Un‘uscita interessante per un progetto dalle buone potenzialità.
A Young Man’s Funeral è uno dei molteplici progetti provenienti dalla Russia in ambito doom, probabilmente non tutti imprescindibili ma, molto spesso, di sicuro interesse.
Se, in effetti, la quantità di uscite può in parte inflazionare il mercato, va detto anche che la presenza di una scena così viva e produttiva è soltanto un aspetto positivo per tutto il movimento che gravita attorno al genere.
Due facce della stessa medaglia sono anche quelle relative all’interazione tra i diversi membri delle band e alla conseguente proliferazione di progetti paralleli: tutto ciò è da salutare favorevolmente, in quanto consente ai vari musicisti di esplorare le diverse sfaccettature del genere ma, d’altra parte, rischia di rendere le scene locali piuttosto autoreferenziali.
Uno dei personaggi più attivi in ambito moscovita è sicuramente E.S., che abbiamo già visto all’opera con gli Who Dies In Siberian Slush, la sua band principale, negli sperimentali Decay Of Reality e Forbidden Shape e, come ospite alla voce, nel magnifico disco dei Lorelei, oltre a promuovere in proprio molte altre realtà con la sua label MFL Records.
Anche in quest’occasione l’instancabile E.S. presta il suo eccellente growl a questo progetto death-doom del drummer dei già citati Who Dies In Siberian Slush, A.S., che qui si occupa di tutti gli strumenti e del songwriting, dalle sonorità piuttosto vicine alla band madre anche se, senza dubbio, con una maggiore impronta melodica. Thanatic Unlife è suddiviso in tre lunghi brani sufficientemente pregni di atmosfere drammatiche e momenti evocativi, caratterizzati dall’utilizzo prevalente di un pianoforte minimale in vece delle consuete e più avvolgenti tastiere, che sovente sono preponderanti in quest’ambito stilistico.
Se Curse appare come il brano più sperimentale, sospeso tra rumorismi e riff secchi ed essenziali, e Remorse alterna le consuete partiture dolenti a passaggi di stampo ambient, la conclusiva Salvation si propone come summa delle due tracce precedenti , mostrando una perfetta amalgama tra tutte queste anime e regalando una decina di minuti di death-doom d’alta scuola.
Forse non imprescindibile, come detto, ma sicuramente un‘uscita interessante per un progetto dalle buone potenzialità; l’innesto di E.S. alla voce costituisce un evidente valore aggiunto all’operato di A.S., del quale piace la capacità di produrre sonorità sufficientemente coinvolgenti e, a tratti, neppure troppo convenzionali.
Un album che nei suoi quarantasei minuti di durata racchiude il meglio degli anni settanta/ottanta in materia doom classico.
La Soulseller Records, dopo il bellissimo disco dei Bloody Hammers, entrato di diritto nella mia top ten del 2013, rilascia nei primi giorni dell’anno nuovo il debut album dei Demon Eye, band del North Carolina, con all’attivo un Ep dello scorso anno dal titolo “Shades Of Black” ,autrice di un album che nei suoi quarantasei minuti di durata racchiude il meglio degli anni settanta/ottanta in materia doom classico.
Il disco, infarcito di suoni vintage, raccoglie infatti quello che i grandi maestri del suono del destino (Black Sabbath, Pentagram, Saint Vitus, Trouble, Obsessed, Sleep) hanno lasciato in eredità, : qui troverete di che dissetarvi alla fonte del doom, con accenni all’occulto a livello lirico, come il verbo sabbathiano insegna. A rendere il lavoro piacevole magari a chi non è un amante dei suoni pieni e ovattati, classici di questo genere, è la produzione che restituisce un suono pulito, dando risalto al lato hard rock del combo che, nei brani più dinamici, risulta oltremodo convincente. Da Hecate, che apre la danza sabbatica, in poi è un susseguirsi di ottime song, dove i suoni più duri degli anni settanta sono interpretati dalla band con ottimo piglio, non cadendo mai nel tranello stoner, ma mantenendo una linea guida per tutta la sua durata. Shades Of Black,Song, dall’incedere ritmato, con la chitarra di Larry Burlison, protagonista di un riff trascinante, lascia spazio alla bellissima Secret Sect, dove compaiono accenni all’heavy metal, chiaramente old school; Edge a Knife, altro gran brano, torna su atmosfere più doom, mentre Witch’s Blood, aperta da un riff hard rock, è un classico brano alla Pentagram. Ancora la band di Joe Hasselvander fornisce il suo marchio in Fires Of Abalam, vero manifesto di genere, dove il plauso va al vocalist Erik Sugg, cantore messianico del combo americano. C’è ancora tempo per The Banishing, altro brano che entusiasma per melodie e ritmiche, prima che From Beyond e Silent One chiudano un album davvero molto bello, aiutato da un songwriting elevatissimo, per un ascolto mai noioso, dal buon tiro, suonato da una band preparata.
Tracklist:
1. Hecate
2. Shades of Black
3. Secret Sect
4. Adversary
5. Edge of a Knife
6. Witch’s Blood
7. Fires of Abalam
8. Devil Knows the Truth
9. The Banishing
10. From Beyond
11. Silent One
Line-up
Paul Waltz – bass
Bill Eagen – drums, vocals
Larry Burlison – guitars
Erik Sugg – guitars, vocals
Una proposta migliorabile ma che già oggi risulta sicuramente intrigante oltre che coraggiosa.
I nord irlandesi Abbotoir propongono una forma di funeral lontano da qualsiasi ammiccante forma di melodia e ciò, ovviamente, non ne aumenta l’appeal nei confronti di chi segue il genere in maniera marginale.
Reclaim è il titolo di questo Ep, costituito da un unico brani di circa 26 minuti (Descension), che arriva dopo il full-length d’esordio uscito lo scorso anno; stilisticamente il trio di Belfast si colloca dalle parti di un act come i Bosque, ponendosi quindi alla ricerca costante di sonorità disturbanti grazie al massiccio contributo di elementi ambient-drone.
La reiterazione pressoché ininterrotta di un riff di volta in volta accompagnato da effetti elettronici, inclusa una drum-machine e una voce filtrata, potrebbe far pensare a un qualcosa di terribilmente noioso e, oggettivamente, il rischio esiste, stante la mancanza di uno sviluppo armonico capace di restare memorizzato in qualche modo nella mente dell’ascoltatore.
Ma, se vogliamo, proprio l’apparente freddezza del sound, che pone gli Abbotoir nella posizione privilegiata di distaccati osservatori delle miserevoli vicende umane, si rivela un elemento caratterizzante capace di provocare quello straniamento che è sicuramente uno degli obiettivi della band britannica.
Un produzione volutamente intrisa di riverberi ed un sound che definire ossessivo è un eufemismo, rendono oggettivamente complessa la fruizione di Reclaim, fornendo la sensazione che talvolta gli Abbotoir travalichino quel labile confine posto tra la sperimentazione e l’autocompiacimento.
