Liya – Listen Ep

Questa prova , per quanto breve, mette in luce un potenziale notevole da parte di Liya.

La nostra periodica incursione nei territori dell’electro dark non ci porta questa volta nelle lande del centro-nord Europa, bensì nella più calda e mediterranea Israele.

Infatti questo ep intitolato Listen è opera della musicista di Tel Aviv Liya Trebitch, la quale si è già fatta un certo nome nell’ambiente, nonostante sia ancora relativamente molto giovane, grazie ad un attività live piuttosto intensa anche in Europa.
L’ep consta di quattro brani intrisi di un synth dark pop di ottima fattura , dai tratti ballabili, con i primi due Holding On e No Meaning più diretti e provvisti di un chorus decisamente orecchiabile, mentre Always About You è una canzone stupenda con il suo incedere più rilassato ed un afflato melodicamente oscuro in grado di fare vittime già al primo ascolto; chiude la notevole title track, altra traccia dall’enorme potenziale commerciale.
Questa prova , per quanto breve, mette in luce un potenziale notevole da parte di Liya: la sua timbrica quasi adolescenziale è ammaliante e ovviamente a livello di riferimenti non si possono che citare le realtà appartenenti ad una cerchia musicale affine con voce femminile, quindi The Birtday Massacre, come opportunamente citato nelle note biografiche, ai quali si possono aggiungere anche gli imprescindibili Kirlian Camera.

Tracklist:
1.Holding On
2.No Meaning
3.Always About You
4.Listen

Line-up:
Liya Trebitch

LIYA – Facebook

Radioaktivists – Radioakt One

E’ possibile che l’ascolto di Radioakt One possa non soddisfare del tutto chi auspicava un album più diretto e danzereccio, mentre invece gli ascoltatori più pazienti e vogliosi di approfondire il sound dei Radioaktivists dopo diversi passaggi potranno apprezzare quanto di buono siano riusciti a mettere sul piatto questi notevoli musicisti.

Il primo album dei Radioaktivists, sorta di supergruppo delle scena ebm – synthwave tedesca, arriva molto tempo dopo la loro prima estemporanea apparizione su una compilation della Dependent, etichetta che ovviamente pubblica anche questo Radioakt One.

Dall’unione di nomi pesanti come quelli di tre musicisti di spicco come Daniel Myer (Haujobb, Architect and Liebknecht), Frank Spinath (Seabound, Edge Of Dawn and Lionhearts), Krischan Wesenberg (Rotersand, ma noto soprattutto per la sua attività di rinomato produttore), oltre a Sascha Lange, scrittore e storico specializzato in cultura giovanile (nonché co-autore della biografia più esaustiva riguardante i Depeche Mode, qui nella veste di seconda voce) era lecito attendersi un lavoro di un certo spessore e queste attese non vengono deluse: è interessante, al riguardo, soprattutto l’approccio alla materia dei Radioaktivists i quali, invece di lanciarsi in una potenziale raccolta di trascinanti hit, esibiscono una certa varietà di soluzioni che, in più di un caso, corrispondono a brani ricchi di sfumature introspettive e certo non destinate a far riversare sulle piste i frequentatori dei club.
Infatti, se si fa eccezione per Raiders e soprattutto per un brano killer come Reach Out, i restanti brani si snodano ammantati da una certa oscurità e sovente anche da una non così scontata dose di lirismo (Skinn And Bones, Leere)
Del resto la voce di Frank Spinath è sempre la consueta garanzia di pulizia stilistica e di qualità e lo stesso Lange, allorché viene chiamato in causa, se la cava piuttosto bene pur non potendo competere con il livello del più collaudato cantante-psicologo, mentre la coppia Myer/Wesenberg si occupa di costruire con innata sapienza un tessuto sonoro ovviamente perfetto dal punto di vista tecnico ma anche dotato di una certa profondità.
E’ possibile, quindi, che l’ascolto di Radioakt One possa non soddisfare del tutto chi auspicava un album più diretto e danzereccio, mentre invece gli ascoltatori più pazienti e vogliosi di approfondire il sound dei Radioaktivists dopo diversi passaggi potranno apprezzare quanto di buono siano riusciti a mettere sul piatto questi notevoli musicisti.

