She Past Away – Narin Yalnizlik

Felice ritorno del duo turco in cui Volkan Caner e Doruk Ozturkcan riportano definitivamente la vena dark in onda, dopo un precedente tentativo da manifesto perfettamente riuscito: “Belirdi Gece”.

Effettivamente sembrano apparsi dalla notte per riappropiarsi delle voci spettrali in danze rituali oramai evaporate con l’uscita dalle scene dei co-fondatori. Dei Clan Of Xymox ritroviamo in questo album l’ossessivo beat elettronico delle tastiere e dai Cure gli arpeggi di chitarra ancora più puliti e raffinati dei precedenti lavori, tre in toto con l’Ep “Kasvetli Kutlama” del 2010. E’ finora il disco della maturità, ben cablato ed equalizzato nel suono che cristallino e cristallizzato riporta tutti quanti per strade nebbiose che 30 anni fa percorrevano cappe nere ed anfibi. L’album suona minimale eppure è perfetto perché completo: non potrebbe avere più concentrazione di quella che già emana dalla struttura dei brani , anche se in nome di uno stilema, perde qualche minore e quinta tonale, facendo più spettrale tutto ciò finora prodotto. Cosa permane è l’intreccio bilanciato tra la sensazione di malinconica caducità e l’atmosfera romantica come leitmotiv che finora brilla in ogni singola traccia scritta, cantata ed eseguita ad Istanbul, dopo il trasferimento da Bursa come paese nativo. Sarà la dissonanza e l’anacronismo spazio-temporale, ma questa formazione ha davvero tanto da proporre e nulla da invidiare a multiple realtà sparse in scene stereotipate per i sobborghi inglesi o polacchi dove la ripetizione rischia di debordare in un basso clichè che non regge affatto il significato originario di wave , dark o goth ovvero passione, pulsione e pozione.
Undici brani per 45 minuti in cui le delicate solitudini finiscono per ammorbidirsi in compagnia di qualcun’altra anima per trascendere le mancate compagnie durate anni. Grazie a li Turchi, mamma!

Tre date in Italia assieme ai Lebanon Hanover:
18.12.2015 Roma, Metamorfosi
19.12.2015 Torino, Cafe Liber
20.12.2015 Padova, Work In Progress

Tracklist
1.Soluk
2.Asimilasyon
3.Uzakta
4.Narin Yalnızlık
5.Hayaller?
6.Katarsis
7.Uçtu Belirsizliğe
8.Gerçekten Özleyince
9.Yanımda
10.Kuruyordu Nehir
11.İçe Kapanış II

Line-up:
Volkan Caner
Doruk Ozturkcan

SHE PAST AWAY – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=Ypq4Rz5qMqY

Sadist – Hyaena

I Sadist ci danno una dimostrazione di come si possa fare musica totale, travalicando generi e visioni ristrette per aprire veramente la mente, riuscendo a cogliere anche quello che c’è oltre ciò che vediamo.

Ascoltare i Sadist diventa una quaestio filosofica: siete pronti a viaggiare per lo spazio profondo o volete sentire un metal che avete già nella vostra testa?
La questione non è da poco.

I Sadist ci hanno abituato fin dagli albori della loro carriera cominciata nel lontano 1991 a volare molto alto, dischi come il primo “Above The Light” o il clamoroso “Tribe” ci hanno mostrato un modo differente di usare il metal come codice per legare culture molto differenti fra loro, e non nel significato dato dai Sepultura, perché i Sadist operano una sintesi a tutto tondo.
Questa volta la protagonista è la Hyaena e per estensione l’Africa, infatti troviamo anche l’ottimo percussionista senegalese N’Diaye che si unirà ai genovesi anche per i concerti dal vivo.
In questo disco la musica è un mezzo per viaggiare, e si ottiene un fusione di altissimo valore fra prog e metal, ma senza essere per questo un’opera prog metal, recinto che racchiude troppe vacche magre.
I Sadist ci danno una dimostrazione di come si possa fare musica totale, travalicando generi e visioni ristrette per aprire veramente la mente, riuscendo a cogliere anche quello che c’è oltre ciò che vediamo.
Hyaena ci porta in profondità, ricercando le nostre radici con un suono metal che si trasforma in prog e prog che si sublima nel metal, come una nave chi si adatta a seguire le onde.
Non esiste un solo pezzo scritto male od interpretato male, e la rete tessuta dai Sadist non si esaurisce con la fine della canzone ma va ben oltre. Tutte le canzoni sono state scritte da Tommy Talamanca che è uno dei migliori compositori musicisti che ci sia in giro. I testi sono stati scritti da Trevor, e sono unici come sempre. Parliamo un po’ di Trevor, perché in questo disco è in forma strepitosa, cantando oltre le già alte vette da lui toccate precedentemente, e con la sua voce dà un timbro preciso al disco.
Chi già conosce i Sadist sa che questo album sarà differente come tutti gli altri, sicuramente molto diverso dal precedente “Season In Silence” che era il loro lavoro maggiormente metal.
In Hyaena c’è tutto,ed è sicuramente l’album migliore dei Sadist, lo si ascolta in continuazione e se ne vuole ancora.
Torna il quesito posta all’inizio: volete viaggiare o rimanere a terra?

Tracklist:
1. The Lonely Mountain
2. Pachycrocuta
3. Bouki
4. The Devil Riding the Evil Steed
5. Scavenger and Thief
6. Gadawan Kura
7. Eternal Enemies
8. African Devourers
9. Scratching Rocks
10. Genital Mask

Line-up:
Trevor Sadist – Lead Singer.
Tommy Talamanca – Keyboards,Guitars.
Andy Marchini – Bass.
Alessio Spallarossa – Drums

SADIST – Facebook

Arrant Saudade – The Peace Of Solitude

Prodotto comunque superiore alla media, questo primo passo degli Arrant Saudade costituisce un buon viatico per la prosecuzione e lo sviluppo di questo progetto.

Arrant Saudade è l’ennesimo progetto che vede coinvolto Riccardo Veronese, uno dei principali protagonisti della scena Doom londinese.

Aphonic Threnody, Dea Marica e Gallow God sono band che abbiamo già trattato su queste pagine, tutte accomunate dalla presenza del chitarrista dalle chiare origini italiane.
La prima di queste, una delle migliori espressioni attuale del death doom continetale, annovera nella sua line-up anche il cileno Juan Escobar (Astorvoltaire, ma soprattutto vocalist dei magnifici e purtroppo non più attivi Mar De Grises), il quale anche qui accompagna Veronese occuoandosi di tutti gli strumenti ad eccezione della chitarra, assieme al vocalist francese Hangsvart, solitario protagonista di interessanti progetti quali Abysmal Growls Of Despair e Plagueprayer.
Questo stimolante mix di scuole e stili, pur sempre circostritto all’ambito doom, offre un frutto decisamente intrigante anche se non così prelibato come sarebbe stato lecito attendersi.
Nel lavoro, infatti, viene parzialmente meno quella linea continua di dolore ed oppressione che lo stesso Veronese era riuscito così bene ad evocare negli ultimi lavori degli Aphonic Threnody: una traccia magnifica come la lunga Drifting Reality non sempre trova il suo corrispettivo nel corso di un album che presenta più di un passaggio interlocutorio.
Forse è il mio pensiero di appassionato del genere ad essere troppo schematico, ma il brano appena citato contiene tutte le corrdinate ideali di ciò che dovrebbe scaturire dal funeral-death doom : una linea melodica, dolente e soffocante nel contempo, rotta solo da un growl impietoso e da improvvisi squarci di luce tremolante rappresentato dalle malinconiche pennellate della chitarra solista (a cura dell’ospite Josh Moran dei validi Vacant Eyes).
Decisamente meglio nella sua seconda metà (ottima anche la conclusiva No Dream Left in Me), The Peace of Solitude impiega un po’ troppo a decollare ma va detto che, quando ciò avviene, il palato degli intenditori viene decisamente appagato.
Prodotto comunque superiore alla media, il primo passo degli Arrant Saudade costituisce un buon viatico per la prosecuzione e lo sviluppo di questo progetto.

TRACKLIST
1. Only the Dead
2. Feel Like Your Shadow
3. The Peace of Solitude
4. Drifting Reality
5. No Dream Left in Me

LINE-UP
Juan Escobar – Bass, Drums, Keyboards, Vocals (backing)
Riccardo Veronese – Guitars
Hangsvart – Vocals

ARRANT SAUDADE – Facebook

Idolatry / Unrest – Infection Born of Ending

Uno split riservato agli amanti del true black metal, Infection Born of Ending è da evitare se non avete confidenza con il genere proposto.

L’etichetta Appalachian Noise Records ci presenta, in questo Split in edizione limitata a cento copie, due realtà oscure e misantropiche con base aldilà dell’oceano: i canadesi Idolatry e gli statunitensi Unrest.

La black metal band canadese è attiva da solo un anno e formata da ex membri di svariati gruppi della scena di Edmonton come: Ides of Winter, Helgrind, Dead Jesus e Spawned by Rot, ed hanno licenziato un ep omonimo di quattro brani nell’autunno dello scorso anno.
Il brano che presentano su questo split, dal titolo Clefs au Chambre de Tristêsse / …Once Thought of Webs è un buon esempio di black metal dal sound cadenzato, accelerazioni improvvise e claustrofobiche atmosfere oscure, vario nei suoi sette minuti di durata, mantiene alta l’atmosfera di decadente black metal, insano e satanico fino al midollo.
Il gruppo ha, dalla sua, l’esperienza underground dei protagonisti che, senza clamorose prestazioni fa capire l’ottima amalgama tra i musicisti e le buone potenzialità, che potrebbero regalare soddisfazioni nei prossimi sviluppi futuri.
Gli statunitensi Unrest provengono dall’Ohio e sono la one man band del polistrumentista Destroyer, risultano attivi dal 2004, ed hanno esordito lo scorso anno con il primo full length Isolation.
Odio, rabbia e distruzione per un brano (On Filth) di black metal scarno, corrosivo ed assolutamente Only For Fans, devastante nel suo approccio old school, ed alimentato da uno spirito hardcore che rende la proposta ancor più minimale.
Uno split riservato agli amanti del true black metal, Infection Born of Ending è da evitare se non avete confidenza con il genere proposto.

