Ennui – Falsvs Anno Domini

Gli Ennui, dopo tre anni di vita ed altrettanti full length, dimostrano di avere le carte in regola per sedersi al tavolo con i grandi del funeral-death doom.

Nuovo album per i georgiani Ennui, da qualche anno alla ribalta nella scena doom con il loro sound di matrice funeral/death doom e dei quali ho avuto il piacere e l’opportunità di seguire il percorso musicale fin dai primi passi corrispondenti con l’album d’esordio Mze Ukunisa del 2012.

A questo punto della loro storia, David Unsaved e Serj Shenghelia non potevano più nascondersi in quanto da loro era lecito attendersi un album che non solo desse continuità a quanto già fatto, ma che garantisse un decisivo e definitivo salto di qualità.
Per fare questo i due musicisti di Tblisi, passati nel frattempo dalla MFL Records di Evander Sinque, che ha avuto il grande merito di sdoganarli, alla Solitude Productions, intanto hanno ritenuto di avvalersi in pianta stabile di un terzo elemento che si dedicasse alla sezione ritmica e individuato, niente meno, che in Daniel Neagoe, sua maestà “il growl” nonché mastermind degli Eye Of Solitude, dei Clouds e coinvolto in mille altri progetti di livello assoluto (peraltro, il musicista di origine rumena ha anche curato personalmente masterizzazione e mixaggio dell’album).
Ma David e Serj non si sono accontentati dell’ingaggio di un nome così pesante, anzi … : scorrendo la lista degli ospiti che hanno fornito il loro contributo alla riuscita del disco troviamo gente come Greg Chandler (Esoteric), Don Zaros (Evoken), Sameli Köykkä (Colosseum) e AKiEzor (Abstract Spirit e Comatose Vigil), quasi a voler chiamare a raccolta, simbolicamente, i nomi storici della scena a fornire una sorta di imprimatur all’opera.
Questo spiegamento di forze ha prodotto il risultato sperato: Falsvs Anno Domini è l’album definitivo degli Ennui, quello che consentirà loro di passare dallo status di ottima band futuribile a quello di realtà consolidata in grado di riscrivere la storia del genere negli anni a venire.
Rispetto all’ultimo lavoro il sound si è spostato maggiormente verso un death dooom dai toni aspri ma non privo di aperture melodiche e atmosferiche: l’aura che avvolge il sound degli Ennui appare però molto più cupa e minacciosa che in passato, in ossequio ad un contenuto lirico che non lascia soverchie speranze riguardo alle redenzione di un’umanità avviata all’ineluttabile autodistruzione, ancor più morale che materiale.
Forbidden Life apre l’album in maniera invero piuttosto anomala, con un suono di chitarra che ricorda maledettamente quello di The Figurhead dell’immortale capolavoro Pornography targato Cure: un caso ? Forse, ma non c’è dubbio che nessuno meglio di Smith ha preconizzato, all’inizio degli anni ottanta, l’inizio del decadimento dell’umanità, raccontando il disagio di chi a vent’anni si sentiva un centenario precoce.
Il brano poi si apre in maniera più canonica, mantenendo un andamento piuttosto malinconico , ma è con la successiva The Apostasy che Falsvs Anno Domini prende definitivamente quota, grazie a sonorità molto vicine a quelle dei Colosseum dell’indimenticato Juhani Palomaaki: momenti più aspri si alternano a funerei rallentamenti e ad ampie aperture nelle quali la chitarra tesse magnifiche e dolenti melodie.
Con TheStones Of The Timeless arriviamo al fulcro dell’intero album, laddove viene espresso oltre un quarto d’ora di pura disperazione, con uno screaming che prende il posto del più canonico growl ed una parte finale in cui, inconsciamente o meno, l’ingresso di Daniel negli Ennui si fa sentire tramite un crescendo melodico che è tipico marchio di fabbrica degli Eye Of Solitude: in definitiva, una meraviglia …
Dopo questi quaranta minuti di doom ai suoi massimi livelli, ce ne attendono circa altrettanti certamente non da meno per intensità e capacità evocative, con in particolare altre due tracce splendide come No Home Beneath the Stars, sedici minuti che volano via tra ricami chitarristici in un’atmosfera, almeno inizialmente, un po’ meno da tregenda ed un altro finale da brividi, e la title track, più vicina per sonorità alla scuola ex sovietica con i suoi toni cupi e solenni allo stesso tempo: la chiusura ossessiva sta a simboleggiare l’annientamento di ogni vana speranza, una sorta di reiterazione all’ennesima potenza della rabbia che assale chi si trova al cospetto di un degrado apparentemente senza limiti.
Gli Ennui, dopo tre anni di vita ed altrettanti full length, dimostrano di avere le carte in regola per sedersi al tavolo con i grandi del genere: Falsvs Anno Domini è un altro grandissimo album in un settore musicale che, pur trattando prevalentemente della morte, è paradossalmente più vivo che mai, in un “anno domini” che ha visto il ritorno, dopo anni di silenzio, di giganti quali Shape Of Despair e Skepticism, oltre che dei meno noti Tyranny; la band georgiana dimostra che le nuove leve sono già all’altezza della situazione e in grado di alimentare nel migliore dei modi un genere capace di fornire emozioni uniche.

Tracklist:
1. Forbidden Life
2. The Apostasy
3. The Stones of the Timeless
4. When our Light Dies Forever
5. No Home Beneath the Stars
6. Falvs Anno Domini

Line-up:
David Unsaved – guitars, vocals, keyboards.
Serge Shengelia – guitars, vocals.
Daniel Neagoe – drums, bass.

ENNUI – Facebook

Tranquillizer – Des Endes Anfang

Primi Dark Tranquillity e Dissection sono i gruppi di maggiore ispirazione per la band, a cui auguro quella stabilità che potrebbe favorire una presenza più costante sul mercato

La Germania continua ad essere da anni la patria dei suoni metallici, dall’hard rock al metal estremo la tradizione metal è ben radicata nel popolo tedesco, ed i vari generi continuano a trovare nuovi estimatori proprio nella terra posta al centro dell’Europa.

Non solo come si potrebbe pensare l’heavy classico o il più tradizionale power metal, ma anche le frange più estreme hanno sempre trovato terra fertile da quelle parti, sia per quanto riguarda il numero di fans che di gruppi dediti al genere.
I Tranquillizer sono una band di Francoforte attiva dal 2008, ma arrivata solo ora al primo lavoro sulla lunga distanza, lasciando alle spalle un ep targato 2011.
Dunque ci hanno messo un po per entrare in modo deciso sul mercato, ma il risultato non è affatto male e Des Endes Anfang accontenterà una buona fetta degli amanti del death metal melodico dai richiami black e fortemente influenzato dall’onnipresente scena scandinava.
Il quintetto tedesco sempre in difficoltà per i vari cambi di line up che, in questi anni, ne hanno rallentato la carriera nel mondo metallico underground, si presenta con un buon esempio di metal estremo melodico, strutturato sull’alchimia tra black e death, ma reso vario ed interessante da ottime cavalcate di classico metal dai tratti epici e dark, che conferisce al sound un’aurea oscura e drammatica.
Le veloci parti ritmiche, si attorcigliano come serpenti in amore, a solos melodici, ottimi stacchi acustici e refrain trascinanti, le songs non perdono molto in impatto lungo la durata del lavoro, certo non mancano i difetti, ma sono ben bilanciati da una forma canzone ben strutturata.
Appunto, i difetti : non tutto funziona perfettamente, per esempio l’ottimo scream, viene accompagnato da un growl in stile brutal che non ci azzecca un granché con la proposta del combo tedesco e in alcuni casi il fantomatico già sentito affiora tra le tracce di questo Des Endes Anfang, contribuendo a far scendere un poco il valore dell’album, che rimane comunque un’opera prima dignitosa.
Primi Dark Tranquillity e Dissection sono i gruppi di maggiore ispirazione per la band, a cui auguro quella stabilità che potrebbe favorire una presenza più costante sul mercato, mentre ai fans del melodic death un ascolto al disco è consigliato, visto che potrebbero trovare in Des Endes Anfang qualcosa di sufficiente per crogiolarsi tra i cliché del genere.

TRACKLIST
1. Agonie
2. Eine andere Welt
3. Bestie Krieg
4. Werde Zu Staub
5. Kapitulation
6. Blutrot
7. Welk
8. Ins Licht
9. Seelenreiter

LINE-UP
Madelaine Kühn – Bass
Johannes Gauerke – Vocals (lead), Trombone, Drums
Aleksander Vetter – Guitars
Fabian Wohlgemuth – Guitars, Vocals
Nico Dunemann – Drums

http://www.facebook.com/pages/Tranquillizer/139894089390032

Eldritch – Underlying Issues

L’ennesimo capolavoro di una band unica, che sicuramente ha raccolto molto meno di quello che, in termini di qualità, ha dato alla nostra musica

Era la primavera di quest’anno, quando la band di Terence Holler e Eugene Simone calarono a Genova in quel dell’Angelo Azzurro nel giro di date a supporto del bellissimo Tasting The Tears, ultima splendida opera di una delle band più importanti nel panorama metal nazionale degli ultimi vent’anni.

