A Forest of Stars – Grave Mounds And Grave Mistakes

Grave Mounds And Grave Mistakes porta ad un livello qualitativo ancora superiore l’idea musicale degli A Forest Of Stars, giungendo molto vicino alla perfezione.

Se l’esistenza di un musicista o di una band assume un proprio senso compiuto nel momento stesso in cui la sua proposta appare unica e facilmente riconoscibile, allora dobbiamo dare atto agli A Forest Of Stars d’essere riusciti pienamente in questa non facile impresa.

La pittoresca congrega di gentlemen vittoriani è in pista ormai da un decennio ed ha continuato ad offrirci album denotati da un costante crescendo qualitativo, rendendo via via sempre più fluida la commistione tra il black metal, che costituisce solidamente la base del sound, un folk tipicamente british ed atmosfere oscure e magnificamente avvolgenti.
Questo ultimo Grave Mounds And Grave Mistakes si porta ad un livello ancora superiore che avvicina di molto alla perfezione l’idea musicale del combo di Leeds: capita davvero di rado, infatti, che un disco di oltre un’ora di durata riesca a coinvolgere in maniera totale senza mostrare alcun segno di cedimento o perdersi in lungaggini interlocutorie.
Del resto, dopo l’intro Persistence Is All, un brano come Precipice Pirouette ci trasporta di peso e senza indugi in quell’epoca che, grazie agli A Forest of Stars, abbiamo imparato a conoscere un po’ meglio, coadiuvati dal racconto stentoreo e teatrale di Mr.Curse, fondamentale nell’economia di ogni lavoro della band, anche se a qualcuno potrà apparire un elemento alieno all’evocatività del sound.
L’afflato melodico di Precipice Pirouette, con il morbido controcanto di Katerine, viene spezzato da una repentina quanto caratteristica sfuriata, prima che il flauto introduca Premature Invocation, traccia che si apre in un finale di drammatica intensità.
E’ il black metal, furioso così come lo conosciamo nelle sue sembianze più canoniche, a connotare Children of the Night Soil, costituendo una parentesi decisamente meno ammaliante nella sua forma, andando a creare così un contrasto netto e deciso con la poesia più rarefatta di Taken by the Sea, interamente interpretata da Katerine.
Una parentesi più delicata e a suo modo eterea, che introduce gli ultimi venti minuti dell’album, prima con Scripturally Transmitted Disease, traccia che cambia connotati più volte prima di adagiarsi su un finale atmosferico e lasciare spazio alla chiusura della stupefacente Decomposing Deity Dance Hall, brano pazzesco nel quale il sentore folk della parte iniziale viene messo momentaneamente all’angolo per alcuni minuti nei quali sembra che i nostri, nel corso di una seduta medianica, vengano posseduti dallo spirito degli Alan Parson’s Project, prima che nuovamente sonorità black, ariose e solenni, conducano al termine di un album meraviglioso.
Bisogna essere musicisti di livello superiore per riuscire ad offrire un disco così denso, complesso, pieno eppure sempre fruibile; forse la loro imprevedibilità e la difficile collocazione stilistica li farà sempre restare un una confortevole nicchia di culto, fatto sta che oggi gli A Forest Of Stars sono una delle espressioni musicali più originali ed eccitanti dell’intera scena metal e non sarebbe male che se accorgessero molte più persone.

Tracklist:
1.Persistence Is All
2.Precipice Pirouette
3.Tombward Bound
4.Premature Invocation
5.Children of the Night Soil
6.Taken by the Sea
7.Scripturally Transmitted Disease
8.Decomposing Deity Dance Hall

Line-up:
Mr. T.S. Kettleburner – Bass, Vocals, Guitars
The Gentleman – Drums, Keyboards, Pianoforte, Percussion
Mister Curse – Vocals
Katheryne, Queen of the Ghosts – Vocals, Violin, Flute
Mr. John “The Resurrectionist” Bishop – Drums, Percussion
Mr. Titus Lungbutter – Bass
Mr William Wight-Barrow – Guitars

A FOREST OF STARS – Facebook

 

Mare – Ebony Tower

Nidrosian Black Metal at his best: i norvegesi Mare fondono mirabilmente le radici dei grandi antichi con ritualistici paesaggi sonori.Artisti con forte personalità che ci regalano uno dei migliori dischi dell’anno.

Iniziare l’ascolto del primo full length dei norvegesi, di Trondheim, Mare, è come affrontare un antico rituale generato da innominabili forze oscure; l’atmosfera è immediatamente, senza preliminari, permeata di fredda oscurità.

Il fascino ancestrale della nera arte pervade ogni fibra nervosa, ogni vaso sanguigno e ogni tessuto del nostro corpo; cinque brani bastano a saziare ogni nostra ricerca di sensazioni, che solo il Black Metal di alto livello può dare; i quattro musicisti sono tutti dotati di ampia credibilità all’ interno del circuito underground, sono artisti che han fatto parte di band come Dark Sonority, Celestial Bloodshed, Vemod, Aptorian Demon e altre, che negli anni hanno prodotto mirabili opere di arte nera sicuramente conosciute e apprezzate dai veri cultori. I Mare sono attivi dal 2005 e dopo vari demo e un paio di EP arrivano, finalmente, all’atteso e sospirato debutto sulla lunga distanza, Ebony Tower, che non tradisce le aspettative, anzi si propone come una vera e propria gemma da considerare probabilmente tra i migliori dischi dell’anno; affermazione sicuramente importante, ma i ripetuti ascolti mi hanno convinto che le atmosfere elaborate sono di gran livello, la capacità di scrittura è veramente eccellente e le chitarre, memori del grande suono norvegese, creano riff, momenti coinvolgenti, non perdendosi mai in momenti di stanca… tutto è votato alla creazione di un rituale oscuro e senza via di uscita. Nessuna luce può penetrare in questo tessuto sonoro, che, forte anche di vocals varie tra scream, litanie e teatralità, regalando momenti di inquietudine e maestosità (Nightbound). Originario di Trondheim, fino al 1200 d.C. capitale della Norvegia e successivamente denominata Nidaros fino a inizio ‘900, il gruppo appartiene al Nidrosian Black Metal, che raggruppa varie band, One Tail One Head prossimi al debutto, Vemod, Black Majesty tra le altre, che all’ interno della scena norvegese rappresentano un unicum creando un suono sì memore della old school ma capace di integrare anche “ritualistic soundscapes”, forgiando atmosfere arcane e dal forte fascino. Difficile non rimanere rapiti di fronte a un brano come Labyrinth of Dying Stars, impetuoso, memore dei grandi antichi ma capace con un finale da brividi, di proiettarci verso un cosmo infinito: una magnificenza da ascoltare in loop per sempre. Notevolissima conferma di una band che incarna con personalità il culto della Nera Arte.

