Abysmal Grief – Strange Rites of Evil

Strange Rites of Evil non delude, grazie ad un pacchetto di brani eccellenti che, pur restando entro schemi consolidati, regalano il tipico olezzo dolciastro dei fiori in decomposizione in piccoli cimiteri dimenticati e si rivelano l’ideale accompagnamento musicale di una danza macabra dei quali i nostri gli sono gli interpreti d’elezione.

Ritornano i necrofori del doom per riportarci di peso nel bel mezzo dell’umana tragedia connessa con l’ineluttabile momento del trapasso.

La formula della cult band genovese è ormai ben consolidata, tanto da costituire un ormai riconoscibilissimo marchio di fabbrica: le macabre tastiere di Labes C.Necrothytus occupano la scena punteggiata dallo stile vocale dello stesso, sorta di versione deviata di McCoy.
In quest’album, però, anche la chitarra di Regen Graves si ritaglia diversi nonché apprezzabili spazi solisti, in ossequio ad un mood per certi versi più diretto e meno ostico, pur con tutte le dovute distinzioni del caso: la sensazione è che gli Abysmal Grief releghino le proprie pulsioni sperimentali alle uscite di più breve minutaggio (EP o split) per rendere i full length mirati ad una fascia di ascoltatori che, oltre agli appassionati di doom, possa comprendere anche chi è avvezzo a sonorità horror-dark o a quelle progressive di matrice esoterica.
Strange Rites of Evil, quindi, non delude, grazie ad un pacchetto di brani eccellenti che, pur restando entro schemi consolidati, regalano il tipico olezzo dolciastro dei fiori in decomposizione in piccoli cimiteri dimenticati e si rivelano l’ideale accompagnamento musicale di una danza macabra dei quali i nostri gli sono gli interpreti d’elezione.
Gli Abysmal Grief in questi ultimi anni hanno intensificato la propria attività, sia in studio che dal vivo e, a tale proposito, segnaliamo che il ventennale della loro fondazione verrà onorato da un un tour europeo che partirà ad aprile in compagnia dei veneti Epitaph.

Tracklist:
1. Nomen omen
2. Strange Rites of Evil
3. Cemetery
4. Child of Darkness*
5. Radix malorum
6. Dressed in Black Cloaks

Line-up:
Regen Graves – chitarra, synth
Labes C. Necrotytus – voce, tastiera
Lord Alastair – basso
Lord of Fog – batteria

Blind Marmots – Blind Marmots

Il disco omonimo dei Blind Marmots potrebbe piacere agli amanti di vari generi, ma soprattutto a chi vuole divertirsi ascoltando musica che non appesantisce.

Nella vita bisognerebbe , almeno in teoria, prendere una decisione e schierarsi.

I Blind Marmots lo hanno fatto con decisione : fanno musica pesante e rumorosa, si drogano bevono e soprattutto sono molto autoironici. I ragazzi in questione sono veterani della scena alternativa padovana, e come loro stessi affermano erano partiti per suonare stoner rock e hard rock anni 70, poi gli abusi hanno preso il potere ed il tutto è diventato CrossStoner…
Cosa sarebbe lo crosS toner ? E’ un miscuglio di stoner, sludge, noise, grunge e qualcos’altro, suonato veloce e senza generi inibitori.
Sia quel che sia è la musica che fanno i Blind Marmots, ed è molto divertente e piacevole.
Nonostante molti cambi di formazione, e diverse vicissitudini i nostri sono arrivati a pubblicare questo primo disco, mettendolo in download gratuito sul loro bandcamp .
Come valore aggiunto i nostri sono molto auto ironici e ciò si riflette sui testi, che sono divertenti come la musica e soprattutto c’è aria di spensieratezza, e non è poco.
Il disco omonimo dei Blind Marmots inoltre potrebbe piacere agli amanti di vari generi, ma soprattutto a chi vuole divertirsi ascoltando musica che non appesantisce.
Un buon debutto.

TRACKLIST
1.LETHAL CYCLE OF THE MARMOT
2.TE SACO LA MIERDA
3.DESPISE
4.EAT THE MAGGOTS
5.INSIDE THE WOOD
6.KILL YOUR PARENTS
7.KALEIDOSOUP – MADCHILDREN

LINE-UP
carlo toffano – lead guitar
thomas corelli – guitar
ale “teuvo” segantin – voice
luca campagnaro – drums
pietro gori – bass guitar

BLIND MARMOTS – Facebook

The Ritual Aura – Laniakea

Se Da Focus, capolavoro dei Cynic, vi siete appassionati al genere, brani come Era of the Xenotaph, Precursor of Aphotic Collapse e Nebulous Opus Pt. II, vi faranno letteralmente sobbalzare dalla sedia spedendovi su una galassia sperduta.

Accompagnato da una bellissima copertina fantascientifica, irrompe sul mercato underground, il primo lavoro dei technical deathsters australiani The Ritual Aura (ex Obscenium), licenziato dalla Lacerated Enemy Records e stampato in edizione limitata a duecento copie.

Liniakea è un opera affascinante, composta da un sound progressivo che accomuna melodia e mood estremo, tecnica sopraffina ed impatto tellurico in un unica esplosione di note, violente e cerebrali, intricate ma allo stesso tempo mature, facendo della band una gran bella sorpresa per gli amanti di queste sonorità.
Ovviamente la tecnica dei musicisti è spaventosa: sezione ritmica da infarto, chitarra che illumina la scena con solos funambolici, growl tosto il giusto e orchestrazioni che a tratti regalano atmosfere sci-fi in un tripudio di cambi di tempo, dita che vanno su e giù alla velocità della luce, sul manico della sei corde con Nebulous Opus Pt, II che ruba la scena, song enorme per cui vale l’ascolto del disco, un susseguirsi di cambi di tempo, orchestrazioni bombastiche e chitarra che sfida lo spartito in una rincorsa a note perse nello spazio profondo.
Non un album “facile”, come del resto tutti i lavori che puntano molto sulla tecnica esecutiva, aiutato dal minutaggio ridotto ( venticinque minuti), però Laniakea si riesce a seguire nelle sue scorribande nel mondo delle sette note estreme, nobilitate da quattro musicisti superlativi e da reminiscenze progressive che ne ampliano il raggio d’azione.
Non solo estremismo sonoro dunque , ma musica che attraversa barriere, cavalcando una tempesta di suoni, umori e sensazioni, guidati da questi quattro musicisti disumani, al secolo Darren Joy al basso, Adam Giangiordano alle pelli, Levi Dale alla chitarra e Jamie Kay alle vocals.
Se da Focus, capolavoro dei Cynic, vi siete appassionati al genere, brani come Era of the Xenotaph, Precursor of Aphotic Collapse e la già citata Nebulous Opus Pt. II, vi faranno letteralmente sobbalzare dalla sedia spedendovi su una galassia sperduta. Consigliato.

Tracklist:
1. Mythos of Sojourn
2. Ectoplasm
3. Time-Lost Utopia
4. Era of the Xenotaph
5. Nebulous Opus Pt, I
6. Precursor of Aphotic Collapse
7. Erased in the Purge
8. Nebulous Opus Pt, II
9. Laniakea

Line-up:
Darren Joy – Bass
Adam Giangiordano – Drums
Levi Dale – Guitars
Jamie Kay – Vocals

Abysmal Growls Of Despair – Between My Dead

Gli elementi dronici si alternano ad un sound che è costantemente ripiegato su se stesso, chiuso in una posizione fetale

Hangsvart è un musicista francese che sicuramente non soffre di sterilità compositiva: con il suo progetto funeral doom Abysmal Growls Of Despair è già arrivato al sesto full length in circa due anni, oltre ad altrettante uscite tra ep e spilt album.