Il cantante, con tanto di stampelle a causa di un infortunio, diede spettacolo così come i suoi compagni per un concerto degno della fama del gruppo, ma purtroppo davanti a pochi intimi.
La solita storia dell’Italia metallara, a grandi gruppi seguono pochi adepti, specialmente dal vivo e se si esce fuori dalla solita Lombardia, così che Terence non si sprecò in critiche taglienti un po’ a tutta la scena e la sensazione del sottoscritto fu di rabbia e frustrazione, comune a quella espressa dal singer italo americano.
Rabbia e frustazione, sentimenti ed emozioni di cui il nuovo lavoro è pregno, sempre nel segno degli Eldritch, ed allora sfuriate metalliche di thrash moderno, esagerate parti di tastiera, tra melodie e fughe incalzanti, sezione ritmica che travolge, sei corde che urlano o ammaliano in arpeggi che nella loro complessità entrano in noi come il caldo vento meridionale e linee vocali che ancora una volta rimettono in fila i singer di genere come farebbe un bambino con i suoi soldatini.
Underlying Issues è tutto qui, o meglio, è quello che il povero recensore carpisce nella moltitudine di suoni, emozioni, atmosfere e sfumature che la band toscana immette nella sua splendida musica.
Molto più duro del precedente lavoro, il nuovo album presenta un gruppo che, dopo venticinque anni di carriera ed una decina di dischi alle spalle, riesce nella non facile impresa di risultare fresca, determinata, convincente nel portare avanti il proprio sound, senza scendere a compromessi ed elargendo lezione di metal dal taglio prog, moderno, a tratti violento, ma stupefacente nel regalare melodie che valorizzano tutto il mondo musicale creato, anche in questo lavoro.
Un anno è passato da Tasting The Tears, neanche troppo, anzi pochissimo al giorno d’oggi, eppure la band non scende sotto una media altisonante, che ne dimostra il talento disumano, una macchina perfetta per creare musica metallica, nobile ed elegante anche quando le sei corde di Rudj Ginanneschi e Eugene Simone violentano lo spartito o la sezione ritmica (Raffahell Dridge alle pelli e Alessio Consani al Basso) scambiano i propri strumenti per martelli pneumatici, spaccando tutto con una forza ed una tecnica disarmante.
Canzoni: qualunque sia la loro forma, i refrain da memorizzare, le melodie che ipnotizzano sono sempre li, nascoste da questo mare in burrasca che butta sulla costa onde di note fiaremente progressive pur nella loro violenza e ci costringono, ancora una volta, a battere le mani a questi splendidi musicisti.
Prodotto benissimo, così che il suono arrivi potentissimo e pulito, Underlying Issues vive di undici composizioni che hanno nelle parti più furiose il loro punto di forza, ed allora lasciatevi travolgere da Changing Blood, Danger Zone, All And More, The Face I Wear, The Light e la conclusiva, devastante Slowmotion K Us.
Nel mezzo, meraviglie prog metal che contribuiscono a fare del nuovo album l’ennesimo capolavoro di una band unica, che sicuramente ha raccolto molto meno di quello che, in termini di qualità, ha dato alla nostra musica preferita, eppure ancora qui a dispensare arte a chi, ancora una volta, da molti anni di essa si nutre.

TRACKLIST
1.Changing Blood
2.Danger Zone
3.Broken
4.All and More
5.The Face I Wear
6.To the Moon and Back
7.Bringers of Hate
8.The Light
9.Piece of Clarity
10.Before I Die
11.Slowmotion K Us

LINE-UP
Eugene Simone – Guitars
Terence Holler – Vocals
Raffahell Dridge – Drums
Rudj Ginanneschi – Guitars
Alessio Consani – Bass

ELDRITCH – Facebook

Manipulation – Ecstasy

Ecstasy è un lavoro compatto e debordante che unisce con ottimi risultati tradizione e modernità

Ecco un album che accomuna spirito classico e death moderno in un concentrato di estrema putrescenza sonora.

Ecstasy è il nuovo lavoro dei polacchi Manipulation, band non di primo pelo, essendo attiva dall’ormai lontano 2001 e con i primi due lavori usciti a distanza di cinque anni: The Future of Immortality primo album licenziato nel 2007, ed il secondo, Passion dato alle stampe tre anni fa.
Il nuovo album uscito per Satanath Records risulta un monolito estremo di inumana violenza, ben bilanciata tra sfuriate di detah metal classico e robuste soluzioni deathcore, per un risultato di indubbia devastazione sonora.
Un mood oscuro, permea tutto l’album, sconvolto da soluzioni tecniche sopra la media e da un songwriting che non perde mai il filo conduttore, che porta ed eleva questa raccolta di songs violente e devastanti, convincendo a più riprese.
Brani che spazzano via tra il growl dall’impronta core di Brużyc, la varia e funzionale sezione ritmica, che passa con disinvoltura da blast beat di scuola classica e tremende e cadenzate bordate core(Bysiek al basso e Kriss alle pelli) con le chitarre che, dalla loro, si aggirano tra la struttura delle songs piene di famelico spirito estremo, torturate da Rado.Slav e Vulture .
Registrato in Polonia nei Monroe Sound Studio, Ecstasy esplode come un’atomica e gli echi di queste dieci bombe sonore si dilatano come il fungo atomico, tanta è la potenza che il gruppo emana.
Una macchina distruttrice, che senza fermarsi travolge, massacra e uccide senza pietà con una forza dirompente, tecnica e malata, lasciando indietro molte delle realtà più blasonate del genere, anche d’oltreoceano terra dove la musica del combo trae le sue ispirazioni.
Album da spararsi tutto d’un fiato per godere della sua immane potenza, tra cui si distinguono spettacolari tracce come l’opener Insomnia, The Paradigm of Existence, Temples of Vanity e la title track posta in chiusura.
Ecstasy risulta così un lavoro compatto e debordante, che unisce con ottimi risultati tradizione e modernità, dategli un ascolto.

TRACKLIST
1. Insomnia
2. Sic Itur ad Astra
3. Lifetime
4. Bad Boy
5. The Paradigm of Existence
6. Sunset over Vatican
7. Temples of Vanity
8. Burn Motherfuckers!
9. Dźwięk upadku
10. Ecstasy

LINE-UP
Rado.Slav – Guitars
Bysiek – Bass
Kriss – Drums
Vulture – Guitars
Brużyc – Vocals

http://www.facebook.com/manipulation.net/

Isaak – Sermonize

Sermonize è l’avanguardia della Genova Pesante e lo sarà per un bel pezzo.

Tornano impetuosamente gli Isaak, gran gruppo genovese di stoner rock e tanto altro.

Sermonize è a partire dalla fantastica copertina di Richey Beckett un disco potente e fresco, con un fortissimo gusto di southern. Personalmente quando ascolto gli Isaak mi sembra che siano stati fra i pochissimi gruppi che abbiano recepito pienamente la lezione dei Kyuss, ovvero rendono benissimo la sensazione di deserto che era nella musica degli americani. Infatti questo disco ha un groove desertico e caldo che lo rende speciale. Di gruppi stoner o dintorni ve ne sono moltissimi, ma la sensazione di movimento e di compattezza che hanno questi genovesi lo hanno in pochi. La loro musica compie evoluzioni melodiche immersa nella calda sabbia del deserto e quando meno te lo aspetti scatta fuori dalla sua tana per azzannarti alla gola, ed ucciderti dolcemente. Già il disco di debutto era stato ottimo, ed ancora prima i Gandhi’s Gunn, la loro incarnazione pre Isaak, erano passi avanti. Sermonize porta il discorso ad uno se non due livelli superiori, sia per la composizione diventata più dura e personale, che per l’esecuzione più intensa che mai.
Gli Isaak hanno acquistato malizia e scaltrezza, riuscendo a rendere il disco un fortino senza punti deboli, dove tutti fanno il loro compito alla perfezione suonando uno stoner rock che in Italia non fa nessuno e che avrà sicuramente molta eco anche all’estero, visti anche i numerosi concerti fuori dai nostri confini che hanno fatto.
Sermonize colpisce a fondo e come un’endorfina ne vorresti ancora ed ancora.
Melodie e compattezza, sono questi i punti di forza del disco, che si può ascoltare su livelli differenti, ponendo l’accento su di un giro di chitarra o su una rullata particolare, se non sulla gran voce di Giovanni Boeddu in costante crescita . Da registrare l’entrata nel gruppo di Gabriele Carta al basso al posto di Massimo “ Maso “ Perasso, l’uomo Taxi Driver che proprio insieme agli Isaak fa parte di quel gruppo di persone che hanno fatto tanto per la Genova pesante, portando grandi gruppi e proponendo ottima musica in maniera accessibile a tutti.
Sermonize è l’avanguardia della Genova pesante e lo sarà per un bel pezzo.

TRACKLIST
1 – Whore Horse
2 – The Peak
3 – Fountainhead
4 – Almonds & Glasses
5 – Soar
6 – Showdown
7 – Yeah (Kyuss)
8 – Lucifer’s Road (White Ash)
9 – Lesson n.1
10 – The Frown Reloaded
11 – The Phil’s Theorem
12 – Sermonize

LINE-UP
Giacomo H Boeddu :Vocals
Andrea Tabbì De Bernardi : Drums / Vocals
Francesco Raimondi : Guitars
Gabriele Carta : Bass

ISAAK – Facebook

Rapture – Crimes Against Humanity

Difficile uscire dalla cerchia dei fans del genere per la giovane band greca, anche se non credo sia per loro una priorità, l’attitudine e l’impatto fanno ben sperare per un futuro magari non di primo piano ma ben saldo nello stile proposto

Si torna a parlare di metal estremo proveniente dalla Grecia e dalla sua capitale (Atene), con questo buon debutto che farà la gioia dei fans del death/thrash old school.