Tracklist:
Side A
1. Unrest – Of Filth
Side B
2. Idolatry – Clefs au Chambre de Tristêsse / …Once Thought of Webs

Line-up:
Idolatry
Lycaon Vollmond – Guitars
Daemonikus Abominor – Drums
Nox Invictus – Guitars
Lörd Matzigkeitus – Vocals

Unrest
Destroyer – Everything

Funerale – L’Inferno degli Angeli Appiccati

Il disco ha dalla sua quella patina di viscido e caliginoso anacronismo tale da renderlo, a suo modo, piuttosto affascinante, e passare sopra a certe imperfezioni può essere comunque più semplice per chi è del tutto a suo agio con queste sonorità.

Come ho già detto a proposito della quasi omonima band norvegese, scegliere Funerale come proprio monicker per dedicarsi al genere corrispondente può rivelarsi controproducente. Solo ad una band chiamata Death è riuscita l’impresa di identificarsi in maniera indelebile con un movimento musicale, ma questa è tutta un’altra storia.

Quella che ci interessa è invece relativa ai savonesi Funerale, nati nel 2011 dall’incontro di diversi musicisti coinvolti in progetti di matrice per lo più black metal, ma decisi a svoltare verso sonorità più plumbee adottando, così, un nome che non potesse lasciare alcun margine di dubbio.
Dopo un primo lavoro più conforme alla ragione sociale, l’album oggetto della recensione, uscito nel 2013, acquista umori diversi ondeggiando tra post metal e depressive, spostandosi in maniera abbastanza decisa dalle sonorità funeral cosi come siamo abituati a conoscerle.
L’inferno degli angeli appiccati è un album non privo di un suo fascino ma paga dazio ad una realizzazione minimale per arrangiamenti e produzione; l’uso della voce, accettabile ed appropriato quando è recitata o, comunque, semi-pulita, non è altezza delle uscite odierne nel momento in cui entra in scena un growl rantolante ma troppo piatto.
Peccato, perché i testi di Lev Byleth non sono affatto banali ma se, da una parte, la scelta di cimentarsi con la lingua italiana paga dal punto di vista di una comprensione immediata, dall’altra costringe il vocalist a forzature metriche non sempre efficaci.
Il disco comunque ha dalla sua quella patina di viscido e caliginoso anacronismo tale da renderlo, a suo modo, piuttosto affascinante, e passare sopra a certe imperfezioni può essere comunque più semplice per chi è del tutto a suo agio con queste sonorità.
Le cose sembrano funzionare meglio nei brani in cui si sceglie la strada di un sound più evocativo ed intimista (La ballata dell’odio) oppure allorchè l’influsso di una delle migliori band dei nostri tempi, gli Agalloch, si percepisce in maniera più decisa (L’inferno degli angeli appiccati).
Le sfumature depressive appaiono altresì valide, anche se si manifestano in maniera intermittente rendendo parzialmente disomogeneo il risultato d’insieme.
Infine, risulta coraggiosa e tutto sommato riuscita la “funeralizzazione” di una hit come Enjoy The Silence dei Depeche Mode.
Tirando le somme, questo album mostra diversi spunti apprezzabili ma è afflitto da altrettante approssimazioni che, quanto meno, depongono a favore di ampi margini di miglioramento da parte della band ligure; il fatto stesso che il lavoro risalga ormai a due anni fa, porta a pensare concretamente che una prossima uscita possa mostrare in maniera decisa quei passi avanti in grado di assecondare al meglio le buone intuizioni già messe sul piatto in quest’occasione.

Tracklist:
1. Cime abissali
2. L’inferno degli angeli appiccati
3. L’uomo solitario
4. La valle dei tumuli
5. La ballata dell’oblio
6. Spettri nella nebbia
7. Brezza dall’ignoto
8. L’ultimo solstizio
9. Anima condannata
10. Enjoy the Silence (Depeche Mode cover)

Line-up:
Knays – Bass
Lord Edward – Guitars
Deymous – Guitars
Lev Byleth – Guitars, Vocals

FUNERALE – Facebook

Soijl – Endless Elysian Fields

Promozione piena al primo tentativo per il bravo Mattias Svensson ed i suoi Soijl.

Mattias Svensson è un musicista svedese il cui nome è indissolubilmente legato alla sua presenza in veste di chitarrista ritmico nella line-up dei Saturnus che ha inciso il capolavoro “Saturn In Ascension”; tanto basta, forse, per rendere appetibile l’album d’esordio di questo suo progetto solista denominato Soijl che, volenti o nolenti, prende le mosse dal sound dei maestri danesi.

Ma il pedigree da solo non basta, servono anche le canzoni e quindi doti compositive non comuni ed è proprio grazie a questo che il buon Mattias, dopo aver arruolato il vocalist Henrik Kindvall, centra il bersaglio con Endless Elysian Fields.
Inevitabilmente, non appena la chitarra solista entra in scena, la mente corre al tocco di quello che è stato per qualche anno il suo compagno di avventura nei Saturnus, Rune Stiassny, ma non bisogna commettere l’errore di pensare ad un bieco lavoro di scimmiottamento (che, detto per inciso, a chi ama queste sonorità non può comunque dispiacere): i Soijl riescono spesso a fondere la dolente malinconia evocata dalla sei corde con tratti più minacciosi ed oscuri che rimandano oltreoceano ai magnifici Daylight Dies.
Questo connubio funziona perfettamente nel corso di un lavoro compatto nella sua ora scarsa di durata e capace di regalare i due brani migliori nei suoi estremi: la title track, posta in apertura, nella quale il vocalist sorprende con il suo growl davvero eccellente che solo a tratti riconduce a quello di Thomas Jensen (è più vicino, semmai, al ringhio di Paul Kuhr dei Novembers Doom), e la stupenda The Shattering, che chiude l’opera con la chitarra a tessere struggenti melodie.
Ma anche tutto ciò che sta nel mezzo è assolutamente degno di nota (ottime Dying Kinship, Drifter, Trickster e The Cosmic Cold), grazie ad umori che si avvicinano anche a due espressioni death doom di valore assoluto della scena svedese quali When Nothing Remains e Doom Vs.
Promozione piena al primo tentativo, quindi, per il bravo Mattias Svensson ed i suoi Soijl, e noi appassionati non possiamo che godere dei frutti prelibati che il rigoglioso albero dei Saturnus continua ad offrire …

Tracklist:
1. Endless Elysian Fields
2. Dying Kinship
3. Swan Song
4. The Formation of a Black Nightsky
5. Drifter, Trickster
6. The Cosmic Cold
7. The Shattering

Line-up:
Mattias Svensson – Guitars, Bass, Drums, Keyboards
Henrik Kindvall – Vocals

SOIJL – Facebook

Amorphis – Under The Red Cloud

Under The Red Cloud non deluderà i fans degli Amoprhis i quali troveranno, perfettamente al loro posto, tutti gli ingredienti che hanno fatto della loro musica uno dei migliori esempi di metal degli ultimi vent’anni.

Premessa: il nuovo album degli Amorphis, il dodicesimo per la precisione, ed il settimo dell’era Joutsen ( se consideriamo “Magic & Mayhem – Tales from the Early Years” del 2010 che vedeva il vocalist reinterpretare vecchi brani dei primi dischi) è un lavoro molto bello, che poco aggiunge ma, assolutamente, non scalfisce una discografia che, in vent’anni di onorata carriera, ha visto il gruppo finlandese esprimersi sempre ad alti livelli grazie ad una manciata di album da considerare sicuramente capolavori del death metal melodico scandinavo, anche se con un approccio al genere sempre personalissimo ed originale.

Progressive death metal, sempre colmo di riferimenti alle tradizioni del loro paese, un talento per la melodia straordinario e un nugolo di musicisti che, pur avvicendandosi nella line up, hanno mantenuto un livello tecnico altissimo, sono stati gli ingredienti per il successo della band fin dal lontano 1994, anno di uscita del secondo e meraviglioso “Tales from the Thousand Lakes”, seguito dal capolavoro assoluto “Elegy” (1996).
“Eclipse”, album del 2006 che segnava l’entrata in formazione dell’attuale vocalist, è stato per gli Amorphis un nuovo inizio: Joutsen, dotato di talento e carisma ha regalato al gruppo un vero frontman, mentre la discografia inanellava buoni lavori e nulla più, con l’eccezione dello spettacolare “Skyforger” del 2009.
Under The Red Cloud consolida una formula collaudatissima, marchio di fabbrica del gruppo, un’ora di immersione nel mondo prog/folk/death metal direttamente dalla terra dei mille laghi, pregno di stupende melodie, ottimamente prodotto e suonato, dove il vocalist continua imperterrito a regalare interpretazioni emozionali, alternando con la solita maestria ed eleganza, growl, scream e voce pulita (migliorata in modo esponenziale), tra digressioni di epico prog, sfuriate estreme e melodie estrapolate dalle tradizioni popolari della loro terra.
Niente di nuovo direte voi, vero, infatti il nuovo album pecca solo per un pilota automatico nel songwriting ormai lungi dall’essere disinserito, così che Under The Red Cloud risulta un album formalmente perfetto ma un pò freddino, piccolo difetto che non lo inserisce fra i capolavori della band, anche se, come già detto rimane un lavoro molto bello.
L’album vede come ospiti Chrigel Glanzmann degli Eluveitie al flauto e Martin Lopez (ex Opeth) alle percussioni e si snoda lungo un lotto di brani dal flavour epico su cui spiccano la stupenda Death Of A King, le arcigne Bad Blood e Dark Path, l’epicissima The Four Wise One e l’ipermelodica Sacrifice.
Gli Amorphis aggiungono un altro buon lavoro alla loro ormai considerevole discografia: Under The Red Cloud non deluderà i fans della band che troveranno, perfettamente al loro posto, tutti gli ingredienti che hanno fatto della loro musica, uno dei migliori esempi di metal degli ultimi vent’anni.