E, in effetti, a partire dal minuto 19, Descension offre quei minimi appigli, che fino a quel momento aveva pervicacemente negato, mostrando parvenze infinitesimamente umane ed è proprio su questo lato della proprio sound che gli Abbotoir potrebbero maggiormente insistere in futuro, per migliorare ulteriormente una proposta che già oggi risulta sicuramente intrigante, oltre che coraggiosa.
Un disco che va a scavare l’anima in profondità, lasciando ferite e lacerazioni difficilmente sanabili.
Quattro anni dopo il disco d’esordio, riappare con un nuovo full-length la one-man portoghese Bosque.
Non che nei quasi dieci anni di esistenza della sua creatura musicale DM si sia limitato a questi soli due album, visto che la produzione a nome Bosque è disseminata di demo ed ep, ma è normale che la dimensione su lunga distanza sia sempre la più probante, specie per chi si cimenta in ambito funeral doom.
I quaranta minuti di Nowhere ci trascinano di peso, appunto, in un non luogo, nel quale la sofferenza è il sentimento prevalente, capace di soffocare ogni accenno di melodia imprigionandolo in un sound disturbante, pregno di rumorismi collocati in sottofondo.
Lo straziato canto gregoriano che cerca di farsi largo tra strutture dissonanti e strumenti distorti ai limiti del parossismo potrebbe essere l’ideale rappresentazione dell’autoflagellazione, di un dolore auto inferto andato in loop, metafora di un’esistenza costretta a trascinarsi penosamente e confinata all’interno di schemi univoci e ripetitivi.
Un accenno melodico si fa largo pietosamente grazie a una chitarra acustica che traccia linee consolatorie prima che il martirio della carne e dello spirito riprenda, culminando nell’ossessiva reiterazione dei riff in Metamorphosis, ipotetico quanto illusorio punto di svolta oltre il quale ad attenderci c’è il nulla, ben rappresentato dal titolo della traccia conclusiva e dalla ricomparsa dei cori a conferire al disco un andamento circolare, quasi a dimostrare che l’inizio e la fine sono solo effimere definizioni.
DM non mostra alcun segno di empatia verso l’ascoltatore, la sofferenza si manifesta attraverso un dolore diffuso e straziante, senza alcuna soluzione di continuità; Nowhere mostra una forma di funeral agli antipodi del versante più melodico del genere, ma non per questo va sottovalutato: è piuttosto evidente, peraltro, che la fruizione di un lavoro di queste caratteristiche è impresa per quei pochi che possiedono la pazienza e quel pizzico di masochismo necessario per lasciarsi avvolgere da suoni che fanno ben poco per rendersi gradevoli al primo impatto; un aspetto, questo, che a seconda dei punti di vista può apparire sia un pregio sia un un limite invalicabile.
Un disco che va a scavare l’anima in profondità, lasciando ferite e lacerazioni difficilmente sanabili.
Gli Ea si confermano una garanzia in ambito funeral melodico, anche se “A Etilla” si rivela leggermente inferiore al suo predecessore.
Dopo otto anni di attività e cinque album all’attivo (compreso quest’ultimo A Etilla) gli Ea sono riusciti a conquistarsi meritatamente uno spazio nella scena funeral doom nonchè l’attenzione degli appassionati.
Il fatto di suonare un genere che per sua natura non attira masse di fan urlanti ha di molto facilitato la loro scelta di mantenere un totale anonimato, circondando di assoluto mistero tutto ciò che esula dalla pura proposta musicale.
In tal modo, per chi si trova a dover parlare dei lavori della band russa (ma neppure la nazionalità dei musicisti coinvolti pare essere certa), la sola base di partenza sono le lunghe tracce capaci di trasportare l’ascoltatore attraverso scenari cupi ma non disperati, nei quali la malinconia è l’autentico fattor comune.
Nel corso degli anni la proposta degli Ea è rimasta piuttosto fedele agli schemi degli esordi: lunghe litanie nelle quali chitarra e tastiere si alternano nel condurre melodie sicuramente più fruibili rispetto a gran parte delle band operanti nel settore, con un growl piuttosto canonico che recita testi in una lingua inventata, un particolare che tutto sommato può avere un suo relativo fascino ma nulla più.
La forza della band risiede piuttosto nella sua apparente semplicità, ma sottolinerei la parola “apparente” proprio perché, in un genere come il funeral doom, non vengono certo richieste acrobazie strumentali o dirompenti capacità innovative: l’ascoltatore va alla ricerca di emozioni veicolate da sonorità che manifestano il lento oblio e la caducità dell’esistenza e gli Ea in questo senso sono un’autentica garanzia.
Nonostante la loro produzione goda di una certa uniformità, sia a livello qualitativo che stilistico, non tutti gli album pubblicati sono di uguale valore: personalmente adoro “Ea II” e l’autintitolato Ea, mentre ho sempre ritenuto leggermente inferiori sia l’esordio “Ea Taesse” che “Au Ellai”; mantenendo l’alternanza tra buoni album, nel caso dei dispari, e di lavori vicini alla perfezione nei pari, A Etilla appare quindi come una versione lievemente meno ispirata del suo predecessore, con il quale ha però molto in comune, a partire dalla tracklist costituita da una sola suite della durata di circa tre quart’ora e di un alternanza piuttosto simile per distribuzione tra le parti strumentali più struggenti e i momenti nei quali i riff tendono ad irrobustirsi, mai però in maniera eccessiva.
Dopo diversi ascolti, questo lungo viaggio in un dolore soffuso e nello struggimento consolatorio prodotto dalle melodie lineari ma avvincenti dei misteriosi doomsters, riesce a conquistare definitivamente anche se, come detto, le splendide linee armoniche che venivano sciorinate nell’album omonimo si palesano solo a tratti producendo un risultato assolutamente gradevole ma non abbastanza per eguagliarne in toto la bellezza.
Detto questo, l’ascolto di A Etilla è doverosamente consigliato a tutti coloro che amano il funeral melodico, ma è certo che la recente uscita del capolavoro degli Eye OF Solitude, Canto III, ha alzato di molto l’asticella per chiunque si cimenti nel genere, incluse le band storiche o di culto come gli Ea.
Tracklist:
1. A Etilla
Ventidue minuti di death metal privo di compromessi e suonato in maniera impeccabile.
Per chi non li conoscesse, i Karnak non sono affatto dei novellini della scena death tricolore, essendo attivi già dalla metà degli anni novanta, la band di Gorizia ha nel suo curriculum tre full-length: “Perverted” del 1997, “Melodies Of Sperm Composed” del 1999 e “Dismemberment” datato 2010, più un paio di Ep, licenziati all’inizio del millennio.
Alla già consistente discografia si va ad aggiungere l’ultimo The Cult Of Death, ancora un Ep contraddistinto da un death metal ai limiti del brutal in certi passaggi, molto vicino quindi allo spirito di Gorguts, Morbid Angel e Nile.
Il lavoro dei nostri è composto da un’intro, tre brani e la cover riuscitissima di Jewel Throne dei seminali Celtic Frost, in tutto ventidue minuti di privi di compromessi, sempre suonati in maniera impeccabile, con diversi rimandi old school, tra un growl demoniaco, sfuriate violentissime e frenate, sull’orlo di un abisso sonoro pronto ad inghiottirci.