La band in questione sono i giovani Rapture, metallari che da tre anni recano danni nella scena estrema della capitale e giunti al debutto sotto Witches Brew dopo due releases minori( i due ep Gun Metal del 2013 e 2014 Promo).
Il quartetto devoto al metal estremo di estrazione classica, si aggiunge a molte band che, a livello underground hanno contribuito al ritorno delle sonorità old school, perciò aspettatevi ritmi serrati, solos velocissimi torturatori di chitarre, incendiate sull’altare del metal ottantiano e una spiccata predisposizione per atmosfere death oriented, che accentuano ancora di più la vena estrema del gruppo.
Accompagnati da testi che spaziano dal puro horror alla violenza sociale e politica, i brani di Crimes Against Humanity non lasciano scampo e aggrediscono senza pietà, lasciando che la furia thrash del gruppo esca prepotentemente dai solchi del disco.
Pur giovani i musicisti coinvolti ci sanno davvero fare, la produzione è ottima e l’album, composto da songs tutte su buoni livelli, hanno in Laboratories of Infection( scelta come singolo/video), Suicidal cannibalism e Spiritual Paralysis i brani punta, trascinanti e diretti, un vero massacro.
Siamo nei territori estremi cari agli Slayer, gruppo di maggior influenza per il gruppo Greco, che non nasconde la propria ispirazione, anzi la scrive col sangue sullo spartito di Crime Against Humanity, lasciando al death qualche rallentamento che varia e rende ancora più potente l’assalto sonoro prodotto.
Difficile uscire dalla cerchia dei fans del genere per la giovane band greca, anche se non credo sia per loro una priorità, l’attitudine e l’impatto fanno ben sperare per un futuro magari non di primo piano ma ben saldo nello stile proposto, che ha ancora moltissime frecce nel proprio arco a dispetto di chi lo vorrebbe morto e sepolto.
Come si dice in questi casi: buona la prima.

TRACKLIST
1. Laboratories of Infection
2. Unit of Total Destruction
3. Born Dead
4. Suicidal Cannibalism
5. Transorbital Lobotomy
6. Borderline Disorder
7. As Darkness Falls
8. Spiritual Paralysis
9. Sadistic Shredding of Flesh

LINE-UP
Stamatis Petrou – Bass,Vocals
Nikitas Melios – Guitars,Vocals
Apostolos Papadimitriou – Guitars, Lead Vocals
Giorgos Melios – Drums,Vocals

http://www.facebook.com/ThrashRapture

Worldview – The Chosen Few

Un lavoro che non dovrebbe deludere gli amanti del metal melodico dai tratti power, l’album si guadagna un voto positivo per l’indubbia capacità dei Worldview nel saper creare ottime linee melodiche e brani dal buon feeling.

Giunti all’esordio sulla lunga distanza, gli americani Worldview, aiutati da una manciata di musicisti su cui spicca Oz Fox degli Stryper, confezionano un lavoro di power metal statunitense, ma dalle molte atmosfere europee, raffinato, mai troppo potente ma dal buon gusto melodico.

La band californiana ha nell’ugola del vocalist Rey Parra, il suo asso nella manica, che asseconda con un songwriting ispirato, magari non originalissimo ma molto piacevole.
Atmosfere orientaleggianti(Mortality), drammatiche parti power/prog tipiche del metal d’oltreoceano, ed un gusto per le melodie nobilitate da una vena prog danno al disco un tono adulto e fanno di The Chosen Few un buon esordio, anche se le influenze compaiono a tratti ben visibili tra i solchi del disco, da ricercare specialmente nei Kamelot di Roy Khan.
Niente di male, l’album scorre mantenendo questi clichè, la band difficilmente corre,le ritmiche si mantengono cadenzate, marciando al suono tenuto da tastiere dal mood progressivo.
Quando la luce metallica si accende, ne escono power song dal taglio epico come Prisioner Of Pain, ottima song che non disdegna tasti d’avorio dal taglio settantiano e chorus che rimandano all’hard & heavy di ottantiana memoria.
I musicisti ci sanno fare non poco con gli strumenti, le tastiere disegnano arabeschi progressivi su eleganti parti ritmiche, mentre la chitarra si rende protagonista di solos ben incastonati nelle varie parti dell’album.
Quando l’hard rock melodico prende il sopravvento, sempre arricchito da orchestrazioni di natura prog ecco che i danesi Royal Hunt fanno capolino nella bellissima Two Wonders.
Affidato alle mani di Bill Metoyer (W.A.S.P, Slayer) The Chosen Few gode di un ottimo suono, che esce pulito e cristallino, cosi da raffinare ulteriormente le songs proposte dal gruppo di Los Angels.
Un lavoro che non dovrebbe deludere gli amanti del metal melodico, dai tratti power, l’album si guadagna un voto positivo per l’indubbia capacità dei Worldview nel saper creare ottime linee melodiche e brani dal buon feeling.
Lo spiegamento di forze, sia alla consolle, che negli ospiti che appaiono con un loro contributo nei vari brani dell’album, non sono stati sprecati e The Chosen few risulta un’ottima opera prima per la band losangelina.

• Autore
Alberto Centenari

• TAG -1
heavymetal

• TAG – 2
heavymetal

• TAG – 3
heavymetal

• ETICHETTA

TRACKLIST
01. Mortality
02. Illusions of Love
03. Back in Time
04. The Mirror
05. Why?
06. Prisoner of Pain
07. Two Wonders
08. Walk Through Fire
09. The Chosen Few

LINE-UP
Johnny Gonzales – Drums, Percussion
Todd Libby – Bass guitar, Keyboards
George Rene Ochoa – Guitars, Keyboards, Background Vocals
Rey Parra – Lead Vocals

Special guests
Oz Fox [Stryper] – Lead guitar on “Back in Time” (2nd lead)
Les Carlsen [Bloodgood] – Bridge vocals on “The Chosen Few”
Larry Farkas [ex. Vengeance Rising] – Lead guitar on “Prisoner of Pain” (1st lead)
Jimmy P Brown II [Deliverance] – BGV on “The Mirror” (2nd and 3rd chorus)
Ronson Webster – Keyboards, Background Vocals
Armand Melnbardis [Rob Rock] – Piano on “The Chosen Few”, Violin on “Back in Time”
Niki Bente – Female vocals on “The Chosen Few”

WORLDVIEW – Facebook

VOID OF SLEEP

Dopo aver recensito il loro ottimo album New World Order, mi sono venutee in mente alcune domande da porre ai Void Of Sleep, che sono a mio avviso uno dei gruppi più interessanti attualmente in Italia. E chiacchierando con loro l’interesse aumenta molto …

iye Come è nato New World Order?

Burdo: Come anche il precedente lavoro è nato dalla collaborazione e dal bagaglio di tutta la band, a differenza di prima però, questa volta abbiamo voluto concentrarci su un argomento comune per tutto l’album, che coinvolgesse il nostro songwriting fondendo le parole e la musica in un unico mood: volevamo fare qualcosa di diverso dal nostro primo album, qualcosa di più oscuro ma anche trionfante e disperato, volevamo più cattiveria, ma anche più melodia, volevamo insomma estremizzare le nostre peculiarità, compresa la parte progressiva del nostro suono, così quando ho presentato agli altri l’idea del concept siamo partiti con le idee chiare.

Gale: L’ idea del concept che ha avuto Burdo ci è subito piaciuta, anche perché, come ormai credo si sia capito, siamo fan degli anni 70, del prog e della psichedelia e molti gruppi che amiamo hanno fatto concept-album in quegli anni; questo non significa che avevamo la pretesa di rifare uno di quei capolavori, ma diciamo che misurarsi con un tipo diverso di scrittura poteva essere una sfida affascinante, e lo è stato.

iye Pensate che attraverso musica come la vostra ci possa essere un cambiamento in positivo nella gente?

Burdo: Beh, personalmente non credo, noi abbiamo solo scritto di un argomento che troviamo “diabolicamente” affascinante, esprimendo nostre opinioni e metafore … è una storia insomma, ognuno può vederci quello che vuole, non abbiamo la presunzione di insegnare nulla a nessuno.

iye La situazione dell’underground in Italia è migliore o peggiore rispetto al passato?

Burdo: Onestamente non so bene cosa risponderti … sicuramente è cambiata, come sono cambiati i tempi: da un lato il web ha sicuramente aumentato le possibilità di essere ascoltati ed ha “livellato” almeno un minimo questo gap rispetto al passato, ma dall’altra parte ormai ci sono migliaia di band, molte più che in passato, molte più mode anche tra le nicchie … è difficile, almeno per me, capire se ci siano più lati positivi o negativi … fatto sta però che il tasso qualitativo dell’underground italiano negli ultimi anni credo sia piuttosto buono … mancano un po’ le opportunità, forse.

iye Avete suonato in Europa? Cosa pensate delle scene estere?

Gale: Abbiamo suonato qualche data in Europa e ne faremo sicuramente altre 4-5 a marzo ma non abbastanza per avere un’ idea delle varie scene, ci sono state date più fortunate ed altre meno, come d’ altronde in Italia, ci è capitato di suonare davanti a 3 persone, davanti a 50/100 spettatori come a 2-300 o addirittura a 1000. Non credo si possa generalizzare e parlare di scene che “funzionano” meglio di altre.

iye Come porterete in giro un progetto importante come New World Order?

Gale: I nostri sono semplici concerti dal vivo, nient’ altro che quattro persone con i propri strumenti che ripropongono nella maniera più fedele possibile i brani degli album; non ci sono basi, non ci sono visuals, non ci sono luci particolari, non che siamo contro a quel tipo di show, anzi, ma attualmente proponiamo dei concerti “canonici”. Per quanto riguarda la scaletta, al nostro release party al Bronson abbiamo suonato New World Order per intero ed in sequenza, nei prossimi concerti tenderemo a suonarne più brani possibili compatibilmente con i tempi di esibizione che avremo a disposizione dai locali ma suoneremo sempre almeno due brani da Tales, perché comunque il primo album ci rappresenta ancora, ci sono grandi canzoni che ci divertiamo a suonare dal vivo e anche i “fan” si aspettano di sentire qualcosa.

iye Quali sono le vostre fonti di informazione sui fatti e soprattuttto sulla storia occulta mondiale?

