in tutte le frange metalliche, se si parla di suoni estremi poi c’è solo l’imbarazzo della scelta.

Death metal, brutal e come in questo caso black, sono i generi dove quella terra lontana, produce ottimi gruppi in abbondante quantità, molto conosciuti nei paesi asiatici, troppo poco considerati in Europa, dove gli amanti della musica dura sono da sempre poco inclini alle novità di casa loro, figuriamoci se si tratta di band fuori dal solito circuito Europa/Stati Uniti.
Gli Heathen Beast sono una band di Calcutta, dopo aver dato alle stampe un tris di mini cd , immettono sul mercato questa compilation dove sono compresi tutti e tre i lavori prodotti, andando a formare un album completo, opera sopra le righe che conferma la qualità della musica estrema prodotta nel loro paese d’origine.
Black metal feroce, ateo come ben sottolineato dalla band, una denuncia contro tutte le religioni, la politica e il livello sociale in cui letteralmente annega il paese Indiano, con la loro città, sorta di megalopoli dove la povertà è ai minimi storici da sempre e la violenza dilaga.
Un inferno, un antro dove l’uomo si divora l’anima e si nutre dei suoi simili, Calcutta esprime il lato peggiore del genere umano, lasciato a se stesso e dove la vita non vale neppure un pasto caldo, le malattie dilaniano corpi e menti e solo pochi riescono a sopravvivere ad una calamità che non ha fine.
La Band tutto questo lo trasporta in musica, elargendo metal estremo di spiccata personalità tra la tradizione black e ottime parti dove la loro cultura esce allo scoperto e si amalgama perfettamente al sound devastante, costruito dal gruppo.
Grandiose le ritmiche di questo lavoro, riprese dalla musica tradizionale(The Carnage Of Godhra) che fanno da tappeto a solos di lancinante black metal rabbioso, ed ottime le parti più in linea con la musica metallica, con uno scream talmente disperato, violento e vissuto da mettere i brividi(Carvaka anche alla sei corde)
Il gruppo il meglio di sé lo dà quando riesce ad uscire dai soliti binari estremi, con questa alleanza tra metal e musica popolare che rende le songs davvero clamorose.
Un lavoro straordinario quello fatto da Mimamsa alle pelli, accompagnato dal basso di Samkhya, mai sentito sinceramente un gruppo black con una varietà così accentuata nelle ritmiche, ed enorme il lavoro del chitarrista/cantante, una belva ferita, un urlo bestiale che trasuda puro odio iconoclasta.
Religious Genocide è disturbante nella sua inumana violenza, Ayodhya Burns è un crescendo tragico dove la chitarra accenna riff classici, violentati dalla voce abrasiva del singer, Gaurav Yatra (The Aftermath) nel suo violento incedere riesce a trasmettere un mood progressivo, mentre le percussioni disegnano ricami di musica orientaleggiante per quasi sette minuti di spettacolare musica metallica.
Benissimo ha fatto la Transcending Obscurity a prendersi cura della distribuzione di questa compilation, che riassume il lavoro di un grande gruppo.

TRACKLIST
1. Blind Faith
2. Religious Genocide
3. Ayodhya Burns
4. Drowning of the Elephant God
5. Contaminating the Ganges
6. Bakras to the Slaughter
7. The Carnage of Godhra
8. Ab Ki Baar Atyachaar
9. Gaurav Yatra (The Aftermath)

LINE-UP
Samkhya Bass
Mimamsa Drums
Carvaka Vocals, Guitars

HEATHEN BEAST – Facebook

Skip Rock – Take it or Leave it

Un album tra alti e bassi, che si fa ascoltare nelle sue vesti più hard rock oriented e lascia qualcosa indietro quando scende nel mito della frontiera

Duri a morire, il film del regista Sam Raimi, vedeva un nutrito numero di pistoleri duellare in un fantomatico torneo ad eliminazione in una imprecisata cittadina di confine, tra polvere sudore, cowboy dalla mano veloce e palloni gonfiati dalla fine segnata.