Tracklist:
1 Radioaktive
2 Raiders
3 Skin And Bones
4 Sinner
5 Reach out
6 Lovers
7 I Want You
8 Sense Of Destruction
9 Pieces Of Me
10 Leere

Line-up:
Daniel Myer
Krischan Wesenberg
Frank Spinath
Sascha Lange

RADIOAKTIVISTS – Facebook

Kælan Mikla – Nótt eftir nótt

Le Kælan Mikla si confermano un gruppo unico e molto particolare nel panorama darkwave e post punk, giusto per dare qualche coordinata, e le emozioni che proverete con loro non vi lasceranno per molto tempo.

Torna la triade islandese tutta al femminile di nome Kælan Mikla, qui con un nuovo lavoro dopo l’ottimo Manandas, sempre di quest’anno, che racchiudeva i prodromi sonori dei loro inizi.

Nótt eftir nótt è il proseguimento di un’avventura unica e molto interessante, che si muove fra elettronica, new wave, no wave e darkwvave, riuscendo a cogliere aspetti sempre diversi ed intriganti di suoni assai diversi fra loro, ma che concorrono per un obiettivo comune. La differenza, sia sul piano musicale che su quello compositivo, la fa il talento di queste tre ragazze, che quest’anno sono balzate alle attenzioni di tutto il mondo, anche grazie a Robert Smith dei The Cure che le ha scelte per un festival. Ascoltando questo disco si capisce che le Kælan Mikla hanno un suono unico e personale, perché riescono a trascinarti in una dimensione di sogno grazie ai loro sintetizzatori che sembrano provenire da un altro mondo, con una voce che ti avvolge e non ti lascia, regalando atmosfere che vanno dal glaciale al sentirsi in qualche scena di Stranger Things, con un diverso senso degli anni ottanta. Il loro suono può richiamare qualcosa di ancestrale ma è al contempo fortemente proiettato nel futuro, grazie anche ad una produzione perfetta. Sembra che le tre islandesi giochino con il fato di chi le ascolta, il quale diventa ben presto un acceso devoto delle loro fredde frequenze. Rispetto al disco precedente qui la composizione si fa maggiormente selettiva, e vengono portate avanti istanze che ricadono nel campo nell’elettronica, che è poi la colonna portante del progetto. I giri di basso sono impressionanti e sembra di volteggiare in un nero connubio spazio temporale, e si vorrebbe che questo vorticare non avesse mai fine, piacere oppiaceo di qualcosa che si teme ma che si vuole a tutti i costi. Come per il precedente disco, questo lavoro porterà all’attenzione di un vasto pubblico la bravura di questo gruppo, perché queste nove canzoni si ascoltano in apnea totale, non riuscendo a distogliere l’attenzione da questo viaggio.
Le Kælan Mikla si confermano un gruppo unico e molto particolare nel panorama darkwave e post punk, giusto per dare qualche coordinata, e le emozioni che proverete con loro non vi lasceranno per molto tempo.

Tracklist
1.Gandreið
2.Nornalagið
3.Hvernig kemst ég upp?
4.Skuggadans
5.Draumadís
6.Næturblóm
7.Andvaka
8.Nótt eftir nótt (ft. Bang Gang)
9.Dáið er allt án drauma

Line-up
Sólveig Matthildur
Margrét Rósa
Laufey Soffía

KAELAN MIKLA – Facebook

Canaan – Images From A Broken Self

I Canaan producono un altro disco bellissimo e terribile, nel quale l’elettronica regna sovrana e dalla freddezza del silicio nasce un calore che avvolge tutto e tutti, e si proiettano verso uno spazio che è differente da quello nel quale viviamo.

I Canaan sono dei moderni sciamani che ci fanno vedere la realtà squarciando il velo che la avvolge e che ce la fa sembrare sostenibile.