Se a questi aggiungiamo, poi, che il nostro tiene in vita altre one man band quali Plagueprayer, Catacombs e Hangvart, oltre a prestare la propria voce agli Ancient Lament e agli ottimi Arrant Saudade, il termine di stakanovista del funeral doom glielo possiamo benevolmente affibbiare.
Che non si faccia l’errore, però, di pensare ad una sorta di Buckethead del genere specifico: nel caso di Hangsvart non si tratta di mera logorrea compositiva come per il simpatico “testa di secchio”, bensì di un’indubbia prolificità che, per una volta, non porta ad alcuna dispersione di energie; Between My Dead è una dolorosa ed estrema espressione di disagio esistenziale che non lascia spazio alcuno a slanci melodici od aperture atmosferiche: l’orribile rantolo del musicista transalpino è la voce di una mente imprigionata negli abissi più profondi di una psiche in avanzato stato di decomposizione.
Il lavoro risulta inevitabilmente faticoso nel suo incedere e la conoscenza approfondita della materia è conditio sine qua non per la sua fruizione ma, fatte le dovute premesse, questa è una delle forme di funeral più essenziali e nel contempo ortodosse che si possano ascoltare.
Gli elementi dronici si alternano ad un sound che è costantemente ripiegato su se stesso, chiuso in una posizione fetale; due tracce mostruose, in tutti i sensi, come The End of Previous Life e The Feast, senza che vada trascurato il resto, bastano e avanzano per fare di questo disco un piccolo gioiello, sia pure nel suo risultare opacizzato ed oscurato dall’atmosfera caliginosa in cui è stato deliberatamente abbandonato.
Una prova micidiale, rivolta senz’altro a pochi audaci, ma vale davvero la pena di lasciarsi portare alla deriva dai mostri evocati da Hangsvart.

Tracklist:
1. Misanthropy
2. The End of Previous Life
3. New Begining
4. The Feast
5. Wake Up

Line-up:
Hangsvart – Everything

ABYSMAL GROWLS OF DESPAIR – Facebook

Halter – For The Abandoned

Nel mondo degli Halter c’è ben poco spazio per immagini colorate e buoni sentimenti: la realtà prefigurata dalla band russa è intrisa di un pessimismo che sfocia sovente in una cruda ed aspra misantropia.

Nel mondo degli Halter c’è ben poco spazio per immagini colorate e buoni sentimenti: la realtà prefigurata dalla gruppo russo è intrisa di un pessimismo che sfocia sovente in una cruda ed aspra misantropia.

Giunta al secondo album dopo Omnipresence of Rat Race del 2013, la band, se non muta sostanzialmente il proprio atteggiamento nei confronti dell’umanità e delle sue miserie, compie un deciso balzo in avanti dal punto di vista prettamente musicale, giacché il death doom scarno ed asciutto ma anche privo di particolari slanci, del precedente album, lascia posto ad una forma più elaborata con diverse aperture melodiche o riff relativamente fruibili, in grado di attrarre l’attenzione più agevolmente.
Nulla di nuovo, va sottolineato, ma con For The Abandoned gli Halter si allineano al livello medio delle produzioni del genere nel loro paese, che è decisamente elevato.
Dei 6 brani che compongono l’album due in particolare spiccano sugli altri: First Snow, che stempera la durezza di base del sound con passaggi più ariosi ed evocativi, e Keepers of Persistent War, che gode invece di una struttura per certi versi accattivante e che è la riprova di quanto sia in grado di fare la band russa nel momento in cui decide di aprirsi parzialmente a sonorità meno claustrofobiche.
Ma è tutto l‘album che si dimostra decisamente di un altro livello rispetto al predecessore (niente male anche l’incipit della conclusiva Ode To Abandoned); tutto sommato gli Halter riescono a differenziarsi dalle altre realtà del genere almeno a livello concettuale, laddove un atteggiamento complessivo in cui traspare una certa “pietas” nei confronti di chi è oggetto di un ineluttabile destino, viene in questo caso sopraffatto da un sorta di cinico disgusto nei confronti di un’umanità allo sbando.

Tracklist:
1. …of the Part of Nature
2. Hunters’ Brotherhood
3. First Snow
4. Pain Which Never Sleeps
5. Keepers of Persistent War
6. Ode to the Abandoned

Line-up:
Wad – Bass
VanesS – Drums
Igor – Guitars
Mid – Guitars
Alex – Vocals

A Dream Of Poe – An Infinity Emerged

Ritorno per Miguel Santos con i suoi A Dream Of Poe, giunti con An Infinity Emerged al secondo full length.

Il musicista portoghese, oggi di stanza ad Edimburgo, opera di fatto in maniera prevalentemente autonoma, avvalendosi solo del contributo di Paulo Pacheco per la stesura dei testi, di un vocalist (che, benchè non sia citato nelle scarne note a mia disposizione, dovrebbe essere il britannico Kaivan Saraei) e del tocco tastieristico del ben noto ospite Kostas Panagiotou (Pantheist).
Il sound degli A Dream Of Poe è un gothic doom che ha l’indubbio pregio di sfuggire ad alcuni dei cliché del genere, a partire proprio dall’uso della voce che, contrariamente alle attese, è agli antipodi dei canonici vocioni baritonali o dai tratti gutturali, attestandosi invece su tonalità decisamente suadenti e delicate.
Il tutto funziona piuttosto bene anche se, alla lunga, un minimo di fatica nell’ascolto affiora: infatti, se l’opener Egregore gode di splendide linee melodiche, impreziosite per di più da un bellissimo assolo di chitarra, i brani che seguono sono meno brillanti e qui, probabilmente, sarebbe servito davvero un timbro vocale più deciso rispetto a quello indubbiamente bello ma a tratti un po’ lamentoso esibito dal pur bravo Sarei.
Non escludo che la mia valutazione derivi da una forma involontaria di intergralismo, tipica dell’appassionato devoto ad un genere specifico, ma in un ambito sonoro come quello proposto dagli A Dream Of Poe fatico non poco a degirerire vocalizzi alla Bellamy come quelli che si manifestano in The Isle Of Cinder.
Detto questo, l’album è decisamente valido, pur se non scorrevolissimo, ma non dimentichiamo che abbiamo a che fare con un genere come il doom, per cui un po’ di fatica in più nel recepire la proposta musicale deve essere messa in preventivo.
L’ultima traccia, Macula, si rivela una nuova ottima testimonianza dell’abilità compositiva di Santos, che in questa occasione specifica riesce ad esibire compiutamente i diversi umori che vanno a comporre un quadro complessivo plumbeo ma nel contempo piuttosto delicato; le atmosfere evocate sono più malinconiche che disperate e sono volte al tratteggio di una tristezza diffusa ma non per questo meno logorante.
Proprio per questi aspetti, in generale l’approccio al genere di Santos non è affatto scontato e di questo gli va dato senz’altro atto; tutto sommato, An Infinity Emerged, per le sue carattersthe parrebbe più adatto a mio avvisi ai fruitori del doom di stampo classico che non agli estimatori del versante gothic death del genere.
Intrigante, avvolgente, formalmente ineccepibile, ma non ancora imprescindibile.