Tracklist:
1. Under the Red Cloud
2. The Four Wise Ones
3. Bad Blood
4. The Skull
5. Death of a King
6. Sacrifice
7. Dark Path
8. Enemy at the Gates
9. Tree of Ages
10. White Night

Line-up:
Jan Rechberger – Drums
Esa Holopainen – Guitars (lead)
Tomi Koivusaari – Guitars (rhythm)
Santeri Kallio – Keyboards
Niclas Etelävuori – Bass, Vocals (backing)
Tomi Joutsen – Vocals

AMORPHIS – Facebook

Atropas – Episodes of Solitude

Episodes Of Solitude è un buon lavoro, superiore a molti di quelli usciti nei circuiti mainstream, ed è assolutamente consigliato agli amanti del modern metal dal taglio core, i quali non devono lasciarselo sfuggire.

Episodes Of Solitude è la seconda, violentissima mazzata, creata dai pesantissimi Atropas, gruppo melodic/metalcore di Zurigo, nati nel 2011 e con alle spalle “Azrael”, primo lavoro datato 2013.

Siamo nei lidi metalcore, ipervitaminizzati da violentissime parti death/thrash, e attraversati da clean vocals melodiche e disperate in un clima di devastazione come ben rappresentato nell’artwork, che vede un uomo, solo circondato dal panorama apocalittico di una città distrutta.
Il sound del gruppo svizzero ha poco di originale, ma dal lato puramente metallico i fans del genere avranno di che gioire: ritmiche core, pesantissime, un growl dal timbro death che entra dentro le viscere e aperture melodiche, con ottimi solos dal taglio classico, sono le maggiori peculiarità della musica prodotta dalla band, un ottimo esempio di metal estremo moderno, dal forte impatto, aggressivo e con una vena di melanconica disillusione.
Prodotto benissimo, il suono dell’album esce come una tempesta di note cristalline e potentissime, il gruppo con gli strumenti ci sa fare e la sezione ritmica, varia, potentissima e dal groove micidiale (Kevin Steiger al basso e Sandro Chiaramonte alle pelli) risulta la gettata di cemento armato su cui i due chitarristi (Dave Colombo e Mahmoud Kattan anche al microfono) costruiscono riff devastanti e bellissimi solos, ora sanguinanti e taglienti, a tratti melodici e come detto, dal taglio classico, vicino al più puro death metal melodico.
Brani che alternano un mood classico, a devastanti parti di metalcore modernissimo, così che l’ascolto non annoia, continuando a girovagare spersi per le rovine della città distrutta, simbolo di un’umanità arrivata inesorabilmente alla fine e di cui Episodes Of Solitudes può senz’altro rappresentare la devastante colonna sonora.
Le influenze del gruppo sono ben riscontrabili tra le band storiche del genere, dai sempre presenti Pantera degli ultimi album, ai Machine Head e poi i gruppi del movimento “Core” degli ultimi anni.
Anche se alle prese con un genere che comincia a tirare leggermente la cinghia, gli Atropas risultano convincenti, dall’alto di una raccolta di brani che mantengono una buona media qualitativa dall’inizio alla fine con le ottime Lost Between Worlds, il singolo Crimson Zero, Hit the Floor e Alone che spiccano sulla scaletta dell’album.
Episodes Of Solitude è un buon lavoro, superiore a molti di quelli usciti nei circuiti mainstream, ed è assolutamente consigliato agli amanti del modern metal dal taglio core, che non devono lasciarselo sfuggire.

Tracklist:
1. Молотов
2. Lost Between Worlds
3. Crimson Zero
4. One Last Time
5. Take Me Home
6. Hit the Floor
7. Real Me
8. Alone
9. I Dreamed I Was Old
10. Closure

Line-up:
Kevin Steiger – Bass
Sandro Chiaramonte – Drums
Dave Colombo – Guitar
Mahmoud Kattan – Vocals & Guitar

ATROPAS – Facebook

Ten – The Dragon And Saint George

Sono tornati i Ten, a livelli molto alti e questo non può che far bene a tutta la scena hard rock melodica, bisognosa di una band guida per rialzare la testa.

Dopo moltissimi anni dall’ep che portava come titolo “Fear The Force”, opener del capolavoro “Spellbound” del 1999, i Ten dopo i due ottimi full length, usciti a distanza di sei mesi tra il 2014 e quest’anno (“Albion” e “Isla De Muerta”), confermano una ritrovata voglia di riprendersi lo scettro di regnanti sul melodic hard rock, tornando con questo altro lavoro breve, che ha il suo perno in The Dragon And Saint George, stupendo brano tratto dall’ultimo album.

Il nuovo lavoro è composto da sette tracce, di cui tre inediti, la title track e altri brani usciti come bonus sugli ultimi due album.
La nostra attenzione non può che cadere sulle nuove canzoni, che impreziosiscono e danno un senso a questa operazione, dall’alto della qualità superiore della musica composta dal buon Gary Hughes, tornato ai fasti dei primi lavori in quanto al valore del songwriting.
Musketeers: Soldiers Of The King sembra uscita dalle sessions di The Robe: epica, melodica, interpretata alla grande da uno Hughes stratosferico, tanto che mi chiedo come possa essere stata lasciata per un’uscita “minore”.
Hard rock dalle ritmiche grintose risulta Is There Anyone With Sense, dove Hughes entra con la sua calda voce, prima che uno dei ritornelli più belli degli ultimi anni alzi centimetri di pelle d’oca sulle braccia dell’ascoltatore.
Le chitarre (Dann Rosingana, Steve Grocott e John Halliwell) sono le protagoniste dei nuovi brani ed anche l’ultimo inedito (The Prodigal Saviour) lascia ad un riff fuso nell’acciaio, i primi secondi del brano, che risulta ritmicamente vario, prima che un refrain AOR torni all’hard rock ipermelodico, dove i Ten non trovano avversari.
Le altre tracce riempiono di splendida musica rock, questa mezzora scarsa di hard rock melodico tornato a risplendere nello spartito del gruppo britannico, una band fuori dal comune, anche quando la magia folk/epica di Albion Born (dal penultimo “Albion”) ci disegna nella mente verdi colline, dove guerrieri impavidi riposano le membra dopo una lunga giornata di battaglia, tra castelli a guardia di cristallini laghi persi nella bruma.
Sono tornati i Ten, a livelli molto alti e questo non può che far bene a tutta la scena hard rock melodica, bisognosa di una band guida per rialzare la testa.

Tracklist:
1.The Dragon And Saint George
2.Musketeers: Soldiers Of The King
3.Is There Anyone With Sense
4.The Prodigal Saviour
5.Albion Born
6.Good God In Heaven What Hell Is This(12 inch Picture Disc exclusive)
7.We Can Be As One (European Exclusive track to Isla De Muerta)

Line-up:
Gary Hughes – vocals, guitars, backing vocals
Dann Rosingana – Lead guitars
Steve Grocott – Lead guitars
John Halliwell – Rhythm Guitars
Darrel Treece-Birch – keyboards, Programming
Steve Mckenna – Bass guitar
Max Yates – drums and percussion

TEN – Facebook

MY DYING BRIDE – Intervista

In occasione dell’uscita dell’ultimo magnifico album dei My Dying Bride, “Feel The Misery”, abbiamo avuto l’onore di scambiare qualche parere al riguardo con Aaron Stainthorpe …

Grazie per questa telefonata. Mai avrei pensato a questa combinazione di eventi: The Angel and The Dark River è stato il primo disco comprato in assoluto nel rinomato Pagan Moon Records, il negozio della mia città (Torino). Avevo 16 anni e mi si apriva un universo autunnale che porterò sempre tra i più cari ricordi.

iye “Feel The Misery” è il tredicesimo album, a ben 23 anni da “As The Flower Withers”. I My Dying Bride sono a tutti gli effetti una leggenda della musica, allora ti chiedo: quale è la molla che vi spinge a produrre ancora dischi e calcare i palchi ?

Vedi … continuiamo ad amare ciò che facciamo. In tutto questo tempo non è scontato perdere la voglia, l’energia e il piacere di mettersi in discussione. L’unico denominatore comune a queste, che considero tre qualità, è sicuramente la passione. Non è certo importante essere cresciuti, anagraficamente almeno. Pensa che potrebbero scaturirne altri 25 anni di attività, in quanto nessuno di noi ha in mente di prestabilire qualcosa: divertimento e professionalità innanzi tutto.

iye Ad una sagace domanda, una corretta risposta; proseguendo sull’attuale pubblicazione … la sensazione, dopo diversi ascolti, è quella di trovarci tra le mani un album ispirato come forse non succedeva da tempo.
Senza voler sminuire la produzione precedente, “Feel the Misery” è quello che per valore complessivo più di avvicina agli storici primi 4 album. Anche tu hai avuto questa percezione ?