Al primo tocco di campana le pistole fumavano ed il risultato era sempre lo stesso, un morto in più e il vincitore che passava il turno in un susseguirsi di confronti da dead or alive.
La colonna sonora di questo western che richiamava non poco la tradizione tutta italiana nel genere, conosciuta come spaghetti western, avrebbe potuto essere tranquillamente questo album, il secondo dei tedeschi Skip Rock, hard rock band che unisce il genere di estrazione classica alla AC/DC e richiami al southern rock e alla tradizione western.
Il gruppo tedesco si definisce metal cowboys, ed in effetti la loro musica richiama le colonne sonore dei film di genere, rafforzata da ruvide iniezioni di rock’n’roll direttamente dalla terra dei canguri e classiche atmosfere southern.
Una Band da raduno, musica per rudi bikers di frontiera, portatori di un’attitudine che fonda le sue radici nella libertà e nella cultura on the road, quaranta minuti da ascoltare con il boccale sempre pieno e la bottiglia di whiskey per finire di bruciare gole arse dal fumo e dalla polvere, sopravvissute a chilometri macinati sulle calde strade di frontiera.
Molto più divertente e scorrevole quando il gruppo ci va pesante, alzando il volume dei propri strumenti( Death or Glory, Motorcycle Man II, Hell Is On Fire) meno quando il sound guarda troppo all’ovest e la musica si avvicina pericolosamente al puro southern rock ( non basta un richiamo al nostro Morricone, o semplici e poco emozionali semiballad, per suonare ottima musica southern/western).
Insomma un album tra alti e bassi, che si fa ascoltare nelle sue vesti più hard rock oriented e lascia qualcosa indietro quando scende nel mito della frontiera, una buona band da da raduni tra omaccioni barbuti, donzelle borchiate, birra a fiumi e colt sempre cariche.

TRACKLIST
1. Intro
2. Tell me why
3. Death or Glory
4. Jesse James
5. Outlaws
6. Motorcycle Man II
7. Rich’n’Nazty
8. Hell is on Fire
9. Too Young
10. Take it or leave it

LINE-UP
Marc Terry – Vocals
Darius Dee – Guitars
Patrick Paul – Bass
Jan Skirde – Drums

SKIP ROCK – Facebook

Mutonia – Wrath Of The Desert

Wrath Of The Desert conferma tutto quello che di buono si era detto e scritto sul gruppo laziale in occasione del primo lavoro

Magari vi siete lasciati sfuggire il debutto di questa band laziale, uscito lo scorso anno, un ottimo esempio di stoner rock, legato ancora da un filo sottilissimo al rock alternativo, secondo amore del gruppo, dopo gli esordi come band punk.