Tracklist
1. Flaming Black Zenith
2. Blood Across the Firmament
3. These Foundations of Darkness
4. Nightbound
5. Labyrinth of Dying Stars

Line-up
Luctus – Bass
ⷚ – Drums
Nosophoros – Guitars
HBM Azazil (aka Kvitrim) – Guitars, Vocals

MARE – Facebook

Hermóðr – Rovdjur & Northern Might

Viviamo in tempi distopici e il black metal non offre le risposte ma semmai dischi di una bellezza eroticamente mortale come questo, dove è presente uno dei tanti pneuma di questo immenso genere.

Due lunghe suite di black metal atmosferico minimale e dal grande fascino, un qualcosa di arcaico che risveglia un senso di bellezza e di soddisfazione come se ci si stendesse sopra un prato verde in una primavera ventilata su al nord.

Hermóðr è un progetto dello svedese Rafn, attivo dal 2012, che ha saputo raccogliere un buon numero di adepti e ascoltandolo non si può fare a meno di amarlo perché incarna molte delle cose belle del black metal. Come già detto poc’anzi, la struttura del suono è fortemente atmosferica, la struttura è molto minimale e la bassa fedeltà non è estrema ma è voluta ed è indispensabile per la riuscita del tutto. Il suono nel suo complesso è debitore dei Bathory, del resto Quorthon è il nume tutelare di un certo modo di fare e di credere il black metal, ma è ugualmente originale. Il dipanarsi delle canzoni è progressivo (la forma canzone è lontana da questi lidi) e si può cogliere qualcosa in quota primo Alcest, giusto per far capire le coordinate, senza però l’attuale “piacioneria” del francese ma con un rigore minimale. Bisogna essere molto bravi e capaci per fare due pezzi di oltre quindici minuti l’uno in questo genere riuscendo a farsi apprezzare. Da ogni aspetto, copertina, titolo etc, traspare la ferrea volontà di mettere la musica come motore primo e scopo ultimo ed unico, senza fronzoli e pose. Tutto qui va verso un’idea mitica ed idealizzata del nord, sia esso quello antico o forse quello che non c’è mai stato, ma sempre meglio di ciò che stiamo vivendo, che è davvero sbagliato; viviamo in tempi distopici e il black metal non offre le risposte ma semmai dischi di una bellezza eroticamente mortale come questo, dove è presente uno dei tanti pneuma di questo immenso genere. Un sogno lento dal quale non vi vorrete svegliare.

Tracklist
1.Rovdjur
2.Northern Might

Line-up
Rafn – Everything

HERMODR – Facebook

Graveborne – 1918

Dischi così non hanno data di scadenza, prestandosi a molti ascolti che daranno sempre soddisfazione, perché chi ama il black metal classico e con contenuti amerà 1918, se poi approfondirete anche la guerra civile finlandese scoprirete molte cose interessanti.

La guerra civile finlandese, sisällissota in lingua originale, fu un sanguinoso e poco conosciuto conflitto interno allo stato nordico che cominciò il 27 gennaio 1918 e che terminò il 27 maggio dello stesso anno.

Gli schieramenti in campo erano fondamentalmente tra i finlandesi rossi, punaiset, guidati dai socialdemocratici e dai comunisti con il supporto sovietico, e dall’altra parte i finlandesi bianchi, i valkoiset, che furono aiutati dalla Germania. Lo scontro, nonostante il limitato periodo di tempo, fu cruento e mise di fronte la Finlandia a quello che sarebbe stato il suo futuro, ovvero di baluardo atlantico alla minaccia sovietica che ha sempre visto la Finlandia come un suo possedimento di diritto. I Graveborne raccontano tutto ciò attraverso un black metal classico e molto influenzato da momenti punk, dove non mancano importanti melodie con le tastiere ed intarsi epici. Il gruppo finnico è attivo da circa una decina di anni e nel corso degli anni ha saputo ritagliarsi una fetta importante di pubblico molto fedele, anche perché i suoi lavori sono tutti di ottima fattura, e forse questo 1918 è il loro episodio migliore. Il disco è interamente in lingua finlandese e ciò fa parte del suo fascino anziché essere un ostacolo alla comprensione: questo lavoro conferma che il black metal è un mezzo molto consono al racconto storico, sia per la sua capacità di rottura che per la sua urgenza musicale e verbale, una poesia di guerra e sangue. 1918 ha al suo interno un vortice di emozioni e di situazioni musicali diverse e tutte molto valide, che lo rendono un’opera black metal di alto livello e variegata, dalle molte opzioni. Dischi così non hanno data di scadenza, prestandosi a ripetuti ascolti che daranno sempre soddisfazione, perché chi ama il black metal classico e con contenuti amerà 1918. Se poi approfondirete anche la guerra civile finlandese scoprirete molte cose interessanti.

Tracklist
1.1918
2.Myrskytuuli
3.Jääkärin tie
4.Valkokaarti
5.Susinarttu
6.Kuoleman kellot
7.Tuomittu
8.Punakaarti
9.Vaiti
10.Jumalan palvelija

Line-up
Raato – Vocals
Marchosias – Guitar
Horkka – Guitar
Kalmo – Bass
Pentele – Drums

GRAVEBORNE – Facebook

Malthusian – Across Deaths

Un album difficile, non aiutato da una produzione che ne soffoca il suono e troppo impegnata a risaltare i bassi, magari anche voluta ed in linea con l’assoluto mood estremo di un sound che alterna (nei momenti più intensi e riusciti) furia death/black e litanie doom.

Un vento freddo e terribile spira da nord, portando con se la musica dei death/blacksters Malthusian, gruppo estremo di Dublino che mette in musica le teorie di Thomas Malthus, sotto la spinta di un metal estremo che risulta un caos primordiale, una tempesta di suoni death metal resi ancora più estremi e caotici da sferzate black metal.