Burdo: Non posso citarti fonti particolari, come dicevo prima è una storia, non un trattato o una relazione, io ho letto diversi libri a riguardo e ho la mia visione della vita e di quello che mi succede intorno, mi sono fatto le mie idee, chi ascolta l’album può ragionarci sopra e decidere come crede, oppure semplicemente godersi la musica.

iye Come definireste la vostra musica?

Burdo: Ho notato che le etichette di genere su di noi cambiano un po’ da un disco all’altro, con New World Order ci definiscono Progressive Sludge Metal, a me sta bene, non sono mai stato molto portato a catalogare la musica.

Gale: Etichettare la nostra musica è complicato, lo è anche per noi, ci sono tanti elementi e tanti stili, anche distanti, che convivono in essa. In diverse recensioni dicono cose che ci fanno molto piacere e cioè che stiamo costruendo un sound personale, originale, questo per me è il miglior complimento che ci possano fare, l’ ho già detto molte volte, non abbiamo la pretesa di inventare niente di nuovo ma secondo me ogni band ha il dovere morale di non essere un semplice clone di qualcun ma di cercare la propria identità.

iye Progetti futuri?

Gale: In primis suonare il più possibile per promuovere l’ album, di sicuro ci piacerebbe fare un bel tour magari di spalla a qualche band che stimiamo, sarebbe bello anche riuscire a suonare in qualche festival importante e fare un tour fuori dall’ Europa, comunque quello che ci interessa attualmente è diffondere la nostra musica,  crescere come band e migliorarci sempre, sia come compositori, sia come esecutori, sia come musicisti in generale.

MAvoidofsleep

Reds’ Cool – Press Hard

Siamo al cospetto di una band onesta, ottima erede del sound dei gruppi che hanno fatto la storia dell’hard rock melodico, con uno di quei dischi che non cambieranno la storia del rock, ma che sa farsi piacere, colmo di melodia e ruvida elettricità.

Per chi ha troppi capelli bianchi sulla lunga chioma, o addirittura gli anni hanno lasciato il segno con larghe stempiature al posto dei riccioli neri, sa che anni fa era praticamente impossibile parlare di rock o metal guardando ad est dell’Europa.

Le prime band che si affacciarono sul mercato, furono viste con curiosità e molte volte ironia, uno scherzo parlare di musica del diavolo proveniente dalla madre Russia, o dagli stati vicini, il rock era americano o, al massimo anglosassone, certamente non figlio della steppa.
Le cose negli ultimi anni sono cambiate notevolmente e i paesi dell’est ormai tutti globalizzati, hanno cominciato a sfornare gruppi, molti davvero bravi, in ogni genere di cui il rock ed il metal si nutrono, passando agevolmente da ottime realtà estreme a gruppi di rockers dal riff facile.
I Reds’Cool, fanno parte di quella grossa fetta di musicisti immersi totalmente nell’hard rock, pescando a piene mani dalle due scuole tradizionali; quella americana e quella britannica e confezionando un buon album, chiaramente poco originale, ultra conservatore, ma splendido a livello di sound, piacevole, melodico e sanguigno il giusto per essere consigliato a tutti i fans dell’hard rock classico.
All’ascolto di questa raccolta di brani, confezionati dal quintetto di San Pietroburgo, vi passeranno davanti almeno una trentina d’anni di musica dura, sempre in bilico tra durezza e melodie, ottime songs dall’andamento cadenzato e sanguigni voli verso l’America, facendo scalo in Gran Bretagna, tra Whitesnake, Great White, UFO e compagnia di rockers.
D’altronde quando il lettore comincia a riprodurre le varie  Dangerous One, Brand New Start e Strangers Eyes, il senso di deja’vu è forte, ma viene ben bilanciato dalla buona vena dei musicisti e dall’ottima performance del vocalist, perfetto singer di razza, forgiato alla scuola dei migliori interpreti del genere(Slava Spark).
Siamo al cospetto di una band onesta, ottima erede del sound dei gruppi che hanno fatto la storia dell’hard rock melodico, con uno di quei dischi che non cambieranno la storia del rock, ma che sa farsi piacere, colmo di melodia e ruvida elettricità.
Press Hard merita senz’altro l’interesse dei rockers dai gusti old school, a cui va il mio invito all’ascolto.

TRACKLIST
1.Dangerous One
2.My Way
3.The Way I Am
4.Brand New Start
5.Strangers Eyes
6.Call Me
7.One Night
8.Love Behind
9.No More

LINE-UP
Slava Spark: vocals
Sergey Fedotov: guitar
Ilya “Lu” Smirnov: guitar, backing vocals
Dmitry “Dee” Pronin: bass, backing vocals
Andrey Kruglov: drums

REDS’ COOL – Facebook

Monastery Dead – Black Gold Appetite

Le influenze sono percepibili nei maestri Cannibal Corpse e nei Dying Fetus, la produzione rende giustizia al suono pesantissimo creato dal gruppo ed il disco fila liscio senza grosse cadute, ma altresì senza meraviglie, mantenendo una qualità sufficiente per non passare del tutto inosservato.

Nuovo lavoro per questa band estrema proveniente dalla Russia, terzo di una discografia che vede altre due opere licenziate nel corso di undici anni di attività; Victims of Senseless Massacre del 2009 e Cold and Gloom del 2012.
Il gruppo di san Pietroburgo opera nel settore del death metal che sfocia molte volte nel brutal, magari non tecnicissimo ma dall’impatto devastante.

Un aggressione feroce dunque, senza compromessi e colma di sfuriate violentissime, ad opera di una band che punta tutto sull’impatto, da tregenda della propria musica e l’effetto è convincente, specialmente per chi fa del genere la principale fonte di sostentamenti musicale.
Manca un briciole di fantasia in più per differenziarsi dalle centinaia di realtà che popolano l’universo underground estremo, ma è indiscutibile l’attitudine che la band riversa in questi trentaquattro minuti di delirio death senza compromessi.
Growl brutale e sezione ritmica che crea un wall of sound di notevole impatto sono le caratteristiche maggiori per far si che Black Gold Appetite trovi estimatori tra i fans del death metal, affrancati ed accontentati nei loro istinti da songs tremebonde come You Are Parasite, Sick Absolution, la title track e Lie, picchi qualitativi di questo lavoro estremo.
Siamo al cospetto di una band che, senza far gridare al miracolo, il suo mestiere lo fa con dovizia senza andare oltre ad un onesto compitino.
Le influenze sono percebibili nei maestri Cannibal Corpse e nei Dying Fetus, la produzione rende giustizia al suono pesantissimo creato dal gruppo, ed il disco fila liscio senza grosse cadute, ma altresì senza meraviglie, mantenendo una qualità sufficiente per non passare del tutto inosservato.

TRACKLIST
1. Global Bleeding Euphoria
2. More Power
3. You Are Parasite
4. Despairing Existence
5. Sublimation
6. Sick Absolution
7. Generation: Rats
8. Black Gold Appetite
9. Why Are You Born
10. Voracity of Madness
11. Lie
12. Digital Apocalypse
13. Gore Gods Enthroned

LINE-UP
Vadim Nikolaev – Bass
Kirill Zharikov – Drums
Nikita Volkov – Guitar
Anton Malov – Vocals
Kirill Tatarinov – Guitar

MONASTERY DEAD – Facebook

Vingulmork – Chiaroscuro

Chiaroscuro (titolo originalmente made in Italy) esce dalle casse in un’esplosione di note estreme, donandoci una buona mezzora di metal ignorante e potente.

Dalle fredde lande norvegesi arrivano a far danni i Vingulmork, attivi da più di tre anni e con un ep all’attivo nel 2014, The Long March.

Thrash metal con richiami al black è la proposta dei nostri vichinghi, un massacro perpetrato a colpi di metallici martelli nel nome di Odino e furiosi attacchi ai padiglioni auricolari, il tutto impreziosito da un riffing davvero notevole.
Le ritmiche trascinano come non mai in questo lavoro, i brani si susseguono compatti e veloci, mettendo in mostra non solo un buon songwriting ma l’ottima padronanza dei mezzi dei quattro musicisti di Oslo.
Lo scream/growl del buon Jostein Stensrud Køhn, accompagna queste nove burrasche di metal estremo con piglio e personalità, la chitarra si scaglia all’attacco dei nemici con riff e solos incendiari(Martin Kandola) e la sezione ritmica è un bombardiere impegnato a distruggere a colpi di cannonate devastanti( Simen Kandola alle pelli e Steffen Grønneberg al basso).
Ne esce un lavoro di ottimo metal estremo, ben bilanciato tra l’anima Thrash old school e quella black che, ovviamente estremizza ancora di più la musica con sfuriate estreme come l’opener Collapse and Rebuild, (I Am) The Darkness You Can touch e le alquanto esaltatanti From Promise e White Dress, Black Heart.
Poco più di mezzora, travolti da questo uragano sonoro, magari non troppo originale ma ben congegnato dal quartetto norvegese, che non ne vuole sapere di rallentare i ritmi, aggredendo l’ascoltatore dalla prima all’ultima nota.
Registrato ai Toproom studios e mixato da Børge Finstad and Matias Aaveren, Chiaroscuro (titolo originalmente made in Italy) esce dalle casse in un’esplosione di note estreme, donandoci una buona mezzora di metal ignorante e potente….insomma, una goduria.