Stupendo esempio di ciò è The Construction Of The Pyramid Beta (Invocation), brano veramente terrificante nel suo lento discendere nei meandri di un sound, nel quale non esiste più speranza di luce ma solo dannazione eterna.
Le altre due parti di The construction, The Demon’s Breath e Gamma, sono un massacro brutal death dove le due asce sciorinano assoli e ritmiche inumane e la batteria di Stefano Rumich è un tir senza freni che tutto travolge.
Se questo è l’antipasto del prossimo lavoro sulla lunga distanza ne vedremo, ma soprattutto sentiremo, delle belle.
Tracklist:
1. Intro
2. The Construction of the Pyramid -α- (The Demon’s Breath)
3. The Construction of the Pyramid -β- (Invocation)
4. The Construction of the Pyramid -γ-
5. Jewel Throne (Celtic Frost cover)
Line-up:
Stefano Rumich – Drums, Egyptian percussions
Francesco Ponga – Vocals, Guitars
Lorenzo Orsini – Bass, Vocals
Marco Polo – Guitars
Un assaggio di death old school fornitoci tra un album e l’altro da una band dalla qualità non intaccata da una certa prolificità
Veterani della scena Death metal svedese, i Paganizer tornano con un mini CD, dopo World Lobotomy, lavoro sulla lunga distanza licenziato in questo 2013, a dimostrazione della prolificità del combo; sono ben nove, infatti, gli album immessi sul mercato dal 1998, anno di debutto, più svariati mini e split.
Rogga Johansson, leader, voce e chitarra, sembra essere instancabile vista la moltitudine di band della scena con cui ha collaborato, ma i Paganizer sono sicuramente la creatura a cui è più legato e alla quale dedica buona parte delle sue energie. Il mini in questione, sorta di appendice dell’ultimo album, non si discosta né musicalmente né concettualmente dai lavori passati, sempre di old style death metal si tratta, dalle tematiche gore e anticristiane e fortemente influenzato o per meglio dire, visti gli anni di militanza di Rogga nella scena, vicino a band del calibro di Dismember e Grave.
I cinque pezzi che compongono il lavoro risultano così dei buoni esempi di death old school e dove, nell’ultimo album, si riscontravano elementi di scuola grind, in questa occasione i Paganizer sterzano verso sonorità e ritmiche più thrash oriented.
Buoni come sempre sono gli assoli della sei corde e lavoro di ordinaria amministrazione per tutti i musicisti, va elogiata sempre e comunque la volontà e la passione che artisti come Johansson mettono ancora, dopo così tanti anni, nel portare avanti un discorso musicale fuori dai circuiti modaioli, aggiungendo qualità e esperienza alla scena underground e meritandosi doverosamente il massimo rispetto.
Tracklist:
1. On a Gurney to Hell
2. Rot
3. Souls for Sale
4. Afterlife Burner
5. It Came from the Graveyard
Line-up:
Rogga Johansson – Vocals, Guitars
Matthias Fiebig – Drums
Dennis Blomberg – Guitars (lead)
Se il livello delle produzioni nostrane in campo symphonic-gothic continuerà a mantenersi su questi livelli, chissà che un giorno, quando si parlerà di questo genere, non si finisca per fare riferimento alla scena italiana invece che a quella nordeuropea.
Sirgaus, Poemisia, Elegy Of Madness (e non solo) ed ora i Teodasia: la scena symphonic/gothic metal italiana sta diventando una certezza in questo genere e ad ogni uscita è un piacere constatare come le band nostrane sappiano tutte essere, a modo loro, diverse l’una dall’altra puntando all’originalità pur evidenziando le proprie influenze, come è naturale che sia.
I veneti Teodasia dopo un demo eun full length datato 2012 dal titolo “Upwards”, sono usciti sul mercato nel 2013 con due mini, “Stay” e quest’ultimo Reflections, che vede un cambio di cantante,con Giulia Rubino a prendere il posto di Priscilla Fiazza, e soprattutto un sound esplosivo da portare in giro per i palchi, non solo della nostra penisola.
Ben nove brani, due de i quali sono delle intro ed uno è la cover di un pezzo dance di tale dj Sash, per mezzora di musica che mi ha letteralmente ammaliato.
La prima vera canzone, Where I Belong, suona molto hard rock nello stile chitarristico, con tanto di bellissimo assolo e ritornello orecchiabilissimo, in grado di entrare in testa già al primo ascolto.
Altro intermezzo strumentale e cambio di registro: il primo minuto e mezzo della title-track è folk oriented, per poi trasformarsi in un brano symphonic da antologia, dove sono le tastiere a prendere per mano il brano conducendolo in territori cari ai Sirenia. Land Of Memories, divisa in due parti, è il brano che si accosta di più ai Nightwish, e vede una grande prova della vocalist la quale, pur non essendo un soprano, possiede una gran bella voce. Infinity è uno strumentale dal sapore cinematografico, supportato dal pianoforte e da bellissimi arrangiamenti sinfonici.
La traccia conclusiva è una ballad, degna chiusura di un dischetto suonato, prodotto e arrangiato a meraviglia; continuando di questo passo chissà che un giorno, quando si parlerà di questo genere, non si finisca per fare riferimento alla scena italiana invece che a quella nordeuropea.
Un’altra grande band.
Tracklist:
1. Back to the Past
2. Where I Belong
3. Mirrors
4. Reflections
5. Land of Memories, Pt. 1
6. Land of Memories, Pt. 2
7. Stay (2013)
8. Infinity
9. Windy Night
La musica qui incede e incide lentamente con la potenza dell’acqua, scorrendo sotterranea e trovando sempre una via per passare.
Riedizione da parte della Argonauta Records del debutto degli Hollow Leg, disco pubblicato dalla band nel 2010 e andato ormai esaurito.
Il debutto da parte di questo gruppo schiacciasassi testimonia la nascita come duo chitarra e batteria, ovvero alla sei corde Brett e alla batteria Tim. Entrambi sono originari dell’area di Boston, dove hanno militato in svariati gruppi hardcore, dato che l’hardcore a Boston lo bevi nell’acqua. Da Boston si sono poi trasferiti e Jacksonville in Florida. Qui hanno dato vita agli Hollow Leg, che da duo sono poi diventati quartetto per incidere “Abysmal” del 2013. Ma questa è un’altra storia. Instinct è un disco poderoso, un lento incedere verso qualcosa di terribile che sta proprio oltre la strada che stiamo percorrendo. La musica qui incede e incide lentamente con la potenza dell’acqua, scorrendo sotterranea e trovando sempre una via per passare. E’ stupefacente sentire quello che possono fare due persone sole, ma con le idee molto chiare su che musica fare. Sarebbe una perdita di tempo ed un spreco di energie notevole tentare di catalogare definitivamente il suono degli Hollow Leg. Sicuramente siamo dalle parti dello sludge, in quei territori che prendono vita nell’underground, e che vivono nell’umido e traggono linfa da cose viscide. Uno dei più grossi pregi di questo disco è che non annoia mai, e fa venire voglia di schiacciare play di nuovo. Gli Hollow Leg si inseriscono quindi nel filone dello sludge americano, che ha sempre dato gioie a noi ascoltatori viziosi, ma si distinguono per un suono ed una composizione molto personale. Grande merito va dato all’Argonauta Records che ha ristampato il cd in 300 copie con un libretto lussuoso. Perchè non poter sentire questa chicca era proprio un gran peccato.