Magari siete esterofili incalliti e pensate che nel nostro paese lo stoner non viene suonato come negli States.
Magari questa volta, incuriositi e convinti dalle mie umili righe, darete un ascolto a Wrath Of The Desert, secondo lavoro dei Mutonia, trio della provincia di Frosinone, con un talento innato nel creare atmosfere desertiche, stonate e allucinate.
Non hanno perso tempo i Mutonia, e dopo i buoni riscontri del precedente Blood Red Sunset, tra Aprile e Giugno di quest’anno si sono rinchiusi in studio, per continuare il viaggio, persi nel deserto della Sky Valley in compagnia delle anime perdute che, all’imbrunire, sotto l’effetto del sole e di erbe dalle proprietà terapeutiche, ma dagli effetti collaterali stonati, compaiono tra i rovi portati dal vento caldo, o tra i pugni di sabbia che scivola tra le dita, mentre le note grasse dei brani di Wrath Of The Desert, invitano a danzare ciondolanti tra scorpioni e serpenti a sonagli.
Il trio non perde un’oncia della sua carica rock, ma, rispetto al primo lavoro, è forte l’atmosfera rituale che aleggia nelle songs che compongono quest’altro bellissimo omaggio al rock statunitense degli ultimi anni, interpretato da tre musicisti, Matteo De Prosperis (chitarra e voce), Fabio Teragnoli (basso) e Maurizio Tomaselli (batteria) che in quanto a feeling e attitudine ne hanno da vendere.
E allora ecco che questa raccolta di nuovi brani, spazza il deserto come la tromba d’aria che raffigurata nella copertina( illustrata da Sara Terpino), mette in subbuglio il lento trascorrere del tempo, quasi fermo nel luogo invivibile per antonomasia, almeno per l’uomo.
To Three To Four, aperta dal basso pulsante ed ipnotico del buon Teragnoli, ci invita ancora una volta lungo l’arida terra dove la band trae ispirazione, subito è tangibile la totale metamorfosi del gruppo, che lascia alle spalle come detto gli ultimi accenni all’alternative e si ripresenta come una perfetta macchina stoner, confermata dal singolo Lonely Soul, un brano che sprizza Queen Of The Stone Age da tutti i pori.
Come nel primo album la sensazione di jam si insinua in noi come un serpente nella tana di un ratto, si succedono brani dal forte impatto come Meth e Thunderstone, ma il flash sabbatico e rituale di Among The Gale And The Desert, risulta il colpo mortale all’ultimo neurone sano, bruciato da questo magnifico trip, che lento e inesorabile sale alla testa e porta con se immagini allucinate di chi visse quei luoghi, ed ormai è perso tra la polvere portata dal vento.
Coward alterna agitazione ritmica a frenate doom settantiane, mentre il finale dell’album è lasciato a The Prodigal Son, hard rock stonato e devastante ed una delle song più lineari del disco.
Wrath Of The Desert conferma tutto quello che di buono si era detto e scritto sul gruppo laziale in occasione del primo lavoro, ora tocca a voi supportare questi figli del deserto, che hanno tutte le carte in regola per non far rimpiangere i maestri americani, ottima conferma.

TRACKLIST
1. To Three To Four
2. Lonely Soul
3. Still (Yourself)
4. M.E.T.H.
5. Thunderstorm
6. Among The Gale And The Desert
7. Meat For Voltures
8. Coward
9. The Prodigal Son

LINE-UP
Matteo De Prosperis – guitar/vocals
Fabio Teragnoli – bass
Maurizio Tomaselli – drums

MUTONIA – Facebook

Of Spire & Throne – Sanctum in the Light

Ogni riff è un chiodo piantato nelle carni con metodica lentezza, e noi masochisticamente non ci accontentiamo, desiderando che il supplizio prosegua all’infinito.

Dopo diversi EP ed un split album, gli scozzesi Of Spire & Throne decidono finalmente di realizzare il loro primo full length, mettendo a serio repentaglio la salute mentale dei loro potenziali ascoltatori con uno sludge/doom al quale la definizione di “pachidermico” va persino un po’ stretta.