La loro ultima opera è incentrata sul rendere in musica le immagini delle nostre anime spezzate dalle vite che facciamo e le lacerazioni che procurano. Ascoltare i Canaan è come fare terapia psicologica iniettandoci il virus che vogliamo sconfiggere, è lottare senza stare comodi, andare avanti senza sapere dove potremmo arrivare, ma continuare. La parabola musicale di questo gruppo è una delle più interessanti e preziose della musica underground italiana, ed è cominciata tanto tempo con il gruppo doom death dei Ras Algethi, per poi continuare nei Canaan con due terzi del gruppo capitanati da Mauro Berchi, una delle figure più importanti che abbiamo nella musica in Italia. I Canaan non suonano un genere musicale ben preciso, essendo uno di quei pochi gruppi che non è circoscrivibile in uno specifico ambito, esibendo uno stile del tutto proprio. Se gli esordi erano molto darkwave e gothic, con gli ultimi dischi il suono si sta rarefacendo, portandolo più in alto, ma il tutto appare ancora più soffocante e claustrofobico. Come detto prima, i Canaan ci fanno vedere con le loro sensazioni in musica che la nostra vita è abbastanza inutile, che il nulla ci avvolge e che i nostri sforzi, oltre che vani, sono controproducenti. Tutto ciò sarebbe spaventoso, anche se nell’arte abbiamo tantissimi esempi, o forse l’arte serve proprio a farci vedere il nulla, ma il gruppo milanese riesce a rendere sublime tutto ciò. Dopo il meraviglioso il Giorno Dei Campanelli del 2016, i Canaan producono un altro disco bellissimo e terribile, nel quale l’elettronica regna sovrana e dalla freddezza del silicio nasce un calore che avvolge tutto e tutti, e si proiettano verso uno spazio che è differente da quello nel quale viviamo: forse è sogno, perché la musica dei milanesi è un qualcosa di meravigliosamente indefinito, un sogno con la febbre, una febbre che ci fa capire, il nulla che parla. Ogni canzone è molto curata, come sempre ogni nota e ogni respiro elettronico ha un senso per un gruppo che va davvero oltre la musica e ti porta in un luogo tutto suo. Per chi li ascolta da anni non è facile descrivere l’esperienza che viene vissuta, perché i Canaan non sono un gruppo che si possa ascoltare con le cuffie mentre si va a lavorare, ma devono essere assimilati come un rito, perché aprono una dimensione nuova nella quale il dolore prende vita e forma, e il nulla si può rivelare liberamente.

Tracklist
1.My Deserted Place
2.The Story Of A Simple Man
3.Words On Glass
4.Hint On The Cruelty Of Time
5.I Stand And Stare
6.Of Sickness And Rejection
7.The Dust Of Time
8.Adversaries
9.That Day
10.A Tired Sentry
11.Worms
12.Through Forging Lines

Line-up
Alberto
Mauro
Nico

CANAAN – Facebook

Grave Pleasures – Motherblood

Motherblood è una perfetta ed ideale immersione nelle sempre gradite ed attuali sonorità del post punk/ dark wave: i Grave Pleasures riprendono tutto il meglio dell’epopea sviluppatasi nell’ultimo ventennio del secolo scorso e la restituisce con un piglio moderno ma non troppo, preservandone con cura le fondamentali linee guida.

Seconda uscita su lunga distanza per i Grave Pleasures, band anglo-finnica già conosciuta nei primi anni del decennio con il monicker Beastmilk.

