88 Mile Trip – Through the Thickest Haze

Nove tracce che formano una dannata e pesante jam attraversata da vene dove scorre il blues più marcio e stravolta, come da copione, da dosi illegali di erbe e funghi.

Il Canada è terra di foreste che si perdono per chilometri, inverni che non finiscono mai, con il freddo che attanaglia ed una natura a suo modo difficile, in molti casi estrema, come il deserto, lontano migliaia di miglia, ma mai così vicino, raccontato dallo stoner rock degli 88 Mile Trip.

Il gruppo di Vancouver licenzia il suo primo album sulla lunga distanza dopo aver dato alle stampe un ep omonimo nel 2013 (anno di fondazione del gruppo) e addirittura un live album, sempre dello stesso anno e dal titolo “Live in the DTES”.
Giunge il momento, anche per loro, di sfornare il primo full length e Through the Thickest Haze arriva puntuale in questa metà dell’anno travolgendoci con la sua carica rock stonata, molto settantiano nell’approccio, senza grossi picchi ma lineare e dalla buona fruibilità.
Senza nessuna concessione alla psichedelia, l’album risulta un monolite di ritmiche hard rock desertiche; le canzoni tengono ad assomigliarsi un po’ troppo tra loro (forse l’unico difetto dell’album), ma le atmosfere da viaggio allucinato tra fumo e alcool, persi nelle desolate lande dove sole e caldo annebbiano la mente più che un joint, sono assicurate dall’ottima attitudine del quintetto canadese che, da buon Caronte, ci accompagna per le strade bruciate dell’America più vera, quella che noi amiamo di più.
Nove tracce che formano una dannata e pesante jam attraversata da vene dove scorre il blues più marcio e stravolta, come da copione, da dosi illegali di erbe e funghi, è ciò che ci propongono gli 88 Mile Trip, fieri paladini del rock settantiano amalgamato ai suoni desertici degli anni novanta.
E’ così che, tra le note dei vari capitoli di questo viaggio tra le nebbie della mente, vi imbatterete in richiami alle band cardine del genere, dagli stranominati (quando si parla di stoner) Black Sabbath, ai Kyuss e Fu Manchu.
Le canzoni scorrono piacevolmente e non ci si annoia tra le spire di questo Through the Thickest Haze, fino ad arrivare al capolavoro Song Of The Dead, stoner blues da applausi in cui l’hammond crea un alone di mistico discendere nei meandri di un rito stonato, che band come gli 88 Mile Trip continuano imperterrite a consumare.
Per concludere, un buon lavoro, gli amanti del genere sono invitati all’ascolto e troveranno di che crogiolarsi tra le note di Through the Thickest Haze.

Tracklist:
1. The Repressed
2. 20 & 8
3. Serpent Queen
4. Call to Rise
5. Burn the Saints
6. The Awakening
7. I’m Not Mad (I’m Just Disappointed)
8. Song of the Dead
9. Sacred Stone

Line-up:
Darin – Bass
Eddie – Drums
Hugo – Guitars
Casey – Guitars
Dave – Vocals

88 MILE TRIP – Facebook

Motörhead – Bad Magic

Una raccolta di brani che richiamano il tema del diavolo e della magia nera, convogliato in un sound che si fa leggermente più oscuro rispetto alle abitudini del gruppo, rimanendo ancorato però a quell’hard rock strafatto di rock’n’roll e sconvolto da un’attitudine punk che è il marchio di fabbrica dei Motorhead.

Difficile, se non impossibile, parlare di una band storica come i Motörhead di mister Lemmy Kilmister senza cadere nel banale o nel già scritto.

Troppi anni ad incendiare palchi e licenziare album (quest’anno ricorre il 40° anniversario della nascita del gruppo), troppe righe scritte su un uomo sempre in bilico sulla “sottile linea bianca”, ma probabilmente vera ed indiscussa icona del vivere rock’n’roll.
Eppure solo pochi mesi fa sembrava che il buon Lemmy dovesse lasciare le scene, il troppo stroppia anche per lui ed invece, a quasi settantanni, radunata la banda, torna con un nuovo lavoro.
Bad Magic è il ventiduesimo album dei Motörhead, con la coppia Campbell – Dee ad affiancare Lemmy in quello che probabilmente è l’album più riuscito degli ultimi anni.
Prodotto da Cameron Webb nei NRG Studios, l’album parte alla grande con Victory Or Die e non si ferma più, un razzo di rock’n’roll dinamitardo, un pugno in faccia che stordisce, come ai vecchi tempi, grazie a brani travolgenti e dall’impronta live.
Sarà dura per il gruppo scegliere le canzoni da lasciar fuori dalla scaletta dell’imminente tour mondiale, che vedrà il trio di questi inesauribili vecchietti prima girare gli States e poi sbarcare in Europa a novembre, vista la qualità complessiva di Bad Magic.
I primi otto brani sono cavalcate hard & roll tremendamente efficaci e bisogna arrivare alla semi-ballad Till The End per riuscire a tirare un po’ il fiato; Lemmy, con la sua voce sporcata da una vita al limite, continua a dispensare carisma ed i suoi degni compari lo seguono in questa nuova avventura, anche loro in forma splendida,(Phil Campbell è protagonista di un lavoro disumano alla sei corde, mentre Mikkey Dee si conferma picchiatore inesauribile).
L’ospite Brian May sulla roboante The Devil e l’omaggio agli Stones con la cover dell’immortale Sympathy For The Devil, sono le novità di un album dal sound nuovamente votato all’impatto live che ha caratterizzato i migliori lavori di una band che sembra essere rinata dopo un paio di opere zoppicanti come “The Wörld Is Yours” (2010) e “Aftershock”, di due anni fa.
Una raccolta di brani che richiamano il tema del diavolo e della magia nera, convogliato in un sound che si fa leggermente più oscuro rispetto alle abitudini del gruppo, rimanendo ancorato però a quell’hard rock strafatto di rock’n’roll e sconvolto da un’attitudine punk che è il marchio di fabbrica dei Motörhead.
C’è da divertirsi e tanto tra i solchi di Bad Magic, stravolti e cotti da canzoni dinamitarde come Thunder & Lightning, Electricity, l’oscura e “diabolica” Choking On Your Screams e l’esplosiva When The Sky Comes Looking For You.
Dopo un’estate passata a riempire le tasche a bolsi fenomeni da baraccone, è l’ora di tornare a fare sul serio: Bad Magic riconcilia il sottoscritto con i troppi gruppi storici ormai diventati patetiche cover band di se stessi e rifila una lezione di rock’n’roll a cui dovete assolutamente assistere … lunga vita a Lemmy Kilmister.

Tracklist:
1.Victory Or Die
2.Thunder & Lightning
3.Fire Storm Hotel
4.Shoot Out all of Your Lights
5.The Devil
6.Electricity
7.Evil Eye
8.Teach Them How To Bleed
9.Till The End
10.Tell Me Who To Kill
11.Choking On Your Screams
12.When The Sky Comes Looking For You
13.Sympathy For The Devil

Line-up:
Lemmy Kilmister – Bass, Vocals
Phil Campbell – Guitars
Mikkey Dee – Drums

Motörhead – Facebook

Dr. Gore – Viscera

L’ottima produzione e la cura di ogni dettaglio fanno di Viscera un gran bel lavoro, i brani si susseguono uno più violento dell’altro, strapazzati dal vocione del bassista che, trasformatosi nel sadico dottore, sventra, taglia e svuota corpi.

Disturbante per molti, venerato da altri, il brutal death si può senz’altro considerare come il genere più estremo di cui si nutre il metal: mai uscito dallo spirito underground se non in pochissimi casi, continua ad essere alimentato da band in ogni parte del mondo.