Il lato fangoso e caliginoso del genere viene qui portato alle estreme conseguenze ma il tutto, quasi magicamente, nel corso della sua oretta scarsa di durata riesce a non annoiare mai, complice un impatto ruvidamente spontaneo che provocherà al massimo qualche mal di testa dovuto al pesante oscillare della scatola cranica e di tutto il suo nobile contenuto.
Qui ogni nota è ribassata e distorta all’ennesima potenza ma, grazie alla produzione di Chris Fielding e alla masterizzazione di James Plotkin, la resa sonora è perfettamente commisurata agli intenti bellicosi della band di Edimburgo (ovviamente se siete alla ricerca di suoni leccati passate comunque oltre …): tre brani lunghissimi (il quarto, Fathom, è leggermente più breve e dai tratti sperimentali, ma non per questo meno pernicioso), nei quali affiora di tanto in tanto una voce che non fa presagire alcunché di rassicurante, inchiodano l’ascoltatore alla poltrona esibendo senza mediazioni il frutto di anni di escavazioni all’interno degli anfratti più putridi.
In fondo non c’è molto altro da raccontare di quest’opera monolitica, in grado di oscurare in un attimo anche gli scenari più bucolici: ogni riff è un chiodo piantato nelle carni con metodica lentezza, e noi masochisticamente non ci accontentiamo, desiderando che il supplizio prosegua all’infinito.
Nel corso di alcuni (presunti) barlumi di lucidità ho pensato che se Lee Dorrian e Gary Jennings non fossero già stati nella fase iniziale del loro trip psichedelico, forse Forest Of Equilibrium avrebbe potuto suonare molto simile a Sanctum in the Light, di sicuro come pesantezza questo lavoro non è da meno, anche se in quel caso si parla sempre e comunque di una pietra miliare del genere: però non è che gli Of Spire & Throne ci vadano poi così lontani, provare per credere ….

Tracklist:
1.Carrier Remain
2.Fathom
3.Upon the Spine
4.Gallery of Masks

Line-up:
Matt Davies – bass, vocals
Ali Lauder – guitar, vocals, bass, synth, harmonium
Graham Stewart – drums, guitar, synth

Guillaume Martin – guitar

OF SPIRE AND THRONE – Facebook

Within Silence – Gallery Of Life

Gallery Of Life di fatto è un buon disco di genere, certo siamo in anni di carestia per il power metal, il disco se fosse uscito una quindicina d’anni fa avrebbe fatto parlare molto di sé, purtroppo di questi tempi certe sonorità hanno perso fascino tra gran parte dei fans e degli addetti ai lavori.

Negli ultimi tempi una pioggia torrenziale di power metal è caduta sulla mia scrivania, grazie sopratutto al gran lavoro della Ulterium Records, etichetta specializzata nel melodic power e nel metal classico, con un buon fiuto per band dalle evidenti potenzialità.

Ed è così che si passa con disinvoltura a descrivere album estremi, tra diavoli e violenza tout court, a gruppi che fanno della religione cristiana lo spunto per i loro testi come i Within Silence.
Poco male, anzi, aver a che fare con i due rovesci della medaglia metallica varia e rende affascinante il lavoro del recensore, che non giudica ma descrive le varie atmosfere e chiaramente la musica contenuta nelle opere che ascolta.
Il gruppo proveniente dalla Slovacchia arriva al debutto con Gallery Of Life, album di arioso e positivo power metal melodico sulla scia dei gruppi scandinavi, dunque niente di nuovo, ma ascoltando il disco ci si trova di fronte una buona band, che prende spunto dalle opere dei vari Stratovarius e Sonata Arctica, per avvicinarsi a tratti agli Hammerfall nei brani tirati e più classici, dove le tastiere lasciano alle chitarre il compito di trascinarci in mezzo ad uragani metallici dalle ottime atmosfere epiche.
Il gruppo ha tutto per non sfigurare nel panorama metallico dalle reminiscenze classiche: un buon cantante (Martin Klein), una coppia d’asce agguerrita (Richard Germanus e Martin Cico) ed una sezione ritmica che cavalca purosangue lanciati in lunghe cavalcate di epico e nobile power metal (Filip Andel al basso e Peter Gacik alle pelli).
E’ pur vero che l’album difetta in personalità, le songs seguono perfettamente i cliché del genere, ma siamo al debutto e se il gruppo perde qualcosa per colpa di un songwriting che segue i binari dove corrono le band storiche, acquista punti per una raccolta di brani prodotti benissimo e ben suonati, melodicissimi e di facile assimilazione.
Ottime The Last Droop Of Doom dove le due asce sono protagoniste di un gran lavoro ai solos e Love Is Blind ed Anger and Sorrow, cavalcate power metal, epiche, veloci e inarrestabili.
Gallery Of Life di fatto è un buon disco di genere, certo siamo in anni di carestia per il power metal, il disco se fosse uscito una quindicina d’anni fa avrebbe fatto parlare molto di sé, purtroppo di questi tempi certe sonorità hanno perso fascino tra gran parte dei fans e degli addetti ai lavori.
Rimane l’underground a scaldare i cuori dei defenders sparsi per il globo…..pugno al cielo e gloria al signore.