I Malthusian sono un quartetto attivo dal 2012 che ha già espresso il proprio concept con un demo ed un ep uscito tre anni fa (Below the Hengiform).
Con musica e tematiche di difficile digeribilità anche per chi non è nuovo ad ascolti estremi, Across Deaths si sviluppa su cinque brani per quaranta minuti di tsunami musicale, tra brani medio lunghi che raggiungono durate importanti come i dodici minuti abbondanti di Primal Attunement-The Gloom Epoch, cuore di questo lavoro che ci riserva una varietà nel songwriting più accentuata, con atmosfere che rallentano fino a toccare lidi doom/death.
Un album difficile, non aiutato da una produzione che ne soffoca il suono e troppo impegnata a risaltare i bassi, magari anche voluta ed in linea con l’assoluto mood estremo di un sound che alterna (nei momenti più intensi e riusciti) furia death/black e litanie doom.

Tracklist
1. Remnant Fauna
2. Across the Expanse of Nothing
3. Sublunar Hex
4. Primal Attunement – The Gloom Epoch
5. Telluric Tongues (Roaring Into the Earth)

Line-up
PG – Bass, Vocals
JK – Drums
AC – Guitars, Vocals
MB – Guitars, Vocals

MALTHUSIAN – Facebook

Daagh – Daagh

Il disco suona come dovrebbe suonare un album di black metal classico ed è nettamente al di sopra della media del genere.

Black metal norvegese suonato da un uomo solo nel solco della tradizione norvegese.

In molti generi musicali basterebbe questa scarna descrizione per far capire ai più di cosa stiamo parlando, invece nel black metal questo è solo il punto di partenza di un viaggio.
L’ep di esordio di Daagh è un bellissimo trattato di circa trentacinque minuti su come si possa fare ancora del grande black metal nel solco del true norwegian black metal, a partire dalla copertina per arrivare alle note musicali. Dall’inizio alla fine di questo disco si è trascinati nel freddo inverno nordico, dove tutto è ghiacciato, e proprio lì arde il fuoco del black. Le chitarre distorte che trovano lo spazio per magnifiche melodie malate, la batteria che cala incessante come una scure vendicatrice, la voce che appare lontana come potrebbe essere in una tempesta di neve, e quell’incedere che ha fatto amare a tante persone il verbo del black metal. A ragion veduta è stato detto tante volte che questo non è giustamente un genere per tutti, e l’ep di Daagh ne è la prova. Chi ama il nero metallo qui potrà trovare l’armonia del caos che solo questa musica sa regalare, invece chi non lo apprezza vi ascolterà solo una cacofonia. Daagh usa al meglio la tradizione norvegese per produrre un album molto ortodosso e pieno di ottime idee, con alcuni spunti geniali. Il disco suona come dovrebbe suonare un album di black metal classico ed è nettamente al di sopra della media del genere. Ci si immerge totalmente in questo muro del suono, in questa veemenza nichilista e di richiamo verso un passato che era sicuramente più sincero di questo attuale presente. Uno dei punti a favore di Daagh è il sapiente uso delle tastiere, che creano grandi atmosfere aggiungendo maggior valore al disco. Un grande ep che esce per la polacca Wolfspell Records, un’eccellente etichetta di black metal underground, che farà uscire ottime cose in concomitanza con il solstizio autunnale.

Tracklist
1.I
2.II
3.III
4.IV
5.V

DAAGH – Facebook

Mørketida – Panphage Mysticism

Nessun imbellettamento sonoro, ma solo nera sostanza è quanto ci viene mirabilmente offerto grazie al misantropico sentire dei Mørketida, capaci di afferrare saldamente il testimone da chi definì le coordinate del black diverse centinaia di chilometri più ad ovest.

Dopo un demo risalente ormai a sei anni fa, si rifanno vivi i finlandesi Mørketida con una prova magnifica, capace di rievocare i fast del black metal nelle sue sembianze più pure ed originali.

Quella del duo finnico è una fuga all’indietro che trova il suo naturale approdo nella rievocazione delle pulsioni primordiali del genere, sia a livello stilistico che di rivestimento sonoro; l’operazione non è affatto, però, una superflua e nostalgica riproposizione di un qualcosa di trito e ritrito, ma un’adesione totale, nello spirito e nella forma, ai suoni che agitarono il Nordeuropa e la scena metal all’inizio degli anni ’90.
Pervicacemente lontani da ogni bagliore modernista, Nagafir Devraha e Sol Schwarz regalano un album che potrà essere apprezzato in toto solo da chi ama il genere nella sua essenza più pura: Panphage Mysticism esprime un black metal ruvido, essenziale ma nel contempo contrassegnato da un melodico e malinconico incedere.
I tre brani centrali, Serpent’s Grail, Throne of Unseen e la title track, dovrebbero essere usati in ipotetici libri di testo per spiegare ai più giovani quali siano le reali coordinate sonore del genere, ma se questo potrebbe far apparire l’operato dei Mørketida una semplice quanto riuscita operazione di copiatura ci si sbaglia: un simile lavoro sicuramente non sarebbe mai uscito se non fossero esistiti prima i vari Darkthrone, Burzum e compagnia, ma il lavoro viene restituito con una forza espressiva ed una credibilità tale da farlo apparire al 100% farina del sacco dei due finlandesi.
Nessun imbellettamento sonoro, ma solo nera sostanza è quanto ci viene mirabilmente offerto grazie al misantropico sentire dei Mørketida, capaci di afferrare saldamente il testimone da chi definì le coordinate del black diverse centinaia di chilometri più ad ovest.

Tracklist:
1. Intro
2. Invoking the Seventh Moon
3. Witchcraft
4. Serpent’s Grail
5. Throne of Unseen
6. Panphage Mysticism
7. Temple of Prevailing Darkness
8. Outro

Line-up:
Nagafir Devraha – Drums, Synths, Vocals
Sol Schwarz – Guitars, Bass

MORKETIDA – Facebook

Bonehunter – Children Of The Atom

Speed metal, thrash, black e punk formano una miscela esplosiva che ha come padrini i soliti nomi di chi suona il genere, e i Bonehunter sanno come miscelare per bene questa bomba in musica, trascinando i fans in un vortice di metal ignorante, senza compromessi e blasfemo.