Guardando nel nostro paese, le realtà dedite al genere sono molte e in molti casi di assoluto valore, specialmente se ci si rivolge alla scena della capitale, alimentata da un nugolo di gruppi dalle potenzialità enormi, usciti negli ultimi due anni con opere di un certo spessore (Degenerhate, Corpsefucking Art, Devangelic, tre le altre).
Viscera è il nuovo lavoro dei Dr. Gore, uscito a distanza di tre anni dal primo full length, “Rotting Remnants”, nonché il secondo in dodici anni di attività, un lasso di tempo che ha donato al gruppo esperienza da vendere, dimostrata in questa mezz’ora di devastante massacro brutal/grind.
Il dottore ci sa fare eccome, torturando pazienti inermi, con una furia ed un impatto straordinari: i tredici brani raccolti in Viscera travolgono letteralmente, compatti e ferali, facendo risultare il tutto una valanga di musica violenta che non fa prigionieri.
Ottima la sezione ritmica, precisa e potente, inumana quando schiaccia il piede a tavoletta e parte come un razzo (Alessio Pacifici basso e Massimo Romano alle pelli) e letali le due asce (Marco Acorte e Luigi Longo).
L’ottima produzione e la cura di ogni dettaglio fanno di Viscera un gran bel lavoro, i brani si susseguono uno più violento dell’altro, strapazzati dal vocione del bassista che, trasformatosi nel sadico dottore, sventra, taglia e svuota corpi.
Il sound, che passa agevolmente dal brutal al grind, ed in alcuni casi si lascia apprezzare per sfumature e riff che ricordano il death classico, mostra l’ormai consolidata maturità del combo capitolino, maestro nel tenere in scacco la bestia che si aggira tra lo spartito dei brani, senza scendere a compromessi e mantenendo sempre altissima la tensione.
Le influenze, o meglio le affinità, con le band storiche sono tante e diverse, ma interpretate con grande personalità dalla band: se siete fans del genere, Viscera è assolutamente consigliato.

Tracklist:
1. Viscera
2. Grotesque Corpse Sculpture
3. Hordes of Dead Flesh
4. Diseased Altered Corpse
5. Embalmer
6. Fast Death
7. Freezer Full of Flesh
8. In Your Rotten Cavity
9. Time to Kill
10. Born in Corpse
11. Postmortem Blood Ejaculation
12. Zombie Brutalized Mankind
13. Back from the Grave to Kill Again

Line-up:
Alessio Pacifici – Bass,Vocals
Luigi Longo – Guitars
Marco Acorte – Guitars/Vocals
Massimo Romano – Drums

DR. GORE – Facebook

Osanna – Palepolitana

Gli Osanna, con questo sentito atto d’amore verso la loro città, regalano agli appassionati un meraviglioso nuovo disco di inediti che ristabilisce le gerarchie attuali all’interno del sempre vivo progressive italiano.

Un nuovo disco degli Osanna deve essere considerato necessariamente un evento: stiamo parlando infatti di uno dei nomi di punta della scena prog italiana degli anni settanta, anche se i più tendono a ricordare il solito trio formato da PFM, Banco e Le Orme.

La band napoletana ha avuto una carriera meno continua, con un lungo stop negli ultimi due decenni dello scorso secolo, e anche per questo non ha mai goduto, a differenza delle altre, di picchi di popolarità dovuti a brani più orecchiabili e commerciali.
Il ritorno ad un disco di inediti (il settimo della carriera, a quattordici anni dal precedente e, addirittura, a trentacinque dal penultimo) da parte di Lino Vairetti e della sua creatura avviene con la funzione ben precisa di offrire un atto d’amore tangibile nei confronti di Napoli; ovviamente, con questo, Vairetti non si nasconde dietro a un dito negando l’esistenza di un cancro come la camorra o del degrado che opprime certi quartieri ma, semplicemente, sostiene che questi mali sono comuni a tutte le grandi metropoli e che la presa di coscienza delle negatività non deve equivalere, necessariamente, a rinunciare ad esaltare le bellezze di un luogo che è anche e soprattutto culla di arte e di cultura. Con una canzone come Ciao Napoli, questo pensiero viene espresso in maniera esplicita e senza indugi, sposando quello di non pochi intellettuali partenopei i quali, ben lungi dall’essere collusi con la malavita, contestano la stereotipata rappresentazione cinematografica e televisiva che viene fornita della città, un aspetto che finisce per svilire e mettere in secondo piano molti altri dal segno positivo che sarebbe opportuno invece evidenziare.
Un atto d’amore, quindi, che si traduce in un album che, per buona parte, viene cantato in dialetto, e se questo di primo acchito potrebbe rappresentare un ostacolo per i neofiti, in effetti si tratta di un ulteriore valore aggiunto: qui la musica di matrice napoletana, quella che ha partorito giganti come Pino Daniele, per intenderci, si sposa alla perfezione con l’anima prog degli Osanna che, quando emerge, si dimostra ancor più esaltante.
Palepolitana è un titolo che fonde il nome Palepoli (ovvero la città sorta prima della “Neapolis”) con la parola Metropolitana e non è un caso, visto che il concept racconta di un androide che, percorrendo le viscere della città attraversando le stazione d’arte dell’underground partenopea, compie un ideale viaggio nelle radici culturali e popolari di uno dei luoghi più controversi ed affascinanti dell’intero pianeta.
Non dimentichiamo, inoltre, che Palepoli è anche il titolo dell’album più noto degli Osanna: pubblicato originariamente nel 1973, in occasione dell’uscita del nuovo album è stato ri-registrato con l’attuale formazione ed offerto come cd bonus .
Peraltro l’intero album non può essere neppure considerato una semplice opera musicale, vista la sua stretta connessione e collaborazione con le altre forme d’arte visiva sviluppate nel produrre l’artwork del lavoro, che troveranno la loro sublimazione al momento della realizzazione della versione in vinile prevista per l’autunno.
Va detto che la differenza tra gli Osanna attuali e quelli di quarant’anni fa non è da poco e viene evidenziata proprio dall’abbinamento delle due opere, benché venga parzialmente attenuata dalla realizzazione da parte della stessa line up.
Palepoli era un disco nervoso, composto da una band giovane che fondeva mirabilmente la tradizione musicale partenopea con le pulsioni prog dell’epoca; la rivisitazione targata 2015 smussa alcune asperità rispetto alle registrazioni originali, come è naturale che sia, ma non perde in efficacia, facendo godere gli appassionati dell’ascolto di un album storico, completato in alcune sue parti e gratificato da suoni e prestazioni perfette.
Laddove, in Oro Caldo, si auspicava la fuga dalla grande città (“Fuje ‘a chistu paese, fuje ‘a chistu paese. Parole, penziere, perzone, nun vanno ddaccordo nemmanco nu mese”), in Palepolitana un Vairetti che non ha certo smarrito il proprio spirito critico preferisce però esaltare la bellezza piuttosto che rimarcare le criticità, tramite un lotto di brani splendidi e sufficientemente immediati, difficili solo da scacciare dalla mente dopo averli ascoltati e riascoltati.
Coadiuvato da musicisti eccellenti, tra i quali il figlio Irvin alle tastiere e alla voce, e da ospiti di pregio come l’icona David Jackson e la magnifica Sophya Baccini, il leader con la sua voce ancora ferma e carismatica ci conduce in questo viaggio sotto il Vesuvio tra melodie ora malinconiche (Marmi e la meravigliosa Canzone Amara, con la preziosa partecipazione  della Baccini), ora devote alla tradizione (la taranta di Michelemmà), ora intrise di pathos e drammaticità (Fenesta Vascia e Profugo),
Brani inizialmente lineari e dal grande afflato melodico si aprono sovente in crescendo strumentali esaltanti (Santa Lucia, Palepolitana, Ciao Napoli) affiancati da omaggi all’epopea prog che fu (lo strumentale Anto Train).
Mentre tra disgrazie, abbandoni e divorzi, le altre band storiche del movimento si barcamenano apparendo talvolta le cover band di sé stesse, gli Osanna con questo splendido lavoro si svincolano da questa insidia mostrando al mondo che il progressive italiano è sempre vivo e vegeto e che è possibile ottenere simili risultati volgendo lo sguardo al passato, ma tenendo i piedi ben saldi nel XXI secolo.