Tracklist:
1 Caretaker
2 Shattered
3 The return
4 The source
5 Bacchus
6 Nothing left
7 Spit in the fire
8 Warbeast
9 Grace
10 Wayside
Un lavoro che non deve passare inosservato a chi di queste sonorità horror-gothic ne fa il pane quotidiano.
Nel cinema, da trent’anni i media ci continuano a far credere che in Italia siamo capaci solo a produrre cinepanettoni da dare in pasto alle masse nel periodo natalizio, ultimamente sconfinando anche negli altri mesi dell’anno, e arrivando, al massimo, a far girare nelle sale filmetti pseudo intellettuali, che fa tanto figo e politicamente corretto dire di aver visto ad amici e colleghi, dimenticando invece che abbiamo una tradizione nel cinema horror capace di influenzare gli ultimi decenni anche e, soprattutto, in America.
Lucio Fulci, Lamberto Bava, il Pupi Avati de “La casa dalle finestre che ridono” e “Zeder”, Umberto Lenzi, il primo Dario Argento, sono solo i più famosi protagonisti di una scena tutta italiana che ha fatto storia nel mondo.
Chiaramente anche nella musica, soffocati da sempre dalle tirannie mediatiche, solo pochi fortunati hanno la consapevolezza che nel nostro paese esiste una scuola rock di altissima qualità, parlando poi di metal, direi che mai come in questi ultimi tempi in tutti i vari generi che si raggruppano sotto la stessa etichetta, abbiamo avuto così tanto spessore.
Fanno sicuramente parte di questo tesoro purtroppo, ancora sommerso, almeno da noi, i Madness Of Sorrow, band nata dopo lo scioglimento dei Filthy Teens e capitanata dal polistrumentista e factotum Muriel Saracino, cantante e chitarrista che, oltre a suonare il basso in alcuni brani, ha prodotto e mixato l’album, aiutato da Freddy Delirio dei Death SS.
Altri musicisti che gravitano nell’ambito della band di Steve Sylvester hanno accompagnato Muriel nel suo progetto: Ross Lukater nei live, che ha visto protagonista la band dopo l’uscita dell’album “Signs”, insieme a Simon Garth, presente anche sul nuovo disco che, a scanso di equivoci è veramente ben fatto.
Sostanzialmente il lavoro si divide in due parti: la prima è un’esaltante mix tra l’horror metal e il dark di band quali Sisters Of Mercy e Fields Of The Nephilim, grazie al drumming programmato ma sopratutto al cantato di Muriel, che in certi passaggi ricorda le due icone del dark anni ‘80 Andrew Eldritch e l’inarrivabile Carl McCoy. Caged, I Hate You e la bellissima Martial Execution, spinta da un riff marziale e quel “Kill” ripetuto marchio di fabbrica dei Fields Of The Nephilim.
Fino a I’m No Perfect, l’influenza Death SS si riscontra nei suoni delle tastiere e sporadicamente in qualche assolo; fin qui ci sarebbe già da applaudire la band, ma il bello arriva da Guilty in poi: l’anima metal prende il sopravvento, i suoni di chitarra si induriscono e ne escono brani dal tiro micidiale come Don’t Talk About Church, The Death Crusade, la riuscitissima Spirit, con i cori di Alexandra Lynn nuovamente ad impreziosire il tutto, la mansoniana The Ogre, un brano dove Muriel prende sottobraccio Steve Sylvester e il reverendo americano con una prova maiuscola alle vocals.
Chiude il lavoro Ghost, il pezzo più gothic dell’album, dove protagonista è la voce di Alexandra e un giro di piano melanconico che mette la parola fine ad un lavoro che non deve passare inosservato a chi di queste sonorità ne fa il pane quotidiano, ponendosi come ennesima conferma di quanto la nostra scena sia fucina di artisti di ottimo livello.
Bravi.
Track list:
1. Caged
2. King must die
3. I hate you
4. Martial execution
5. I’m not perfect
6. Guilty
7. Don’t talk about the church
8. The death crusade
9. Spirits
10. The ogre
11. Ghost
Muriel Saracino: Vocals, Guitars
Simon Garth: Guitars
Federico Dalli: Drums
David Dalcò: Bass
Francis Fury: Keyboards
Un bellissimo lavoro, complimenti al gruppo, che dal vivo immagino grandissimo, e disco consigliato non solo ai fans dei Death SS.
Questa recensione mi permette di spendere due parole sul più grande gruppo metal nato nella nostra penisola, riconosciuto in tutto il mondo, guidato da un leader che è una delle nostre poche icone, dotato di carisma e personalità e vero artista a 360°: sto parlando ovviamente dei Death SS e naturalmente di Steve Sylvester.
Questo grande gruppo ha rilasciato dei dischi fondamentali, prima negli anni 80′ basati su un Metal più classico, e diventando poi un’entità a parte e inventando, di fatto, un genere come l’horror Metal. Impossibile quindi non essersi imbattuti in almeno uno dei loro numerosi capolavori, da “In Death Of Steve Sylvester” a “Black Mass”, da Heavy Demons alla svolta semi-industrial di “Do What Thou Wilt” e “Panic”, fino ad arrivare all’ultimo “Resurrection”,datato 2013: una grande band che ha rilasciato lavori bellissimi e sempre con quell’integrità e coerenza (dicendola alla Pino Scotto, altra icona del nostro metal) che l’hanno resa un mito
I toscani Deathless Legacy nascono come tribute band dei Death SS e, dopo innumerevoli apparizioni dal vivo, arrivano al debutto discografico con un album di horror metal scritto come Steve Sylvester insegna, e non poteva essere altrimenti.
Anche loro, come i maestri, hanno optato per travestimenti e pseudonimi, la copertina con le mani di zombie che escono dal terreno è rigorosamente in stile horror ma, fortunatamente, in questo disco c’è anche tanta buona musica.
Intanto i brani sono cantato da una vocalist, al secolo Steva La Cinghiala, protagonista di una prova magistrale (non è così facile cantare su di un disco del genere e risultare perfetta); le somiglianze, inevitabili, con i Death SS si riscontrano nei suoni delle tastiere, poi però l’album ha una sua vita ( anche in questo caso sarebbe meglio dire morte … ) propria, i brani sono belli, tra song dall’impatto più moderno e altri intrisi di atmosfere più classiche.
Apre il sabba Will-O’-The Wisp, e si entra subito al centro del Grand Guignol dove è protagonista una band che sfodera tutte le proprie virtù musicali, con brani dal forte impatto e dalla immediata presa. Queen Of Necrophilia, Octopus,la sparata Killergeist, fanno da antipasto al picco dell’album, quella Flamenco De La Muerte, dove il Metal del combo accompagna una chitarra spagnola in una song geniale.