Trio proveniente da Oulu ed attivo dal 2011, i finlandesi Bonehunter pubblicano il terzo full length che va a rimpinguare una discografia abbondante, specialmente per quanto riguarda ep e split.

Children Of The Atom è il nuovo lavoro sulla lunga distanza, successore di Evil Triumphs Again uscito nel 2015 e del secondo massacro licenziato lo scorso anno dal titolo Sexual Panic Human Machine.
Syphilitic Satanarchist (voce e basso), Witch Rider (Guitars) e S.S Penetrator (batteria) suonano un thrash/black old school mosso da uno spirito demoniaco e punk: il loro nuovo album risulta una mazzata estrema di chiara ispirazione ottantiana, con un sound alimentato dalla confluenza di generi che ancora oggi si nutrono di anime nell’underground metallico mondiale.
Speed metal, thrash, black e punk formano una miscela esplosiva che ha come padrini i soliti nomi di chi suona il genere, e i Bonehunter sanno come miscelare per bene questa bomba in musica, trascinando i fans in un vortice di metal ignorante, senza compromessi e blasfemo.
Children Of The Atom parte sgommando e non si ferma più: il gruppo scarica mitragliate metalliche dove le ritmiche non danno tregua, l’attitudine punk risveglia sensazioni motorheadiane mentre Lucifero si crogiola tra invocazioni alla distruzione totale, alla guerra e al caos.
Tempestoso e velocissimo inno estremo, l’album gode di una produzione discreta e di dieci brani ispirati dove Venom, Slayer e Motorhead sono chiamati alle armi dai Darkthrone per dare vita ad una raccolta che vede Sex Messiah Android, la title track e Spider’s Grave quali momenti migliori di questa totale e violenta aggressione di matrice old school.

Tracklist
1.Initiate The Sequence
2.Demonic Nuclear Armament
3.Sex Messiah Android
4.Children Of The Atom
5.The Reek Of Reaper’s Scyte
6.Black Star Carcass
7.Spider’s Grave
8.Cybernetic Vampirism
9.Man Of Steel (Spiritus Mortis cover)
10.Devil Signal Burst

Line-up
Syphilitic Satanarchist – Vocals, Bass
Witch Rider – Guitars
S.S Penetrator – Drums

BONEHUNTER – Facebook

Black Howling – Return of Primordial Stillness

Il Black Metal portoghese non tradisce mai, con una band che, attiva dal 2003, ha saputo imporsi per doti tecniche, originalità, mutevolezza e grandi capacità evolutive, in una scena concorrenziale ricchissima, dove la numerosità di attori principali, costituisce il cast del colossal musicale Lusitano.

Se ipotizzassimo di tracciare linee immaginarie sulla cartina dell’Europa, per definire le macro fasce geografiche del genere Black Metal del Vecchio Continente, potremmo (almeno) individuare tre zone: la fascia Scandinava, il Centro Europa e l’area Mediterranea.

Ed è proprio in quest’ultima che una nazione come il Portogallo, risulterebbe seconda a nessuna (probabilmente al livello di Grecia e appena sopra il Bel Paese).
Un terra antica – la Lusitania – nata in epoca preromana, popolata da abitanti affini sì agli antichi Iberi, ma con connotazioni religiose, sociali e culturali pressoché analoghe agli antichi e misteriosi Celti, precedenti abitanti di questa terra (poi cacciati dagli stessi Lusitani che ne occuparono i territori, oggi più o meno coincidenti con l’attuale Portogallo).
Antichi culti pagani e divinità di chiara origine celtica (l’impavido Cariocecus poi sincretizzato in Ares per i Greci o ancora il “buono” Endovelicus probabilmente identificabile con Apollo), perdurati nei secoli, nonostante le coercitive evangelizzazioni (spesso senza risultato) della dominazione romana e una collocazione geografica, così lontana dal resto d’Europa (quasi a voler stigmatizzare un’appartenenza ad un continente specifico e a voler far intendere di essere l’ultimo baluardo a difesa da immaginari invasori d’oltre oceano), hanno contribuito nei secoli ad avvolgere di arcano mistero questa terra meravigliosa.
In un contesto così misteriosamente e cupamente affascinante, non poteva che trovare terra fertile un genere come il Black Metal.
Moonspell (poi orientati verso lidi musicali più melodicamente gotici e doom) e poi Decayed, Sacred Sin, e successivamente Corpus Christii, Irae, Cripta Oculta, Inthyflesh, Mons Veneris (ma si potrebbe continuare per giorni) ed appunto i nostri, i Black Howling, costituiscono l’ossatura nera della terra dei navigatori.
Satanismo, occultismo (tematica molto cara “all’area Mediterranea”), folklore, ma anche distruzione, odio, pessimismo e misantropia, temi ricorrenti nei testi, rappresentando l’incipit e l’excipit (e tutto ciò che ne viene compreso) del nero grimorio lusitano.
E sono proprio queste ultime tematiche a fare da cornice al genere proposto dal duo di Lisbona, (d’altronde il depressive portoghese rappresenta un imprescindibile ramo del Black Lusitano). Costanti atmosfere funeree e tragicità onnipresente, costituiscono il core delle loro lyrics. Sonorità angoscianti e urla strazianti, presenziano ogni loro traccia. Cinque album all’attivo, moltissimi split, due ep ed alcuni demo, rappresentano la produzione di questa prolifica band. Mai una luce, mai un bagliore, nessuna traccia di ottimistiche visioni future. Solo depressione, afflizione e nere sofferenze, convergono nel loro funereo ultimo sforzo, Return of Primordial Stillness, full length uscito per la portoghese Signal Rex, della durata di circa 40 minuti, ma contenente unicamente 4 brani (due dei quali di 15 minuti circa!).
Iberia, il primo brano, è un funeral black doom agghiacciante. Quasi sei minuti che ci accompagnano inesorabilmente verso antichi rituali funebri; mai un’accelerazione, neanche un accenno di mid-tempo … solo triste lentissimo incedere di un sound che, se accolto ad occhi chiusi e assaporato in una stanza buia, rende partecipi di una straziante mortuaria marcia. Immaginari occhi proiettati verso il cielo, consapevolmente, ci lasciano intendere di essere noi il cadavere, mestamente trasportato nel feretro . Molto Sleep di Stillborn, occhiolino ai Black Sabbath di Electric Wizard, con un sottofondo melanconicamente melodico (in cui ho rivissuto in parte le emozioni di Melissa), in una cornice dolorosamente, ma maestosamente Black.
Ma sono i due pezzi successivi che ci straziano di felicità. Un galoppante Black Metal classico, ricco di melodia, adagiato su tipici tremoli ed intarsiato da uno scream lancinante ma efficace, sostiene il corpo della traccia Celestial Syntropy (Übermensch Elevated), ove non mancano momenti lenti e sinfonici, corollati da una depressione sempre latente e arricchiti da magici assoli di chitarra di A. (dotato di tecnica sopraffina), intervallati da maestosi mid-tempo, che sfumano in momenti più thrash, evidenziando la bravura dei nostri, sia in fase solista che ritmica. La potenza esercitata da basso (sempre di A.) e batteria (di P.) risultano impressionanti. Vocalizzi strazianti (P.) vengono qui sapientemente amalgamati da angoscianti cori clean, che rendono tutto il pezzo un omaggio ai solenni sintropici aspetti della natura dell’Universo. E in antitesi all’universale ordine sintropico, non poteva mancare il disordine entropico del successivo pezzo – Celestial Entropy (Emptiness Revelation) – la canzone definitiva: il momento musicale che scandisce la morte entropica del tutto, lo stato finale ove tutte le energie universali terminano. In una parafrasi musicale, il pezzo che assorbe letteralmente ogni nostra umana vitalità, sprofondandoci in un’etera depressione, costruita su apatici tempi funebri, adagiati su melodie contaminate da un sound doom anni settanta, che collima, verso il minuto 6” circa, con un momento (seppur breve) di divino di metal settantiano, dove le apparizioni dei Black Sabbath, ci inebriano di cupa decadenza e di drammatica occulta sofferenza.
Una ripresa black veloce, il ritorno Heavy Doom e la melodica disforia musicale, accompagnano i lancinanti vocalizzi del lamento di A. sino al termine di una canzone, che più che un brano, è un inno alla fine dell’esistenza, dell’Universo, del Cosmo intero.
C’è ancora tempo per un momento strumentale (Cosmic Oblivion, interamente a cura di A.) che sancisce la morte definitiva del Cosmo. Qui, un delizioso arpeggio, sonorità elettroniche affini a rumorismi quasi sci-fi, instillano fluidi psichedelici nelle nostre vene che, adagiandoci su un letto di morte, ci cullano grazie ad echi e risonanze floydiane, rendendo meno dolorosa la fine del Tutto.
Gloria in excelsis Deo, in onore di un Dio della Musica, che mai come in questo album ha ispirato il duo Lusitano. Da non perdere.