Tracklist:
CD 1 – Palepolitana
1. Marmi
2. Fenesta Vascia
3. Michelemmà
4. Santa Lucia
5. AntoTrain
6. Anni di Piombo
7. Palepolitana
8. Made in Japan
9. Canzone Amara
10. Letizia
11. Ciao Napoli
12. Profugo

CD 2 – Palepoli
1. Oro Caldo
2. Stanza Città
3. Animale Senza Respiro

Line-up:
Lino Vairetti – vocals, acoustic and 12-string guitars, harmonica
Gennaro Barba – drums
Pako Capobianco – electric, acoustic and 12-string guitars
Nello D’Anna – bass
Sasà Priore – piano, Fender Rhodes, organ, synth
Irvin Vairetti – vocals, mellotron, synth

Guests:
David Jackson – sax & flute
Sophya Baccini – voice
Gianluca Falasca – violin
Angelo Salvatore – flute
Falasca String Quartet

OSANNA – Facebook

Pavillon Rouge – Legio Axis Ka

Album difficile da assimilare per chi vive di musica a compartimenti stagni, Legio Axis Ka è consigliato agli amanti dell’estremo che non disdegnano soluzioni moderniste ed elettroniche.

I suoni metallici amalgamati a quelli sintetici ed elettronici non fanno più quel clamore di una ventina d’anni fa: anche in questo ibrido musicale si è già detto più o meno tutto e gli album che hanno fatto storia sono stati saccheggiati dalle nuove leve in ogni loro parte.

Vero è che, chi ha raccolto maggiori proseliti sono quei gruppi che, partendo dalla lezione impartita dai Fear Factory, hanno creato mostri di abominevole metal estremo, violentato e reso ancora più devastante dalle soluzioni industriali.
Ma i francesi Pavillon Rouge fanno spallucce e proseguono imperterriti la loro discesa negli inferi con Legio Axis Ka, un monolite di black metal estremizzato da iniezioni di elettro/industrial, dalle forti reminiscenze new wave e dall’appeal straordinario.
Il gruppo estremo di Grenoble, attivo da quasi una decina d’anni, immette sul mercato tramite la Dooweet, questo secondo, splendido lavoro dopo cinque anni dall’ultimo parto, “Solmeth Pervitine”.
Black metal si diceva, feroce, e distruttivo, una bestia malefica che si nutre di suoni drogati e sintetici, atmosfere cyber ed industriali, fanno del nuovo lavoro una massacrante prova di forza da parte della band transalpina, in un viaggio per lo spazio che finisce inevitabilmente con una interminabile caduta tra le braccia di un demoniaco signore residente nel più profondo abisso.
Ottimamente usati, i suoni moderni trasmettono atmosfere che si diversificano ad ogni passaggio: ora disturbanti, molte volte creando sfumature sinfoniche e spaziali, ora tuffandosi nella techno (Kosmos Ethikos), creando un universo di musica estrema varia e dall’ottimo feeling.
Un mostro creato, come dal dottor Frankenstein, impossessandosi di parti che, ricucite assieme prendono vita, richiamando sotto la fiamma nera del black oltranzista una serie di generi nati dai suoni sintetici come l’industrial, la techno e la new wave per un risultato forse ambiguo ma molto affascinante.
Spaziale nel suo incedere, Legio Axis Kla, ha nelle parti estreme , dove la furia black è tenuta per le briglie dalla marzialità dei suoni cyber, i momenti più intensi come nell’opener Prisme vers l’Odysée e L’enfer se souvient, l’enfer sait, ottima accoppiata di songs estreme e furiose.
Mars Stella Patria si allontana dall’approccio black sinfonico delle prime due tracce per una canzone molto più sintetica e techno, ed è proprio su questa alternanza di stili che Legio Axis Ka vive, lasciando alla monumentale A l’Univers, il compito di inglobare tra il suo spartito tutti gli umori e le sfumature che compongono la musica dei Pavillon Rouge.
Album difficile da assimilare per chi vive di musica a compartimenti stagni, Legio Axis Ka è consigliato agli amanti dell’estremo che non disdegnano soluzioni moderniste ed elettroniche, se ne astengano invece gli adepti del black più oltranzista.

Tracklist:
1. Prisme vers l’Odysée
2. L’enfer se souvient, l’enfer sait
3. Mars Stella Patria
4. A l’Univers
5. Aurore et Nemesis
6. Droge Macht Frei
7. Kosmos Ethikos
8. Notre Paradis
9. Klux Santur

Line-up:
E.Shulgin – Bass
Kra Cillag – Vocals
Mervyn Sz. – Guitars, Programming
François Guichard – Guitars (lead), Vocals

PAVILLION ROUGE – Facebook

Bell Witch – Four Phantoms

I Bell Witch sono un altro nome da appuntare sul taccuino degli appassionati del doom più estremo.

Se qualcuno pensa erroneamente che a Seattle si suoni solo e sempre giunge, o comunque rock alternativo, provi ad ascoltare questo terrificante monolite sonoro eretto dal duo denominato Bell Witch.

Dylan Desmond e Adrian Guerra (quest’ultimo già live drummer dei formidabili Shadow of the Torturer) impiegano oltre un’ora per srotolare quattro brani dalla lentezza quasi esasperante, proponendosi come una sorta di versione d’oltreoceano dei tedeschi Worship.
Questo almeno avviene nella traccia cardine del lavoro, l’iniziale Suffocation, A Burial: I – Awoken, che si dipana in maniera appunto soffocante per oltre venti minuti segnati da uno sbocco melodico davvero lacerante nella sua parte finale.
A parte le più rarefatte sembianze di Judgement, In Fire: I – Garden, il resto dell’album vive sulle precedenti coordinate, anche se in Suffocation, A Drowning: II – Somniloquy qualche minima variazione, sotto forma di clean vocals dai toni evocativi, la si riscontra, spazzata via bellamente, comunque, dal growl belluino che sovrasta di nuovo il bradicardico incedere della conclusiva Judgement, In Air: II – Felled.
In sintesi, i due musicisti statunitensi con Four Phantoms hanno prodotto un’ottima opera che necessita inevitabilmente, però, di molta familiarità con il versante più opprimente e meno atmosferico del funeral.
I Bell Witch sono un altro nome da appuntare sul taccuino degli appassionati: se in futuro riusciranno anche a ripulire un pizzico il loro sound (anche se tutto sommato una produzione non proprio cristallina si confà al genere) e a ricreare con più continuità quel senso di dolore ottundente che dimostrano a tratti d’avere nelle corde, il prossimo lavoro potrebbe rivelarsi qualcosa di memorabile.

Tracklist:
1. Suffocation, A Burial: I – Awoken (Breathing Teeth)
2. Judgement, In Fire: I – Garden (Of Blooming Ash)
3. Suffocation, A Drowning: II – Somniloquy (The Distance of Forever)
4. Judgement, In Air: II – Felled (In Howling Wind)

Line-up:
Dylan Desmond – Bass, Vocals
Adrian Guerra – Drums, Vocals

BELL WITCH – Facebook

Watch Them Burn – Watch Them Burn

Debutto per i valdostani Watch Them Burn con cinque brani di metal moderno, tra richiami al death melodico e al metalcore.

Debutto omonimo autoprodotto per i valdostani degli Watch Them Burn, autori di un lavoro composto da cinque brani di metal moderno, tra richiami al death melodico e al metalcore.

Non male questo mini: la band, attiva da quattro anni, sa come muoversi tra i solchi del genere suonato, cercando di variare la propria proposta con ritmiche cangianti, mai troppo core, riuscendo ad amalgamare perfettamente il death melodico scandinavo, con il genere più in voga ultimamente tra quelli estremi.
Ne escono brani potenti e devastanti e dall’ottimo appeal; ottimo il lavoro delle chitarre, a cura di Corruptor e Mithra che, tra l’impatto prodotto dal gruppo, se ne escono con qualche assolo classico di ottima fattura, e sopra le righe la sezione ritmica (Shinigami al basso e Anubi alle pelli) che asseconda la vena cangiante dei brani, tra le ritmiche sostenute delle tracce più death oriented (bellissima l’opener The Day After) ed il groove potente e cadenzato di quelle più core (Dark Side).
Impreziosito dalla prova sontuosa del vocalist Maniac, vario e perfetto nell’adattare il suo scream ad ogni situazione musicale creata (finalmente un gruppo che non usa la voce pulita) mantenendo una tensione che si alza ad ogni brano, Watch Them Burn risulta un’opera prima riuscita ed in più parti avvincente.
Soul-R, la modernissima e marziale My Country e la conclusiva Afterlife, dove il gruppo valdostano torna alle sonorità death dell’opener, completano un album che si rivela, così, un buon ascolto sia per il fans del death metal melodico, sia per quelli più orientati a sonorità in linea con i gusti del momento: la band ha diverse strade da far percorrere alla propria musica, vedremo in futuro quale sarà l’indirizzo preso, magari con un lavoro sulla lunga distanza.