Di sicuro abbiamo sempre voluto creare qualcosa di innovativo e sorprendente pur seguendo sempre la stessa linea. Molti ascoltatori, senza necessariamente limitarci ai soli fans, hanno notato questa sottigliezza.
Può essere senz’altro dovuto al ritorno di Calvin e alla registrazione nei già conosciuti Academy Studios e forse per queste due coincidenze è ritornata un’atmosfera familiare. Principalmente, non è stata affatto una scelta quella di programmare un taglio ricorrente e così sembra d’essere tornati indietro nel tempo. Penso inoltre che abbiamo avuto sempre, detto con molta umiltà, un’attitudine naturale tanto nella sperimentazione quanto nella continuità. Non trovi?

iye Senza dubbio hai toccato due punti che anticipano gli argomenti delle prossime domande. A nostro avviso questa line-up è molto equilibrata, ricalcando come configurazione quella storica. Il ritorno di Calvin e il consolidamento in formazione di un talento come Shaun MacGowan hanno davvero portato qualcosa in più ai My Dying Bride?

Non è difficile risponderti: sì, direi. È piacevole riavere Calvin al fianco e sarebbe stato magnifico se avesse anche composto i riff. Come sai, sfortunatamente è riapparso quando le tracce erano quasi completate, quindi la percentuale del suo lavoro si è dovuta ridurre rispetto al suo potenziale. Andrew ha smisuratamente sgrossato le linee melodiche ( diciamo il 95%), Jeff ha ricamato con il suo unico stile qualche armonia da sovra incidere e … cosa vorresti di più come risultato? Tutto è perfetto! Ma di certo, se siete tutti in attesa di sentire Calvin come lo ricordate, sarà necessario attendere il nostro album successivo!

mdb

iye Avete aperto la strada a centinaia di band che hanno provato a seguire le vostre orme. Tutto ciò costituisce un motivo di soddisfazione oppure è anche un pungolo per continuare a essere oggi e in futuro un punto di riferimento ?

Abbiamo di certo ispirato molte altre band ma allo stesso tempo, noi stessi abbiamo tratto suggestioni da altre a seguire. Intanto è sempre piacevole constatare quanta sia l’eredità che lasci alla successiva generazione, e notare che molti giovani musicisti prendano in considerazione una tecnica o un’attitudine ci lascia decisamente rinfrancati. Ci ricordiamo quando noi stessi eravamo dall’altra parte … Ciò che permane è la necessità di creare la propria musica sotto una seconda influenza, ovvero non in riferimento al gruppo in questione quanto al messaggio che diffonde. Ecco, vedi perché non ci stupisce più se un fan di 15 soli anni è perso nell’universo My Dying Bride, nella fragilità dei testi magari più che sulla storia di Calvin (lo dice sorridendo – ndr) … Tutto questo accade in modo talmente naturale da farci sentire orgogliosi e rivestiti di armonia.

iye Mi permetto di chiederti se lo stesso vale per la scena che assieme ad altri pilastri (cito Anathema, Cathedral e Paradise Lost) voi avete edificato e sostenuto. Oltre a possedere simili affinità, allacciate un reciproco scambio affettivo o predomina una punta di rivalità?

Dunque, la domanda può sembrare scontata ma non lo è del tutto. Ad ogni modo freno subito il tuo entusiasmo nel creare un polverone: nessuna tensione. Sai bene che siamo cresciuti nella stessa zona, abbiamo avuto la medesima etichetta e suonato lo stesso genere, contemporaneamente in diverse parti del mondo. Ciò porta tuttavia al costante perfezionamento che lo spirito di aggregazione mette in competizione …
Migliorare, perfezionare e cablare il tiro porta a questo ripiegamento, ma verso sé stessi, non di certo verso i “colleghi”. Essere lontani dall’Inghilterra e scoprire che i Paradise Lost sono nella stessa zona, ci permette ancora di ritrovarci in uno stesso tavolo e passare del tempo assieme … Questo nonostante si sia comunque diversi nell’attitudine e nella scelta musicale! Poi sai bene come va, la birra aiuta spesso …

iye Nel corso della vostra ricca discografia avete provato a modificare in maniera sostanziale il vostro sound con il solo “34,788% … Complete”, un esperimento tutto sommato riuscito che però non ebbe più seguito. Come valuti a distanza di molti anni quel disco ?

Aspettavo questa citazione perché rappresenta un punto focale sul quale porre l’attenzione. La scelta è stata chiara dal primo momento in cui speravamo in un cambio direzionale, seppur momentaneo. E non abbiamo avuto dubbi nel pubblicarlo, seppure fosse apparsa una scelta difficile per come avevamo abituato con i dischi precedenti il nostro pubblico, anzi parliamo di ascoltatori in questo caso, visto che il disco non è mai stato suonato dal vivo. In compenso ne abbiamo avuto la prova soltanto dopo dell’aver fatto qualcosa era uscito addirittura fuori dai nostri stessi schemi e per questo riuscito nella sua idea embrionale. E’ un gran bell’album, il tempo è riuscito a farlo maturare, oltre ad averlo collocato in una cronologia perfettamente logica. La cover, intendo la copertina, è effettivamente inusuale, il titolo ancora di più. Direi quindi che la forma ha reso estraneo un suono fin troppo classico alla My Dying Bride. Tant’è che oggigiorno rimane uno degli album preferiti dai nostri fan, probabilmente troppo concentrati all’epoca su qualcosa che non è mai avvenuto.

iye Piacevole descrizione, minuziosa e logica, mi confermi con questo che è sempre necessario non giudicare il libro dalla copertina! Siamo giunti alla coda dell’intervista che si concluderà con altre due domande, ma anticipatamente ti ringrazio a nome dello staff per la gentilezza e degli stessi IYEziners che attendono con piacere di leggere questo scritto. La tua voce è un marchio di fabbrica inconfondibile. Per curiosità, in quale momento e perché, negli anni novanta, maturasti la decisione di abbandonare il gutturale per approdare alla decadente tonalità che ti contraddistingue ?

Dunque … Io non suono nessuno strumento musicale, quindi posso solo utilizzare al meglio la mia voce. Non mi piace, né trovo stimolante ripetermi allo stesso modo in ogni album: oltre ad annoiare me stesso, provocherei la stessa reazione nei fan. Tuttavia la musica creata in tutti questi anni, lenta, veloce, heavy, malinconica e crepuscolare prevede un simultaneo cambio che non prevede un cantato death. Tanto più se entrano i violini e sai bene ancora una volta che se qualcosa ricade in una programmazione, ci porterà lontani dalla passione svincolante e libera che abbiamo per la musica, in cui tutto è pur sempre possibile e lecito. Ho cercato in questo album di portarmi ad un’espansione vocale che, purtroppo, solo un evento casuale (e quindi sentito) ha provocato: il trapasso di mio padre, in un certo senso, mi ha ripulito dai singulti vocali. E’ davvero sottile, ma se mi capisci il “pianto” è lo stesso, ma nel contempo ben più chiaro e diretto. La percezione del dolore rimane la stessa, ma in fondo c’è ancora una natura positiva che cela sempre meno un grido di trionfo in grado di redimermi (effettivamente, citando il fatto personale, si nota come l’emotività non faccia fatica a rivelarsi – ndr) . I sospiri mi accompagnano per antonomasia, ma riuscire a spingere la voce al di là della propria emotività, rivela il mio lato intimo più sicuro e fiducioso. In ogni album farò quei passi necessari per sentirmi sempre più a mio agio, nonostante non sia Mariah Carey il mio traguardo …

iye Porterete in tour “Feel the Misery” e, in tal caso, approderete anche in Italia ?

Decisamente, peraltro il nostro tour manager è italiano. Abbiamo un’ultima data quest’anno in Germania, ma il prossimo anno tra marzo e aprile (se non maggio) porteremo finalmente questo album in Italia facendo un vero tour di qualche tappa. I nostri fan italiani (fatico a crederci …) ci seguono dal 1990 e a momenti ne sanno più loro dei nostri ricordi. Sarà, come è già da anni, un lavoraccio, perché ad ogni tour concluso, se non tra una data e l’altra, tendiamo a ritornare a casa nostra per ritemprarci. Il motivo è che ad ogni live cerchiamo e spesso riusciamo a dare qualcosa che vada oltre al solo impatto sonoro. E’ molto facile adagiarsi ed essere superficiali, un po’ più difficile essere originali ma non è impossibile trasmettere qualche cosa di simile all’empatia … almeno tra le varie possibilità questa è la nostra prima scelta, trasmettere reciprocamente la
stessa empatia che riceviamo dal nostro pubblico.

Intervista telefonica delle 20:00 (GMT+1) del 21/9/2015
Collaborazione tra Stefano Cavanna e Enrico Mazzone
Grazie alla disponibilità di Aaron Stainthorpe e ai riferimenti di Pamela Scavran.

SATURNUS + HELEVORN – 20/9/15 Collegno, Padiglione 14

Tre ore di musica magnifica; peccato per chi non c’era …

Nel raccontare una giornata di questo tipo la cosa più complessa è scegliere da che parte iniziare: quindi, seguendo un po’ l’istinto, un po’ le convenzioni, darò prima la notizia cattiva rispetto a quella buona.