TRACKLIST
1. Collapse and Rebuild
2. Hold Your Ground
3. (I Am) The Darkness You Can touch
4. The Haunting
5. Old Hate
6. From Promise
7. Painting Lives
8. White Dress, Black Heart
9. It Will Suffice

LINE-UP
Simen Kandola Drums
Martin Kandola Guitars
Steffen Grønneberg Bass
Jostein Stensrud Køhn Vocals

VINGULMORK – Facebook

Tyranny – Aeons in Tectonic Interment

Un sentore di perenne tragedia aleggia su un lavoro che letteralmente si trascina per una cinquantina di minuti, materializzando l’immagine di un’anima dal penoso incedere provocato dal peso insostenibile dell’esistenza.

L’aria che tira in Finlandia dev’essere sicuramente particolare: del resto il funeral doom è nato in quelle lande per mano dei Thergothon ed è stato poi perfezionato e codificato prima dagli Skepticism e poi da una serie di band eccezionali quali Shape Of Despair, Colosseum e, più recentemente, Profetus.

Più d’uno probabilmente può essersi dimenticato di un disco uscito nel 2005, intitolato Tides of Awakening, per oltre un decennio rimasta la sola testimonianza su lunga distanza dei Tyranny, band che proprio ai Profetus è collegata per la comune appartenenza di Matti Mäkelä, colui che con Lauri Lindqvist condivide le sorti di questa band ritornata improvvisamente alla ribalta con un nuovo album.
Aeons in Tectonic Interment riprende il discorso esattamente dal punto in cui si era bruscamente interrotto: il funeral dei Tyranny non è evocativo come quello di Skepticism o Shape Of Depair, ma in qualche modo va a colmare il vuoto lasciato dai Colosseum del compianto Juhani Palomäki: un sentore di perenne tragedia aleggia su un lavoro che letteralmente si trascina per una cinquantina di minuti, materializzando l’immagine di un’anima dal penoso incedere provocato dal peso insostenibile dell’esistenza.
La voce di Lindqvist è appropriatamente inumana e si fonde con le lente partiture capaci di avvolgere in una spira di disperazione dagli effetti venefici: ma ecco che, a tratti, sporadici squarci di melodia creano angusti varchi nella spessa coltre di negatività, ove si vanno ad innestare fugaci barlumi di speranza, ancor più terribili per la loro ingannevole essenza.
La chitarra di Mäkelä non si limita a produrre riff mortiferi nella loro pachidermica lentezza ma regala anche perle di struggente dolore come nell’opener Sunless Deluge e nel meraviglioso finale di Bells of the Black Basilica, brano a dir poco monumentale per la sua terrificante bellezza.
I Tyranny rischiavano di restare derubricati allo status di band di culto, per di più in un settore che di suo è già sufficientemente di nicchia, ma con questo magnifico lavoro entrano di diritto nel gotha del funeral finlandese, il che equivale a dire mondiale, vista la già citata importanza della nazione dei mille laghi per lo sviluppo del genere.

Tracklist:
1. Sunless Deluge
2. A Voice Given unto Ruin
3. Preparation of a Vessel
4. The Stygian Enclave
5. Bells of the Black Basilica

Line-up:
Matti Mäkelä – Guitars, Vocals, Samples
Lauri Lindqvist – Vocals, Bass, Keyboards

TYRANNY – Facebook

Swallow The Sun – Songs from the North I, II & III

Quando una band di questo spessore regala quasi due ore di musica magnifica è più facile perdonargliene tre quarti d’ora non brutti ma francamente superflui, per cui Songs From The North va accolto con la massima soddisfazione

Cosa può spingere un band dedita ad un genere di nicchia come il doom ad uscire con un triplo album nell’anno domini 2015, in un periodo storico di vacche più scheletriche che magre dal punto di vista commerciale?

È vero, i SwallowThe Sun sono forse oggi, tra tutte le band di riferimento del genere, quella che possiede comunque un minimo di appeal commerciale, viste le aperture a sonorità più gotiche e melodiche evidenziatesi magnificamente nel precedente Emerald Forest and the Blackbird; in più, aggiungiamo che i finnici escono oggi sotto l’egida della Century Media, a suggellare l’impressione di un’operazione comunque pianificata con cura e ben lungi da rappresentare l’espressione di un’insana bulimia creativa ma, detto ciò, la fruizione di quasi tre ore di musica di tale fatta resta comunque affare per pochi.
Se nutrire qualche dubbio sulla resa finale complessiva di una simile mole di lavoro appare più che lecito, la sua strutturazione finisce per provocare qualche rimpianto a causa di alcune scelte non del tutto condivisibili di Raivio e soci.
Il contenuto dei tre cd, infatti, è suddiviso in maniera netta in base allo stile musicale proposto, per cui troviamo un disco 1 (intitolato Gloom) che ricalca le orme dell’ultimo full length, con le sue ampie aperture melodiche ed atmosferiche, un disco 2 (Beauty) completamente acustico ed un disco 3 (Despair) che porta i Swallow The Sun a battere un terreno ostico ed esplorato solo in parte nei primi due album, come quello rappresentato dal funeral-death/doom.
Per fortuna la montagna creativa dei nostri non ha partorito un topolino, nel senso che Songs from the North I, II & III è un’opera che resterà sicuramente impressa nella memoria degli appassionati come una delle migliori dell’anno, ma non si può sorvolare sul fatto che il disco acustico si rivela il classico vaso di coccio racchiuso in mezzo a due monumentali espressioni artistiche quali Gloom e Despair.
Bastano i 9 muniti di With You Came the Whole of the World’s Tears per capire che i Swallow The Sun sono tornati senza alcuna traccia di appannamento dovuta ai tre anni trascorsi da Emerald… : l’impronta compositiva di Raivio è un marchio di fabbrica in grado di amplificare la portata emotiva delle digressioni melodiche, mentre Kotamäki è ormai una certezza assoluta anche con le clean vocals, facendo sì che l’alternanza con il growl ed uno screaming usato con maggiore parsimonia non appaia mai forzata.
Almeno fino a Heartstrings Shattering il primo disco è di livelli irraggiungibili per molti, mentre la seconda metà è lievemente meno coinvolgente, pur risultando ugualmente di altissimo spessore.
Dopo un’ora di emozioni a profusione, Beauty rappresenta un inevitabile calo di tensione: impeccabile dal punto di vista esecutivo, il secondo cd difetta proprio in quell’afflato evocativo che dovrebbe essere insito in musica prevalentemente acustica, per evitare di renderla alla lunga inoffensiva; purtroppo la sola Songs from the North si rivela all’altezza della situazione, grazie anche al contributo in lingua madre della brava Kais Vala, mentre il resto scorre in maniera anche piacevole ma senza lasciare un segno davvero tangibile.
Con le prime note di The Gathering of Black Moths, che inaugura il disco conclusivo denominato Despair, veniamo scaraventati in atmosfere plumbee, in cui solo dosati spunti melodici rappresentano una fievole fiammella di speranza.
L’interpretazione del funeral da parte dei Swallow The Sun risente comunque dell’anima gotica connaturata al loro stile musicale, per cui l’andamento è sì dolente ma mai troppo claustrofobico, e la disperazione evocata dal titolo fornito al cd appare tangibile proprio nella sua malinconica ineluttabilità.
I finnici scendono così sul terreno preferito dei campioni del genere in questi ultimi anni, sto parlando degli Eye Of Solitude, e la battaglia è tutt’altro che impari, visto che Raivio tira fuori dal cilindro un pacchetto di brani magnifici, che si sublima nella straordinaria Abandoned by the Light: qui chitarra e tastiera (sempre ad opera del bravissimo Aleksi Munter) si alternano nel proporre partiture dolenti e capace di far rabbrividire le anime che si abbeverano di queste note.

Alla fine di questa sorta di prova di resistenza all’ascolto, ciò che resta di Songs From The North è molto e non sarà facile cancellare dalla memoria la bellezza di diversi brani contenuti nella trilogia.
Volendo fare gli incontentabili, come è giusto che sia al cospetto di quella che io considero una delle band migliori in assoluto del panorama, un disco doppio sarebbe stato il giusto mezzo che ci consentirebbe di parlare di quest’opera come di un qualcosa prossimo al capolavoro: così non è perché purtroppo, anche se lo si vorrebbe ignorare, il cd acustico c’è e non lo si può omettere ai fini della valutazione complessiva.
Però, sia chiaro, quando una band di questo spessore regala quasi due ore di musica magnifica è più facile perdonargliene tre quarti d’ora non brutti ma francamente superflui, per cui Songs From The North va accolto con la massima soddisfazione da parte degli estimatori di questa splendida realtà musicale chiamata Swallow The Sun.

Disc 1 – Gloom
1. With You Came the Whole of the World’s Tears
2. 10 Silver Bullets
3. Rooms and Shadows
4. Heartstrings Shattering
5. Silhouettes
6. The Memory of Light
7. Lost & Catatonic
8. From Happiness to Dust

Disc 2 – Beauty
1. The Womb of Winter
2. The Heart of a Cold White Land
3. Away
4. Pray for the Winds to Come
5. Songs from the North
6. 66°50’N, 28°40’E
7. Autumn Fire
8. Before the Summer Dies

Disc 3 – Despair
1. The Gathering of Black Moths
2. 7 Hours Late
3. Empires of Loneliness
4. Abandoned by the Light
5. The Clouds Prepare for Battle

Line-up:
Juha Raivio – Guitars
Matti Honkonen – Bass
Markus Jämsen – Guitars
Aleksi Munter – Keyboards
Mikko Kotamäki – Vocals
Juuso Raatikainen – Drums

SWALLOW THE SUN – Facebook

Weeping Silence – Opus IV Oblivion

Chi ama il gothic doom avrà di che bearsi dell’operato dei bravi Weeping Silence, capaci di regalare una cinquantina di minuti di musica raffinata e melodica ma nel contempo rivestita di una robustezza ragionata e mai fine a sé stessa .