Tracklist:
1.The Day After
2.Soul R
3.My Country
4.Dark Side
5.Afterlife

Line-up:
Maniac – vocals
Corruptor – Guitar
Mithra – Guitar
Shinigami – Bass
Anubi – Drum

WATCH THEM BURN – Facebook

EVERSIN – Intervista

Intervista con la band siciliana autrice dell’ottimo “Trinity : The Annihilation”.

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Ignazio Nicastro e Angelo Ferrante, rispettivamente bassista e vocalist dei devastanti Eversin, thrash metal band autrice del notevole Trinity : The Annihilation.
Ne è scaturita una piacevole panoramica sul passato e presente del gruppo …

eversin2

iye Ciao a tutti e complimenti per il nuovo album; facciamo un passo indietro, però, e raccontateci la vostra storia!!

Ignazio: Ciao a te e grazie mille per le belle parole che hai speso sul nostro nuovo disco. Gli Eversin nascono nel 2008 dalle ceneri dei Fvoco Fatvo, e nel 2010, per My Kingdom Music, esce il nostro primo disco Divina Distopia, un album molto particolare, sperimentale e lontano dal thrash tecnico e violento che proponiamo oggi. L’album era una sorta di esperimento e presentava sonorità molto atipiche per una band thrash. Ci interessava esordire in maniera piuttosto atipica anche se non mancano le sfuriate che ci contraddistinguono. Diciamo che ce ne stanno meno del solito. Tears on the Face of God del 2012 e sempre per MKM, è il disco che ci riporta alle nostre radici, infatti è un album thrash molto diretto, anche se presenta molte parti piuttosto epicheggianti. Per quanto riguarda il neonato Trinity: the Annihilation, beh, è IL disco degli Eversin. E’ quanto di meglio abbiamo mai composto e pubblicato ed è la perfetta fotografia dell’anima della band.

iye Nonostante la bontà del precedente lavoro a mio parere i passi avanti fatti con “Trinity: The Annihilation”, sono stati esponenziali: avete avuto la stessa percezione e quale è stato il processo compositivo che vi ha portato a questo risultato ?

Angelo: Gli Eversin sono in costante evoluzione e come dici tu la cosa è assolutamente ravvisabile se si paragonano i nostri due ultimi lavori. In fin dei conti sono usciti a poco più di due anni di distanza l’uno dall’altro ma la differenza tra i due è notevole. Trinity: The Annihilation è assolutamente molto più violento rispetto a Tears on the Face of God, ma allo stesso tempo esalta le capacità tecniche di ognuno di noi e porta la nostra musica ad un livello ancora più alto. Il processo compositivo seguito è stato lo stesso usato per gli altri dischi solo che stavolta abbiamo avuto molto meno tempo per comporre e rifinire le canzoni. La cosa ci ha messo davvero sotto pressione ma dal risultato ottenuto posso dire che lavoriamo molto bene sotto pressione.

iye Il vostro album, supportato da un’ottima tecnica, cresce a dismisura con gli ascolti: in questi mi dà l’idea di un lavoro di vecchio stampo, cioè un’opera in cui l’ascoltatore non subisce passivamente la musica ma ne diviene parte attiva nell’elaborarne i contenuti.

I: Ciò che hai notato è esattamente ciò che vogliamo che succeda. L’ascoltatore deve essere catapultato all’interno di ciò che noi narriamo nei testi e deve esserne parte. Per questo i nostri testi devono rispecchiare ciò che suoniamo, proprio per consentire a chi ascolta di calarsi completamente all’interno delle atmosfere del disco. Prova a guardare la copertina e contestualmente ascolta una qualsiasi canzone del cd … ti sembrerà di essere davvero parte di ciò che stai guardando.

iye Il titolo ricorda la prima detonazione nucleare da parte degli U.S.A nel New Mexico del 1945, e la musica segue questo concept risultando apocalittica, a tratti capace di evocare puro terrore: questa scelta fotografa in qualche modo la vostra visione attuale del mondo che ci circonda?

I: Assolutamente sì. Ho scritto io tutti i testi, e non ho problemi a dire che l’umanità mi disgusta. Mi disgusta ciò che ha fatto in passato, ciò che fa e ciò che farà. Il mondo è un bel posto, è l’uomo che fa schifo. Un essere costantemente votato all’autodistruzione ed alla ricerca del bene personale. Ciò che ho voluto mettere in risalto coi testi non è la creazione dell’arma nucleare, bensì l’idea di autodistruzione che sta alla base della creazione della bomba atomica. Se ci pensi un attimo è l’abominio per eccellenza.

iye Ad inizio recensione ho accennato alle illustri collaborazioni che impreziosiscono l’album, ovvero quelle di James Rivera e Glen Alvelais: come siete riusciti a coinvolgere i due musicisti? Tra l’altro sto notando che sempre più i gruppi nostrani, in tutti i generi metallici, accolgono nei loro album graditi ospiti internazionali, segno che all’estero la nostra scena è più che rispettata, mentre in Italia si fatica, anche solo a supportare le band meritevoli; è davvero così anche secondo voi?

A: Li abbiamo contattati via mail ed in seguito, dopo che hanno accettato di collaborare, abbiamo inviato loro i pezzi su cui suonare. Sono due persone squisite e due professionisti davvero in gamba. Il fatto che molte band ospitino guest sui loro dischi è indubbiamente un buon segno e mette in luce, come dicevi tu, che le band italiane vengono ben considerate all’estero, cosa che non succederà mai in Italia, patria dell’invidia e delle maldicenze.

iye Slayer, Forbidden e Testament in un contesto estremo ed apocalittico, supportato da ottima tecnica e grande personalità: questo è ciò che risponderei a chi mi chiedesse una sintetica descrizione della musica degli Eversin: vi ci ritrovate o avete altro da aggiungere?

I: Che bisogno c’è di aggiungere altro? Meglio di così…

iye Oltre i gruppi citati, quali sono i vostri ascolti abituali?

I: Thrash metal in lungo ed in largo, molto death metal, qualcosa di black metal e qualcosa di heavy classico…

A: Testament, Slayer, Annihilator, Kreator, Grip.Inc ed Exodus, poi qualcosa di classico come Maiden, Ozzy o Savatage…

iye Parliamo di concerti, argomento spigoloso specialmente sul suolo nazionale: come vanno le cose in casa Eversin riguardo agli impegni on stage, in particolare per quanto riguarda le opportunità di esibirsi con una certa continuità?

I: Beh guarda, non ci possiamo lamentare … Abbiamo suonato con i Death Angel, con i Destruction per ben due volte, l’anno scorso al Rock Off in Turchia con i Megadeth e quest’anno coi i Korn, sempre l’anno scorso all’Agglutination e ad ottobre suoneremo con gli Annihilator … Inoltre abbiamo già qualcosa in cantiere per il 2016 …

A: Facciamo il possibile per far convivere la band con le nostre vite personali e lavorative, e a volte non è proprio facilissimo. Posso dire però che al momento ci stiamo riuscendo alla grande, e vedrai che nel 2016 saremo molto più presenti sui palchi di mezza Europa.

iye Concludiamo chiedendovi di anticiparci qualcosa riguardo ai vostri progetti a beve e lunga scadenza.

I: Come diceva Angelo, il 2016 ci vedrà sui palchi europei per dei festival ma nel frattempo già a Natale inizieremo a comporre del nuovo materiale. Ci sarà un quarto disco degli Eversin e sarà ancora più devastante. Per adesso c’è Trinity: the Annihilation a spaccare il culo a chiunque provi a mettere in discussione gli Eversin … il resto verrà a suo tempo.