La cattiva notizia è che organizzare concerti doom in Italia si sta rivelando un cimento per temerari (rappresentati nello specifico da Alex e Simone della House Of Ashes) che antepongono la passione al mero interesse economico, e se la cosa può valere in senso lato per molti di coloro che ci provano con buona parte del metal underground, lo è a maggior ragione con un genere che, in particolare dalle nostre parti, riscuote l’interesse di un numero davvero limitato di persone.
Josep Brunet, vocalist degli splendidi Helevorn, nonché ennesima bella persona che ho avuto la ventura di conoscere tra coloro che calcano i palchi metal, mi confidava d’essere più stupito che amareggiato non tanto per la propria band quanto per il fatto che ad assistere ad un concerto dei Saturnus (cosa che per chi ama il doom dovrebbe costituire un appuntamento imperdibile) ci fossero circa 30 persone, che erano ancora meno durante l’esibizione della band maiorchina.
Non è un dogma assoluto, sia chiaro, ma il fatto che per ascoltare doom, specialmente quello più estremo pur se dai connotati melodici, sia necessario possedere una buona dose di sensibilità, mi porta a pensare, alla luce delle scarse presenze (peraltro confermate in qualche modo nella precedente data bresciana), che la deriva del nostro paese verso un protervo ed edonista menefreghismo sia del tutto inarrestabile.
Del resto, in una nazione in cui nessuno pare abbia voglia di muovere il proprio culo per andare ai concerti e, anzi, da più parti si invoca persino la chiusura degli spazi all’aperto dedicati alla musica rock e metal (successo a Genova quest’estate), folle oceaniche si spostano solo quando il tutto viene insignito del marchio dell’evento epocale, al quale non si può mancare pena l’oblio eterno sui social network, che pare essere la peggiore delle condanne; aggiungiamo poi che, per organizzare l’ultimo di questi (il campovolo ligabuesco), pare addirittura che un intero quartiere di Reggio Emilia sia stato di fatto messo sotto sequestro, impedendo ai residenti di uscire o ancor peggio di entrare a casa propria: cosa dobbiamo pensare od aspettarci ancora ? Non lo so, fatto sta che, al netto di queste tristi ma dovute considerazioni, la serata al Padiglione 14 di Collegno (ecco la notizia positiva) resterà a lungo impressa nella mia memoria.
Diciamoci la verità, se da una parte constatare la sordità della maggior parte delle persone fa rabbia, dall’altra, egoisticamente, si trasforma in un vantaggio non da poco potersi godere una delle proprie band preferite (i Saturnus) ed un’altra che è sulla buonissima strada per diventarla (gli Helevorn) come se si fosse nel salotto di casa propria, a stretto contatto con i musicisti e con quelle altre poche anime unite dalla comune passione per sonorità inimitabili sotto l’aspetto evocativo.
Tre ore di musica magnifica, quindi, resa tale anche da suoni tarati ottimamente, che i pochi ma buoni della famiglia doom (come ha simpaticamente detto Josep all’inizio dell’esibizione degli Helevorn di fronte allo sparuto gruppo di spettatori) si sono goduti alla faccia di chi, nel contempo, altrove stava partecipando ad un rituale di massa con il solo scopo di poter dire “io c’ero …”, probabilmente osservando il proprio intoccabile idolo a centinaia di metri di distanza.
Gli Helevorn provenivano da un album entusiasmante come Compassion Forlorn e sul palco hanno confermato ampiamente il loro valore come musicisti e performer: Josep Brunet ha padroneggiato con disinvoltura le clean vocals che forniscono un tocco decisamente più gothic al sound degli spagnoli, mantenendo peraltro inalterato il proprio eccellente growl, Samuel Morales ha offerto una fondamentale impronta melodica con la chitarra solista, il tutto sopra il tappeto atmosferico creato dalle tastiere di Enrique Sierra; non da meno sono stati il simpaticissimo Sandro Vizcaino alla chitarra ritmica, Xavi Gil alla batteria e Guillem Calderon al basso.
I nostri hanno proposto, in un set purtroppo breve ma intenso, alcune delle perle tratte dall’ultimo album (su tutte il singolo Burden Me ed il capolavoro Delusive Eyes) oltre alla ben nota From Our Glorious Days, uno dei picchi assoluti della loro precedente discografia.
Dopo una breve pausa, l’incipit di Litany Of Rain ha annunciato la salita sul palco dei Saturnus, band per la quale ho già sprecato in passato tutti gli elogi e gli aggettivi a disposizione del mio limitato vocabolario. Posso solo aggiungere che poter ascoltare dal vivo brani capaci già di indurre alle lacrime quando si sta comodamente seduti sul divano di casa, può avere un impatto emotivo davvero devastante, ovviamente in senso positivo.
Credo che l’assunzione di nessuna droga al mondo possa esser capace di farmi provare lo stesso livello di estasi raggiunta quando i Saturnus, a circa 5 metri da me, hanno suonato quello che è il brano più bello mai composto, il cui titolo, inutile dirlo, è I Long
Devo trovare un difetto ai grandi danesi ? Eccolo: I Long meriterebbe il posizionamento come ultimo brano in scaletta, magari come bis, perché il climax che si raggiunge al termine di quelle note non può più essere ricreato successivamente dagli altri brani, per quanto ugualmente magnifici.
Altro da aggiungere ? Thomas Jensen aveva la solita aria di chi è capitato lì per caso, poi quando si è palesato il suo growl dal timbro unico si è capito che, invece, è stato lì collocato per qualche disegno superiore, e lo stesso è accaduto con i passaggi in recitato (come nella coinvolgente All Alone); i lungocriniti Gert Lund (chitarra ritmica) e Brian Hansen (basso), oltre al preciso contributo musicale hanno fornito anche una notevole presenza scenica, Henrik Glass ha picchiato il giusto senza esagerare, come il genere richiede, ed il giovane Mika Filborne si è rivelato il tastierista che fino a qualche anno fa mancava on stage ai Saturnus.
Ma il protagonista, non me ne vogliano gli altri, è stato come sempre Rune Stiassny, chitarrista che senza tecnicismi circensi, sa far parlare al cuore il proprio strumento (“You make me cry too much” gli ho confidato scherzando, ma non troppo, al termine del concerto): le linee melodiche del musicista nordico sono realmente indimenticabili, dal vivo come su disco, e sono capaci di far sprofondare la mente in un pozzo di malinconia dal quale, solo al termine, se ne verrà fuori depurati finalmente dalle brutture di un’attualità allarmante e dalle nequizie di un’umanità dai tratti ripugnanti.
Litany Of Rain, Wind Torn, I Love Thee, Christ Goodbye, ovviamente I Long e il gradito bis A Father’s Providence, sono state solo alcune delle gemme che i Saturnus hanno regalato ai pochi ma davvero fortunati presenti.
Uno degli aspetti che più mi ha colpito, anche se non è certo una novità in simili occasioni, è la convinzione ed il piacere di suonare che ogni musicista ha dimostrato, nonostante un’audience così risicata: non uso volutamente il termine “professionali” perché preferisco associarlo a persone che svolgono con impegno un compito loro malgrado: nulla a che vedere con volti che apparivano rapiti dalla loro stessa musica, un atteggiamento che ha accomunato Helevorn e Saturnus con la trentina di appassionati che, immagino, mai come questa volta abbiano avuto la percezione di sentirsi un tutt’uno con chi si trovava sul palco.
A proposito di professionalità, un’avvertenza: quando parlo dei Saturnus la mia obiettività è uguale a zero, ma se chi legge queste righe ama come me tali sonorità non faticherà a ritenermi del tutto attendibile ….

P.S. Un ringraziamento speciale ai “temerari” della House Of Ashes, ai miei compagni di viaggio e a chi ha ripreso con mano ferma le immagini che potete vedere sotto.

Helllight – Journey Through Endless Storm

Journey Through Endless Storm è l’album che saluta il definitivo ingresso degli Helllight nel gotha del funeral/death doom melodico

I brasiliani Helllight giungono, con Journey Through Endless Storm, alla quinta tappa su lunga distanza in una carriera che ha preso l’avvio nel secolo scorso ma che, di fatto, ha assunto forma e consistenza a partire dall’album d’ersordio “In Memory of the Old Spirits”, datato 2005.

La band, guidata dal cantante e chitarrista Fabio De Paula, ha avuto un processo evolutivo piuttosto lento ma costante, passando dalle ingenuità non prive di momenti brillanti dei primi due dischi (specie nel programmatico “Funeral Doom”) fino all’odierna forma compiuta e pressoché perfetta dal punto di vista della costruzione di un sound evocativo e nel contempo compatto ed elegante.
Rispetto ai già buonissimi “…and Then, the Light of Consciousness Became Hell…” e “No God Above, No Devil Below”, la nuova opera non mostra debolezze (se non vogliamo considerare tale una durata che sfiora gli ottanta minuti) in virtù di una tracklist uniforme per il valore dei singoli brani e per un netto miglioramento delle clean vocals di De Paula, un elemento importante nell’economia del suono degli Helllight che, nei precedenti lavori, veniva proprosto in maniera stentorea ma un po’ troppo forzata.
Sempre rispetto alla passata produzione, non si può fare a meno di notare quanto si sia concretizzata una “saturnizzazione” del suono, che viene così disseminato costantemente di melodie chitarristiche capaci di evocare atmosfere cariche di brumosa malinconia.
La quadratura nel cerchio trovata dagli Helllight viene ampiamente dimostrata da una tracklist priva di punti deboli: uniforme, certamente, con una pioggia battente a fare da sfondo al susseguirsi dei vari brani tra i quali, però, non ce n’è uno che non meriti di essere assaporato in tutto il suo lento incedere, con punte di toccante lirismo raggiunte nelle meravigliose Time e Shapeless Forms of Emptiness.
Tastiere avvolgenti, una chitarra solista che regala a profusione assoli dolenti ed un growl efficace, sono le componenti che ci fanno amare a dismisura una band come i Saturnus e di conseguenza tutte quelle, come gli Helllight, che dai maestri danesi hanno preso spunto, consapevolmente o meno.
Volendo proprio trovare un termine di paragone ancor più preciso, però, la band paulista oggi si muove parallelamente ai Doom Vs. di Johan Ericson, sia per un impronta maggiormente drammatica, con più di un elemento funeral conferito al sound, sia per il già citato ricorso alle clean vocals che, solo quando sono appropriate come avviene in questo lavoro, si rivelano un valore aggiunto e non un elemento di rottura del pathos creato dallo sviluppo strumentale.
Journey Through Endless Storm è l’album che saluta il definitivo ingresso degli Helllight nel gotha del funeral/death doom melodico, grazie a un sound inspirato e di matrice chiaramente europea ma che racchiude al suo interno, sebbene non venga esibito mai in maniera particolarmente esplicita, un senso di nostalgico abbandono tipicamente latino.