Motherblood è una perfetta ed ideale immersione nelle sempre gradite ed attuali sonorità del post punk/ dark wave: la band guidata dal vocalist Mat McNerney riprende tutto il meglio dell’epopea sviluppatasi nell’ultimo ventennio del secolo scorso e la restituisce con un piglio moderno ma non troppo, preservandone con cura le fondamentali linee guida.
Motherblood è un viaggio in una macchina del tempo che non odora di stantio e i riferimenti più o meno marcati agli eroi dei primi anni ottanta (The Cure), ai successivi campioni della gothic wave (Sisters Of Mercy) e ai continuatori della specie in versione più pop (Echo & The Bunnymen), sopraggiungono sotto forma di una serie senza soluzione di continuità di potenziali hit che non lasciano tregua né lo spazio a considerazioni sulla freschezza o sull’opportunità di una simile proposta.
I Grave Pleasures propongono soprattutto, con grande maestria, quella forma canzone che certi odierni epigoni dell’epoca talvolta perdono di vista: l’impressione è che questo mix di musicisti dal diverso background (pensiamo solo che Juho Vanhanen, co-autore assieme al vocalist di gran parte del materiale, fa parte dei grandi Oranssi Pazuzu) abbia raggiunto l’ideale quadratura del cerchio con quest’album che regala musica allo stesso tempo cupa e ballabile, drammatica ed ariosa.
Arrivate alla quarta traccia, Joy Through Death, molte band avrebbero solo cercato di scrivere altrettanti brani con funzione di riempitivo, paghe di una tale espressione qualitativa: due bombe come Infatuation Overkill e Be My Hiroshima non si compongono né per caso né tutti i giorni, ma i Grave Pleasures offrono ancora una mezza dozzina di canzoni trascinanti tra le quali spiccano Mind Intruder e le conclusive Deadenders e Haunted Afterlife.
Non si deve commettere l’errore di pensare che l’approdo alla Century Media equivalga ad un’accentuazione commerciale dell’approccio dei nostri: ovviamente Motherblood è un album di notevole fruibilità, ma lo è solo per chi conserva dentro di sé quel seme oscuro gettato a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80 e che non ha mai smesso di far germogliare le proprie funeste infiorescenze.
Del resto l’approccio alla materia dei Grave Pleasures si sorregge sull’equilibrio tra le varie componenti del sound, con le diverse anime che si intrecciano in un morboso abbraccio senza che l’una finisca mai per prevalere sull’altra; troppo spesso il post punk del nuovo secolo è caratterizzato da una grande attenzione per la forma che finisce per restituire un’oscurità solo di facciata: con i Grave Plesaures questo non accade e gli orfani delle grandi band ottantiane possono avvicinarsi a Motherblood con la certezza di vedere ampiamente ripagata lo loro fiducia.

Tracklist:
01. Infatuation Overkill
02. Doomsday Rainbows
03. Be My Hiroshima
04. Joy Through Death
05. Mind Intruder
06. Laughing Abyss
07. Falling For An Atom Bomb
08. Atomic Christ
09. Deadenders
10. Haunted Afterlife
11. There Are Powers At Work In This World

Line up:
Mat McNerney – Vocals
Juho Vanhanen – Guitars
Aleksi Kiiskilä – Guitars
Valtteri Arino – Bass
Rainer Tuomikanto – Drums

GRAVE PLEASURES – Facebook

Atriarch – Dead as Truth

La band ribadisce la bontà della sua arte, continuando il suo desolato, apocalittico e personale percorso artistico.

Non hanno bisogno di un’opera di lunga durata gli statunitensi Atriarch per ribadire, dopo tre full length, la bontà del loro percorso artistico sempre monolitico, atmosferico e soprattutto molto personale.

Anche il cambio del chitarrista, ora Joshua Dark al posto di Brooks Blackhawk, non ha sostanzialmente modificato la trama sonora imbastita dal quartetto che rimane carica di oscura atmosfera ed è frutto di una commistione di post-punk, nera darkwave, black doom e lampi di deathrock; grande lavoro della sezione ritmica dove la batteria è molto varia e potente ed il suono del basso sempre presente e poderoso sposta, forse, il suono su atmosfere più darkwave e post punk, meno su suoni metallici. Tale sensazione non scalfisce nel modo più assoluto l’essenza dell’arte del quartetto; fin dal primo brano Inferno si è chiamati a immergersi nelle tenebre più oscure, i ritmi sono lenti, ritualistici, apocalittici e scandiscono allucinazioni in cui orizzonti plumbei e confusi si scontrano in un universo desolato. La voce potente e declamatoria di Lenny Smith ci accompagna narrandoci di storie di violenza, odio, disperazione e morte. La musica degli statunitensi, di Portland, incastonando il meglio di certa ossessiva darkwave (Bauhaus, Killing Joke) in strutture black e doom crea una interpretazione decisamente unica del suono estremo, generando sublimi muri di suono che in Dead ricordano anche maestosità come i Joy Division dove …”love is lost, life forgot, nothing left inside”. Gli altri quattro brani per un totale di poco più di mezz’ora affondano e penetrano nell’anima di noi ascoltatori generando un’energia devastante, purificatrice per un mondo dolente incapace di risollevarsi dalle sue miserie.