Indesinence – III

Un lavoro che si propone tra i migliori dell’anno in ambito doom per la sua grande intensità.

I londinesi Indesinence tornano a proporre il loro oscuro death doom a tre anni di distanza dall’ottimo “Vessels of Light and Decay”.

III è, come si intuisce facilmente, il terzo full length della band, nata all’inizio del secolo ma non troppo prolifica in quanto ad uscite discografiche, in linea del resto con la gran parte di chi si dedica al genere; peraltro, a tale proposito, non va dimenticato che spesso queste uscite superano di gran lunga l’ora di durata e questa non fa eccezione.
È molta, quindi, la carne al fuoco per gli appassionati, i quali hanno la possibilità di ascoltare una delle band migliori quanto sottovalutate dell’intera scena.
La peculiarità degli Indesinence risiede fondamentalmente nell’esibire una versione minacciosa ed irrequieta del death doom, nel senso che l’aspetto consolatorio del genere viene sovente rimpiazzato da violente accelerazioni, quasi uno strappo volto a reagire al destino ineluttabile.
Le sfuriate in doppia cassa si manifestano senza preavviso e contribuiscono a tenere sempre sul chi vive l’ascoltatore, quasi con la funzione di impedirgli di essere sopraffatto dalla malinconia abbandonandosi all’illanguidimento.
Il sound della band è in linea con quello della scuola britannica, quindi con gli Esoteric quale parziale riferimento ma, ovviamente, con un’anima estrema ben più evidenziata ed un impatto senz’altro maggiormente diretto, in un ambito stilistico pertanto più vicino al death che non al funeral .
Nostalgia, primo vero brano dopo l’intro Seashore Eternal, fotografa al meglio il sound degli Indesinence : in questa traccia troviamo tutto ciò che il trio londinese immette nel proprio sound: rallentamenti, sfuriate, evocative melodie ed l’efficace growl di Ilia Rodriguez.
Embryo Limbo si muove sulla falsariga del brano precedente, mentre Desert Trail  si ammanta di un’oscurità annichilente, sia nelle sue sembianze funeral sia in quelle quasi brutal che l’ottimo assolo chitarristico finisce per unire idealmente.
Strana, e non poco, Mountains of Mind / Five Years Ahead che, già dal titolo parrebbe essere costituita da due tracce diverse, e così è di fatto, con lo stacco non da poco tra le atmosfere mortifere che si dipanano per oltre dieci minuti  ed il più orecchiabile gothic doom alla Paradise Lost degli ultimi tre giri d’orologio; scelta bizzarra ma dal risultato finale comunque convincente.
L’impronta disperata della voce in Strange Meridian si staglia su tastiere dolenti lungo i suoi diciassette minuti senz’altro difficili da digerire ma invero magnifici, nei quali la luce lasciata filtrare dalla chitarra solista nella seconda parte è qualcosa in più di un semplice barlume.
La title track, infine, altro non è che una lunghissima traccia di matrice ambient drone, di buona fattura ma che nulla aggiunge o toglie al valore di un lavoro che si propone tra i migliori dell’anno nel settore per la sua grande intensità.

Tracklist:
1. Seashore Eternal
2. Nostalgia
3. Embryo Limbo
4. Desert Trail
5. Mountains of Mind / Five Years Ahead
6. Strange Meridian
7. III

Line-up:
Andy McIvor – Bass, Lead Guitar
Ilia Rodriguez – Lead & Rhythm Guitars, Vocals, Keyboard
Paul Westwood – Drums

INDESINENCE – Facebook

Mythological Cold Towers – Monvmenta Antiqva

“Monvmenta Antiqva” è un lavoro lungo ma che lievita dopo ogni ascolto, composto ed eseguito al meglio da una band di valore che, probabilmente, ha raccolto molto meno di quanto avrebbe meritato a livello di popolarità.

I Mythological Cold Towers sono una delle realtà brasiliane più importanti in ambito doom, benché la loro notorietà sia di fatto confinata a pochi addetti ai lavori.

Autrice di pochi album diluiti in un arco temporale piuttosto vasto, la band paulista si è progressivamente spostata da una forma epica di black doom, grezza quanto di rara efficacia, espressa specialmente nel magnifico “The Vanished Pantheon”, per approdare ad un death doom dalle sfumature gotiche e dalle connotazioni sempre molto evocative.
I Mythological Cold Towers riescono così a trasmettere in maniera compiuta gli umori cupi e decadenti del genere senza però smarrire quell’aura epica che da sempre è nel loro dna.
Monvmenta Antiqva riesce piuttosto bene in tale intento grazie anche ad uno splendido operato della chitarra solista, capace di rendere al meglio, sia pure in maniera molto essenziale, quelli che sono gli umori di un lavoro che conferma l’elevato standard qualitativo messo in mostra anche nel precedente “Immemorial”.
Beyond the Frontispiece apre splendidamente un album che tocca vette emotive altissime in un brano come Of Ruins and Tragedies, che ha il solo difetto di perdersi in una parte finale interlocutoria andando ad intaccare parzialmente un crescendo emotivo che meritava un migliore epilogo.
Sand Relics riparte nuovamente con il marchio dell’opener, con tastiera e chitarra a costruire partiture solenni sulle quali Samej recita le sue malsane litanie, utilizzando un growl semi recitato assolutamente funzionale al contesto in cui si va ad inserire.
Lo spirito dei Septic Flesh di “Esoptron” aleggia invece nella prima parte di Baalbeck, dove un tocco pianistico apparentemente elementare eleva a dismisura il pathos del brano nella sua fase discendente.
Anche Strange Artifacts segue lo schema vincente di Beyond the Frontispiece, mentre Vestiges è la degna chiusura di un album davvero molto bello, con il quale i Mythological Cold Towers riescono a toccare le corde più recondita dell’animo senza ricorrere a particolari artifici, bensì esibendo un sound fruibile e decisamente poco propenso ad accelerazioni o sfuriate di matrice death o black.
Monvmenta Antiqva è un lavoro lungo ma che lievita dopo ogni ascolto, composto ed eseguito al meglio da una band di valore che, probabilmente, ha raccolto molto meno di quanto avrebbe meritato a livello di popolarità, peraltro all’interno di un genere che già di suo si colloca orgogliosamente agli antipodi del mainstream musicale.

Tracklist:
1. Beyond the Frontispiece
2. Vetustus
3. Votive Stele
4. Of Ruins and Tragedies
5. Sand Relics
6. Baalbeck
7. Strange Artifacts
8. Vestiges

Line-up:
Samej – Vocals
Shammash – Guitars
Nechron – Guitars, Keyboards, Vocals
Hamon – Drums

MYTHOLOGICAL COLD TOWERS – Facebook

Gravesite – Horrifying Nightmares …

Senza un brano sotto la media, “Horrifying Nightmares …” sembra uscito davvero dalle orde barbariche che ci investirono nei primi anni novanta: parlare di influenze è superfluo, ascoltatelo.

Supergruppo estremo tutto italiano? E perchè no?

D’altronde, a ben vedere il curriculum dei musicisti impegnati in questa band c’è da stropicciarsi gli occhi: David, batterista di almeno tre gruppi esagerati come Haemophagus, Morbo ed ex Sergeant Hamster, Gioele axeman di Haemophagus e Repulsione, oltre a Claudio (basso) e Gabri (voce) a dare il loro contributo ad una miriade di band tra cui Ancient Cult, Bland Vargar, Nagasaki Nightmare il primo e Black Temple Below, Cancer Spreading, Terror Firmer il secondo.
Nati lo scorso anno, i Gravesite hanno all’attivo un demo, “Obsessed by the Macabre”, prima che il full lenght d’esordio irrompa sulla scena underground sotto l’ala della Xtreem Music, che di lavori old school se ne intende, e ci massacrino sotto le bordate death metal del loro devastante Horrifying Nightmares …
Album che si rifà alla tradizione del death metal classico, il lavoro del gruppo emiliano travolge l’ascoltatore che, ad un primo disattento approcciarsi al disco, potrebbe pensare di trovarsi al cospetto di una delle band storiche del nostro genere preferito, direttamente dai primi ’90, tanto è perfetto a livello di sound, composto da tutti gli ingredienti che hanno fatto storia nella musica estrema.
Tanto death nord europeo, ed una spruzzata di sound made in Bay Area, fanno di Horrifying Nightmares … un ascolto obbligato per tutti i deathsters dagli ascolti old school, sparsi per lo stivale e non solo.
Atmosfera orrorifica già dalla stupenda copertina retrò, partenze a razzo per le vie di un massacro senza soluzione di continuità e brusche frenate doom/death, sono le virtù principali di un lavoro pregno di impatto non solo death, visto che la band ci tiene a sottolineare un’orgogliosa attitudine punk che aiuta non poco l’aggressività e la voglia della band di non scendere a compromessi.
Ottimo il lavoro dei musicisti e non potrebbe essere altrimenti, iniziando dal bestiale orco al microfono, per passare al gran lavoro della sei corde (Gioele è una garanzia di qualità) esaltato da una sezione ritmica da orgia infernale.
Senza un brano sotto la media, Horrifying Nightmares … sembra uscito davvero dalle orde barbariche che ci investirono nei primi anni novanta: parlare di influenze è superfluo, ascoltatelo.