Ancora ottimi brani sono Spiders e Devil’s Thane, prima di arrivare ad un altro brano top, Death Challenge, dove Steva inasprisce la voce e si accentuano i suoni moderni, per un brano dal sapore nu metal. Step Into The Mist conclude un bellissimo lavoro, complimenti al gruppo che dal vivo immagino grandissimo e disco consigliato, non solo ai fans dei Death SS.
Tracklist:
01 – Will-O’-The Wisp
02 – Queen Of Necrophilia
03 – Bow To The Porcellan Altar
04 – Octopus
05 – Killergeist
06 – Flamenco De La Muerte
07 – Spiders
08 – Devil’s Thane
09 – Death Challenge
10 – Step Into The Mist
Line-up
Steva La Cinghiala – Vocals and Performances
Frater Orion (The Beast) – Drums and Scenographies
El “Calàver” – Guitar
C-AG1318 (The Cyborg) – Bass and Vocals
Pater Blaurot – Keyboard
The Red Witch – Performances
Se vogliamo dare un senso alle contaminazioni nel death metal, beh, allora qui siamo veramente nel futuro del genere e non solo, ma di tutta la musica estrema.
Il primo gennaio 2014 verrà ricordato, da chi avrà avuto la fortuna di ascoltarlo, come il giorno dell’uscita della colonna sonora dell’apocalisse, secondo gli americani Mechina.
Noi siamo fortunati, perchè questo lavoro è talmente avanti che l’anno di uscita potrebbe essere il realtà il 3014. Questo stupendo lavoro è ciò che più si avvicina a “Demanufacture” dei seminali Fear Factory, datato 1995 e, addirittura, sotto certi aspetti, riesce a superarlo in impatto e nell’uso massiccio di musica sinfonica in una miscela annichilente.
Ma facciamo un passo indietro e andiamo a conoscere un pò di più questi quattro geni: intanto il disco è autoprodotto e non è il primo, e arriva dopo che la band dell’Illinois ha già partorito svariati mini e tre full- length: “The Assembly Of Tyrants” del 2005, “Conqueror” del 2011 e Empyrean.
Xenon è un macigno industrial cyber metal dalla potenza devastante, dove il drumming di David Gavin è al limite dell’umano, il growl di David Holch sembra arrivare direttamente dalla gola di qualche essere relegato in un profondo abisso perso nell’iperspazio, la voce pulita, così come i cori operistici, non fanno altro che conferire al tutto, come se non bastasse, un’aura ancor più inquietante.
A rendere questo lavoro qualcosa di veramente ultraterreno è la parte sinfonica che, attenzione, non è usata in stacchi solo per alleggerire il sound, ma è parte integrante dello stesso per un risultato sconvolgente.
In pratica è come se l’essere immondo di cui parlavo affrontasse una battaglia per il dominio dell’universo contro gli angeli, intervenuti direttamente dal paradiso per rigettarlo nell’abisso.
I ritmi sincopati e la base industrial è più o meno la stessa ma, laddove i Fear Factory si muovevano intorno a strutture di stampo metalcore, i Mechina vanno anni luce oltre, con orchestrazioni apocalittiche da pelle d’oca. Zoticus, Terrae, Tartarus, Thales, sono solo alcuni tra i dieci brani capolavoro di questo mostro chiamato Xenon.
Se vogliamo dare un senso alle contaminazioni nel death metal, beh, allora qui siamo veramente nel futuro del genere e non solo, ma di tutta la musica estrema.
Disco epocale!
Canto III è la quintessenza del funeral death-doom e, senza alcun dubbio, il capolavoro che finalmente giunge a riscrivere le coordinate del genere, composto per di più da una band che ha avuto una crescita esponenziale in soli 2 anni e che si trova in una fase contrassegnata da un’entusiasmante progressione stilistica.
La tentazione di misurarsi con “La Divina Commedia” ha contagiato in passato, facendo anche qualche vittima illustre, diversi musicisti , non solo in ambito metal, ma non ci sono dubbi sul fatto che, mai prima d’ora, tale ambizioso accostamento abbia prodotto un risultato entusiasmante come avviene in questo Canto III.
Gli Eye Of Solitude sono una doom band di stanza a Londra che vede tra le sue fila musicisti i quali, pur risiedendo sul suolo inglese, hanno nazionalità o comunque origini sicuramente non britanniche, a partire dal vocalist rumeno Daniel Neagoe (che abbiamo già incontrato negli ottimi Deos), per passare al drummer italiano Adriano Ferraro e finendo con i chitarristi Indee Rehal-Sagoo e Mark Antoniades e il tastierista Pedro Caballero Clemente, lasciando al solo bassista Chris Davies un presumibile dna al 100% albionico.
Non è da escludere, quindi, che un simile mix di influenze e tradizioni musicali abbia influito positivamente nell’ideazione e nella realizzazione di un prodotto perfetto come quello che si è rivelato questo full-length.
Collocabili a grandi linee tra il funeral ed il death doom, gli Eye Of Solitude con un lavoro di tale portata riscrivono la storia del genere, andandosi a collocare nell’empireo dove sono assisi i padri Thergothon assieme ai loro figli prediletti Skepticism, Evoken, Mourniful Congregation ed Esoteric; dirò di più: dall’inizio del secolo ho perso il conto di quanti album di doom estremo siano passati nel mio lettore fornendomi emozioni impagabili e, in quel momento specifico, apparentemente ineguagliabili, eppure nessun’altro, salvo forse l’ultimo degli Ea, è stato capace di coinvolgermi in maniera assoluta dalla prima all’ultima nota come è accaduto con Canto III.
Questa autentica “internazionale del dolore” (integrata anche dal contributo in qualità di ospiti dei russi Anton Rosa alle clean vocals e Casper al violino) , come mi piace ribattezzarla, ci conduce, per poco più di un’ora, nei meandri più profondi della psiche umana, tra le sue paure ancestrali, l’affanno di una vita che scorre ineluttabilmente verso l’epilogo, l’angoscia che deriva dall’illusoria speranza di un’esistenza post-mortem, unico fragile appiglio a cui aggrapparsi di fronte alla tragica consapevolezza che nulla potrà riportare indietro le lancette del tempo.
Lo scenario dell’Inferno dantesco, del resto, viene rappresentato in maniera coerente, e lo testimonia la recitazione dai toni drammatici, pur con una pronuncia italiana non impeccabile, di uno degli incipit più celebri della letteratura mondiale; proprio le parti recitate rappresentano i passaggi più delicati e, in qualche modo a rischio, all’interno del lavoro, perché il confine tra l’enfasi recitativa e la pacchianeria è davvero molto sottile, ma lo stato di grazia che accomuna tutti i musicisti coinvolti nel disco fa sì che tali momenti si rivelino invece assolutamente affascinanti oltre che del tutto funzionali alla riuscita del lavoro.
I sei lunghi brani costituiscono l’immagine della perfezione del suono e del songwriting: le parti acustiche, dai toni rarefatti e sovente accompagnate dai suddetti passaggi recitati, si dilatano creando attimi di vera angoscia, nei quali l’impressione di pace illusoria lascia spazio ad un’attesa che si fa via via spasmodica mentre si prepara il terreno all’irruzione corale di tutti gli strumenti; tutto ciò, specie quando viene sovrastato dal growl quasi irreale di Daniel, riesce a trasmettere quel pathos in grado davvero di far vibrare le corde più recondite dell’anima e al quale è impossibile sottrarsi senza prima aver versato qualche lacrima.