Tracklist:
1. Egregore
2. Lethargus
3. The Isle Of Cinder
4. Lighthouses For The Dead
5. Macula

Line-up:
Miguel Santos – All Instruments
Paulo Pacheco – Lyrics

Kaivan Saraei – Vocals
Kostas Panagiotis – Keyboards

A DREAM OF POE – Facebook

Circle II Circle – Reign Of Darkness

raccolta, aspettando una reunion che non sembra così lontana, dopo la spettacolare esibizione al Wacken e le dichiarazioni dei protagonisti.

E dopo Chris Caffery, rieccomi qui alle prese con un altro membro della famiglia Savatage : Zachary Stevens ed i suoi Circle II Circle.

Non sono poi così distanti i primi passi del gruppo americano che esordì dopo lo spilt dei Savatage nel 2003, con il bellissimo Watching In Silence, eppure siamo già al settimo lavoro, non pochi di questi tempi e sempre dotati di un’appeal ed una qualità di alto livello.
Ho sempre considerato Stevens un grande vocalist, potente ed espressivo, magari un po’ sottovalutato, ma importantissimo nello sviluppo del sound, nella seconda parte di carriera
della band del Mountain King, quella sinfonica e progressiva, la sua voce ben si adattava alla musica del gruppo statunitense, anche quando, come negli ultimi lavori, duettava con il redivivo Oliva, tornato a guidare la band dal capolavoro Dead Winter Dead.
I Circle II Circle, specialmente nei primi lavori, si erano allontanati da quel tipo di sound per un approccio più in your face, diventando album dopo album, una delle migliori heavy/power band d’oltreoceano, almeno per quanto riguarda il metal classico.
Da un po di anni Zack è tornato a fare l’occhiolino alla band madre, specialmente negli arrangiamenti e nell’uso di splendide orchestrazioni e già il precedente e notevole Seasons Will
Fall, raggiungeva picchi qualitativi che si avvicinavano non poco all’oscura e drammatica magniloquenza dei Savatage.
Reign Of Darkness riesce ad essere un’ottima via di mezzo, alternando stupende parti pianistiche ed ottime orchestrazioni, a cavalcate metalliche di power/U.S metal, come solo chi ha vissuto al fianco della famiglia Oliva può permettersi di suonare a livelli così alti.
Band formata come sempre da musicisti dall’alto spessore tecnico, con l’accento sull’ottima performance del tastierista Henning Wanner, ed una raccolta di songs che, in meno di cinquanta minuti soddisfano tutti i fans, sempre attenti ad ogni uscita che riguarda i protagonisti che gravitano intorno al mito Savatage.
Così già dall’intro orchestrale e all’opener Victim Of The Night, il salto nel power metal statunitense, impreziosito da nobili aperture pianistiche e bordate di U.S. metal classico è
assicurato: la sezione ritmica potente e durissima si scontra con bellissime parti classiche, col tono teatrale e drammatico marchio di fabbrica del gruppo, ed una manciata di brani sopra la media come Untold Dreams, Ghost Of The Devil (la più vicina al marchio Savatage di tutto il lotto), Deep Within e Sinister Love.
Stevens come al solito incanta: drammatico, passionale e profondo, la sua interpretazione è sempre una spanna sopra alla media dei vocalist del genere, riuscendo a dare un’anima ad ogni brano che dalla sua voce prende respiro, si nutre e vive tra luce e buio.
Reign Of Darkness risulta così un altro cd da includere nella vostra raccolta, aspettando una reunion che non sembra così lontana, dopo la spettacolare esibizione al Wacken e le dichiarazioni dei protagonisti, nel frattempo godiamoci questo ottimo lavoro.

TRACKLIST
01. Over-Underture
02. Victim Of The Night
03. Untold Dreams
04. It’s All Over
05. One More Day
06. Ghost Of The Devil
07. Somewhere
08. Deep Within
09. Taken Away
10. Sinister Love

LINE-UP
Zak Stevens – Lead Vocals
Mitch Stewart – Bass/Vocals
Christian Wentz- Guitars/Vocals
Bill Hudson – Guitars/Vocals
Henning Wanner – Keyboards/ Vocals
Marcelo Moreira – Drums

CIRCLE II CIRCLE – Facebook

Eye Of Solitude – Lugubrious Valedictory (Charity Single)

Questa non è una recensione, bensì un tentativo di sensibilizzare i nostri lettori affinchè contribuiscano alla raccolta fondi attivata dagli Eye Of Solitude e dalla Kaotoxin Records per aiutare le famiglie delle vittime della disgrazia avvenuta a Bucarest nella notte tra il 30 e 31 ottobre.

Questa non è una recensione, bensì un tentativo di sensibilizzare i nostri lettori affinchè contribuiscano alla raccolta fondi, promossa dagli Eye Of Solitude e dalla Kaotoxin Records, per aiutare le famiglie delle vittime della disgrazia avvenuta a Bucarest nella notte tra il 30 e 31 ottobre; infatti, durante il concerto dei Goodbye to Gravity in programma al Colectiv Club, 32 persone hanno perso la vita e 179 sono rimaste ferite a causa di un incendio provocato da alcuni fuochi artificiali e propagatosi rapidamente all’interno del locale.

Le sostanze tossiche rilasciate dai rivestimenti in poliuretano e l’impossibilità per gran parte dei convenuti (circa 400 persone, visto che l’evento era oltretutto gratuito) di abbandonare rapidamente la sala a causa della presenza di una sola uscita di sicurezza, hanno provocato questa terribile tragedia che ha scosso tutti gli appassionati di metal in ogni parte del mondo.
Ha colpito e commosso, inoltre, la sorte di questi due autentici eroi, Adrian Rugina (batterista dei Bucium) e Claudiu Petre (fotografo e blogger), che hanno perso la loro vita dopo averne salvate molte altre; non a caso il Presidente della Repubblica li ha insigniti alla memoria del grado di Cavalieri dell’Ordine Nazionale (messaggio ai benpensanti: quando pensate con disprezzo ai “metallari”, accomunandoli per comodità o ignoranza a quelle masse di decerebrati che si autodistruggono ogni fine settimana a forza di droghe sintetiche, tenete ben impressa l’immagine di questi magnifici ragazzi …)

Claudiu Petre e Adrian Rugina
Claudiu Petre e Adrian Rugina


La mobilitazione da parte della label di Lille e della doom band inglese, guidata dal musicista rumeno Daniel Neagoe, è stata immediata e ha fornito come frutto questo (manco a dirlo) splendido brano inedito che è disponibile per il download sul bandcamp della Kaotoxin (http://listen.kaotoxin.com/album/lugubrious-valedictory-charity-single): i proventi ottenuti tramite le offerte libere, rilasciate per l’acquisto, verranno interamente devoluti alle famiglie delle vittime della tragedia.
Per quel che vale, garantisco personalmente sulla trasparenza e sulla sincerità dell’operazione, avendo avuto la possibilità di apprezzare in questi anni la serietà e la sensibilità di ottime persone quali Nicolas Williart e Daniel Neagoe.
Di seguito trovate il comunicato della Kaotoxin e degli Eye Of Solitude: appassionati di doom, e non solo, fate la vostra parte !

Non è un segreto che sia Kaotoxin che Eye Of Solitude abbiano forti legami con la Romania: un membro dello staff Kaotoxin, Radu C., è nato in Romania e abbiamo avuto modo di visitare il paese con lui due volte, e stringere nuove amicizie ogni volta, mentre l’anima musicale degli Eye Of Solitude, Daniel N., anche se vive da tempo nel Regno Unito, è nato anch’egli in Romania e ha forti legami con la scena locale, avendo fatto parte di diverse band del suo paese d’origine, e cerca di suonarvi il più spesso possibile , come accaduto nel 2013 al Ghost Gathering con gli Eye OF Solitude o, più recentemente, la scorsa estate come session drummer dei Shape of Despair al Dark Bombastic Evening.