Tracklist:
1. Intro / Anguished Sheep
2. Submerged in Vomit
3. Horrifying Nightmares of Flesh and Blood
4. I Want to Rot
5. The Painter of Agonies
6. Where Mortals Fear to Thread
7. Curse of the Red Moon
8. Worship Death in All Its Forms
9. Suscipe Mortem

Line-up:
Claudio – Bass
David – Drums
Gioele – Guitars
Gabri – Vocals

GRAVESITE – Facebook

Psychophobia – The Fall

Una quindicina di minuti di musica che costituiscono un’importante conferma delle qualità del gruppo.

Certo che gli In Flames di band ne hanno influenzate molte: più passa il tempo e più il gruppo di Anders Friden si rivela un importante modello, sia per i gruppi orientati al death melodico, sia per quelli che si ispirano alla band svedese dopo la svolta dall’impronta americana che avvenne da “Reroute to Remain” in poi.

Gli Psychophobia fanno man bassa del sound di album storici come “Whoracle” e “The Jester Race” e lo arricchiscono di ritmiche power: il risultato è una buona amalgama, che stordisce ed a tratti esalta; derivativo certo, ma i tre brani proposti in questo ep sono manna per gli amanti del genere, che vogliono tornare alle origini del death melodico senza perdersi in soluzioni core e godendo degli elementi classici del genere, con solos melodici e voce cattiva oltre alle suddette ritmiche.
La band, non è proprio di primo pelo, e la sua discografia si avvale di un demo del 2003, di un mini cd e di un full length risalente a tre anni, il tutto in oltre un decennio di carriera nel mondo metallico underground.
L’esperienza si sente tutta e pur senza apparire troppo personale, il gruppo il proprio mestiere lo sa fare bene, confezionando tre brani feroci, scorrevoli e melodici, pur picchiando da par loro.
The Fall, se concepito per sondare il terreno per un futuro album, la sua missione la porta a casa con dignità: Servants Of Deception, la title track e The Code piacciono, colme di riferimenti al genere ed ottime soluzioni ritmiche, solos che strappano qualche convinto applauso e growl che impazza, finalmente anche nei ritornelli, aggressivo e sul pezzo.
Una quindicina di minuti di musica che costituiscono un’importante conferma delle qualità del gruppo, sono quello che avrete da quest’opera, datele un ascolto e mettetevi in attesa del prossimo lavoro sulla lunga distanza.

Tracklist:
1.Servants of Deception
2.The Fall
3.The Code

Line-up:
Pater – guitar
Maryjan – guitar
Maly – drums
Stygmat – vocal
Kom – bass

PSYCHOPHOBIA – Facebook

Dead Hand – Storm Of Demiurge

I Dead Hand, con la loro prima prova su lunga distanza , riescono a catturare l’attenzione in virtù di una scrittura mai banale e che, nel contempo, pare garantire ulteriori ed oltremodo interessanti sviluppi.

Gli statunitensi Dead Hand sono di formazione piuttosto recente, visto che la loro genesi risale al 2013, e Storm Of Demiurge è il primo full-length che include anche i due brani (Ground to Ash e The Last King) presenti nell’Ep uscito l’anno scorso.

Se il buongiorno si vede dal mattino, il futuro della band georgiana si prospetta fangosamente entusiasmante, visto che lo sludge messo in mostra in questi tre quarti d’ora abbondanti di musica appare fina da subito di primissima qualità.
Se Resign to Complacency si presenta come una sorta di intro per poi sfociare in un riff ripetuto ad oltranza, con la già citata Ground to Ash si entra nel vivo del lavoro grazie alle sue atmosfere cupe che, a tratti, vengono stemperate da umori post metal funzionali ad incrinare l’incedere di un sound per sua natura piuttosto monolitico.
In effetti, nonostante le premesse iniziali, una certa componente melodico-acustica prende sovente piede, regalando quell’alternanza di sensazioni in grado di rendere più peculiare la proposta della band.
La voci sono in linea con la tradizione sludge-post metal, e ben si sposano con la atmosfere minacciose che trovano una prima loro sublimazione in Trailed by Wolves, traccia lunghissima che si rivela emblematica delle capacità e delle caratteristiche dei Dead Hand, i quali non dimenticano mai di imprimere tratti riconoscibili ai loro brani.
L’album vive di una tensione emotiva continua, accentuata dall’andamento comune a tutti brani, con un inizio quasi soffuso e dai tratti acustici al quale segue un crescendo, più o meno netto, con quale il trio aumenta progressivamente il tiro fino al raggiungimento del climax (cosa che avviene ugualmente, ma in maniera meno accentuata, nella title track).
La chiusura affidata all’altro brano già edito, The Last King, conferma appieno la vena compositiva dei Dead Hand, capaci fin dalla loro prima prova su lunga distanza , di catturare l’attenzione in virtù di una scrittura mai banale e che, nel contempo, pare garantire ulteriori ed oltremodo interessanti sviluppi.

Tracklist:
1. Resign to Complacency
2. Ground to Ash
3. Trailed by Wolves
4. Storm of Demiurge
5. 1/13/12
6. The Last King

Line-up:
Matt – Guitar, Vocals
Clifton – Guitar, Vocals
Stephen – Bass
Shannon – Keyboards, Vocals
J.R. – Drums

DEAD HAND – Facebook

Kalamata – Same

Il trio teutonico Kalamata esordisce con un album space rock psichedelico che spacca.
Geniale sia l’artwork, che ricorda i deliri onirici dei Tool, sia i titoli delle canzoni, che letti insieme passano un messaggio forte e chiaro all’ascoltatore: You Have To Die Soon Mother Fucker. Non perdiamo tempo quindi, mettiamoci subito in cammino, la colonna sonora è garantita.
Come nel miglior viaggio che presenta un paesaggio mutevole, batteria, basso e chitarra sapientemente alternati si inseguono in riff potenti e ipnotici, a tratti più pungenti, in altri più nervosi.
Il giro di chitarra iniziale di You si lega in modo subliminale alle sinapsi; quando la canzone esplode ormai è radicata dentro il cervello. Have sconfina del post rock con suoni più veloci e vibranti. Die è calda e avvolgente, mistica: grazie anche ad un ascolto diretto con le cuffie non è solo un viaggio fisico, ma spirituale, ascetico, magari aiutato da sostanze psicotrope. E c’è qualcosa dei Tool anche per come la chitarra stride verso la fine della canzone.
Strutture math un po’ troppo ripetitive rendono Soon una canzone noiosa, al punto che dopo alcuni ascolti del disco si tende, arrivati a questo punto, a premere il tasto skip.
Mother riprende il vigore dell’inizio dell’album, Fucker è un rimando agli Sleep di Jerusalem, lenta, incessante, inesorabile, subliminale.
Same è album di esordio davvero piacevole, caratterizzato da suoni puliti e precisi, che soddisferà senza fatica gli amanti del genere, affamati di aggiungere un altro gruppo alla loro playlist.