Non c’è un brano particolare da segnalare, non una traccia o un passaggio sulla quale indugiare più a lungo o altre da ignorare, non una sola nota superflua o fuori luogo in questo compendio di dolore , disperazione , smarrimento, malinconica e incommensurabile bellezza.
Un disco che va riascoltato più e più volte, perché in ogni frangente è capace di svelare nuove sfumature, particolari apparentemente insignificanti che si palesano invece in tutta la loro rilevanza nell’economia del lavoro: la solennità degli Skepticism, il senso di tragedia imminente dei Colosseum, la compattezza degli Evoken, il gusto melodico degli Ea e il lirismo decadente dei My Dying Bride vanno ad amalgamarsi in un’irripetibile e, attualmente, incomparabile espressione sonora. Canto III è la quintessenza del funeral death-doom e, senza alcun dubbio, il capolavoro che finalmente giunge a riscrivere le coordinate del genere, composto per di più da una band che ha avuto una crescita esponenziale in soli 2 anni e che si trova in una fase contrassegnata da un’entusiasmante progressione stilistica.
A costo di sembrare retorico, mi piace pensare che il Sommo Poeta abbia concesso la propria benevola approvazione agli Eye Of Solitude trasferendo loro tutta l’ispirazione necessaria per onorare nel migliore dei modi la sua opera immortale: per trovare dei punti deboli nell’operato della band londinese in questo frangente bisogna semplicemente essere prevenuti nei confronti del genere che propongono.
Disco dell’anno, senza dubbio, e mi scuso con chi non lo troverà citato nella mia playlist del 2013, pubblicata poco prima di ascoltare questo autentica opera d’arte; ma, si sa, le classifiche hanno un valore del tutto relativo quanto effimero, specie quando vengono piacevolmente smentite e stravolte da lavori del calibro di Canto III.
Tracklist:
1. Act I: Between Two Worlds (Occularis Infernum)
2. Act II: Where the Descent Began
3. Act III: He Who Willingly Suffers
4. Act IV: The Pathway Had Been Lost
5. Act V: I Sat in Silence
6. Act VI: In the Desert Vast
Line-up :
Daniel Neagoe – Vocals
Indee Rehal-Sagoo – Guitars
Chris Davies – Bass
Adriano Ferraro – Drums
Mark Antoniades – Guitars
Pedro Caballero Clemente – Keyboards
La tensione resta alta per tutto il disco, poco più di mezzora di rock sparato da un cannone direttamente nelle nostre orecchie, che diverte senza essere ruffiano, suonato alla grande da musicisti esperti e che danno l’impressione di divertirsi a loro volta.
Ancora una grande band si affaccia sulla scena metal italiana, questa volta nella mia amata Genova: il suo nome è Killers Lodge ed è formata da tre musicisti molto conosciuti nel circuito estremo della nostra penisola e non solo.
Infatti, fanno parte del progetto John KillerBob, basso, voce e factotum del combo, con trascorsi nei Cadaveria, Raza De Odio, Dynabyte e Necrodeath, Christo Machete, batteria, con alle spalle collaborazioni illustri del calibro, tra gli altri di Cadaveria, Tiranti, Mastercastle, Raza De Odio e Zorn, e il chitarrista Olly Razorback il quale è stato impegnato con la sua chitarra con Sadist, Metal Gang, Raza De Odio, Nerve e Cadaveria.
L’idea di fondare una nuova band parte da KillerBob e Machete dopo lo scioglimento dei Raza De Odio e, solo in seguito, si unisce al duo Olly Razorback; così la band si chiude in studio per uscirne con un lavoro di rock’n’roll sanguigno, dall’impronta Motorhead, composto da dieci brani che spaccano.
Cosa da non trascurare, il disco è stato realizzato in toto dal gruppo, senza aiuti esterni, incluso mixaggio e produzione, ed il risultato soddisfa sotto tutti i punti di vista: il suono risulta sporco, come il genere insegna, ma soprattutto è sorprendentemente live, senza aggiustamenti di sorta, tanto che vi sembrerà davvero di essere sotto il palco.
Dicevo Motorhead, ma ho riscontrato anche quell’attitudine cara a certe band rock’n’roll scandinave, quelle non piegate al music business, tipo Hellacopters e Turbonegro, ed un approccio punk che rende questo lavoro fuori da schemi predefiniti, tornando a quello per cui questo genere è nato: divertimento, sudore e tantissima passione.
La tensione resta alta per tutto il disco, poco più di mezzora di rock sparato da un cannone direttamente nelle nostre orecchie, che diverte senza essere ruffiano, suonato alla grande da musicisti esperti e che danno l’impressione di divertirsi a loro volta.
Le canzoni sono tutte notevoli, ma Like A Rock, che sprigiona Motorhead da tutti i pori, The Grudge, a metà tra Hellacopters e Sex Pistols, con un giro di basso irresistibile, New Life, la mia preferita ed anche la più metal del lotto, Land Of Doom, dove la band va due volte più veloce della band di Lemmy, e Bow And Scrape, sono quelle che mi hanno più impressionato per freschezza compositiva, bravura strumentale e sagacia nel saper manipolare la materia rock’n’roll risultando comunque originali.
Primo disco del nuovo anno e primo botto, e se il buongiorno si vede dal mattino …
Tracklist:
1.Cosmos
2.Like A Rock
3.The Grudge
4.Inefficiency
5.New Life
6.Who We Are
7.Land Of Doom
8.Ship Of Fools
9.Bow And Scrape
10.The Glory Of The Pillory
Una band da tenere d’occhio nel prossimo futuro, quindi, indipendentemente dalla lettura dei nomi presenti in line-up.
Non posso negare che nell’avvicinarmi a questo Ep sono stato inevitabilmente attratto dalla presenza in line-up di Mikko Kotamäki, ben più noto come cantante degli immensi Swallow The Sun.
Va quindi chiarito ogni tipo di equivoco dicendo subito che, al di là della presenza del vocalist, i tratti comuni tra le due band non sono poi moltissimi, in primis perché qui il songwriting non è ad opera di Juha Raivio bensì di Markus Laakso, chitarrista e tastierista ideatore del progetto (non a caso il monicker della band è costituito parzialmente dal suo cognome).
I Kuolemanlaakso hanno esordito nel 2012 con un buon full-length e questo breve Ep, che consta di quattro brani (una delle quali è una cover), è soprattutto propedeutico al prossimo album previsto in uscita nei primi mesi dell’anno; come detto, il sound, pur potendo essere classificato a buon titolo come death-doom, non ne possiede le caratteristiche specifiche che ci si potrebbero attendere da un band finlandese.
Infatti, nonostante Laakso svolga un ruolo fondamentale con le sue tastiere nei folli symphonic-industrial blacksters Chaosweaver, in quest’occasione relega lo strumento ad un ruolo di semplice accompagnamento lasciando che a parlare siano le chitarre e, ovviamente, la voce di Kotamäki: ciò che ne scaturisce è, pertanto, un songwriting dalle diverse sfaccettature.