Subito dopo la tragedia, Daniel N. ha deciso che gli Eye Of Solitude avrebbero rilasciato un singolo in formato solo digitale per raccogliere fondi per le famiglie di quelli che, purtroppo, sono morti in questo tragico evento.

Ecco un messaggio da Daniel N.:
“A tutti gli appassionati di metal in circolazione: noi, come Eye Of Solitude, vogliamo mostrare il nostro sostegno e la solidarietà alle vittime dell’incendio al Colectiv Club e alle loro famiglie. Tra di loro vi erano vecchi amici, tra i quali le persone che hanno lottato per salvare quelli intrappolati dentro quell’inferno ardente, eroi che ora hanno lasciato nello sgomento famiglie, mogli, mariti, figli e figlie.
Questo non è un supporto da prendere alla leggera, si tratta di una sveglia e di un invito alla solidarietà. Questo è un momento in cui tutti dovrebbero fare mente locale cercando di immaginare l’inferno che questi eroi hanno attraversato per salvare gli altri. Vorremmo fare appello a tutti voi per contribuire ad aiutare le famiglie e chi ne ha bisogno in questo momento.

Con questa operazione benefica speriamo di raccogliere il più possibile ed inviare il denaro direttamente alle famiglie di coloro che perirono nella notte di venerdì 30 Ottobre 2015. Ricordatevi, fratelli e sorelle, siamo tutti nella stessa comunità, ed abbiamo il dovere di essere uniti e solidali. Ricordatevi di queste persone, che sono state mogli, mariti, padri, madri, figli, figlie; amici … per favore, facciamo qualcosa!
Grazie.”

La totalità dei fondi raccolti da Kaotoxin attraverso le vendite digitali del singolo Lugubrious Valedictory, un brano inedito di oltre 13 minuti appositamente composto e registrato per questa iniziativa di beneficenza, andrà direttamente agli Eye Of Solitude i quali rassicurano i fan sul fatto che il denaro verrà consegnato direttamente a quelli che ne hanno bisogno.

1. Lugubrious Valedictory

Music & lyrics by EYE OF SOLITUDE
Produced by EYE OF SOLITUDE
Executive Producer: Nicolas Williart for Kaotoxin Records
Reproduced with kind permission of Kaotoxin Publishing

EYE OF SOLITUDE
Daniel N. – vocals
Mark A. – guitars
Steffan G. – guitars
Chris D. – bass
Adriano F. – drums

www.eyeofsolitude.com

Slow – IV Mythologiae

Anche se a mio avviso Gaia riusciva a toccare con più continuità le corde dell’emotività, Mythologiae è l’ennesima dimostrazione di qualità da parte di un musicista unico e da preservare come patrimonio dell’umanità negli anni a venire …

Nuova uscita per il poliedrico musicista belga Déhà, oggi di stanza a Sofia dove è coinvolto in prima persona nella crescita di una scena bulgara che, anche grazie al suo impulso, denota un promettente fermento.

Quella esibita da colui che è dietro a progetti quali Deus, Merda Mundi, C.O.A:G., We All Die (Laughing), Imber Luminis e i più recenti Sources Of I, è l’incarnazione funeral doom denominata Slow, giunta con IV – Mythologiae al suo quarto atto, come si può facilmente arguire.
Déhà è ormai da diversi anni sinonimo di qualità, qualsiasi sia il genere prescelto per sfogare la sua incontenibile creatività, e questa nuova mastodontica opera della durata di un’ora esatta non fa eccezione: il disco è come al solito eccellente, ben suonato ed altrettanto ottimamente prodotto, e tutto sommato ricalca per contenuti e valore il precedente III – Gaia, dal quale differisce forse per una lieve attenuazione delle ruvidità, aspetto evidenziato da una certa preponderanza della componente ambient e dal frequente ricorso alle clean vocals.
Tutto ciò forse penalizza parzialmente quel pathos, quel senso di ineluttabilità che così si mostra solo a tratti nelle intense parti dominate da ritmi bradicardici e dal sempre efficace growl del musicista belga.
I – The Standing Giant, II – The Drowning Angel e IV – The Dying God sono strutturate in maniera simile, con una prima metà dai tratti liquidi ed atmosferici, minuti che trascorrono all’insegna di una pace apparente che prelude alle aperture drammatiche guidate da riff densi e diluiti, mentre III – The Suffering Rebel sfrutta maggiormente l’effetto evocativo della voce pulita in alternanza alla pesantezza del sound.
La pietra miliare, o meglio tombale, del lavoro è la conclusiva V – The Promethean Grief dove i conoscitori più esperti riconosceranno senza dubbio l’inimitabile growl di Daniel Neagoe, storico sodale del nostro in progetti magnifici quale Deos, Clouds e Vaer, nonché vocalist degli imprescindibili Eye Of Solitude; il brano si rivela un’ideale summa di quanto questa geniale coppia ha partorito in ambito doom estremo in questi ultimi anni.
Anche se a mio avviso Gaia riusciva a toccare con più continuità le corde dell’emotività, Mythologiae è l’ennesima dimostrazione di qualità da parte di un musicista unico e da preservare come patrimonio dell’umanità negli anni a venire …

1. I – The Standing Giant
2. II – The Drowning Angel
3. III – The Suffering Rebel
4. IV – The Dying God
5. V – The Promethean Grief

Line-up:
Déhà – all instruments, vocals

Daniel Neagoe – vocals on V – The Promethean Grief

SLOW – Facebook

Never To Arise – Gore Whores On The Killing Floor

Questo delirio estremo proviene dalla Florida, già di per se una garanzia se si parla di death metal e specialmente di brutal: tecnico, devastante, oscuro e violentissimo.

Questo delirio estremo proviene dalla Florida, già di per se una garanzia se si parla di death metal e specialmente di brutal: tecnico, devastante, oscuro e violentissimo.

I Never To Arise sono un duo composto da Gordon Denhart ( batteria programmata, chitarra e voce) e Michael Kilborn (chitarra solista e basso), sono al secondo lavoro dopo l’esordio Hacked to Perfection di tre anni fa e ripiombano sulla scena estrema con questo nuovo e massacrante album, Gore Whores On The Killing Floor, un micidiale esempio di death metal brutalizzato e tecnico, un uragano sonoro di dimensioni abnormi, cattivo, oscuro ma assolutamente imperdibile per chiunque si professi fan del genere.
Prodotto dai due musicisti e caratterizzato da un artwork che definire gore è un’eufemismo , l’album letteralmente travolge, forte di una potenza disarmante, un songwriting esagerato ed una tecnica invidiabile da parte dei due poco raccomandabili musicisti, veri torturatori di dolci donzelle e padiglioni auricolari.
Tutto rasenta la perfezione in questo lavoro, la batteria programmata su velocità da gran premio, su cui si staglia il gran lavoro delle sei corde, sia nelle ritmiche, che creano muri di impressionante sound estremo, sia nei solos, taglienti katane pronte allo scontro che tranciano, affilate come rasoi, amputano, tagliano ed infliggono torture mortali.
Colonna sonora delle aberrazioni umane, splendida glorificazione di morte e perversione, Gore Whores On The Killing Floor si bea di un songwriting esagerato, i brani si alternano uno più violento dell’altro, mitragliate e bombardamenti musicali che si scagliano sull’ascoltatore, aggredendolo, in un’orgia di note al limite, ed un’atmosfera da carneficina, decantata dal growl mostruoso del “buon” Denhart.
Uno più bello dell’altro i brani formano una suite del male, un’opera maledetta, dove, senza pietà i due musicisti ci chiudono nel loro nascondiglio e senza essere disturbati compiono le loro gesta a colpi di Butcher Knife Birth Control, Boiled Alive in Battery Acid, Severed and Embalmed e la conclusiva Last Supper.
Malevolent Creation, Cannibal Corpse, Six Feet Under, tanto per fare qualche nome e convincervi ad ascoltare questo ennesimo e bellissimo lavoro, che il metal estremo ha regalato nell’anno in corso.