Tracklist :
1. You
2. Have
3. To
4. Die
5. Soon
6. Mother
7. Fucker

Line-up :
Peter Jaun: chitarra
Olly Opitz: batteria
Maik Blumke: basso

pagina facebook
www.facebook.com/kalamataband

Black Capricorn / Bretus – 7″ Split

Un sette pollici che regala enorme piacere e che fa vedere la bontà della scena italiana in quanto a musica oscura e pesante.

Semplicemente due tra le migliori band di musica pesante in Italia uniscono le loro forze e ci presentano una coppia di inediti davvero ottimi.

Sul lato A di questo sette pollici, stampato in trecento copie dalla The Arcane Tapes, ci sono i Bretus, macchine calabresi di sonorità doom classiche, con grandi composizioni che arieggiano la disperazione e il cantato davvero fuori dal comune dei Candlemass, ma oggi sono meglio di questi ultimi. La canzone si ispira ad un racconto dalle stesso titolo molto importante nella produzione lovecraftiana, ed è un ulteriore invito a leggere il Maestro.
Sul lato B le bestie di Satana sarde Black Capricorn, che si sono rivelati nel 2014 con “The Cult of Balck Friars” come uno dei migliori gruppi nel genere doom versante occulto. Le loro abrasioni sonore sono fuori dal comune e questo inedito li conferma come un gruppo che può suonare quello che vuole. The Hound of Harbinger God  è un pezzo di quasi nove minuti ipnotico ed iniziatore, basta seguirlo ed andarci dietro, non cercando la luce in questa bellissima oscurità.
Un sette pollici che regala enorme piacere e che fa vedere la bontà della scena italiana in quanto a musica oscura e pesante.
Una chicca.

Tracklist:
Lato A Bretus – The Haunter Of The Dark
Lato B Black Capricorn – The Hound of Harbinger God

Line-up:
Bretus
Zagarus – vocals
Ghenes – bass
Faunus – guitars
Striges – drums

Black Capricorn
Fabrizio “kjxu” Monni – guitars, vocals, 2nd guitar solo
Daniele Manca – guitars, 1st guitar solo
Virginia Piras – bass
Rachela Piras: drums

BRETUS – Facebook

BLACK CAPRICORN – Facebook

Lectern – Fratricidal Concelebration

Per gli amanti del death metal americano questo album è un oggetto da mettere vicino, con orgoglio, alle opere dei nomi storici del genere.

Un dinamitardo album di death metal tecnico, feroce e old school, direttamente dagli states dei primi anni novanta.

No , questo assalto sonoro dal titolo Fratricidal Concelebration fa molta meno strada per arrivare a noi, sia in margini di tempo che di chilometri percorsi: infatti la band protagonista di cotanto massacro è romana e l’album datato 2015.
I Lectern provengono quindi dalla capitale, una vita nell’underground metallico ed ora finalmente giunge il momento di dare alle stampe l’agognato debutto che risulta un autentico e devastante tributo al death metal americano, prodotto benissimo e suonato ancora meglio.
Mezz’ora basta e avanza al combo per mettere tutti d’accordo, qui si fa death con palle che sono mastodontiche sfere d’acciaio, risultando un brutale assalto sonoro, un’aggressione senza pietà resa superba da una tecnica invidiabile.
Velocità, pesantezza, virtuosismi ritmici formidabili ed un growl belluino, fanno di Fractricidal Concelebration un tributo al re dei generi estremi, qui assolutamente nobilitato da un songwriting in stato di grazia ed un’attitudine da top band del genere.
Prodotto da Giuseppe Orlando nei The Other Sound Studios, l’album letteralmente spacca, la band non concede un attimo di tregua, il loro death che, a tratti, si avvicina al brutal, è un perfetto esempio di come si può essere estremi e tecnici senza finire nel caos senza costrutto.
Fratricidal Concelebration è composto da canzoni che si dimostrano una più feroce dell’altra, una più brutale e devastante dell’altra, una più bella dell’altra.
Sedici anni sono passati dalla nascita dei Lectern, una vita se si pensa a come il mondo della musica, anche estrema, sforna gruppi e dischi come panini dal fornaio sotto casa, eppure mai attesa fu meglio premiata, così che la band romana si guadagna un posto d’onore tra le top band del panorama estremo, non solo nazionale.
Per gli amanti del death metal americano questo album è un oggetto da mettere vicino, con orgoglio, alle opere dei nomi storici del genere.

Tracklist:
1. Fratricidal Concelebration
2. Labial of Inveigher
3. Genuflect for Baptismal Transubstantiation
4. Falsifier Bribed in Desanctification
5. Pulpit of Tormentation
6. Lordless
7. Deign of Ceremonier
8. Golgothanean
9. Libidinal Tabernacles

Line-up:
Fabio Bava – vocals, bass
Enrico Romano – guitars
Marco Valentine – drums
Pietro Sabato – guitars

LECTERN – Facebook

Fallen – Fallen

Riedizione dell’unico album pubblicato dai Fallen con l’aggiunta di due tracce inedite.

È tempo di riedizioni per le creature musicali di Anders Eek, uno dei protagonisti principali della scena doom norvegese.

I Fallen erano una band parallela dei più noti Funeral (dei quali parleremo appunto nei prossimi giorni trattando la ristampa del loro secondo album) e, nel corso della loro breve esistenza artistica, hanno lasciato una sola testimonianza su lunga distanza, A Tragedy’s Bitter End, un lavoro uscito nel 2004 che ottenne buoni riscontri a livello di critica.
Purtroppo, la prematura morte del chitarrista Christian Loos decretò l’interruzione dell’attività per i Fallen, con Eek che passò a dedicarsi a tempo pieno al suo principale progetto.
La Solitude offre oggi questa riedizione, che viene definita impropriamente una compilation, visto che si tratta di fatto della riproposizione dell’unico album con l’aggiunta di due brani registrati prima della scomparsa di Loos.
Musicalmente, A Tragedy’s Bitter End contiene una forma di funeral piuttosto scarna ma indubbiamente coinvolgente anche se non sempre del tutto a fuoco; la possibilità di parlare di questo vecchio album mi fornisce lo spunto per chiarire un personalissimo punto di vista sulla materia trattata: per quanto mi riguarda, l’unica forma vocale possibile per un disco funeral è il growl, punto, e “tutto il resto è noia” (nel vero senso della parola), come qualcuno cantava molti anni fa …
Il tono profondo e forzato di Kjetil Ottersen è piuttosto simile a quello utilizzato da Kostas Panagiotu nei Pantheist, il che tende sicuramente a fornire al sound un’aura più decadente (oltre all’indubbio vantaggio di poter cogliere il contenuto lirico senza l’ausilio di un testo scritto), ma con lo sgradevole effetto collaterale di dover ascoltare una sorta di Andrew Eldritch afflitto da adenoidi.
Per contro, l’attitudine e la competenza nel trattare il genere da parte di Eek e compagni è al di sopra di ogni sospetto, e si percepisce chiaramente quanto il tragico e ineluttabile sentore di morte che aleggia costantemente lungo ogni singola nota dell’album non sia frutto di un’esibizione manieristica.
Un brano splendido come Now that I Die, con i suoi diciassette minuti ed oltre di dolore che si fa musica, è emblematico della bontà intrinseca di un lavoro che è giustamente rimasto ben impresso nella memoria degli appassionati più incalliti.
Le due composizioni che vanno ad integrare la scaletta di A Tragedy’s Bitter End sono Drink Deep My Wounds, che si muove sulla falsariga dei brani precedenti pur rivelandosi in certi frangenti più arioso, e la cover di Persephone dei Dead Can Dance, piuttosto stravolta rispetto all’originale ma non per questo meno efficace (anche grazie al ricorso ad un timbro vocale meglio tarato da parte di Ottersen).
I motivi per far propria questa uscita quindi non mancano, inclusa la possibilità di avere per le mani un album che, all’epoca, venne stampato in un numero limitato di copie e che, oggi, viene oltretutto riproposto con una nuova e più soddisfacente veste grafica.