Tracklist
1.Iberia
2.Celestial Syntropy (Übermensch Elevated)
3.Celestial Entropy (Emptiness Revelation)
4.Cosmic Oblivion

Line-up
A. – Guitars, Bass
P. – Vocals, Drums

BLACK HOWLING – Facebook

Dakhma – Hamkar Atonement

Questo disco è un’espressione del metal estremo, una della sue facce migliori, nella quale molti generi si incontrano per fare un qualcosa che va oltre la musica e si incontra con la ricerca filosofica e spirituale.

Gli svizzeri Dakhma sono uno di quei pochi gruppi al mondo che fanno per davvero musica rituale, ovvero usano la musica nel suo senso primordiale, quello di accompagnamento ad un rito, un qualcosa che secondo certi codici cambia la realtà intima dell’uomo e dell’ambiente che lo circonda.

Il nome Dakhma vuol dire Torre del Silenzio nella religione zoroastriana: erano torri con uno spazio circolare dove venivano posti i cadaveri per essere mangiati dagli animai selvatici, in una sorta di circolo naturale e perfetto. Il gruppo svizzero fa un death ritual con forti tinte black, in un perfetto bilanciamento di musiche diverse che hanno tutte un loro momento ben specifico. L’argomento principale della loro poetica è la religione zoroastriana che è di davvero difficile spiegazione, anche se ha tratti in comune con quella più diffusa alle nostre latitudini. Per molti anni fu il culto più diffuso in Medio Oriente, e ancora adesso annovera un buon numero di seguaci, tanto per intenderci Freddie Mercury era uno zoroastriano convinto, certo non sulla stessa linea dei Dakhma. Il gruppo di Zurigo è una delle migliori espressioni del death metal totalmente underground contemporaneo, riuscendo benissimo in tutto ciò che vogliono fare. Le loro canzoni sono tutte di ampio respiro, perché lo sviluppo è il fulcro di tutto, anche quando fanno pezzi prettamente death riescono a non ripetersi mai ed hanno un tiro micidiale. Ancor meglio sono poi i pezzi maggiormente votati al ritual, e capita anche che i due brani si mescolino per creare un’atmosfera credibile e molto intensa. Questo disco è un’espressione del metal estremo, una della sue facce migliori, nella quale molti generi si incontrano per fare un qualcosa che va oltre la musica e si incontra con la ricerca filosofica e spirituale. Si rimane stupiti di fronte a tanta potenza e capacità creativa, e soprattutto questo è un disco che riesce ad essere estremo senza assumere pose assurde e senza lanciarsi in esperimenti poco piacevoli. I Dakhma fanno inoltre parte dell’Helunco, aka Helvetc Underground Commitee: come si può leggere sul sito del comitato “… H.U.C. is dedicated to the advancement of grotesque, vile, depraved and putrid audio torment originating from Switzerland …” e lì dentro ci sono gruppi molto interessanti come i Lykaheon e i Despotic Terror Kommando.

Tracklist
1. The Glorious Fall of Ohrmazd (Hail Death, Triumphant)
2. Akhoman (Spill The Blood)
3. Varun (Of Unnatural Lust)
4. Nanghait (Born Of Fire)
5. Spendarmad (Holy Devotion)
6. Gannag Menog (Foul Death, Triumphant)
7. …Of Great Prophets

Line-up
Kerberos – Howls of Druj and Rites of Purification
H.A.T.T. – Thunderstorm of Daeva

DAKHMA – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=PRgddctB3-s – Traduci questa pagina

Barkasth – Decaying

La forza di un album come Decaying risiede in una formula che certo non è un segreto: sette canzoni rese irresistibili da un uso sapiente della melodia, il tutto racchiuso in poco più di quaranta minuti di black metal intenso e che sovente vira sul death, esaltato da una produzione all’altezza e da una prestazione impeccabile dei singoli.