Tracklist:
01. Butcher Knife Birth Control
02. Razor Sliced Hemophiliac
03. Fornicating in the Blood of the Mutilated
04. Boiled Alive in Battery Acid
05. A Most Unwilling Organ Donor
06. To Cum Is To Die
07. Open Heart Punching Bag
08. Severed and Embalmed
09. Anatomically Pulverized
10. Last Supper

Line-up:
Gordon Denhart – Rhythm Guitars,Vocals, Drum Programming
Michael Kilborn – Lead Guitar,Bass

Enshine – Singularity

A Singularity non manca proprio nulla per entrare a far parte trionfalmente del novero dei migliori dischi di death doom del 2015, e neppure agli Enshine fa difetto quel talento necessario per elargire in maniera naturale le emozioni che vengono ricercate da chi ama queste sonorità.

Avviso importante per gli appassionati del death doom melodico: se aspettavate con ansia il nuovo (e monumentale, non fosse altro che per le sue dimensioni, trattandosi di un triplo album) lavoro dei Swallow The Sun, Singularity degli Enshine si rivela ben più di un estemporaneo palliativo, trattandosi di uno dei dischi migliori del genere ascoltati non solo in tempi recenti ma in assoluto.

Una sorpresa? Non proprio, considerando che già il precedente Origin (2013) aveva convinto non poco e che lo stesso Jari Lindholm, solo qualche mese fa, aveva dato alle stampe un altro album superbo come Aphotic Veil, questa volta con l’insegna Exgenesis in compagnia del vocalist colombianoAlejandro Lotero (senza dimenticare il suo contributo all’unico parto su lunga distanza dei misconosciuti Slumber, l’eccellente Fallout del 2004)
Negli Enshine il polistrumentista svedese si avvale invece dell’ugola di una vecchia conoscenza della scena doom europea, Sebastien Pierre, già noto per il suo operato nei purtroppo disciolti Inborn Suffering e nella prima incarnazione dei Lethian Dreams; anche questa volta la spettacolare combinazione tra le partiture sonore di Lindholm e la voce del cantante transalpino si rivela irresistibile, rendendo Singularity l’ennesima preziosa gemma regalata da un genere musicale che continua ad estrarre emozioni a profusione dalla sua ideale cornucopia.
Rispetto agli Exgenesis il sound è più atmosferico, anche se i riferimenti ai più noti vicini di casa finlandesi sono sempre percepibili: quello che fa la differenza è un gusto melodico sorprendente, che si amalgama in maniera superba con i riff rocciosi ed il growl di Pierre; di certo il tocco chitarristico di Lindholm funge da ideale trait d’union tra le sue band, che si rivelano alla fine complementari nell’esibizione delle rispettive sfumature stilistiche.
Tracce eccezionali quali Dual Existence, In Our Mind e Dreamtide sono quelle in cui vengono raggiunti i picchi melodici garantiti dagli struggenti assoli di chitarra, mentre in altri brani la durezza del death opprime la componente doom senza soffocarne il melanconico incedere (Resurgence, The Final Trance).
Non vengono meno, infine, elementi che si ricollegano alla ben radicata tradizione del death melodico scandinavo, specie per quanto riguarda i suoni di band di seconda generazione tipo Insomnium, e diversi sconfinamenti in territori post metal, in particolare nel magnifico strumentale di chiusura Aphex.
Insomma, a Singularity non manca proprio nulla per entrare a far parte trionfalmente del novero dei migliori dischi di death doom del 2015, e neppure agli Enshine fa difetto quel talento necessario per elargire in maniera naturale le emozioni che vengono ricercate da chi ama queste sonorità.

Tracklist:
1. Dual Existence
2. Adrift
3. Resurgence
4. In Our Mind
5. Astarium Pt. II
6. Echoes
7. Dreamtide
8. The Final Trance
9. Apex

Line-up:
Jari Lindholm Guitars (2009-present)
See also: Exgenesis, ex-Slumber, Seas of Years, ex-Brugden, ex-Atoma, ex-Needlerust
Sebastien Pierre Vocals (2009-present)

ENSHINE – Facebook

Avulsed – Altar of Disembowelment

Un gran bel lavoro, che conferma lo status della band spagnola e ci dà appuntamento al futuro album sulla lunga distanza che, visto lo stato di grazia qui dimostrato, promette scintille.

Che Dan Swanö sia il Re Mida del death metal degli ultimi vent’anni, non lo dice il sottoscritto ma tutta la musica di qualità che ha creato come musicista prima, ed i tanti capolavori in cui ha messo la sua esperienza ed il suo talento dietro ad un mixer, in seguito.

Fare un elenco degli ultimi album, tutti bellissimi, che hanno invaso il mercato negli ultimi due anni, toglierebbe un po’ d’attenzione a questo ultimo lavoro dei deathsters spagnoli Avulsed, in cui il genio svedese ha curato la masterizzazione ai rinomati Unisound Studios.
Così succede che il buon Swanö si ritrova a collaborare con un altro personaggio, degno di nota nella scena estrema Europea, Dave Rotten, cantante del gruppo madridista e manager della Xtreem music, etichetta spagnola specializzata in metal estremo, molto attiva a livello underground.
D’altronde gli Avulsed sono un monumento della scena death, non solo spagnola, da oltre vent’anni di attività e con una bella sfilza di lavori editi, di cui sei sono full length.
Accompagnato da una copertina di chiara ispirazione brutal, creata dall’artista Juanjo Castellano, Altar of Disembowelment è composto da quattro brani inediti, più la cover di Neon Knights dei Black Sabbath, ciliegina sulla torta di un ep clamoroso dove il gruppo amalgama il classico death metal dai rimandi brutal, amalgamandolo questa volta con richiami al genere, suonato su in Scandinavia nei primi anni novanta, per un risultato entusiasmante.
Come se, alle ritmiche e la struttura del brutal alla Cannibal Corpse, ci si aggiungessero chitarre di chiara impronta Entombed/Dismember, per un ibrido che ha nell’opener To Sacrifice And Devour, la massima espressione.
La band, in piena forma, non fa mancare ritmiche veloci e potenti, Rotten sfodera la solita prestazione da urlo con il suo growl cavernoso e brutale, mentre stop and go, ripartenze fulminee e rallentamenti monolitici sono l’arma con cui il gruppo non fa prigionieri (Red Viscera Serology).
Ma, questa volta sono le chitarre a fare la differenza (Jose “Cabra” e Juancar), assassine, taglienti, ma capaci di aperture melodiche che fanno rizzare le orecchie e spalancare bocche (Ceremony Of Impalement) in una tempesta di suoni old school valorizzati dal lavoro in studio (registrazione e missaggio in balia di Raúl Fournier agli Overhead Studios).
Tremble In Darkness continua imperterrita la mattanza e la citata cover dei Sabbath, impreziosisce un gran bel lavoro, che conferma lo status della band spagnola e ci dà appuntamento al futuro album sulla lunga distanza che, visto lo stato di grazia qui dimostrato, promette scintille.