Tracklist
1. Inferno
2. Dead
3. Devolver
4. Void
5. Repent
6. Hopeless

Line-up
Andy Savage – Bass
Joshua Dark – Guitars
Maxamillion Avila – Drums
Lenny Smith – Vocals

ATRIARCH – Facebook

Tau Cross – Pillar of Fire

Secondo eccellente lavoro per questo supergruppo che, unendo ingredienti come darkwave,crust,trash, sforna un’opera intensa, coinvolgente e da non lasciarsi sfuggire.

Essenziale e potente! Con questi aggettivi si può definire la seconda prova offerta da questo supergruppo internazionale che affonda le radici in Canada, in U.S.A. e in United Kingdom.

Nel 2015 la prima opera omonima in cui grandi musicisti come Rob “The Baron” Miller alle vocals e Michael “Away” Langevin alla batteria, hanno dimostrato una volta di più il loro valore musicale; mi auguro che non ci sia bisogno di spiegare chi siano e da che band provengano! Con l’aiuto di altri quattro validi musicisti, dal passato meno importante e dopo due anni dal debutto, ci regalano altri cinquanta minuti di grande musica, dove le coordinate sonore sono similari al debutto e forse meglio messe a fuoco: l’unione tra post-punk, crust, darkwave (versante Killing Joke di Wardance e Requiem e in alcuni tratti ritmici i primi Red Lorry Yellow Lorry), trash e musica heavy genera, soprattutto nella prima parte del disco, una serie di brani potenti, trascinanti dove si erge in modo sontuoso il suono del basso, suonato da Tom Radio e dallo stesso Rob Miller (inizio di Deep State), che accompagna e crea muri sonori dove le chitarre intessono melodie semplici ma incisive; la voce rauca, ruvida, vissuta e spesso disperata di “The Baron” crea un contrasto efficace con la macchina da guerra precisa degli strumenti.
La prima parte, come si diceva, esprime la potenza e l’essenzialità di un suono (Raising Golem) seguendo derive trash, punk e post-punk, mentre la seconda parte rallenta i ritmi e da maggiore sfogo ad armonie darkwave e atmosferiche come nella splendida Killing the King, nella title track, dove si toccano vette dark-folk molto intense ricordanti le piccole gemme solistiche di Steve Von Till (Neurosis). Ultima nota di merito per il magnifico brano What Is a Man, che con suggestive note tastieristiche porta a compimento un lavoro che difficilmente lascerà il vostro lettore cd.

Tracklist
1. Raising Golem
2. Bread and Circuses
3. On the Water
4. Deep State
5. Pillar of Fire
6. Killing the King
7. A White Horse
8. The Big House
9. RFID
10. Seven Wheels
11. What Is a Man

Line-up
Rob (The Baron) Miller Bass, Vocals
Michel (Away) Langevin Drums
Andy Lefton Guitars
Jon Misery Guitars
Tom Radio Bass

TAU CROSS – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=3gd3xYtars8

Loathe – The Cold Sun

Malato e contagioso il sound di questo gruppo che riesce a nobilitare nella sua terribile vena estrema un genere inflazionato come il metalcore, trasformandolo in una creatura malvagia, sadica e fredda come un sole morto.

La colonna sonora di un apocalisse,  dove il raffreddamento del Sole porta alla salita in superficie dell’inferno e delle sua distruttive fiamme, si chiama The Cold Sun, primo full length dei Loathe, misteriosa creature britannica che fino ad ora aveva licenziato un primo album (Despondent By Design) nel 2010.