Tracklist:
1. Gravdans
2. Weary and Wretched
3. To the Fallen
4. Morphia
5. Now that I Die
6. The Funeral
7. Drink Deep My Wounds
8. Persephone – A Gathering of Flowers (Dead Can Dance cover)

Line-up:
Anders Eek – Drums
Christian Loos – Guitars
Kjetil Ottersen – Vocals, Keyboards, Guitars, Bass

Black Inside – A Possession Story

Passato, presente e futuro dell’heavy metal passano da album come questo bellissimo “A Possession Story” dei nostrani Black Inside.

Questo bellissimo album mi da lo spunto per fare una considerazione sull’attuale stato di salute dell’heavy metal nel nostro paese: chiaro che, se prendiamo come punto di riferimento e paragone gli anni d’oro (decennio ottantiano), a livello di popolarità non c’è confronto, quelli erano tempi in cui il metal era normalmente in classifica e le band storiche, aiutate da ogni tipo di media, potevano contare addirittura su articoli apparsi su quotidiani e settimanali non proprio di settore (qualcuno si ricorda i Maiden su Sorrisi e Canzoni TV … ?).

I tempi sono cambiati, le tv sono sempre meno libere e chi avrebbe la possibilità di dare una mano al metal, continua a far girare un certo tipo di rock più impegnato politicamente, lasciando al genere, a mio parere il più anarchico di tutti, le briciole.
Peccato, anche perché mai come in questo periodo il metal gode di ottima salute, rigenerato da etichette che non mollano, alla faccia della crisi, ed immettono sul mercato gioielli di musica dura che, aldilà delle influenze più o meno riscontrabili, riescono nella non facile impresa di piacere, travolgere, emozionare.
A distanza di pochissimo tempo dal bellissimo album dei Negacy, ecco che un’altra band mi conquista con un lavoro che poggia le sue fondamenta sul metal classico ma che, invece di risultare il classico lavoro old school, si rivela vario, fresco e moderno pur richiamando il sound dei nostri eroi.
Questa volta si scende al sud, nella bellissima Napoli per incontrare i Black Inside e parlarvi del loro ultimo lavoro dal titolo A Possession Story.
Il gruppo campano nasce nel 2009 e nel 2011 esordisce con l’ep “Servants of the Servants”, seguito dal primo full length “The Weigher of Souls” del 2013, che li ha portati a dividere il palco con Blaze (“che ci faccio io nei Maiden”) Bailey e i Phantom X.
Due anni sono passati, (un lasso di tempo che sta diventando una costante per la band) ed eccoli tornare alla grande con questo bellissimo lavoro di metallo classico, per inciso hard & heavy incendiario, dal songwriting clamoroso ma soprattutto, come detto prima, vario.
Infatti A Possession Story è un susseguirsi di bellissime canzoni, tra l’heavy metal epico e progressivo di certi capolavori della vergine di ferro (The Siege OF Jerusalem), richiami al metal statunitense dei grandiosi Iced Earth (Man Is A Wolf to Men), affreschi di hard rock sabbathiano (Jeffrey), stoner metal grondante lava (I’m Not Like You), travolgente hard & heavy (la conclusiva Pharmassacre) e ballads drammatiche da applausi (la title track), che formano insieme alle altre canzoni un tuffo nel miglior esempio di quello che è oggi l’heavy metal: un genere che guarda al passato con più di un piede nel presente e nel futuro della musica , ed è proprio grazie a dischi come questo che risulta immortale.
Non bastasse ci si aggiungono le prove dei musicisti che, guidati dalla personalità debordante del singer Luigi Martino, sciorinano una prestazione eccezionale in ogni passaggio dell’album, aiutati da una produzione perfetta per il genere, non troppo cristallina per risultare patinata, ma assolutamente sanguigna.
Chi mi conosce per ciò che scrivo si IYE, sa che il mio amore per l’heavy metal è incondizionato causa le troppe primavere, ormai, passate in compagnia della musica dura per eccellenza, ma vi assicuro che album come A Possession Story fanno tornare il sorriso a questo inguaribile vecchietto …

Tracklist:
01. Man is a Wolf to Men
02. The Siege of Jerusalem
03. Black Inside
04. I’m Not like You
05. King of the Moon
06. Too Dark to See
07. A Possession Story
08. Forsaking Song
09. Jeffrey
10. Pharmassacre

Line-up:
Luigi Martino – Lead Vocals
Brian Russo – Guitars
Eduardo Iannaccone – Guitars
Vincenzo La Tegola – Bass Guitar
Enzo Arato – Drums

BLACK INSIDE – Facebook

AA.VV. – A Treasure To Find, un Omaggio ai Novembre

Un’operazione del tutto azzeccata per la qualità intrinseca dei brani scelti e delle rispettive riproposizioni.

Prima di cominciare a parlare di questo album devo fare doverosamente outing: i Novembre non mi hanno mai fatto impazzire. Intendiamoci, non ho alcuna intenzione di sminuire (e del resto chi sono io per pensare di farlo ?) il valore oggettivo di una band che ha influenzato centinaia di musicisti, non solo nel nostro paese: il fatto è che il sound della creatura dei fratelli Orlando non è mai riuscito del tutto a far breccia in un cuore come il mio, che pure è propenso per natura ad emozionarsi ascoltando brani intrisi di malinconia come sono in effetti quelli dei Novembre. Come cantava qualcuno molti anni fa, evidentemente, è solo “una questione di feeling”.

Questa premessa, che ai più forse parrà superflua, è doverosa in quanto l’apprezzamento che andrò a descrivere nei confronti di questa ottima iniziativa della Mag-Music, non è quello del fan accecato dalla passione, bensì deriva esclusivamente dalla bontà delle rielaborazioni dei brani dei Novembre contenuti nel tributo.
Nove sono le tracce proposte con il contributo di dieci realtà musicali (in quanto Cold Blue Steel viene brillantemente rielaborata dall’accoppiata Vostok / Australasia), diverse per background e stile ma ugualmente ispirate nei rispettivi percorsi musicali dalla seminale band capitolina .
Nella scelta dei brani la parte del leone la fa il penultimo album “Materia” con quattro tracce (in effetti cinque se consideriamo che L’Alba di Morrigan propone mirabilmente in un sol colpo Aquamarine / Geppetto) lasciando il resto ai vari “Classica” (2), “Wish I Could Dream It Again…”, “Arte Novecento” e “Novembrine Waltz” (uno ciascuno), e tralasciando misteriosamente del tutto l’ultima testimonianza su lunga distanza “The Blue”.
Nel complesso l’operazione si rivela, comunque, del tutto azzeccata per la qualità intrinseca dei brani scelti e delle relative riproposizioni, con note di merito per l’operato di Lenore S. Fingers, dove possiamo apprezzare ancora una volta la splendida voce di Lenore, Shores Of Null, la band più metal del lotto che, non a caso, si appropria da par suo di The Dream Of The Old Boats ,uno dei brani più datati dei Novembre, e, come detto L’Alba di Morrigan con la poetica accoppiata tratta da “Materia”.
Di sicuro gradite a chi ha familiarità con la musica proposta, per assurdo questo tipo di iniziative possono rivelarsi utili soprattutto incuriosendo chi magari conosce solo di fama le band oggetto dei tributi, tanto più in questo caso specifico alla luce del recente annuncio (al punto che viene da chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina …) dell’imminente ritorno dei Novembre, guidati dai soli Carmelo Orlando e Massimiliano Pagliuso, a ben otto anni di distanza da “The Blue”.
Da applaudire quindi per la brillante intuizione i promotori del tributo, Marco Gargiulo della Mag-Music e Stefano Morelli di Rumore, a maggior ragione per la decisione di offrirne i contenuti in download gratuito.

Tracklist:
1. Valentine – Lenore S. Fingers (Novembrine Waltz)
2. The Dream Of The Old Boats – Shores Of Null (Wish I Could Dream It Again)
3. A Memory – Demetra Sine Die (Arte Novecento)
4. Aquamarine/Geppetto – L’Alba Di Morrigan (Materia)
5. Cold Blue Steel – Vostok & Australasia (Clasica)
6. Nostalgiaplatz – Arctic Plateau (Classica)
7. Memoria Stoica/Vetro – Shape (Materia)
8. Nothijngrad – Electric Sarajevo (Materia)
9. Jules – Lauren Vieira (Materia)

MAG MUSIC – Facebook

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