Tracklist:
01. To Sacrifice And Devour
02. Red Viscera Serology
03. Ceremony Of Impalement
04. Tremble In The Darkness
05. Neon Knights (Black Sabbath)

Line-up:
Dave Rotten: Vocals
Cabra: Guitar
Juancar: Guitar
Tana: Bass
Erik: Drums

Stormy Atmosphere – Pent Letters

Pent Letters è opera di musica progressive dove strepitose parti sinfoniche, atmosfere gotiche ed elettrizzante metal, formano un caleidoscopio di suoni, un clamoroso tuffo nella parte nobile della nostra musica preferita.

Opera mastodontica, questo secondo lavoro della band Israeliana, al secolo Stormy Atmosphere, in attività dal 2002, ma con solo due lavori licenziati: il primo, ColorBlind del 2009 e appunto questo maestoso Pent Letters.

Prendendo spunto da una manciata di capolavori letterari come Il ritratto di Dorian Grey di Oscar Wilde, Il Conte Di Montecristo di Dumas ed Il Faust di Goethe tra gli altri, la band costruisce un’opera di musica progressive dove strepitose parti sinfoniche, atmosfere gotiche ed elettrizzante metal, formano un caleidoscopio di suoni, un clamoroso tuffo nella parte nobile della nostra musica preferita, interpretata in modo strepitoso dai musicisti del gruppo, protagonisti di prove da urlo, valorizzate da emozionati brani, dove la teatralità prende il sopravvento e si alterna con mirabolanti vortici di musica progressiva.
Impreziosito dal contributo di Tom S. Englund, vocalist degli Evergrey, l’album vive come un’opera teatrale, davvero interpretata dai due vocalist del gruppo: la stupenda
Dina Shulman, dotata di un’ugola strepitosa e carismatica che letteralmente ipnotizza l’ascoltatore e l’ottimo Teddy Shvets, protagonista di una prova emozionale, mattatore tanto quanto la sua partner, con duetti che lasciano a bocca aperta, così che, chiudendo gli occhi vi ritroverete al cospetto di un palco, con i due vocalist a dispensare perle di recitazione, in una rappresentazione teatrale entusiasmante.
Il sound su cui è strutturato Pent Letters, non può che correre dietro ai due assi al microfono, una sinfonia progressiva alimentata da soluzioni metalliche, ed atmosfere gotiche, dove i musicisti del gruppo danno sfoggio di una maestria elevata, anche se è la musica che in Pent Letters incanta, calda, ricca di cambi repentini di atmosfere, fughe tastieristiche, sinfonie operistiche, solos che sparano lingue di fuoco, ritmiche veloci come il vento, o intricate come la tela di un ragno, che creano attimi entusiasmanti, costringendo i generi di cui l’album si nutre ad allearsi per far risplendere la musica di Pent Letters.
D’altronde non si può rimanere indifferenti alle trame di cui sono composti brani esagerati come Science Fiction, Historical Adventure, The Menippeah (epica, operistica, un capolavoro), Tragic Play (metallica, debordante e bombastica), songs che valorizzano un’opera che interamente incanta.
Ayreon, Dream Theater, la Turunen solista, Evergrey e Within Temptation, prendete i gruppi e gli artisti in questione, amalgamateli sapientemente ed avrete una minima idea di quello che vi aspetta all’ascolto di Pent Letters … il resto lo mettono i fantastici Stormy Atmosphere.

Tracklist:
1. Afterlight
2. The Way Home
3. First Day
4. Science Fiction
5. First Year
6. Historical Adventure
7. Hour
8. The Menippeah
9. While
10. Suspense
11. Gothic Dread
12. Decennary
13. Tragic Play
14. Outcome
15. Time

Line-up:
Teddy Shvets – Vocals
Dina Shulman – Female Vocals
Stas Sergienko – Guitars
Eduard Krakov – Keyboards
Max Man – Bass

Skepticism – Ordeal

In un mondo che si muove a velocità parossistica e senza una direzione precisa, questi bizzarri e geniali musicisti fissano un punto d’arrivo ben preciso, un non luogo con il quale tutti, prima o poi, dovremo fare i conti

Dopo sette anni tornano a far sentire la loro voce i finlandesi Skepticism, considerati a pieno titolo quali veri e propri padri putativi del funeral doom .

Ordeal è solo il quinto full length in una carriera ultraventennale, ma tra questi (Stormcrowfleet, Lead And Aether, Pharmakon e Alloy) non ce n’è uno che possa essere definito trascurabile, essendo ognuno di essi una pietra miliare del genere, e non solo.
Gli Skepticism sono, quindi, tra quelli che hanno contribuito a dar vita a questo movimento musicale e, pur essendo di poco posteriori come nascita ai connazionali Thergothon, a differenza di questi nel corso degli anni hanno continuato a spargere il lugubre seme del funeral, senza curarsi di scadenze od obblighi contrattuali, semplicemente lasciando che la musica sgorgasse in maniera spontanea.
Ordeal è stato registrato dal vivo a Turku nel gennaio di quest’anno ed esce quindi nel doppio formato in cd/dvd; inutile dire che poter assistere all’incisione dal vivo di un disco di inediti, per di più in odore di capolavoro, non è cosa di tutti i giorni e, nonostante l’invidia provata nei confronti dei presenti all’evento, la possibilità di godere anche delle immagini è un regalo inatteso quanto prezioso.
L’impatto emotivo viene accentuato dalle immagini che riprendono i nostri nella solita configurazione sul palco, con Eero Pöyry alla sinistra degli spettatori a riempire l’aria delle note solenni del suo organo, il carismatico Matti Tilaeus al centro a ringhiare nel microfono e Jani Kekarainen a destra a tessere assoli dolenti con maggior continuità rispetto al passato, sintomo di un parziale addolcimento del sound che sposta il genere su coordinate ancor più melodiche.
Abbigliati come orchestrali reduci da una sbronza che si ritrovano sul palco di un teatro deserto, gli Skepticism suonano la loro musica che scava nelle pieghe più profonde della psiche, tracciando per i vivi un consolatorio quanto ineluttabile cammino verso la fine e regalando, soprattutto, ai posteri un’opera fondamentale che annulla come per incanto questi sette anni nei quali la loro mancanza si è fatta decisamente  sentire.
L’intesità di Ordeal è qualcosa di difficile da spiegare a parole, ogni brano vive sulla tragica contrapposizione tra la solennità delle tastiere e la melancolica dolcezza della chitarra, sulle quali si staglia il growl del funesto cantore Matti.
You è la prima perla offerta che diviene un tutt’uno con Momentary, al termine della quale si sentono i primi timidi applausi di un pubblico annichilito da cotanta bellezza; The Departure è quello che, in un disco “normale”, potrebbe essere considerato il potenziale singolo, grazie al suo afflato melodico superiore rispetto alla media, almeno per gli abituali canoni della band finnica.
March Incomplete è la trave portante del lavoro, trattandosi “semplicemente” di uno dei brani più intensi e commoventi che abbia mai ascoltato: risulta uno sforzo vano quello di tentare di ricacciare indietro le lacrime, che sgorgheranno copiose quando nella parte centrale un crescendo irresistibile condurrà Jani Kekarainen a suonare l’assolo più bello della sua carriera.
E, paradossalmente, questo è l’unico peccato di un lavoro pressoché perfetto, perché dopo una tale meraviglia tutto ciò che ne segue finisce per soffrire del confronto, anche se The Road, Closing Music e Pouring, con le sue atmosfere da tregenda, sono brani che presi singolarmente farebbero la fortuna di qualsiasi altra band.
L’album si chiude come meglio non si potrebbe con la riproposizione della magnifica The March And The Stream, in origine seconda traccia di Lead And Aether.
In un mondo che si muove a velocità parossistica e senza una direzione precisa, questi bizzarri e geniali musicisti fissano un punto d’arrivo ben preciso, un non luogo con il quale tutti, prima o poi, dovremo fare i conti; percorrere questo doloroso cammino in compagnia degli Skepticism sarà meraviglioso e straziante allo stesso tempo.