Malta è una delle nazioni più piccole d’Europa ma a livello di doom metal possiede una tradizione piuttosto radicata: non a caso nell’incantevole isola del Mediterraneo si svolge fin dal 2009 un rinomato festival dedicato a questo sottogenere musicale.

Gli Weeping Silence esplorano la parte più malinconica e melodica del doom  ovvero quella ammantata di atmosfere gotiche, con la consueta dicotomia tra voce maschile e femminile.
Chiaramente, con questo tipo di premesse, chi sperava in qualcosa di particolarmente innovativo può pure passare oltre, visto che l’affollata band maltese, composta da 7 elementi, non fa altro che riproporre le sonorità portate ai massimi livelli espressivi da nomi quali Draconian o primi Within Temptation, tanto per citarne due particolarmente pesanti.
Ma Opus IV Oblivion merita ben più di un distratto ascolto perché, a fronte di una relativa orecchiabilità, la materia è trattata nel miglior modo possibile, il che si traduce in una raccolta di brani avvincenti ed emozionanti: tutto quanto è giusto attendersi da un gruppo esperto, del resto, con già altri tre full length all’attivo nel corso di una storia musicale ultracedennale.
In effetti la componente prettamente doom si rinviene più a livello attitudinale che non stilistico: qui, infatti, non troveremo rallentamenti asfissianti od atmosfere particolarmente plumbee, complici un songwriting lineare quanto efficace e la soave (ma non stucchevole) voce di Diane Camenzuli, la quale, proprio senza andare mai fuori dalle righe, ci conduce piacevolmente lungo questo cammino malinconico ma privo di eccessive ruvidezze.
Il valore dell’album risiede appunto nella sua gradevolezza che non viene mai meno, salvo una leggera opacizzazione nella parte centrale con i due episodi forse meno brillanti, In Exile e Stormbringer, e contrassegnata da aperture improvvise nel corso delle quali gli strumenti si liberano raggiungendo picchi evocativi non trascurabili: Eyes Of The Monolith, Hidden from the Sun, Bury My Fairytale possiedono appunto queste caratteristiche, anche se la ciliegina sulla torta i nostri la collocano proprio in chiusura, con la teatrale e drammatica Gothic Epitaph, splendida ed autentico manifesto sonoro del sound della band maltese.
A corollario di una tracklist di buon livello va aggiunta la prova di spessore dell’intera band: detto della vocalist, il growl di Dario Pace Taliana ha il pregio di completarne i vocalizzi senza risultare invadente, mentre il resto della truppa erige un dolente accompagnamento sonoro, impreziosito dall’ottimo lavoro alla chitarra solista di Manuel Spiteri, oltre che da una produzione di assoluta eccellenza.
In definitiva, chi ama questo genere avrà di che bearsi dell’operato dei bravi Weeping Silence, capaci di regalare una cinquantina di minuti di musica raffinata e melodica ma nel contempo rivestita di una robustezza ragionata e mai fine a sé stessa .

Tracklist:
1. Oblivion – Darkness in My Heart Anno XV
2. Ivy Thorns upon the Barrow
3. Eyes of the Monolith
4. Hidden from the Sun
5. In Exile
6. Stormbringer
7. Transcending Destiny
8. Bury My Fairytale
9. Gothic Epitaph

Line-up:
Diane Camenzuli – Vocals (female)
Dario Pace Taliana – Vocals
Mario Ellul – Guitars
Manuel Spiteri – Guitars (lead)
Sean Pollacco – Bass
Alison Ellul – Keyboards
Angelo Zammit – Drums

 

Atrorum – Structurae

Gli Atrorum sono sorpendenti nel loro mescolare aperture ariose e lievi a passaggi decisamente massicci e grumosi, l’ascoltatore viene in alcuni momenti completamente spiazzato da momenti schizofrenici

Quando ascolti un disco come questo, la prima azione da compiere è aprire la mente. Mi spiego meglio: “aprire la mente” in questo caso significa porsi nella disposizione d’animo più ricettiva possibile, eliminare pregiudizi, preconcetti, il rapporto predeterminato tra vista ed udito e lasciarsi coinvolgere in un’opera che trattasi di un dipanarsi di stanze musicale concettualizzate in profondi rapporti di passaggio tra influenze stilistiche varie, disparate, spesso antipodiche ma amalgamate con sapienza, logica e rigore.

Gli Atrorum sono un duo proveniente da Monaco, in Baviera, attivo dal 1998, alla loro terza prova ufficiale. Non musicisti di primo pelo, quindi, ma elementi attivi dell’underground bavarese da quasi venti anni; l’esperienza maturata negli anni emerge tra le note di questo Structurae: un edificio musicale costruito con pazienza e professionalità, in cui in un universale impronta progressive marezzata di black metal sinfonico proprio di Dimmu Borgir e Borknagar, fa variegatura un impianto digitale disturbante, figlio (o nipote) del kraut-rock geograficamente legato agli Atrorum ed individuabile in reminiscenze che ricordano i primi Aborym.
Sorprendenti nel loro mescolare aperture ariose e lievi a passaggi decisamente massicci e grumosi, l’ascoltatore viene in alcuni momenti completamente spiazzato da momenti schizofrenici popolati di partiture free-jazz, come nella sorprendente Amapolas o nell’onirico confluire jazzistico del pianoforte in Menschein.
Fiore all’occhiello di questa produzione risulta il lucidissimo lavoro di postproduzione, in cui ogni velo di caratteristica strumentistica viene esaltato e reso nitido; ulteriore punto di merito è la meravigliosa impronta artistica e culturale degli Atrorum che hanno, in questo Structurae esaltato le loro composizioni poetiche con un songwriting in sette lingue diverse: inglese, francese, tedesco, russo, spagnolo, latino e greco per esplorare concettualmente la struttura e la capacità razionale e non della mente umana.

TRACKLIST
1.Menschsein
2.Große weiße Welt
3.Amapolas
4.Ψαλμός
5.Camouflage
6.Verfugung
7.Équipartition
8.Regnum Caelorum

LINE-UP
Umbra
Vatros

ATRORUM – Facebook

Black Oath – To Below And Beyond

Tra i solchi, ma specialmente nelle atmosfere del nuovo lavoro dei Black Oath, passano davanti a noi spiriti riporati dall’aldilà, incantatori e ministri di altari esoterici che hanno ispirato band del calibro di Death SS, The Black e Paul Chain.

Non è la prima volta che parlando di un album mi ritrovo a fare riferimento alla scena dark italiana, una fonte di ispirazione inesauribile, nella musica come nel cinema, specialmente negli anni settanta e ottanta, con artisti diventati oggetto di culto in tutto il mondo e punto di riferimento per chi non si accontenta di opere usa e getta, ma affascinato dall’arte,esplora l’underground, in questo caso quello del metal doom, colmo di riferimenti all’oscuro mondo dell’occulto.

L’Italia (fortunatamente) non è solo il paese dei talent show o dei film dei Vanzina, nel suo dna risiede una forte tradizione mistico occulta, esplosa negli anni settanta con registi che hanno fatto scuola, insegnando cinema horror a tutto il mondo.
Se poi, come in questo caso si parla di musica, l’importanza delle nostre band, nel dark/prog così come nel metal classico ed estremo diventa esponenziale.
I milanesi Black Oath portano avanti la tradizione italica nel genere da quasi dieci anni, il loro esordio omonimo uscì due anni dopo la fondazione in formato ep, poi altri lavori minori e due full length The Third Aeon del 2011 e Ov Qliphoth and Darkness licenziato due anni fa.
Metal classico, accenni al doom e tanta atmosfera dark sono le principali caratteristiche del sound di questo bellissimo lavoro, che affonda le radici nel dark metal prog nazionale, colmo di stupende ed oscure melodie vintage, un viaggio mistico nella musica esoterica, presi per mano dalla splendida voce di A.Th, sarcedote di questa liturgia occulta che per quasi un’ora ipnotizza e seduce.
Molto scorrevole, complice un songwriting maturo ed ispirato, To Below And Beyond è la classica opera senza tempo, lontana da facili estremismi, ma ben consolidata nella parte oscura dell’heavy metal classico, dove torna ad avere importanza nel sound, sua maestà il riff, potente e melodico, cadenzato nel suo lungo incedere e valorizzato da solos che escono dal mondo oscuro ammalianti e tragici.
Non un brano che scende sotto una media che rimane altissima per tutta la durata del lavoro, tenendo l’ascoltatore incollato alle cuffie, perso nelle atmosfere messianiche di songs come I Am Athanor, l’enorme Flesh To Gold, la più doom oriented del lotto e la grandiosa title track, monumento all’heavy/dark esoterico e occulto.
Tra i solchi, ma specialmente nelle atmosfere del nuovo lavoro dei Black Oath, passano davanti a noi spiriti riportati dall’aldilà, incantatori e ministri di altari esoterici che hanno ispirato band del calibro di Death SS, The Black e Paul Chain.
Un’opera nera che non deluderà gli amanti del genere , il più underground ed affascinante di tutte le varie anime della musica metallica.