Trentacinque minuti di delirio estremo, moderno e progressivo, oscuro e maturo, per un salto nell’atmosfera devastante di una fine del mondo tra sfuriate metalcore violentissime ed attimi di fredda quiete dark.
Ma non solo, nella musica estremamente teatrale del gruppo vivono le anime schiave dell’hardcore e del groove metal, le ritmiche pesantissime che diventano frustate veloci e taglienti, mentre l’elettronica aggiunge atmosfere glaciali al già freddo mood che si respira tra le note di questo originale e quanto mai estremo lavoro.
C’è metalcore e metalcore, quello dei Loathe è pregno di musica disturbante, un groviglio di umori che come serpenti si si avvolgono e si nutrono a vicenda, una musica cannibale, ingorda di suoni e sfumature che si evincono dall’ascolto di brani intensi come It’s Yours, East Of Eden o la tremenda P.U.R.P.L.E.
Malato e contagioso il sound di questo gruppo che riesce a nobilitare nella sua terribile vena estrema un genere inflazionato come il metalcore, trasformandolo in una creatura malvagia, sadica e fredda come un sole morto.
Un ottimo lavoro, non per tutti ma consigliato agli amanti del metal estremo con ampie vedute e non prigionieri di confini tra generi.

TRACKLIST
1. The Cold Sun
2. It’s Yours
3. Dance On My Skin
4. East Of Eden
5. Loathe
6. 3990
7. Stigmata
8. P. U.R.P.L.E
9. The Omission
10. Nothing More
11. Never More
12. Babylon

LINE-UP
Kadeem France – vocals
Erik Bickerstaffe – guitar & vocals
Shayne Smith – bass & vocals
Connor Sweeney – guitar & vocals
Sean Radcliffe – drums

LOATHE – Facebook

Dimonra – Violent Paranoia

Prodotto benissimo e curato in ogni dettaglio, Violent Paranoia in appena tre tracce convince e ci consegna un gruppo pronto per un full length in grado di fare proseliti, visto l’enorme potenziale in mano a questi quattro giovani musicisti milanesi.

Quando si suona un certo tipo di rock/metal, la caratteristica fondamentale è l’appeal che i brani trasmettono all’ascoltatore, tradotto in una ruffianeria che riesca ad ammaliare senza perdere un grammo in intensità (d’altronde si parla pur sempre di musica dura).

Questa premessa risulta obbligatoria per presentare il secondo ep dei Dimonra, giovane gruppo milanese formatosi lo scorso anno e con appunto all’attivo un altro ep, Evil.
Violent Paranoia si compone di tre brani che uniscono in un solo sound alternative metal, dark rock ed elettronica, oltre ad una predisposizione per ritmiche funky che danno un tocco originale ed assolutamente irresistibile alla musica del gruppo, specialmente nella notevole Flash Mob.
La title track e Sick? alternano potente metallo moderno ad atmosfere dark wave, in un contesto moderno e, come detto, ricco di melodie vincenti, grazie anche alla voce ipnotizzante e particolare della vocalist Memori.
Il basso di XV pulsa come sangue impazzito nelle vene, mentre riff metallici (Hale) e bordate spacca pelli (Chance) ribadiscono la vena metallica dei Dimonra.
Prodotto benissimo e curato in ogni dettaglio, Violent Paranoia in appena tre tracce convince e ci consegna un gruppo pronto per un full length in grado di fare proseliti, visto l’enorme potenziale in mano a questi quattro giovani musicisti milanesi.

TRACKLIST
1.Violent Paranoia
2.Flash Mob
3.Sick?

LINE-UP
Memori – Vocals
Hale – Guitars
XV – Bass, Programming
Chance – Drums

DIMONRA – Facebook

Dool – Here Now, There Then

La proposta dei Dool risulta profonda senza sconfinare in soluzioni cervellotiche, e il tutto viene eseguito in maniera esemplare: la spiccata varietà sonora non diviene sinonimo di dispersività, ma si rivela l’elemento decisivo per rendere Here Now, There Then un lavoro adatto ad ascoltatori dal differente background.

Dopo aver fatto conoscenza con i Dool l’anno scorso, in occasione dell’uscita del singolo Oweynagat non era difficile presagire che il loro primo lull length avrebbe potuto lasciato il segno.