Tracklist:
1. Journey Through Endless Storm
2. Dive in the Dark
3. Distant Light that Fades
4. Time
5. Cemetherapy
6. Beyond Stars
7. Shapeless Forms of Emptiness
8. End of Pain

Line-up:
Alexandre Vida – Bass
Fabio de Paula – Guitars, Vocals, Keyboards
Rafael Sade – Keyboards
Phill Motta – Drums

HELLLIGHT – Facebook

TesseracT – Polaris

Una band di levatura superiore ma che non incide come potrebbe, esibendo solo ad intermittenza abbacinanti lampi di classe e preferendo per lo più specchiarsi nella propria perfezione formale.

Se non mi unisco ai peana che sento levarsi da più parti riguardo a quest’ultimo disco dei TesseracT non è perché mi piaccia fare il bastian contrario, per partito preso o per innescare chissà quale dibattito solo per ottenere qualche contatto in più.

Niente di tutto ciò, semplicemente penso che, in fondo, una recensione sia solo l’articolazione più completa di un’opinione e, in quanto tale, è del tutto soggetta ai gusti ed alle preferenze di chi scrive.
Sull’altro piatto della bilancia c’è invece l’oggettività, alla quale non ci si può sottrarre per onestà intellettuale, che mi obbliga ad affermare con convinzione che i TesseracT sono un ottima band, capace di portare a scuola decine di altri gruppi grazie alla tecnica indiscutibile esibita nel corso della loro ultradecennale carriera e che non viene certo meno in questo ultimo Polaris.
Il problema è che un sottogenere come il djent, che i nostri hanno contribuito in maniera decisiva a far crescere e prosperare esasperando all’ennesima potenza il lato tecnico e dissonante del prog metal, è piuttosto lontano dalla mia idea di musica fin dai suoi presupposti fondamentali.
Il risultato che ne scaturisce è, infatti, una perfetta e talvolta piacevole esibizione di virtuosismo musicale, senz’altro meno scontato rispetto ad altri esponenti del genere, ma ugualmente prevedibile a lungo andare.
Peccato, perché la proposta dei TesseracT funziona benissimo proprio quando emerge una vena che riporta ai Porcupine Tree e in genere al neo progressive albionico, costretta però a convivere con queste pulsioni di metallo iper-tecnico che, almeno a me, restituiscono solo una certa freddezza.
Le aperture melodiche di brani come Hexes, Tourniquet, Phoenix e della splendida Seven Names mostrano le stimmate di una band di levatura superiore ma che non incide come potrebbe, esibendo solo ad intermittenza abbacinanti lampi di classe e preferendo, per lo più, specchiarsi nella propria perfezione formale
Il ritrovato Daniel Tompkins è effettivamente un magnifico vocalist e il suo contributo si rivela fondamentale per le sorti di un album che è rivolto a chi apprezza più la tecnica del cuore finendo per risultare, quindi, musica per musicisti, i quali sono naturalmente facilitati nel godere appieno di lavori di questa fatta.
Almeno questo è il mio parere, quello di un appassionato soprattutto di generi che antepongono il pathos e le emozioni a tutto il resto; tenetene conto nel leggere queste righe, perché in fondo molti tra voi probabilmente riterranno invece Polaris un album eccezionale, con più di qualche “oggettiva” buona ragione.
I’m sorry, it’s not my cup of tea …

Tracklist:
1. Dystopia
2. Hexes
3. Survival
4. Tourniquet
5. Utopia
6. Phoenix
7. Messenger
8. Cages
9. Seven Names

Line-up:
Acle Kahney – Guitar
James Monteith – Guitar
Jay Postones – Drums
Daniel Tompkins – Vocals
Amos Williams – Bass

TESSERACT – Facebook

Chiral – Night Sky

La musica di Chiral penetra nell’anima principalmente in virtù della sua grande forza evocativa.

Ho avuto la fortuna di conoscere questo splendido progetto denominato Chiral fin dai suoi primi passi e, forse anche per questo, l’ascolto di ogni nuova uscita avviene con un approccio meno asettico di quanto possa accadere con altre produzioni.

Di certo quest’attenzione è del tutto meritata: dopo l’esordio su lunga distanza “Abisso”, che metteva subito il luce le gradi potenzialità di Chiral, lo split album con HaatE confermava quanto di buoni era stato detto in precedenza, grazie ad un brano magnifico come “Everblack Fields of Nightside”.
Un certo estremismo black affiorato nel successivo split “Sed Auis” poteva far pensare ad un progressivo indurimento del suono mentre ciò che avviene è esattamente il contrario: Night Sky costituisce un passo avanti decisivo, con il quale il musicista piacentino esibisce senza più remore e con minori retaggi estremi le proprie malinconiche e melodiche pulsioni.
My Temple of Isolation profuma intensamente di Agalloch, ed è un bell’effluvio visto che parliamo di una band unica che, proprio per questa sua peculiarità , raramente viene omaggiata con la stessa proprietà qui esibita: nei dieci minuti tondi del brano, l’impronta folk – post metal della band statunitense viene rielaborata con competenza e, soprattutto, con la giusta componente emotiva.
La successiva Nightside I: Everblack Fields è di fatto una nuova versione del brano presente nel già citato split “Where Mountains Pierce The Nightsky”, con il tema portante che riprende peraltro il brano di apertura di Abisso, “Atto I: Disceso Nel Buio”: se la riproposizione di frammenti utilizzati in precedenti occasioni potrebbe sembrare una carenza di ispirazione, denota invece la volontà di Chiral di rendere tutti i propri lavori un continuum in costante evoluzione, un corpo unico capace di espandersi mantenendo ben saldi i canoni stilistici che l’hanno ispirato.
Dopo esser stati cullati per quasi venti minuti da una musica a tratti sognante, Nightside II: Sky Wonder non giunge certo ad interrompere bruscamente la piacevole attività onirica: un’altra linea melodica apparentemente semplice rapisce e conquista per un ulteriore quarto d’ora.
Il breve strumentale acustico The Morning Passage introduce la conclusiva Beneath the Snow and the Fallen Leaves, traccia dalle atmosfere maggiormente inquiete e meno immediate, più orientate a sonorità vicine ai Wolves In The Throne Room che non ai Lustre, altro importante punto di riferimento per Chiral rinvenibile nelle due Nightside. Con questo brano veniamo così strappati ai suoni più morbidi che ci hanno cullato nella parte iniziale del lavoro, quasi a ricordarci la matrice black del progetto, pur con tutte le sue molteplici sfaccettature.
Questa recensione esce nello stesso giorno di quella, sempre scritta da me, riguardante l’ultimo album dei TesseracT: laddove troviamo l’attenzione spasmodica per i  particolari, la ricerca ossessiva del tecnicismo e della pulizia del suono, qui invece abbiamo una musica che penetra nell’anima principalmente in virtù della sua forza evocativa, e le sue piccole imperfezioni formali si rivelano del tutto insignificanti se considerate nell’intero contesto.
Superfluo aggiungere quale preferisca tra questi due modi di intendere e di vivere la musica ….

Tracklist:
1. My Temple of Isolation
2. Nightside I: Everblack Fields
3. Nightside II: Sky Wonder
4. The Morning Passage
5. Beneath the Snow and the Fallen Leaves

Line-up:
Chiral – Everything

CHIRAL – Facebook

My Dying Bride – Feel The Misery

“Feel the Misery” ricolloca i My Dying Bride al posto che loro compete, ovvero quello di guida e riferimento per chiunque si cimenti un settore musicale che fornisce linfa e nutrimento spirituale a quel nugolo ben nascosto di anime sensibili, romantiche ed inquiete.

L’ennesimo album (il tredicesimo, per l’esattezza) di una delle band che, in un modo o nell’altro, ti ha accompagnato per oltre un ventennio lungo i tortuosi sentieri dell’esistenza, è sempre un appuntamento al quale si giunge tra speranze e timori equamente suddivisi.