La prima traccia, Me Vaellamme Yössä, è quella più orecchiabile e potrebbe essere approssimativamente definibile come una versione più aggressiva degli Amorphis, con una bella linea melodica ed il growl di Mikko a condurre le danze, mentre Tulenväki e Kalmoskooppi sono decisamente meno catchy pur rivelandosi tutt’altro che piatte, privilegiando un impatto sbilanciato sul versante death, e nelle quali il vocalist sfoggia anche il suo caratteristico screaming.
L’ultima traccia potrebbe essere catalogata come la più riuscita, anche se in realtà si tratta della cover di una rock band nota in Finlandia negli anni ‘80, gli Juha Leskinen Grand Slam: Musta Aurinko Nousee, che dà anche il titolo all’Ep, era un bel brano anche nella versione originale, ma i Kuolemanlaakso ne rallentano in maniera notevole l’andatura trasformando il tutto in un episodio dal sapore gothic, con il contributo di un Kotamäki che esibisce un’inedita timbrica alla Peter Steele.
La creatura di Markus Laakso mostra un potenziale interessante e, forse, l’unico ostacolo da superare nell’approccio è proprio l’utilizzo della la lingua madre, anche se mi chiedo se abbia ancora senso nel 2013 porsi delle barriere linguistiche quando ormai esistono diversi strumenti per capire il significato di testi redatti in qualsiasi lingua.
Una band da tenere d’occhio nel prossimo futuro, quindi, indipendentemente dalla lettura dei nomi presenti in line-up.
Tracklist:
1. Me vaellamme yössä
2. Tulenväki
3. Kalmoskooppi
4. Musta aurinko nousee
Si astengano dall’ascolto i maniaci dell’originalità a tutti i costi: questo è un disco di buon metal-rock, e di questi tempi non è affatto poco.
Potranno benissimo non piacere, ma non si può togliere ad una band storica come i Motorhead e a quel vecchio marpione di Lemmy Kilmister il merito di aver influenzato più di una generazione di musicisti Metal in giro per il mondo.
Lasciamo perdere gli ultimi album, che sono andati solo a rimpinguare una discografia già di per sè sconfinata risultando lavori di maniera, ma è innegabile che capolavori come “Ace Of Spades”, “Bomber” e “Overkill” possono essere considerati vangeli per ogni rocker che si rispetti.
Gli svedesi Inflikted, la lezione del protagonista della “sottile linea bianca” l’hanno imparata eccome, aggiungendo sprazzi di death’n’roll come si suona nella loro patria e thrash della scuola Sodom/Kreator.
Esordio auto intitolato per i quattro scandinavi, licenziato per la sempre più protagonista Wormholedeath, vera “cantera” del metal europeo, all’insegna dunque di un thrash metal dalle chiare infuenze Motorhead.
L’album si fa ascoltare, la ritmica molto rock’n’roll fa sì che i pezzi siano potenziali hits per le esibizioni live e la band suona compatta e “ignorante”, piacendo sicuramente sia agli amanti del combo di Lemmy che ai classici thrash metal fans. Corporate Slut dà inizio alle danze e sembra di essere tornati all’era di “Ace Of Spades” almeno per altri cinque pezzi altrettanto buoni, nei quali il sound non si discosta da tali coordinate,fino ad arrivare alla strumentale Metal Fatigue, dove a fare da padrini del brano sono i Metallica,eccezione che conferma la regola per una song che presenta assolo e ritmiche di scuola americana.
Si ritorna a sbattere il cranio con The Art Of Hatred e la cavalcata hard punk Truck-Drivers Journey, mentre , mentre vengono ancora percorsi dagli Inflikted sentieri motorhediani con Tyger e Wrath Of The North, virata sul thrash la prima e più cadenzata e metal oriented la seconda.
Tutto sommato un buon esordio per la band di Stoccolma, ma meglio che si astengano dall’ascolto i maniaci dell’originalità a tutti i costi: questo è un disco di buon metal-rock, e di questi tempi non è affatto poco.
Tracklist:
1.Corporate Slut
2.Doctorcracy
3.Dual Personality
4.Heavenly Warfare
5.Inferno
6.Metal Fatigue
7.The Art Of Hatred
8.Truck-Drivers Journey
9.Tyger
10.Wrath Of The North
Line-up:
Fredrick Gard – drums
Mikael Harlsson – bass, vocals
John Michael Haugdahl – guitars, b.vocals
Vardan Saakian – guitars, b.vocals
Tra momenti più intimisti, fughe strumentali, cambi di tempo, cavalcate metal, la band torinese ci dona una cinquantina di minuti di grande musica.
Non mi stancherò mai di scriverlo: la musica non va assolutamente giudicata dal genere proposto o valutando se in quel preciso momento sia più o meno trendy, altrimenti si perde completamente l’obiettività.
Prendete per esempio, visto che di prog metal si parla in questa recensione, il capolavoro dei Dream Theater “Images And Words”: se fosse uscito in questi ultimi due anni non avrebbe fatto sicuramente il clamore di una ventina di anni fa e, per contro, negli anni di maggior successo del genere, molti dei lavori descritti come meraviglie sonore sarebbero stati giudicati per quello che erano, ovvero buoni dischi e nulla più.
E, allora, l’album dei torinesi Amaze Knight, all’esordio con questo lavoro autoprodotto, uscito in questo 2013 che ha visto un ritorno in pompa magna del metal in tutti i suoi generi ad una qualità altissima nella nostra penisola, giudicandolo senza alcun pregiudizio è un grandissimo disco.
La band nasce nel 2010 dall’incontro tra Christian Dimasi (chitarra) e Michele Scotti(batteria),a cui poco tempo dopo si uniscono il cantante Fabrizio Aseglio e Matteo Cerantola al basso; aiutati dalle tastiere di Max Tempia e dalla produzione di Roberto Maccagno, gli Amaze Knight ci regalano un album di prog metal veramente ottimo che, partendo dall’influenza base che si percepisce ad un primo ascolto (Dream Theater), svaria da assolute gemme di progressive moderno ad atmosfere più orientate verso gli anni settanta, riuscendo a mantenere l’ascoltatore di turno, concentratissimo sugli eventi musicali che si susseguono senza un minimo di cedimento.
Il primo brano, Imprisoned (Shadow Past), è forse il più vicino al teatro del sogno, classica song dove la band ci mostra subito le proprie elevate doti tecniche ma, a mio parere, il meglio arriva da Restless Soul in poi quando, entrando nel cuore del lavoro, verremo travolti da un mare di emozioni diverse in un crescendo musicale straordinario, laddove le molteplici influenze, invece di fornire un sapore di già sentito, riescono a regalare momenti di assoluta originalità.
Bravo il cantante Fabrizio Aseglio che, pur avendo una tonalità molto simile a James LaBrie, spicca per personalità e, senza strafare, è perfetto in tutto il lavoro che scorre, così, tra momenti più intimisti, fughe strumentali, cambi di tempo, cavalcate metal, con il combo torinese che ci dona quasi una cinquantina di minuti di grande musica.