Tra le scene black metal dell’est europeo quella ucraina è sicuramente la più interessante e ricca qualitativamente, assieme a quella rumena, meno densa però a livello numerico.

Ad avvicinarsi notevolmente al livello di giganti come Drudkh o Nokturnal Mortum arrivano oggi, con il loro primo album, i Barkasth, anch’essi provenienti dall’inesauribile fucina di Kharkiv.
Il fatto che Decaying ne rappresenti il passo d’esordio non deve indurre in errore facendo pensare che il quartetto sia composto da imberbi ragazzini; i nostri, per quanto ancora relativamente giovani, sono tutti musicisti che gravitano nell’ambiente già da diverso tempo, con due di essi provenienti da un altro gruppo di spessore come gli Elderblood.
La forza di un album come Decaying risiede in una formula che certo non è un segreto: sette canzoni rese irresistibili da un uso sapiente della melodia, il tutto racchiuso in poco più di quaranta minuti di black metal intenso e che sovente vira sul death, esaltato da una produzione all’altezza e da una prestazione impeccabile dei singoli, con le chitarre che si lasciano andare spesso e volentieri a gustosi assoli ed un alternanza screaming/growl appropriata e convincente.
L’opener Begging By Freaks è già da solo un brano che potrebbe valere un intero album, e la stessa valutazione la si può fare anche per la conclusiva e più avvolgente …Where Was The Son Of God; tutto quanto sta in mezzo è di livello assolutamente conforme a queste due gemme, per cui non vi sono davvero controindicazioni nell’affermare che i Barkasth costituiscono una delle scoperte più eccitanti dell’anno in ambito black metal.
Ad impreziosire il tutto troviamo anche un approccio concettuale non banale, anche se sicuramente non nuovo nella sua espressione di antireligiosità, la quale viene esibita però in maniera ragionata e tutt’altro che becera, rivelandosi molto più adeguata in tal senso ad un contenuto musicale di primissimo ordine.

Tracklist:
1. Begging By Freaks
2. Alone
3. Blood & Flesh
4. Soul Away
5. Decaying
6. Shepherd
7. …Where Was The Son Of God

Line-up:
Arkhonth – guitars, vocals
Goreon – guitars, vocals
Hagalth – bass
Malet – drums

BARKASTH – Facebook

Eriphion – Δοξολογία

Eriphion è decisamente una bella scoperta, rivelandosi un progetto nel quale la mancanza di spunti innovativi è compensata con gli interessi da una scrittura ficcante ed incisiva in ogni frangente.

Come preannunciato in occasione delle due righe scritte in relazione all’ep Hossana, eccoci alle prese con Δοξολογία, full length d’esordio del progetto solista ellenico Eriphion.

M. questa volta riesce a smussare alcune imperfezioni emerse nel precedente lavoro focalizzandosi opportunamente sul lato melodico e atmosferico del proprio black metal, fornendo così un risultato a tratti sorprendente per qualità e carica evocativa.
Così tutto sembra funzionare al meglio ed il black in quota Satyricon del musicista ateniese può veleggiare con successo facendosi apprezzare dall’ascoltatore e soprattutto fluendo senza soverchi intoppi.
L’ottima The Worship squarcia immediatamente il velo, lasciando che M. esibisca un gusto melodico da primo della classe, e se Ashes to Ashes si dimostra episodio decisamente più aspro, la linea chitarristica di Corridor of Souls si propaga irresistibile sullo spartito.
Δοξολογία non scende mai di livello, ritrovando altri picchi nella solennità di Sin Is Calling e nella più rallentata ed avvolgente traccia di chiusura Doxologia.
Eriphion è decisamente una bella scoperta, rivelandosi un progetto nel quale la mancanza di spunti innovativi è compensata con gli interessi da una scrittura ficcante ed incisiva in ogni frangente.

Tracklist:
1. The Worship
2. Ashes to Ashes
3. Corridor of Souls
4. Welcome to the Nightmare
5. Winter Fire
6. Sin Is Calling
7. The Immortal
8. Doxologia

Line-up:
M. – all instruments, vocals

ERIPHION – Facebook

 

Thou – Magus

E’ un’esperienza rigenerante abbandonarsi al suono devastante dei Thou, un’incendiaria miscela di sludge, doom, drone e black creata da musicisti di alto livello.

Emersi dalle pericolose paludi della Louisiana, gli statunitensi Thou, in poco più di dieci anni di carriera, hanno inondato la scena di molteplici uscite discografiche, circa 40, tra full length, ep, split e compilation, mantenendo un alto profilo artistico votato alla disgregazione delle nostre fibre nervose, con il loro potente e sempre ispirato blend di sludge, doom, black e drone sempre perfettamente calibrato, per scuotere nel profondo i nostri sensi.

Originario di Baton Rouge, il quintetto nel 2018 ha fatto sentire pesantemente la sua presenza, proponendo a cadenza regolari tre succulenti EP nei quali hanno lasciato fluire la loro inventiva, a partire da House Primordial, molto noise-drone, passando per Inconsolable, dal flavour dark folk, fino a Rhea Silvia, omaggio agli Alice In Chains e al grunge in generale; eclettici e votati alla sperimentazione sonora e testuale, i Thou hanno spesso collaborato con altri act mutanti dell’underground a stelle e strisce (Body, Barghest, Great Falls tra gli altri), fornendo sempre prove convincenti e varie. Non amano essere catalogati e tanto meno identificati come sludge band, preferendo richiamarsi più alla scena punk e grunge, e citano tra i loro gusti Nirvana e Fiona Apple mentre suonano live cover di Duran Duran. Una creatura sfuggente, ma decisamente originale e potente plasmata da oltre 600 concerti e cinque full length, compreso il nuovo Magus, che conclude la trilogia iniziata nel 2010 con Summit, più black oriented, e proseguita nel 2014 con Heathen, dalle sfumature invece più doom; l’ultimo lavoro bilancia al meglio le due anime black e sludge, investendoci con settantacinque minuti di devastazione, con brani lunghi, lavorati dal suono delle due chitarre che macinano riff e atmosfere opprimenti senza sosta, mentre le vocals straziate, sguaiate di Bryan Funck sovrastano il suono, miscelando scream e growl in modo personale. Non lascia indifferenti l’approccio con la loro musica, perché è sfiancante, estenuante, ti prende alla gola e non ti fa respirare (da vedere il video di The Changeling Prince dove la partecipazione del pubblico sembra seguire un antico rituale); siamo vicini alle derive proposte da Khanate e Burning Witch con la malevolenza dei Goatwhore: tutto scorre melmoso, denso, pericoloso, non dando tregua neanche con i testi che parlano di degrado sociale e culturale. Magus è un disco da assimilare in toto, con tutti i brani di alto livello, a patto di porre la giusta attenzione e ascoltarli nel mood ideale; la proposta dei Thou è stimolante, non è alla portata di tutti ma è in grado di produrre effetti catartici e rigeneranti.