Dover parlare dei My Dying Bride cercando di restare obiettivo diventa così per me piuttosto difficile: sembra ieri quando, con una video camera in super 8, riprendevo le prime espressioni e la beata inconsapevolezza di mia figlia appena nata, con quel capolavoro di “The Angel And The Dak River” come sottofondo musicale.
Dopo vent’anni e tanta vita e troppa strada alle spalle, ritrovare Stainthorpe e soci nuovamente all’altezza dei fasti raggiunti in quei tempi è stata una gioia che va ben oltre il mero aspetto musicale.
Non posso negare che, ormai da circa un decennio, i My Dying Bride erano diventati più un caro ricordo di gioventù piuttosto che una band capace di accompagnarmi quotidianamente: altri erano i nomi che in ambito doom li avevano soppiantati nelle mie preferenze, riuscendo a comunicarmi le dolorose emozioni che i maestri di Halifax parevano non essere più in grado di riproporre con la stessa forza evocativa.
Feel The Misery ricolloca i nostri al posto che loro compete, ovvero quello di guida e riferimento per chiunque si cimenti un settore musicale che fornisce linfa e nutrimento spirituale a quel nugolo ben nascosto di anime sensibili, romantiche ed inquiete.
Sarà probabilmente un caso, ma il ritrovamento di una configurazione più o meno simile a quella dei tempi d’oro pare aver concorso non poco alla riuscita dell’album: il ritorno in formazione di uno dei fondatori, il chitarrista Calvin Robertshaw, unito al consolidamento di uno Shaun Macgowan splendido protagonista con il suo violino (e sorta di reincarnazione del Martin Powell che fu …), contribuiscono a ricreare quelle atmosfere che rimandano direttamente all’ultimo decennio del secolo scorso, quando la gotica decadenza dei MDB era un marchio di fabbrica magnifico ed indelebile.
And My Father Left Forever, posta in apertura e in tutti i sensi traccia apripista dell’album, fuga subito ogni residua perplessità relativa all’ispirazione dei nostri: l’incedere dolente e melanconico del sound e il tipico timbro vocale di Aaron equivalgono ad una sorta di agognato ritorno a casa dopo una prolungata assenza, al riappropriarsi di un qualcosa che si è sempre sentito proprio ed oggi tirato a lucido dopo essere stato ricoperto per diverso tempo da un velo di polvere.
La differenza, in Feel The Misery, la fa la ritrovata capacità dei My Dying Bride (già parzialmente esibita in “A Map of All Our Failures”) di proporre un lotto di brani relativamente fruibili, pur nel consueto ambito plumbeo.
Il vocalist alterna la sua consueta, ma unica, voce sofferente ad un growl sempre convincente, ergendosi a protagonista nel contesto di un lavoro comunque d’insieme, nel quale ogni musicista pare davvero offrire il meglio di sé senza il bisogno di dover strafare.
Se l’opener è un brano magnifico, non si può che dire altrettanto della successiva To Shiver in Empty Halls grazie ad una linea melodica portante di grande impatto, mentre A Cold New Curse e Feel the Misery appaiono quasi complementari nel loro incedere coinvolgente ma, invero, piuttosto simile, specie nelle parti iniziali.
La seconda metà dell’album è, a mio avviso, ancora superiore a quella che l’ha preceduta: A Thorn of Wisdom è una traccia emozionante, atmosferica e melodica che non può lasciare indifferenti, I Celebrate Your Skin cambia volto in più frangenti, mantenendo quale tratto comune un’esasperante ed inebriante lentezza; I Almost Loved You equivale alla perla “For My Fallen Angel” (da “Like Gods Of The Sun”), con Stainthorpe ed il violino di Macgowan ad edificare muri di lacrime su un toccante tappeto pianistico, mentre Within a Sleeping Forest non è solo l’unica traccia che valica i dieci minuti di durata ma costituisce davvero la chiusura di un cerchio, con il suo forte ed ispirato richiamo alle sonorità dei primi seminali album dei My Dying Bride.
Sinceramente, fatico a smettere di ascoltare Feel The Misery, pur essendo consapevole che per un’altra ora lo smarrimento e lo sgomento di un’anima tormentata saranno la mia sola compagnia.
Ma gli appassionati di doom questo chiedono, nient’altro, e farsi avvolgere nuovamente dal velo della sposa morente sarà un piacere esclusivo riservato a questi fortunati …

Tracklist:
1. And My Father Left Forever
2. To Shiver in Empty Halls
3. A Cold New Curse
4. Feel the Misery
5. A Thorn of Wisdom
6. I Celebrate Your Skin
7. I Almost Loved You
8. Within a Sleeping Forest

Line-up:
Calvin Robertshaw – Guitars
Andrew Craighan – Guitars
Aaron Stainthorpe – Vocals
Lena Abé – Bass
Shaun Macgowan – Keyboards, Violin

MY DYING BRIDE – Facebook

Il Vuoto – Weakness

Non si può che restare piacevolmente stupiti dal manifestarsi di questa nuova splendida realtà musicale, protagonista di una delle prove più convincenti ascoltate di recente.

Nuovo progetto italiano dedito al funerale doom, Il Vuoto si rivela una graditissima novità in un settore specifico nel quale la produzione nel nostro paese non è mai stata particolarmente ricca.

Anche se, come influenze dichiarate in partenza, vengono citati tra gli altri nomi come Shape Of Despair e Nortt, diciamo che le due band in questione, piuttosto che una vera e propria fonte di ispirazione costituiscono, con i rispettivi stili piuttosto distanti tra loro, una sorta di spettro sonoro entro il quale Il Vuoto si muove .
Anche se la sensazione è che si tratti di una one man band, di questa entità sappiamo poco o nulla a livello di musicisti coinvolti (un po’ come gli Ea, peraltro altra band il cui imprinting affiora talvolta nei brani), salvo che la voce è affidata all’ospite Jurre Timmer degli olandesi Algos.
Poco male, visto che qui, come deve essere, ciò che conta è la musica, elemento che viene espresso in quest’occasione a livelli sorprendentemente ragguardevoli.
Se la propensione, per Il Vuoto, è naturalmente rivolta verso un funeral atmosferico, non mancano però i momenti più aspri uniti ad altri dai tratti post metal così che, al termine dell’ascolto, si può affermare tranquillamente che l’approccio al genere della band italiana è sicuramente personale proprio in virtù delle diverse sfaccettature offerte in un ambito in cui di solito, invece, prevale un’ottundente (per quanto gradita agli appassionati) monoliticità.
Sonorità più tenui e malinconiche, con ampie aperture di chitarra e tastiera, contraddistinguono l’opener And Night Devours Me, ma vengono spazzate via da un episodio dall’incedere pachidermico e minaccioso come The Harvest, forse il brano più autenticamente collocabile nel filone funeral dell’intero album assieme alla successiva Sea Of Emptiness, traccia che per quanto mi riguarda costituisce uno dei picchi compositivi dell’album, segnata com’è da una melodica drammaticità che si snoda nella sua prima metà prima di lasciare repentinamente spazio ad un delicato arpeggio.
Il bell’intermezzo srumentale And Night Took Her introduce la breve Through Mirrors I Saw the Ghost of Me, resa disperatamente intensa anche dalla prova notevole di Timmer; I, Essence of Nothingness, che è un altro momento cardine del lavoro, viene dominata da un lavoro chitarristico di matrice solista davvero pregevole, capace di condurre il brano in quegli alvei malinconici dai quali è impossibile uscire indenni.
Closure XXVII è in pratica una lunga outro atmosferica posta a suggello di un’opera di enorme pregio, che va colmare parzialmente “il vuoto” (mi scuso per l’inevitabile gioco di parole) in un sottogenere del doom che in Italia non ha una tradizione consolidata anche se le ottime band non mancano, pur se nessuna di queste può essere considerata “funeral” nel senso più autentico del termine (Consummatum Est, Urna, Malasangre, Plateau Sigma, In Lacrimaes Et Dolor, senza dimenticare i grandi Void Of Silence). Ma, al di là delle etichette che in fondo lasciano il tempo che trovano, e considerando che il progetto ha preso vita solo in questo 2015 con l’uscita di due demo parzialmente confluiti in Weakness, non si può che restare piacevolmente stupiti dal manifestarsi di questa nuova splendida realtà musicale, protagonista di una delle prove più convincenti ascoltate di recente.

Tracklist:
1. And Night Devours Me
2. The Harvest
3. Sea of Emptiness
4. And Night Took Her
5. Through Mirrors I Saw the Ghost of Me
6. I, Essence of Nothingness
7. Closure XVII

IL VUOTO – Facebook

Eye Of Solitude & Faal / Eye Of Solitude & Faal

Magnifico questo split album pubblicato dalla solita Kaotoxin, che riunisce due delle migliori band europee dedite al funeral death doom, ovvero gli olandesi Faal e gli inglesi Eye Of Solitude.

Magnifico questo split album pubblicato dalla solita Kaotoxin, che riunisce due delle migliori band europee dedite al funeral death doom, ovvero gli olandesi Faal e gli inglesi Eye Of Solitude.

Oddio, per questi ultimi dovrei correggere il tiro visto che non sono una delle migliori, bensì la migliore in assoluto oggi: uno status, questo, conquistato con due capolavori come “Canto III” e “Dear Insanity” e che, per chi non ne fosse ancora del tutto convinto, viene rafforzato grazie a questa decina di minuti drammaticamente intensi, capaci di far piombare chiunque nella più cupa disperazione prima che l’effetto catartico e terapeutico del doom lasci in dote solo un senso di benefico stupore.
Obsequies, fin dal titolo, non lascia spazio ad equivoci di sorta, trattandosi della trasposizione musicale di un rito funebre, con tanto di dolenti e stonate sonorità bandistiche ad introdurre quello che è ormai un marchio di fabbrica vincente: melodie struggenti violentate dal terrificante growl di Daniel Neagoe. Un solo piccolo appunto rispetto alle uscite precedenti va fatto ad una produzione che non valorizza come al solito proprio la prestazione del vocalist rumeno.
Dopo una simile esibizione di dolore, il compito degli olandesi Faal si rivela, sulla carta, piuttosto arduo: la band di Breda è attiva da circa un decennio nel corso del quale ha rilasciato due ottimi album. Questa uscita giunge molto gradita a tre anni di distanza da “The Clouds Are Burning” e un brano come Shattered Hope ci dimostra che l’ispirazione è sempre al massimo, consentendo ai nostri di non sfigurare affatto dinnanzi ai propri compagni di split (con i quali peraltro hanno condiviso il palco più di una volta in tempi recenti).
Certo, i picchi emotivi toccati dagli Eye Of Solitude non sono facilmente raggiungibili, ma il funeral death doom dei Faal è di ottima qualità e rischia di non risplendere come meriterebbe esclusivamente  a causa del confronto ravvicinato con una band che, più di ogni altra oggi (ad esclusione dei Saturnus che si muovono però su un piano meno estremo), è capace di di provocare emozioni a profusione con la propria musica.
Detto ciò, lo split album in questione per gli amanti del funeral death doom è senz’altro un oggetto da accaparrarsi senza alcun indugio.