La band olandese mantiene le promesse e rafforza l’impressione, avuta allora, di trovarsi al cospetto di un gruppo di musicisti di livello superiore: se poteva esserci un minimo dubbio in considerazione del fatto che azzeccare un singolo brano capita a molti, poi incapaci di mantenere uno stesso standard su lunga distanza, era stata la versione acustica del brano a farmela considerare una vera e propria epifania di un nuovo talento.
Oweynagat è presente in Here Now, There Then solo nella sua versione canonica ed il lavoro è, appunto, del tutto all’altezza del suo brano trainante: come detto all’epoca, non deve destare stupore neppure il fatto che tale opera sia pubblicata da una band all’esordio, visto che la line up vede all’opera protagonisti piuttosto conosciuti della scena underground olandese, tra cui membri di band come The Devil’s Blood e Gold, oltre alla più nota Ryanne van Dorst.
Non c’è dubbio che una vocalist cosi versatile e dalla spiccata personalità sia un vero valore aggiunto, ma non va sottovalutato l’operato dei suoi degnissimi compagni di viaggio, musicisti davvero sopraffini.
Anche i Dool, come altri gruppi trattati di recente, sono difficili da catalogare, ma affermare che il loro sound, a grandi linee, si snoda lungo coordinate doom, dark e psichedeliche non sarebbe un peccato, per quanto comunque non del tutto appropriato.
La bellezza di Here Now, There Then sta anche nel suo cambiare toni da una traccia all’altra, con episodi trascinanti e dallo sviluppo in progressivo crescendo, come l’opener Vantablack e la già citata Oweynagat, altri magari più ariosi e dal chorus incisivo (Golden Serpents e In Her Darkest Hour), per giungere a canzoni che rimandano in maniera più decisa al gothic dark (She Goat) o alle atmosfere cupe del doom (The Alpha).
La proposta dei Dool risulta profonda senza sconfinare in soluzioni cervellotiche, e il tutto viene eseguito in maniera esemplare: la spiccata varietà sonora non diviene sinonimo di dispersività, ma si rivela l’elemento decisivo per rendere Here Now, There Then un lavoro adatto ad ascoltatori dal differente background.
I Dool, pur a fronte di una storia ancora breve, stanno già ottenendo riscontri importanti ed un’attenzione che li porterà senz’altro ad occupare posizioni di prestigio in diversi festival estivi, in primis al Prophecy Fest di fine luglio: non c’è davvero nulla di fortuito in tutto questo …

Tracklist:
1.Vantablack
2.Golden Serpents
3.Words On Paper
4.In Her Darkest Hour
5.Oweynagat
6.The Alpha
7.The Death Of Love
8.She Goat

Line-up:
Ryanne van Dorst – Vocals/Guitar
Micha Haring – Drums
Job van de Zande – Bass
Reinier Vermeulen – Guitar
Nick Polak – Guitar

DOOL – Facebook

Red Harvest – HyBreed

The Soundtrack to the Apocalypse: ristampa fondamentale per una band geniale e avvincente, da maneggiare con cura …

Ogni anno il mondo musicale è sommerso da grandi quantità di materiale e diventa sempre più difficile, anche per chi si diletta come “cercatore d’oro”, seguire tutte le uscite, nuove o ristampe che siano; in questo caso rischia di passare inosservata la reissue di un autentico capolavoro della leggenda underground norvegese Red Harvest, band attiva fin dal lontano 1989 con il demo Occultica, con il suo suono claustrofobico figlio di commistioni industrial, death, doom e ambient.