TRACKLIST
1. Donum Dei
2. Wicked Queen
3. I Am Athanor
4. Mysterion
5. Flesh to Gold
6. Sermon Through Fire
7. Healing Hands of Time
8. To Below and Beyond (Ars Diaboli)

LINE-UP
A.Th Vocals, Guitars, Bass
Chris Z. Drums
B. R. Guitars

BLACK OATH – Facebook

Nocturnal Degrade – The Dying Beauty

The Dying Beauty ha tutte le carte in regola per soddisfare chi ricerca un approccio più emotivo che fisico al black metal

Terzo album per i Nocturnal Degrade, nati nati nello scorso decennio come progetto solista del musicista romano Cold, al quale ora si affianca il batterista M.VII.F.

I territori battuti in questo lavoro sono quelli del black metal di matrice nordica, con ampi riferimenti a Burzum ma con una decisa componente depressive che permea l’intero sound di un’aura di oscura e talvolta disperata malinconia.
L’opener Consequence è sufficientemente esemplificativa del contenuto di The Dying Beauty, con il suo incedere negli alvei della tradizione del genere sovente arricchita, però, da passaggi chitarristici che rimandano ad umori darkwave.
Se, come è naturale, il disco non apporta novità sostanziali a sonorità ampiamente codificate in passato, ciò che fa piacevolmente la differenza è la capacità di Cold di pervadere ogni brano di linee melodiche struggenti, che scavano tunnel di dolore all’interno delle montagne di riff e blast beat.
Se In December e Iceberg Of Memories ricalcano in qualche modo la pregevole struttura mostrata in Consequence, l‘anima dark emerge con prepotenza nella title track, traccia splendida e picco assoluto di un lavoro che riserva un’altra coppia di episodi meno convenzionali ma non per questo di minore interesse: Of My Soul and the Macrocosm e Celeste (Pale Blue Ocean) mostrano, infatti, due volti diversi della materia ambient, con la reiterazione di un dilatato fraseggio chitarristico nella prima e il delicato minimalismo della seconda, composta per l’occasione da Gianni Pedretti (Colloquio e Neronoia).
Cold riesce ad impirimere alla sua musica quell’intensità che spesso manca in interpretazioni del genere, dove l’attenzione alla forma porta inevitabilmente ad esiti intrisi di manierismo: anche se di durata inferiore ai quaranta minuti The Dying Beauty ha tutte le carte in regola per soddisfare chi ricerca un approccio più emotivo che fisico al black metal.

Tracklist
1. Consequence
2. In December
3. Of My Soul and the Macrocosm
4. Iceberg of Memories
5. The Dying Beauty
6. Celeste (Pale Blue Ocean)

Line-up:
Cold – all intruments
M.VII.F – drums

NOCTURNAL DEGRADE – Facebook

Mad Hornet – Would You Like Something Fresh?

Nel genere, i Mad Hornet sono una band dalle potenzialità enormi, davvero bravi quando sputano fuoco dai loro strumenti, eleganti ed emozionali nelle classiche ballad

Andiamo con ordine: i rockers pugliesi Mad Hornet, tra split e reunion sono attivi da quasi dieci anni, un passato demo ne aveva iniziato l’attività per poi, bloccarsi fino a due anni fa e riprendere le danze con una formazione rinnovata, che gira intorno al chitarrista Salvatore Destratis alias Ken Lance.

I ragazzi dell’Atomic Stuff, come falchi a caccia di prede, non si sono fatti sfuggire l’occasione di averli nella loro famiglia e così, questo ottimo esordio sulla lunga distanza, esce sotto l’etichetta bresciana, come sempre molto attenta alle realtà hard rock dalle buone potenzialità.
E il gruppo di Maruggio, paesino in provincia di Taranto, non delude con la sua proposta fatta di tanto hard rock statunitense sempre in bilico tra grinta e melodia, molto anni ottanta, ma fresco come il cocktail raffigurato in copertina, ultimo ricordo di un’estate ormai lontana, ed un inverno che Would You Like Something Fresh? scalderà a colpi hard rock.
Un’esplosione di watts e riff trascinanti si scambiano il testimone con ariose melodie, proprio come il genere vuole e noi non possiamo che sbattere la testa a ritmo delle dinamitarde Your Body Talks, Free Rock Machine e Game Of Death o innondare di lacrime nostalgiche il nostro viso con le bellissime Walking With You (In The Afternoon) e la conclusiva Roses Under The Rain, il tutto suonato alla grande e cantato con passione e bravura dall’ottimo Mic Martini.
Il gruppo ci sa fare, la sei corde di Lance, infiamma cuori e produce energia come un vulcano in eruzione, quando decide che è il momento di rockare, mentre la sezione ritmica il suo lavoro lo fa egregiamente, precisa e senza sbavature la prova del motore della band (El Piamba al basso e Neats Frank alle pelli).
Le influenze sono tutte da riscontrare nel periodo d’oro per i suoni hard & heavy d’oltreoceano, nel decennio ottantiano, anni di pantaloni di pelle che fasciavano ragazze dalle chiome leonine, e quel rock style mai dimenticato, frutto di vite vissute pericolosamente sul Sunset Strip.
Nostalgici? Forse, ma il feeling prodotto da songs come Blue Blood, o la carica di brani alla nitroglicerina come Raise’N’ Do It e la Van Halen oriented Pink Pants School sono patrimonio da conservare gelosamente per ogni rocker degno di questo nome.
Nel genere, i Mad Hornet sono una band dalle potenzialità enormi, davvero bravi quando sputano fuoco dai loro strumenti, eleganti ed emozionali nelle classiche ballad.
Rimane la soddisfazione di incontrare realtà nostrane sempre più sul pezzo quando si tratta di suoni hard rock classici, bravi!

TRACKLIST
1. Would You Like Something Fresh?
2. Your Body Talks
3. Dyin’ Love
4. Blue Blood
5. Free Rock Machine
6. Game Of Death
7. Raise ‘N’ Do It
8. Walking With You (In The Afternoon)
9. Pink Pants School
10. What Is Love [Haddaway cover]
11. Roses Under The Rain

LINE-UP
Mic Martini – Voice
Beats Frank – Drums
El Piamba – Bass
Ken Lance – Guitars

MAD HORNET – Facebook

.

ANTIMATTER

Uno stimolante scambio di opinioni con uno dei migliori musicisti in circolazione sul pianeta: il suo nome è Mick Moss e la sua cretura si chiama Antimatter … buona lettura

Uno stimolante scambio di opinioni con uno dei migliori musicisti in circolazione sul pianeta: il suo nome è Mick Moss e la sua creatura si chiama Antimatter … buona lettura

iye Ciao Mick. Parto subito con una domanda scontata che, per sua natura, spesso riceve risposte dello stesso tenore, ma ci provo lo stesso: benchè io adori tutti i dischi degli Antimatter, The Judas Table mi appare come il più completo o, quanto meno, quello che più di altri riesce a rappresentare al meglio ogni sfumatura delle tue doti compositive. Qual’è il tuo pensiero al riguardo ?

E’ possibile che tutto appaia molto più completo e meglio incastonato, proprio in seguito al percorso che è stato fatto finora, seguendo la stessa prassi. Folk acustico, classic rock, progressive, grunge, synth pop degli ‘80 e una piccola vena metal sono stati finora i parametri che hanno delineato il metodo compositivo: vale a dire che, nonostante il focus sul genere sia stato costantemente modificato, il processo è rimasto in questi anni identico. Volendo dunque puntualizzare gli aspetti nella loro complessità, sono assolutamente d’accordo sul ritenere The Judas Table un lavoro compatto nel quale si ritrova in egual modo ogni sfumatura artistica e musicale e quindi lontano da ogni precedente tentativo.

iye Da appassionato di doom, soprattutto quello nelle sue forme più emotivamente coinvolgenti (Saturnus su tutti), presentando ad un amico il vostro ultimo disco gli ho detto che, al di fuori di quel genere, gli unici in grado di farmi versare qualche lacrima durante l’ascolto sono proprio gli Antimatter. La sensibilità, la delicatezza che traspare dalle tue note, fotografa del tutto o in parte quello che sei nella vita di tutti i giorni, oppure questi sono lati del tuo carattere che vengono convogliati essenzialmente nella musica ?

Ti dirò che ogni album (e non credo valga esclusivamente per noi Antimatter) non è legato ad una scelta particolare se non a quella che scaturisce dal momento. Nonostante si possa avere una vaga idea strutturale non si può cambiare la mutevolezza creativa propria del processo: pensa infatti a quanto sia bello stupirsi con tutta una serie di sorprese che giungono inattese. L’unica certezza che ho risiede proprio nella sensibilità con la quale compongo i testi delle canzoni. Già l’accompagnamento della chitarra classica per gli arrangiamenti, seppur necessario, è in qualche modo costruito ed ha bisogno di potersi evolvere in modalità non scontate (semmai ricercate).
Quando compongo ho tutto quanto in testa, o per lo meno riesco a prevedere l’intero sviluppo dei brani: Hole, ad esempio, è nata acustica e così è rimasta ma, tutto sommato, senza forzature, si può anche permeare la cristallizzazione di una traccia a patto di non intaccarne la purezza.

iye Non sono l’unico a ritenere la tua voce una delle più evocative e coinvolgenti che ci è dato ascoltare: mi sono sempre chiesto come mai, nei vostri primi due album (Savior e Lights Out), le parti vocali fossero affidate quasi del tutto a delle cantanti. La vostra era una scelta condivisa oppure, in tal senso, era soprattutto Duncan Patterson a spingere in questa direzione ?