Tracklist:
1. You
2. Momentary
3. The Departure
4. March Incomplete
5. The Road
6. Closing Music
7. Pouring
8. The March and the Stream

Line-up:
Lasse Pelkonen – Drums
Jani Kekarainen – Guitars
Eero Pöyry – Keyboards
Matti Tilaeus – Vocals, Keyboards, Percussion

SKEPTICISM – Facebook

Mattia Gosetti – Il Bianco Sospiro Della Montagna

A tratti epico, Il Bianco Sospiro Della Montagna, cresce col passare dei minuti ed accentua la vena drammatica della storia, le sinfonie si fanno sempre più pressanti fino all’epilogo, dove non manca la speranza, quel mood positivo che dà la forza per ricominciare

Premessa: se siete appassionati di musica, cioè quella sublime ed emozionante sequenza di note che portano a sognare o per meglio dire, entrare in un mondo parallelo, che viaggia a fianco ma molto distante dalla, troppe volte, cinica e faticosa vita reale, allora quest’opera d’arte (perchè questo è) concepita da Mattia Gosetti, non potrà che esaltarvi, commuovervi, farvi vivere più di un’ora tra le delicate ma insidiose atmosfere montane: quei monti dove l’artista è nato e cresciuto e che vengono glorificate dal talento suo e dei musicisti protagonisti di questa opera tra tradizione e rock, folk e sinfonie, immersi nel paesaggio silenzioso e ovattato delle alpi bellunesi.

Il concept tratta la storia di un brigante ribelle, in lotta per la libertà del suo popolo e che tra le montagne combatte contro i signori della guerra, così come fece la nostra gente di montagna, tanti anni fa, difensori di labili confini ma non solo, di una nazione intera e che i nostri monti raccontano ad ogni passo, tra i bellissimi sentieri e i paesaggi di cui veniamo circondati ogni qualvolta le nostre mete e il nostro sguardo si spostano a nord.
Mattia Gosetti dimostra, ancora una volta di essere un musicista, ma sopratutto un compositore straordinario, accompagnato come sempre dalla splendida voce di Sonia Dal Col e da una manciata di musicisti oltremodo fantastici.
Un’operetta la chiama lui, uno stupendo affresco di musica universale che trasuda rock ma viene nobilitato da orchestrazioni e sinfonie, in un panorama tragico, drammatico, ma anche fiabesco, dove il candido colore della neve che scende copiosa riempe narici di aria gelida, così come i camini accesi di chalet persi tra i boschi e sicuri nascondigli per il brigante, si fanno caldi ripari dove l’aria e pregna dell’odore di legna che arde e riscalda, cuoce e abbraccia in caldi momenti di riposo.
La musica, la parte più importante, è emozionante tanto quanto la storia, l’orchestra e gli strumenti rock si alleano per donare una sequela di sfumature che con il passare dei minuti si fanno sempre più intense, i vari passaggi cantati a più voci tengono l’ascoltatore incollato alle cuffie, perso nelle trame di una storia affascinante, propio per il contesto originalissimo creato da Gosetti.
Il Bianco Sospiro Della Montagna è composto da diciotto movimenti: quasi inutile per un’opera del genere citare  dei titoli, anche se la poesia che sprigiona La Grande Nevicata mette i brividi, lasciando che i fiocchi si posino sul vostro stereo, mentre la splendida voce della Da Col colma il gap tra il vostro divano e le valli montane, circondate dal generale inverno.
A tratti epico, Il Bianco Sospiro Della Montagna, cresce col passare dei minuti ed accentua la vena drammatica della storia, minuto dopo minuto le sinfonie si fanno sempre più pressanti fino all’epilogo, dove non manca la speranza, quel mood positivo che dà la forza per ricominciare: il sole fa capolino dalle alte vette, il bianco della neve lascia il posto ai mille colori della primavera, metafora di un nuovo inizio per gli uomini, uniti, insieme.
L’opera verrà trasportata sul palco non solo, come sembra, nella provincia di Belluno, e il sogno di Mattia si appresta a diventare realtà. Auguri!

TRACKLIST
1.I Viaggiatori delle Stelle
2.Al Di La Della Foschia
3.Lo Straniero Silenzioso
4.Il Bianco Sospiro Della Montagna
5.Il Veterano Ribelle
6.La Città Del Nord
7.La Gitana Sperduta
8.Donata A Me
9.L’Oste Irriverente
10.Un Giudizio Clemente
11.Le Stagioni Di Una Veranda
12.La Grande Nevicata
13.A Lume Di Candela
14.Fuga Tra Le Montagne Innevate
15.Un Gesto Libero
16.La Reliquia Si Rivela
17.Discesa Dalla Montagna
18.Un Ultimo Bianco Sospiro

LINE-UP
Mattia Gosetti
Sonja Da Col
Mauro Baldissera
Salvatore Bonaccorso
Roberto Cian
Denis Losso
Marco Busin

SIRGAUS – Facebook

Diaboł Boruta – Stare Ględźby

Tra le foreste dell’est europeo si aggirano i menestrelli Diabol Boruta

Tra le foreste dell’est europeo (in questo caso della Polonia) si aggirano i menestrelli Diabol Boruta al secondo lavoro, dopo l’esordio dell scorso anno (Lesny duch…) licenziato dalla Pure Steel che ne cura la distribuzione.

Una bella sorpresa per gli amanti dei suoni metallici amalgamati con la tradizione folk, questo nuovo lavoro, quasi interamente cantato in lingua madre, dalle atmosfere festaiole, da taverna persa nei meandri di foreste, in cui perdere l’orientamento è un attimo, ed essere attirati da folletti birichini in osterie scavate nei tronchi millenari di giganti ricoperti da dura corteccia è una piacevole fortuna.
Pinte di birra, femminee muse dai voraci appetiti carnali e tanto divertimento tra strumenti metallici che rendono la proposta del gruppo un’interessante mix di suoni fusi nell’acciaio o costruiti con i regali di madre natura, per una cinquantina di minuti di folk metal ben strutturato.
Non mancano brani dalla forte connotazione metallica, che si alternano ad altri più orientati verso quello già scritto da band ormai storiche del genere come i Korpiklaani e i Finntroll, il tutto preparato a dovere per un piatto ben condito.
La cover di Vodka dei menestrelli finlandesi fa bello sfoggio di se in Stare Ględźby, confermando la band di Jonne Jarvela come massima influenza del gruppo polacco che diverte, anche per un buon uso degli strumenti e le atmosfere metalliche che si avvicinano al death melodico, con l’uso di una voce alquanto aggressiva nelle parti, dove buone cavalcate metalliche accompagnano gli strumenti tradizionali per un’orgia di suoni folk metal.
Si avvicina il mattino, stravolti da una notte di canti, balli e sane bevute ci addormentiamo tra il seno prosperoso di una procace taverniera e l’alito alcolico di un compagno di sbronza, al risveglio rimane l’albero dove al suo interno non esiste che legno, un vago ricordo di festa pagana, ma sopratutto un’incudine posata sulla testa, benvenuti nel mondo dei Diabol Boruta e nella magia del folk metal.