Tracklist
1. Inward
2. My Brother Caliban
3. Transcending Dualities
4. The Changeling Prince
5. Sovereign Self
6. Divine Will
7. In the Kingdom of Meaning
8. Greater Invocation of Disgust
9. Elimination Rhetoric
10. The Law Which Compels
11. Supremacy

Line-up
Mitch Wells – Bass
Andy Gibbs – Guitars
Matthew Thudium – Guitars
Bryan Funck – Vocals
Josh Nee – Drums

Faustcoven – In the Shadow of Doom

Il rantolo vocale non fa altro che acuire la sensazione d’essere al cospetto di un reiterato quanto necessario rituale che non lascia spazio a gesti pietosi o vane esitazioni: le tenebre sono lì, incombenti e pronte ad inghiottirci, e opporre resistenza serve a poco, tanto vale approdarvi assecondando i ritmi letali dei Faustcoven.

Nuovo full length per il progetto solista del norvegese Gunnar Hansen, Faustcoven, nome che ha raccolto un certo consenso tra gli appassionati di sonorità oscure a cavallo tra il doom ed il black, fin dalle sue prime apparizioni all’inizio del millennio.

In effetti non stupisce che il musicista di Trondheim sia riuscito a convogliare sulla sua creatura una certa aura di culto: il sound marchiato Faustcoven possiede un qualcosa di ancestrale, pur apparendo oggettivamente piuttosto peculiare, ed è la dimostrazione di quanto non servano produzioni leccate od elaborati tecnicismi per soddisfare la fame di buona musica di chi ascolta i due generi citati.
Hansen, che si avvale ormai stabilmente da oltre un decennio del prezioso aiuto alla batteria di Johnny Tombthrasher, possiede il grande pregio di andare al sodo senza troppi indugi, il che rende In the Shadow of Doom una prova aspra, urticante e convincente su tutti i fronti.
Nonostante queste caratteristiche di base, Faustcoven non è sinonimo di immobilismo stilistico: proprio il suo oscillare tra black e doom, con la bilancia che pende però sensibilmente da quest’ultima parte, consente frequenti cambi di ritmo, consentendo così di trovare brani ferocemente spediti come Sign of Satanic Victory oppure episodi asfissianti come Yet He Walks o Marching in the Shadow, per arrivare addirittura al pazzesco doom venato di un blues malato (con tanto di armonica nel finale) di As White As She Was Pale.
Il rantolo vocale non fa altro che acuire la sensazione d’essere al cospetto di un reiterato quanto necessario rituale che non lascia spazio a gesti pietosi o vane esitazioni: le tenebre sono lì, incombenti e pronte ad inghiottirci, e opporre resistenza serve a poco, tanto vale approdarvi assecondando i ritmi letali dei Faustcoven.

Tracklist:
1. The Wicked Dead
2. The Devil’s Share
3. Yet He Walks
4. Marching in the Shadow
5. Sign of Satanic Victory
6. Lair of Rats
7. As White As She Was Pale
8. Quis Est Iste Qui Venit

Line-up:
Gunnar Hansen – Vocals, Guitars, Bass
Johnny Tombthrasher – Drums

Dauþuz – Des Zwerges Fluch

Des Zwerges Fluch è un’altra prova convincente regalata da Aragonyth e Syderyth, musicisti che fanno tesoro dell’esperienza acquisita negli anni attraverso un’intensa attività all’interno di diverse band tedesche.

Ci eravamo già occupati di questi ottimi Dauþuz lo scorso anno, in occasione dell’uscita del loro secondo full length Die Grubenmähre: li ritroviamo oggi, sempre sotto l’attenta egida della Naturmacht, con questo ep intitolato Des Zwerges Fluch, alle prese con il loro black metal ossessionato a livello concettuale dal lavoro in miniera all’inizio del novecento.

Il duo offre comunque sei brani per una durata complessiva degna di un full length, per cui sicuramente c’è un buon motivo in più per dedicare la giusta attenzione a questo lavoro .
Rispetto alla precedente uscita evidentemente non ci possono essere troppe variazioni sul tema, perché il black metal dei Dauþuz è profondamente tedesco per stile, atmosfere e ovviamente liriche, anche se all’ascolto si percepisce una migliore sintesi ed un’intensità offerta in maniera più continua.
La trilogia dedicata alla “maledizione del nano” costituisce ovviamente il fulcro dell’opera, con soprattutto la seconda parte Buße che vede i Dauþuz offre il meglio a livello di ispirazione; frammenti acustici si frappongono tra i vari brani spezzando opportunamente l’andamento dei brani con l’intento di aumentare ancor più il pathos, con due tracce magnifiche come Steinhammer e Als mein Geleucht für immer erlosch ad aprire e chiudere rispettivamente l’ep, all’insegna di un black metal crudo ma non scevro di linee melodiche ficcanti.
Des Zwerges Fluch è un’altra prova convincente regalata da Aragonyth e Syderyth, musicisti che fanno tesoro dell’esperienza acquisita negli anni attraverso un’intensa attività all’interno di diverse band tedesche; ma ormai sappiamo bene che difficilmente da quelle terre potrà scaturire una qualsiasi forma di black metal che non sia soddisfacente.