TRACKLIST
1. Intro
2. Silent Desire
3. Emptiness of Night
4. Elegy of Doom
5. The Last Drop of Blood
6. Love is Blind
7. Anger and Sorrow
8. Judgement Day
9. The World of Slavery
10. Road to the Paradise
11. Outro

LINE-UP
Martin Klein – Vocals
Richard Germanus – Guitars, Vocals
Martin Cico – Guitars
Filip Andel – Bass
Peter Gacik – Drums

WITHIN SILENCE – Facebook

The Sickening – Sickness Unfold

Sickness Unfold è il classico album da ascoltare come fosse una lunga jam estrema, lasciando che i vari passaggi entrino in noi e ci annodino le budella, prima che il ventre esploda in una cascata di sangue e viscere.

Una band estrema norvegese dal sound americano, questi sono i The Sickening, brutal death metal band al secondo lavoro uscito per la Xtreem Records.

Il trio di Kristiansund sono più di dieci anni che tortura e sevizia senza pietà, eppure la discografia si ferma ad un demo, uscito nel 2007 e a due full length: il primo uscito nel 2009 dal titolo Death Devastation Decay e questo massacro ultra tecnico, al secolo Sickness Unfold.
Mezz’ora di soluzioni tecniche intricate al servizio di un sound, dirompente e vorticoso, lasciano il segno sull’ascoltatore, trascinato in un mondo di morte dal gruppo scandinavo che, come detto, volge lo sguardo alla lontana america, per infarcire il proprio sound di soluzioni che richiamano i Suffocation e i Deeds Of Flesh.
Niente di male, il brutal dei nostri raccoglie ovazioni la dove, le trame del sound si fanno intricate e colme di soluzioni mai troppo banali.
Una furia difficile da tenere a bada, il sound del gruppo vola alla velocità della luce, con prove eccezionali dei musicisti all’opera, che non ne vogliono sapere di rallentare la folle corsa, e si inventano passaggi difficilissime ma assolutamente fluidi.
E qui sta il bello di questo lavoro: il tempo scorre, persi nei labirinti estremi creati dal gruppo, dotato di una tecnica individuale spaventosa ed un talento innato per la forma canzone.
Growl brutale e assassino (Pål “Markspist” Bjerkestrand, anche alla sei corde) e cambi di ritmo a velocità inumana da parte di una sezione ritmica dotata di una bravura che ha del clamoroso (Neeraj Kasbekar al basso e Espen “Beist” Antonsen alle pelli) sono le migliori virtù di questo trio di pazzi, geniali musicisti che strapazzano lo spartito a colpi di metal estremo sopra le righe.
Il classico album da ascoltare come fosse una lunga jam estrema, lasciando che i vari passaggi entrino in noi e ci annodino le budella, prima che il ventre esploda in una cascata di sangue e viscere.
Per gli amanti del genere, un gran bel disco da non farsi mancare nella propria brutale discografia.

TRACKLIST
01. Sickness Unfold
02. Fixed On Killing
03. Unnamed Horror
04. Throat Hole Ejaculation
05. Lord Of Decay
06. A Mind Deranged
07. Powertool Sodomy
08. Suffer For My Pleasure
09. Consumed By Hate
10. Abort (The Fetus) (Vile Cover)

LINE-UP
Pål “Markspist” Bjerkestrand – Voce, chitarra
Neeraj Kasbekar – Basso, voce
Espen “Beist” Antonsen – Batteria

THE SICKENING – Facebook

childthemewp.com