Tracklist:
1. Eye of Solitude – Obsequies
2. Faal – Shattered Hope

Line-up:
Eye of Solitude
Daniel Neagoe – Vocals
Chris Davies – Bass
Adriano Ferraro – Drums
Mark Antoniades – Guitars
Steffan Gough – Guitars

Faal
Gerben van der Aa – Guitars
Marcelo – Synthesizer
Pascal – Guitars
William – Vocals
Sarban Grimminck – Drums
Vic van der Steen – Bass

EYE OF SOLITUDE – Facebook

FAAL – Facebook

Soulline – Welcome My Sun

Un album indicato per gli amanti del death metal melodico.

Nuovo lavoro in casa Soulline, band svizzera nata all’alba del nuovo millennio, giunta al quarto lavoro in studio: non più dei novellini dunque, ma una band dalla buona esperienza, anche se in questi quindici anni di attività non è mai riuscita a sfondare sul mercato.

Ci riprovano con oggi Welcome My Sun, album che porta con sé una novità non trascurabile, l’entrata in formazione del singer Ghebro, ottimo interprete del genere, aggressivo e corrosivo.
I Soulline per questo lavoro si è affidata alle cure degli Unisound Studios in Svezia e al talento del guru del death metal melodico Dan Swanö, ed il risultato non può che essere convincente.
Welcome My Sun, aiutato così da un ottimo lavoro in fase di produzione, deflagra per poco più di trenta minuti, consacrati allo scandinavian melodic death metal, aggiungendovi quel tocco di ritmiche core che fanno tanto cool di questi tempi, pur mantenendo la sua impronta scandinava ben salda.
Infatti l’album risulta un ottimo esempio del genere, le chitarre rifilano solos grondanti melodie, le ritmiche alternano la potenza ed il groove del core alle accelerate death, con il nuovo arrivato che rifila una prova più che convincente al microfono.
Niente che non sia già stato fatto da chi il genere lo ha portato alla ribalta (In Flames e Soilwork su tutti) ma l’ottima vena del gruppo e canzoni che spaccano riescono a far decollare il lavoro che, complice anche la durata ridotta, si lascia ascoltare dall’inizio alla fine, senza perdere un grammo in potenza e tensione.
Ora, che il metalcore cominci a tirare la cinghia è un fatto, ma questo buon compromesso tra la tradizione nord europea e il sound americano riesce ad entusiasmare, sopratutto se le band hanno dalla loro un songwriting ispirato, come nel caso dei Soulline e del loro nuovo lavoro, sound che in sede live spacca, regalando devastanti brani dove sfumature elettroniche arricchiscono la struttura dei brani, così da risultare pieni, grosse mazzate di metal estremo melodico.
Tra le songs che compongono il lavoro e che ripeto, va assolutamente ascoltato tutto d’un fiato, Anvils, Drunk, Right Here, Right Now hanno una marcia in più, per potenza e senso della melodia nel buon lavoro di chitarra, risultando toste ma allo stesso tempo facilmente memorizzabili.
L’ultima canzone è la riuscita cover di Anytime Anywhere dei conterranei e grandissimi hard rocker Gotthard del compianto Steve Lee, resa chiaramente molto più ruvida, senza perdere lo spirito della più famosa band elvetica.
In definitiva un album da ascoltare e far proprio senza indugi, specialmente se siete amanti del death metal melodico.

Tracklist:
1. Rise Up
2. Anvils
3. Wild Sneak
4. Drunk
5. Broken My Madness
6. Right Here Right Now
7. Welcome My Sun
8. No Exception
9. Anytime Anywhere

Line-up:
Lore – Guitar
Marco – Guitar
Ghebro – Vocals
Miles – Bass
Yuval – Drums

SOULLINE – Facebook

P.O.D. – The Awakening

Un ritorno più che positivo per una band che ha molto da dire.

Decimo disco per i sud californiani P.O.D., che producono un concept album di matrice cristiana e ribelle.

Mi spiego meglio: questa è la storia di Tim un ragazzo che si risveglia prende delle decisione e lotta per non essere risucchiato nella perversa spirale del nuovo ordine mondiale. Il messaggio dei P.O.D. è chiaro, il Male domina il mondo e bisogna lottare prima di tutto dentro noi stessi per poi potere combattere insieme alle altre persone per uscire dalla matrice.
Musicalmente il gruppo americano è uno dei pochi sopravvissuti positivamente all’ondata nu metal, e riesce ancora a fare album dignitosi come questo, ed ha ancora molto da dire.
Come composizione ed esecuzione dei pezzi non ci discostiamo molto dal canovaccio classico dei P.O.D. , il loro è un nu metal molto poppeggiante, con inserti reggae e melodie comunque piacevoli.
The Awakening è un album ambizioso soprattutto nello scopo, ovvero togliere il velo di Maya
dai nostri occhi e far vedere alla maggioranza cosa è davvero questo mondo, e perderemo se non ci sbrighiamo a cambiarlo.
Tra un pezzo e l’altro ci sono dei recitati che ci fanno capire meglio la storia, ed anche la portata del messaggio del gruppo. L’America ed il mondo in generale sono malati, e la malattia è il potere, l’avarizia, l’odio, e l’unica maniera per sopravvivere è svegliarsi e usare la nostra umanità in maniera diversa.
I P.O.D. sono cristiani e non fanno nulla per nasconderlo, ma il loro intento è quello di risvegliare la gente ed allontanarla dal Nuovo Ordine Mondiale. Se tutto ciò vi sembra una pazzia basta che vi guardiate intorno. Dentro e fuori casa vostra.
Un ritorno più che positivo per una band che ha molto da dire.

Tracklist:
1. Am I Awake
2. This Goes Out to You
3. Rise of NWO
4. Criminal Conversations (feat. Maria Brink)
5. Somebody’s Trying to Kill Me”
6. Get Down
7. Speed Demon
8. Want It All
9. Revolución (feat. Lou Koller)
10. The Awakening

Line-up:
Sonny – Voce
Wuv – Batteria
Traa – Basso
Marcos – Chitarra

P.O.D. – Facebook

Critical Solution – Sleepwalker

Grande band e album fantastico in cui nel brano di chiusura troviamo come special guest Michael Denner e Hank Shermann dei Mercyful Fate … e se si sono scomodati loro qualcosa vorrà pur dire.

I Critical Solution provengono dalla Norvegia, non suonano black o death metal ma una riuscita commistione tra il thrash metal americano e l’heavy metal dalle tinte horror, caro a band come Mercyful Fate e ovviamente King Diamond.

Sleepwalker è il secondo lavoro sulla lunga distanza di una discografia iniziata con l’ep “Evidence of Things Unseen” del 2011, proseguita con il primo full length “Evil Never Dies” del 2013 e con l’ulteriore ep “The Death Lament”, dello scorso anno.
Il quartetto scandinavo rilascia il nuovo lavoro, rigorosamente autoprodotto, stupendo per maturità compositiva, impatto ed ottima tecnica, e confezionando uno dei thrash album old school più belli degli ultimi tempi.
Velocità, impatto, melodie metalliche a iosa ed un songwriting davvero notevole, fanno di Sleepwalker un album che, nel genere, rasenta la perfezione.
Testament, primi Metallica e tanto heavy europeo per una decina di brani dalle tinte oscure, bilanciati con sagacia tra la tradizione statunitense e quella del vecchio continente, colma di ritmiche veloci, bellissime parti armoniche, crescendo entusiasmanti e solos incastonati in brani che spaccano.
Signori, questo è il thrash old school nella sua più splendente forma, suonato e cantato alla grande, drammatico, orrorifico, ma sempre ultra melodico.
Non c’è un brano che non entri in testa al primo ascolto, non un riff o un’accelerazione che non sia al posto giusto, sempre perfettamente strutturato su una voce che nasce per il genere e non potrebbe cantare altro, tanto è perfetta.
Christer Slettebø, voce e colpevole dei solos che per tutto l’album impazzano e vi terranno per le palle, Egil Mydland alle pelli, che in compagnia di Eimund Grøsfjell al basso formano una sezione ritmica da infarto, aiutati dalla sei corde della seconda chitarra tra le mani di Bjørnar Grøsfjell, questi sono i musicisti che compongono questo fenomenale combo, di cui non vi dimenticherete tanto facilmente.
La title track e Welcome To Your Nightmare incendiano i padiglioni auricolari; l’album parte a mille con due brani velocissimi e potenti, ma dalla terza song Blood Stained Hands il thrash lascia spazio ad una songs heavy, in un crescendo di emozioni metalliche da pelle d’oca; Sleepwalker inizia ad esaltare regalando atmosfere di drammatico horror metal, tra semiacustiche parti atmosferiche, cavalcate di puro metallo nobile e parti strumentali da brividi, tutti compressi nella stupenda Dear Mother, brano capolavoro di questo stupefacente lavoro.
Album fantastico e grande band che, non contenta, ci regala ancora brividi con Back from The Grave, posta in chiusura, dove troviamo come special guest Michael Denner e Hank Shermann dei Mercyful Fate … e se si sono scomodati loro qualcosa vorrà pur dire.

Tracklist:
1.The Curse
2.Sleepwalker
3.Welcome To Your Nightmare
4.Blood Stained Hands
5.Murder In The Night
6.Evidence Of Things Unseen
7.LT. Elliot” (featuring Mika Lagreen)
8.Dear Mother
9.The Death Lament
10.Back From The Grave (featuring Michael Denner and Hank Shermann)

Line-up:
Christer Slettebø – Vocals/Lead Guitar
Egil Mydland – Drums
Eimund Grøsfjell – bass Guitar
Bjørnar Grøsfjell – Guitars

CRITICAL SOLUTION – Facebook

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