Tracklist:
1. Steinhammer
2. Berggeschrey
3. Unwerk – Des Zwerges Fluch I
4. Buße – Des Zwerges Fluch II
5. Mors Voluntaria – Des Zwerges Fluch III
6. Als mein Geleucht für immer erlosch

Line-up:
Aragonyth S. – All instruments
Syderyth G. – Vocals, Lyrics, Guitars

DAUTHUZ – Facebook

Losa – Mastrucatum

Mastrucatum spalanca le porte al mondo dei Losa, un’entità musicale il cui manifesto legame alla tradizione della propria terra non rappresenta una fuga all’indietro rispetto alla modernità, bensì il condivisibile nonché riuscito tentativo di abbinare la contemporaneità del metal alla conservazione di quelle radici culturali che nessuna forma di globalizzazione ha il diritto di omologare o banalizzare.

Losa è il nome di questo nuovo eccitante progetto musicale proveniente dalla Sardegna, che vede coinvolti tre quarti dei disciolti Accabbadora e, nel complesso, musicisti impegnati in alcune delle migliori realtà estreme presenti nella fertile scena isolana (Simulacro, Anamnesi) e non (Progenie Terrestre Pura, Grind Zero).

Questo breve ep, intitolato Mastrucatum, nonostante una durata ridotta si rivela ampiamente esaustivo riguardo alle capacità ed alle potenzialità di questa nuova creatura che esce sotto l’attenta egida della Third I Rex, etichetta con sede a Londra ma gestita da un altro figlio di quella splendida terra quale è Roberto Mura.
Se la commistione tra black metal e folk non è certo una novità, l’operato dei Losa spicca per la sua perfetta coesione tra le pulsioni estreme e la tradizione musicale e culturale sarda, con i suoi riferimenti (anche in copertina) ai Mumutzones, le tradizionali maschere zoomorfe che animano il carnevale di Aritzu.
Il black metal viene così modellato dai Losa in maniera melodica ed efficace, con richiami che riportano ad una delle massime fonti di ispirazione, specie per chi si cimenta con il genere nell’Europa del Sud, che sono i primi Moonspell; e non è un caso se la band ha inciso una notevole cover di Alma Mater, ascoltabile purtroppo solo sul bandcamp vista la mancanza di tutti i placet necessari per inserire il brano anche all’interno delle copie fisiche di Mastrucatum.
Ad ogni buon conto, sia la title track che il brano autointitolato si rivelano tra le cose migliori ascoltate quest’anno in tale ambito, e stiamo parlando di un settore in cui la qualità media è davvero elevata.
Difficile non restare affascinati dalla sapiente alternanza degli stili vocali che spaziano dallo screaming agli intrecci corali tipici del folklore sardo, così come dalla rielaborazione dei dettami del black metal che viene restituito in maniera fresca ed accattivante.
A dimostrare, poi, che non tutti i mali vengono per nuocere, al posto della programmata cover troviamo Allumiendi, una traccia stupenda nel suo essere folk nel senso più limpido del termine, impreziosita dalle evocative note offerte dalla chitarra acustica.
Mastrucatum spalanca le porte al mondo dei Losa, un’entità musicale il cui manifesto legame alla tradizione della propria terra non rappresenta una fuga all’indietro rispetto alla modernità, bensì il condivisibile nonché riuscito tentativo di abbinare la contemporaneità del metal alla conservazione di quelle radici culturali che nessuna forma di globalizzazione ha il diritto di omologare o banalizzare.

Tracklist:
1.Intro
2.Mastrucatum
3.Losa (Mastrucatum II)
4.Allumiendi

Line-up:
Federico Pia – Vocals and Lyrics
Gabriele Perra – Guitars
Fabrizio Sanna – Bass, Choirs, Clean Vocals and Acoustic Guitar
Emanuele Prandoni – Drums and Percussions

LOSA – Facebook

Mantar – The Modern Art Of Setting Ablaze

La musica prodotta da un duo non è di facile composizione ed esecuzione perché se mancano il talento e le idee le soluzioni si restringono ancora di più, ma non è il caso dei Mantar che fanno canzoni dalle sempre ottime soluzioni sonore ballando fra diversi generi, partendo dal punk e dal suo derivato il black, senza dimenticare la loro forte ossatura doom e sludge.

Il duo tedesco di Brema torna con un disco infuocato ed abrasivo dopo un breve hiatus, dovuto alla partenza del chitarrista e cantante Hanno per l’assolta Florida.

L’amicizia fra i due è più che ventennale e ciò si riverbera sulla loro musica, un misto assolutamente originale di punk, black metal, doom e sludge, il tutto molto potente e corrosivo. I Mantar nel loro curriculum hanno tre dischi ed un ep, con un suono in costante evoluzione. Quando li si ascolta è difficile credere che siano solo in due, perché la loro potenza è grande e possiedono un timbro molto personale e particolare. Il disco ha un groove continuo, un uncino che ti aggancia e ti porta con sé senza mai lasciarti andare. Tutta la musica dei Mantar è costruita sulla composizione del riff di chitarra, l’architrave portante che regge la costruzione. La voce è un altro elemento molto importante perché essa stessa uno strumento che si inserisce nel flusso musicale. The Modern Art Of Setting Ablaze è un disco che parla del fuoco ed è composto dal fuoco stesso, è una materia infuocata eppure molto affascinate da sentire ad un volume molto alto. La musica prodotta da un duo non è di facile composizione ed esecuzione perché se mancano il talento e le idee le soluzioni si restringono ancora di più, ma non è il caso dei Mantar che fanno canzoni dalle sempre ottime soluzioni sonore ballando fra diversi generi, partendo dal punk e dal suo derivato il black, senza dimenticare la loro forte ossatura doom e sludge. L’immaginario di potenza e decadenza che deriva dalle loro canzoni è una suggestione molto forte ed è una componente importante della poetica del duo di Brema. Si rimane fortemente attratti da questa musica che infiamma e che non lascia indifferenti, anche grazie alla grande sicurezza esibita dai due tedeschi.

Tracklist
1. The Knowing
2. Age Of The Absurd
3. Seek + Forget
4. Taurus
5. Midgard Serpent (Seasons Of Failure)
6. Dynasty Of Nails
7. Eternal Return
8. Obey The Obscene
9. Anti Eternia
10. The Formation Of Night
11. Teeth Of The Sea
12. The Funeral

Line-up
Hanno – Vocals, Guitars
Erinc – Drums, Vocals

MANTAR – Facebook