La risposta a questa domanda è quanto segue: metà di questo lavoro è stato programmato, scritto e registrato da me, e l’altra metà da lui. Ora, Duncan non è mai stato un cantante, proprio per questo motivo ha dovuto cercare chi potesse interpretare i suoi brani in studio al 100%, e l’essere influenzati da Massive Attack e Portishead portava inevitabilmente alla scelta di alternare una voce maschile a vocalizzi femminili: a lungo andare non si è trattato più di una semplice opzione, semmai di una questione di opportunità (vedi Angelic in Savior).
Planetary Confinement ha rappresentato quello snodo a seguito del quale le scelte successive sono davvero passate in secondo piano mentre, in maniera naturale, la situazione si è evoluta a favore della sua uscita. E lo dico senza fraintendimenti, ma in modo onesto e pacato.

iye A proposito di collaborazioni, la tua partecipazione lo scorso anno allo splendido album degli Sleeping Pulse, con il musicista portoghese Luis Fazendeiro, è stata una gradita sopresa capace di attenuare l’attesa di un nuovo lavoro degli Antimatter: come è stato, per una volta, interpretare brani composti da qualcun altro ?

Questa collaborazione è stata totalmente fuori dal mio controllo, ma mi ha galvanizzato proprio per la sua totale innovazione strutturale: Luis ha scritto la musica ed io i testi con le rispettive melodie vocali, in due sedi diverse e stimolati dalle reciproche influenze, e qualcosa nell’aria ha cominciato a prendere forma senza alcuna interferenza . Ottenute dunque le sue registrazioni ho iniziato a ricamare sul vestito i gioielli funzionali al concept. Tra l’altro non sapevo neppure che Luis fosse fan degli Antimatter fino a quando non ci siamo incontrati e questo ha reso ancora più vivo e intenso lo spirito che ha spinto entrambi ad insossare questo cangiante abito chiamato, paradossalmente, Sleeping Pulse, visto che di dormiente ha ben poco .

EMantimetter

iye The Judas Table ha come suo tema portante il tradimento; nella mia recensione ho provato ad accomunare tradito e traditore in una dolorosa sorte comune, specialmente quando quest’ultimo perpetra il suo atto in maniera superficiale senza pensare a tutte le conseguenze distastrose che provocherà, finendo poi per pentirsene amaramente. Ti senti di condividere almeno in parte questa mia visione ecumenica oppure ritieni che la ferita che subisce chi viene tradito sia insanabile e non ci sia spazio per alcuna forma di perdono ?

Da ciò che conosco sommariamente della natura umana c’è, e sempre ci sarà, una necessità di guarigione dal tradimento direttamente proporzionale alla quantità di violenza ricevuta. Personalmente posso perdonare ma non scordare quello che mi è stato fatto, fino a quando non avrò limitato il dolore dimenticando in parte il torto subìto. Ma non sono del tutto sicuro di ragionare con metodo, e rispondere ad una domanda non corrisponde esattamente a come ci si comporterebbe nella realtà: perdonare (e lo faccio quotidianamente …) i miei figli o qualcuno al quale sei legato, ha anche un valore proporzionale di affetto ed il perdono è vero e sentito. Qualcuno che improvvisamente compie un torto rientra in una zona non del tutto franca, nella quale le diverse sfumature del perdono operano in svariati modi ma, senz’altro, dimenticare la gravità di ciò che si è subito è tutt’altro affare.

iye Chi sono i musicisti che ti hanno aiutato ad apparecchiare “The Judas Table” ?

Questa volta ho deciso di coinvolgere i musicisti più che nei precedenti album, per i quali arrivavo già con le partiture da eseguire e addirittura con le registrazioni della drum-machine. Precedentemente ho sempre completato la demo e successivamente affidato ai vari musicisti le rispettive parti. La sezione ritmica è la medesima che si esibisce dal vivo (Liam e Ste, quindi), con l’affiancamento di Jennie che ormai conosco molto bene da anni. Da Planetary Confinement ho recuperato il violino di Rachel Brewster che mi è rimasto impresso per la sua leggerezza mentre, addirittura, per i chorus ho pensato di ricorrere a due chitarre aggiuntive Kevin Dunn (in Black Eyed Man e Integrity) e Dave Hall. Una meravigliosa crew con la quale lavorare assieme, dove ognuno contribuisce con i suoi diversi stili, in grado di creare un arcobaleno di colori inusuali e perfettamente equilibrati per l’album.

iye Pensate di girare un video anche per un brano tratto da The Judas Table? In caso affermativo sono curioso di scoprire quale verrà scelto. L’ideale corrispettivo di Uniformed And Black, secondo me, potrebbe essere Killer, anche se in realtà mi piacerebbe che lo faceste con Can Of Worms (quest’intervista esce dopo che, già da qualche settimana, è stato diffuso in rete il video tratto da Stillborn Empires, nda)

Si ! In effetti c’è una diretta corrispondenza, e non solo per il rimando melodico. Direi anch’io lo stesso per Can of Worms, ma non ho intenzione di inseguire dopo tre anni la stessa magia che si era creata con Uniformed and Black, brano unico nella sua evoluzione e quindi palesemente non riproponibile. Inoltre, anche se ci si proponesse la possibilità di avere una qualche eco radiofonica, non permetterei che l’album venga considerato alla stregua di un greatest hits, per cui preferisco di gran lunga un singolo che non lo sembri affatto e che si riveli accattivante solo dopo qualche ascolto, soprattutto in riferimento ai brani un po’ più catchy. Su questo posso apparire quasi intransigente, ma è necessario per non scendere troppo a compromessi.

iye Ringraziandoti per la disponibilità ti chiedo, infine, se avremo la possibilità di vedere gli Antimatter prossimamente in Italia; ricordo ancora con grande piacere il concerto di Romagnano Sesia del 2013 con i Swallow The Sun, quando ti eri esibito ugualmente benchè fossi reduce da un’operazione: nonostante si vedesse chiaramente che non eri al meglio della forma fisica, il vostro set era stato ugualmente di un’intensità unica.
Ho notato che nelle date già programmate il nostro paese non viene toccato, devo cominciare a preoccuparmi … ?

Abbiamo in mente di ritornare ad esibirci ad aprile con The Judas Tour (part II) in Italia, sperando in 3 date. Di più ora, al momento non posso dirti né sbilanciarmi come vorrei. Spero di certo che alcuni incidenti non ricapitino. Grazie ad ogni modo per le domande fatte!

Domande: Stefano Cavanna
Intervista e traduzione: Enrico Mazzone

Al Namrood – Diaji Al Joor

Questo stuzzicante connubio tra black metal e musica araba non è affatto qualcosa di banale, possa piacere o meno, e se sviluppato ulteriormente, potrebbe portare in tempi brevi a risultati sorprendenti.

Nel parlare di metal proveniente da paesi arabi, specialmente poi in questo caso che vede la band in oggetto arrivare proprio dall’Arabia Saudita (anche se ho la sensazione che la sua base sia altrove), in questi tempi grami è facile finire per occuparsi di questioni che esulano dal contesto prettamente musicale.

Cercherò quindi di non cadere in questa trappola, raccontando brevemente di questo quarto full length dei sauditi Al Namrood, autori di un black death fortemente influenzato dalle sonorità tipiche della loro area geografica.
Diciamo che l’interpretazione del genere non appare né raffinata né artefatta: il trio ci va giù bello pesante, ed anche le parti suonate con gli strumenti tradizionali (ad opera di Ostron) conservano un’aura selvaggia che le rende ancor più intriganti; detto del lavoro di mero accompagnamento di chitarra e basso, a cura dell’altro membro fondatore Mephisto, il ringhio di Humbaba è forse l’elemento meno convincente del contesto, visto che più che cantare strepita in lingua madre testi che, ahimè, sono di impossibili da comprendere senza una traduzione.
Non riesco darmene una spiegazione logica, ma dopo il primo ascolto di Diaji Al Joor ho pensato che dei Rammstein, risvegliatisi dopo un trip susseguente ad un’orgia dall’ambientazione araba, suonerebbero esattamente così, un po’ perché ogni tanto il vocalist può ricordare una versione più grezza di Lindemann, ma soprattutto perché si intravvede negli Al Namrood quello stesso spirito sardonico che è una delle più sottovalutate doti della grande band teutonica.
Detto ciò, anche se quaranta minuti non sono tanti, per godere appieno di questo lavoro è basilare apprezzare la musica tradizionale araba: io che, devo confessare, la digerisco sostanzialmente solo se assunta in dosi moderate, ho fatto una certa fatica a completare i diversi ascolti del disco, ma è innegabile che lo stesso racchiuda un suo fascino ancestrale che potrebbe non lasciare indifferente chi è alla ricerca di qualche sonorità estrema dai tratti meno convenzionali.
Rivedibile in certi passaggi dal punto di vista della produzione, Diaji Al Joor contiene alcuni brani killer, come il singolo Hayat Al Khezea o Zamjara Alat, ed è sicuramente un disco che lascia una certa acquolina in bocca alla luce del potenziale espresso degli Al Namrood: questo stuzzicante connubio tra black metal e musica araba non è affatto qualcosa di banale, possa piacere o meno, e se sviluppato ulteriormente, potrebbe portare in tempi brevi a risultati sorprendenti.
Da provare, senza pregiudizi.

Tracklist:
1. Dhaleen
2. Zamjara Alat
3. Hawas Wa Thuar
4. Ejhaph
5. Adghan
6. Ya Le Taasatekum
7. Hayat Al Khezea
8. Ana Al Tughian
9. Alqab Ala Hajar

Line-up:
Mephisto – Guitars, Bass, Percussion
Ostron – Keyboards, Percussion
Humbaba – Vocals

AL NAMROOD – Facebook

childthemewp.com