Tracklist:
1. …poczatak
2. Epos
3. Perun
4. Kikimora i zboze
5. …trzcia w nocy…
6. Zency i Potudnica
7. Stare Gledzby
8. Srebrne Zmije
9. Bytem ongi Debem
10. Lesnik
11. Vodka
12. koniec…
13. Kikimora and the grain
14. Of the reapers and Field Maiden

Line-up:
Pawel Rudobrody – vocals, bass
Mirek “Miras” Mamczur – vocals, guitars
Michal “Balon” Balogh – drums
Dawid “Dejvid” Warchol – keyboards
Michal “Gilas” Wyrwa – guitars

DIABOL BORUTA – Facebook

Greus – Greus

Grassi giri di chitarra che si impastano perfettamente con una batteria incessantemente impetuosa ed incalzante.

I Greus sono un gruppo con un dna molto promettente e confermano quanto di buono ci si aspettava guardando la pur spartana line – up.

I Greus sono solo in due, ma che duo: Edu Rodriguez già batterisa nei Moho, nume tutelare dello stoner in terra iberica, e Ivan Ruiz in passato nei Moksha e nei guerrieri hardcore vecchia scuola XMilk, indimenticabili per furia e coerenza.
I due si sono uniti per far musica pesante con composizioni intricate ed assai intriganti.
Dopo poco più di due anni suonando solo dal vivo, si sono chiusi negli studi Cal Pau Recordings con il sig. Santi Garcia, mastro produttore di gran parte dei capolavori Bcore.
Il risultato è molto originale, distorto sia nel suono che nella composizione, davvero interessante e ricco di spunti.
I due musicisti in questione sono due persone che non vogliono e non devono dimostrare nulla, ma solo fare musica che li diverta e che possa divertire l’ascoltatore, e ci riescono in pieno.
Come recita il loro comunicato stampa, ed è raro dare ragione ad un comunicato stampa, i Greus fanno un album di cui Toni Iommi, almeno quello pre senescenza, ne sarebbe molto fiero e ci potrebbe anzi suonare.
Grassi giri di chitarra che si impastano perfettamente con una batteria incessantemente impetuosa ed incalzante.
Un disco oscuro che affascina e che fa venire voglia di camminare senza luce in bui cunicoli, labirinti creati dalla nostra mente. In questo disco omonimo però non si trova solo l’oscurità ma anche tanta deviazione sonora ed imprevedibili costruzioni soniche.

Tracklist:
1 Brou De Cultiu
2 Engrudo
3 Mitocondria
4 El NO Yo
5 Cervical 3

Line-up
Edu Rodriguez – Drums.
Ivan Ruiz – Guitar.

GREUS – Facebook

Suma – Ashes

Ashes è un manuale di come dovrebbe comporre e suonare un gruppo sludge metal, incessante e potente, con riff megalitici che cadono come grosse pietre dal cielo, e non si può fare altro che fermasi e scuotere la testa ad un tempo che è differente da quello umano.

Ristampa del disco del 2010 da parte dell’ Argonauta Records, che grazie a questa operazione pone nuovamente l’attenzione su di un capolavoro della musica pesante.

Questo disco è una dichiarazione di guerra contro la gravità, mai suoni così pesanti hanno tanto elevato il nostro cervello.
Ashes è un manuale di come dovrebbe comporre e suonare un gruppo sludge metal, incessante e potente, con riff megalitici che cadono come grosse pietre dal cielo, e non si può fare altro che fermasi e scuotere la testa ad un tempo che è differente da quello umano.
Gli svedesi Suma sono uno dei migliori gruppi del loro genere, sia per i loro talento che traspare dal disco, sia per la magia della loro musica, che si avvicina a quella dei maestri Neurosis, non tanto per il genere, quanto per l’effetto divino.
Si è in piacevole soggezione ad ascoltare Ashes, e sinceramente non si trova un punto debole nel corso del disco.
Qui l’oltre è l’unica direzione e non ci si volta mai indietro. Andiamo un poco indietro ed ascoltiamoci o riascoltiamoci questa gemma, che ha visto anche la grande partecipazione di Billy Anderson e si sente la sua mano.
Grande ristampa per un’etichetta in forte e costante ascesa.

Tracklist
1. Headwound
2. Ashes
3. Orissa
4. Justice
5. War On Drugs

Line – Up
E
J
P
R

SUMA – Facebook

Gateway – Gateway

Un album sorprendente ed efficacenella sua cruda essenzialità.

C’è doom e doom: specialmente quando ci si addentra nei meandri più estremi del genere si possono rinvenire espressioni consolatorie e malinconiche, capaci di indurre alla commozione, ed altre che invece cercano senza alcuna mediazione di sprofondare definitivamente l’ascoltatore in un abisso putrescente.

Questo è appunto il caso dell’album d’esordio dei Gateway, one man band belga appannaggio del musicista di Bruges Robin Van Oyen: per approcciarsi a questo lavoro bisogna essenzialmente dimenticarsi cosa sia un suono limpido e perfettino, perché qui, per una quarantina di minuti, riff densi e riverberati conducono le macabre danze accompagnati da un growl inumano (magari reso tale da qualche aiuto tecnologico, ma chi se ne importa) per un risultato che fotografa perfettamente le tematiche orrorifiche inerenti il medioevo e, come anticipato dalla copertina, le efferate pratiche di tortura alle quali venivano sottoposti diversi sventurati.
Un difetto dell’album? La sensazione di ascoltare dall’inizio alla fine lo stesso brano; un suo pregio? Esattamente lo stesso, proprio perché per tutta la sua lunghezza si è sottoposti ad una sorta di apnea musicale dalla quale sembra di non poter mai uscire.
A livello di influenze dichiarate dal musicista fiammingo vengono citati nomi come Winter ed Autopsy, e fin qui ci siamo, mentre mi trova un po‘ meno d’accordo l’accostamento agli Evoken, in quanto la band di John Paradiso è portatrice di un sound molto più ortodosso e raffinato, al confronto; semmai l’andamento ritmico, le connotazioni horror e lo stesso ossessivo approccio, mi spingono audacemente a pensare ad una versione priva di tastiere dei nostri Abysmal Grief.
Vox Occultus, Impaled e Vile Tempress e la pietra miliare The Shores Of Daruk, nella quale affiora qualche accenno di melodia, sono i picchi di un album sorprendente ed efficace nella sua cruda essenzialità, da ascoltare preferibilmente a volume esagerato, pur sapendo che i vicini invocheranno molto probabilmente l’intervento di un esorcista …

Tracklist:
1. Prolegomenon (Intro)
2. Vox Occultus
3. Kha’laam
4. Impaled
5. Corrumpert Interludium
6. Vile Temptress
7. Hollow
8. The Shores of Daruk
9. Portaclus (CD bonus track)

Line-up:
Robin van Oyen – Everything

GATEWAY – Facebook

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