Al prossimo giro vorrei vedere questi ragazzi accasati presso un’etichetta che abbia voglia di credere in loro, direi proprio che se lo meritano.
Tracklist:
1. Imprisoned (Shadows Past)
2. Restless Soul
3. Heartless
4. Liberation (The Reflection)
5. Liberation (A New Day)
Un disco nel quale vengono sviluppate armonie di grande intensità e capaci di evocare sentimenti di malinconia e disillusione.
Quando un musicista decide di chiamare la sua band Slow difficilmente il genere che proporrà sarà speed o power metal, mentre è molto più probabile che un monicker simile si adatti alla perfezione al doom, meglio ancora se funeral, come avviene in questo caso.
Dietro al nome Slow in realtà troviamo il solo Dehà, musicista belga nel quale ci siamo già imbattuti qualche mese fa nel recensire il lavoro dei Deos; la sua avventura solista, pur restando nell’ambito dell’area death-funeral, si discosta parzialmente da quanto fatto in coabitazione con Daniel N., soprattutto perché il lavoro ha delle caratteristiche meno orientate verso il death e molto più spinte verso l’ambient-drone. III-Gaia consta di due soli brani, il primo dei quali dura ben quaranta minuti mentre il secondo si esaurisce in “solo” mezz’ora; già da questo appare piuttosto evidente quanto Dehà se ne possa infischiare di rendere più fruibile il proprio sound, e lo conferma il fatto che Gaia – Part 1 viene introdotta da oltre dieci minuti di suoni dronici, prima che la componente melodica si impadronisca del sound conducendolo con la dovuta lentezza ad un finale oggettivamente splendido. La Part 2 di fatto pare un ideale proseguimento della traccia precedente, sviluppando armonie di grande intensità e capaci di evocare sentimenti di malinconia e disillusione, sulla falsariga degli Ea che, in questo momento, rappresentano decisamente un punto di riferimento condiviso per il funeral più melodico. III-Gaia è un album splendido che, purtroppo, come gran parte delle uscite relative a quest’ambito stilistico, finirà per essere ignorato dai più restando ugualmente e doverosamente consigliato a tutti coloro che, avendo dimestichezza con il genere proposto, ne sapranno trarre le dovute gratificazioni.
“Renascentis” è il nuovo nato in casa Levania, album dalle mille idee e dalle altrettante contraddizioni.
“Parasynthesis” era il loro debutto, Renascentis è il nuovo nato in casa Levania, album dalle mille idee e dalle altrettante contraddizioni.
C’è tanto in questo disco, forse troppo, e l’ascolto non se ne giova anche per una produzione veramente sotto la media, che fa risultare il tutto un calderone dove a tratti sembra di ascoltare due pezzi diversi contemporaneamente. I ragazzi ferraresi hanno reso il loro lavoro molto più duro della media del genere e, come detto, le idee a livello di songwriting sono valide, ma la voce della cantante è troppo morbida e quasi sparisce, sommersa dal vortice strumentale dei pezzi, mentre la voce pulita, di impostazione rock, si rivela inadatta alle atmosfere del disco; si salva invece il cantato in growl, nonostante anche quello viaggi almeno due toni sotto la batteria e le tastiere, quest’ultima comunque piuttosto efficace come pure la chitarra ritmica. La tracklist mostra brani alcuni brani che si elevano sugli altri come Arcadia, dove Ligeia mostra d’essere più a suo agio nelle tonalità basse e probabilmente sarebbe più efficace in ambito dark rock piuttosto che nel gothic metal, mentre la chitarra disegna assoli ispirati rivelandosi come uno dei pregi del disco; un altro bel pezzo è Four Season, posto in chiusura di un album che, con una produzione nella media ed una diversa prestazione vocale, sarebbe risultato molto più interessante per i gothic fans.
Tracklist:
1.Proemium
2.Arcadia
3.Needles
4.Spiral
5.Seven times to forget
6.My writings of hope
7.An icy embrace
8.Metamorphosis
9.Drakarys
10.Onirica
11.Lucretia
12.Four seasons
Alla fine dell’ascolto rimane comunque la sensazione che la band di Cruelty And The Beast sia ancora fonte di ispirazione per il gruppo, ma il mio dubbio semmai è un altro: siamo proprio sicuri che oggi i Cradle Of Filth riuscirebbero a fare di meglio?
Gli Hecate Enthroned possono essere considerati ormai dei veterani della scena estrema europea: infatti, il loro esordio risale a un ventina di anni fa.
Era il lontano 1995 quando uscì sul mercato il loro mini cd seguito, nel 1997, dal full-length “In Slaughter Of Innocence: A Requiem For The Mighty”; all’epoca vennero tacciati come cloni dei più famosi Cradle Of Filth e pure il successivo lavoro, l’anno seguente, non fu ben accolto dalla critica metallara. All’inizio del nuovo millennio i sei ragazzi inglesi aggiustarono il tiro, portando il loro sound verso lidi più death oriented ma, tant’è, neanche così riuscirono a portarsi dalla loro parte i favori della stampa di settore. Dopo la compilation del 2005 “The Blackened Collection” tornano dopo un silenzio di otto anni con un album nuovo e nuove speranze; mettiamo subito le cose in chiaro: a me piacciono e, sinceramente, non ho mai condiviso le critiche, a volte feroci, con le quali venivano descritti i loro album, quasi che la band fosse l’unica colpevole, nel mondo Metal, di uno stile ed un gruppo a cui fare riferimento per il proprio sound. In particolare quest’ultimo album l’ho trovato ispirato e maturo; certo, qui di black metal non ce n’è neppure l’ombra, a meno che non si consideri in maniera semplicistica come black un album dove appare la voce in screaming. Virulent Rapture è invece un buon esempio di metal estremo, nel quale anche l’etichetta death metal viene usata giusto per affibbiare un marchio, suonato bene, prodotto anche meglio, e fila via tra brani tiratissimi, mai noiosi, infarciti di tastieroni gothic, ritmiche assatanate e una voce come quella di Elliot Beaver efficace sia nello scream (ebbene sì, simile a quello di Dani Filth) sia nel growl. L’uso delle tastiere è molto migliorato rispetto agli album precedenti, collocandosi sempre al posto giusto e al momento giusto, e non venendo relegate al solo ruolo di accompagnamento, ma ergendosi a protagoniste di momenti solistici dal forte impatto. Ho trovato notevole almeno una manciata di brani: Abyssal March, Plagued by Black Death accarezzata da un bellissimo giro di piano, la title-track, Life e la conclusiva Paths Of Silence. Alla fine dell’ascolto rimane comunque la sensazione che la band di “Cruelty And The Beast” sia ancora fonte di ispirazione per il gruppo, ma il mio dubbio semmai è un altro: siamo proprio sicuri che oggi i C.O.F. riuscirebbero a fare di meglio?
Tracklist:
1. Thrones of Shadow
2. Unchained
3. Abyssal March
4. Plagued by Black Death
5. Euphoria
6. Virulent Rapture
7. Life
8. To Wield the Hand of Perdition
9. Of Witchery and the Blood Moon
10. Immateria
11. Paths of Silence