La ristampa in questione, Hybreed, presentata in un elegante confezione accompagnata da una copertina virata rosso deserto e con un secondo cd contenente un concerto reunion del 2013, presenta il loro apice creativo, anche se i successivi quattro full esalteranno e completeranno il loro percorso artistico. L’opera, uscita nel 1996 per Voices of Wonder, si articola su undici brani che presentano un grande varietà di suoni miscelati sapientemente tra loro, a partire dal opener Mazturnation, breve, ma intenso urlo ribelle di entità aliene alla natura bizzarra, per poi proseguire con il lento cammino di un’anima ruggente in Lone Walk; l’incipit di questa opera è già magistrale ma è con il prosieguo dei brani che si rimane stupefatti di fronte alla magnificenza regalataci da cinque grandi artisti: Mutant, urgente messaggio da un futuro graffiante e oscuro, After All, quattro minuti in cui sembrano scontrarsi oscuri eserciti di anime bruciate che ci narrano di inferni micidiali, l’oasi elettroacustica lugubre e metropolitana di Ozrham, screziata da fredde percussioni anticipa lo zenith On sacred ground, dove una maestosa melodia si apre lentamente in un mondo pesante, plumbeo e greve: un brano veramente magnifico! La materia fluttuante e le cascate laviche che accompagnano The Harder they fall trovano fugace quiete nell’ottavo brano Underwater, dove il lento salmodiare è squarciato da strali improvvisi di oscura luce; gli ultimi tre brani, Monumental, In deep (sinistra ambient) e The Burning wheel, portano a completa sublimazione l’arte di una band che tanto ha dato e poco o niente ha ricevuto. Ripetuti ascolti porteranno assuefazione e gioveranno allo spirito in questi tempi privi di certezze; la promessa da parte della band di un comeback discografico nel 2017 ci lascia speranzosi di poter ascoltare altre meraviglie.

TRACKLIST
1.Maztürnation
2.The Lone Walk
3.Mutant
4.After All…
5.Ozrham
6.On Sacred Ground
7.The Harder They Fall
8.Underwater
9.Monumental

CD2
1.In Deep
2.The Burning Wheel
3.Live BlastFest 2016
4.Omnipotent
5.The Antidote
6.Hole in Me
7.Godtech
8.Cybernaut
9.Mouth Of Madness
10.Sick Transit Gloria Mundi
11.Absolut Dunkel-Heit

LINE-UP
Jimmy Bergsten – Vocals, Guitars, Keyboards
Cato Bekkevold – Drums
Thomas Brandt – Bass
Ketil Eggum – Guitars
Lars Sørensen – Samples, Keyboards

RED HARVEST – Facebook

Emptiness – Not for Music

La band afferma “We try to transport the listener into a world that wants to exclude him. Nothing to enjoy”.la conferma di un band che ha trovato il proprio suono.

Il respiro pulsante del fuoco in un una natura madre e matrigna, una profonda immersione in un oscuro e liquido mondo incubico senza via di uscita.

Queste sono le sensazioni che possono permeare l’ascolto dei belgi Emptiness con il loro quinto full, a tre anni da “Nothing but the Whole” che me li fece conoscere e stra-apprezzare: è necessario, com’è scritto sul cd, essere realmente “open minded” per poter metabolizzare questa affascinante opera concepita da quattro musicisti che, partendo da basi black e death metal, evolvono verso un sound realmente unico approdando a un atmosferico mix di darkwave (può ricordare in parte i Bauhaus), sinistra ambient con un flavour psichedelico (Digging the sky) e qualche strano aroma pop nella melodia (Ever). Due di loro, Olivier Lomer-WIlbers alla chitarra e Jerome Bezier al basso e alla voce, derivano dalla band di puro black metal Enthroned, una leggenda per i veri cultori del genere; la voce di Bezier con il suo profondo timbro, più che cantare in senso stretto, ammalia narrando storie oscure e malate e contribuisce a rendere i brani ancora più claustrofobici e “otherwordly”. Per chi voglia addentrarsi in questa “selva oscura” è oltremodo necessario rammentare che non troveranno cavalcate black o ritmi serrati death ma un suono indefinito figlio di tempi cupi, plumbei, claustrofobici e senza speranza. Diversamente estremo per un opera affascinante e misteriosa.

TRACKLIST
1. Meat Heart
2. It Might Be
3. Circle Girl
4. Your Skin Won’t Hide You
5. Digging the Sky
6. Ever
7. Let It Fall

LINE-UP
Phorgath – Bass, Vocals
Jonas Sanders – Drums
Olve J.LW – Guitars, Vocals
Peter Verwimp – Guitars

EMPTINESS – Facebook

Fear Of The Storm – Madness Splinters (1991-1996)

Esauriente retrospettiva su una delle più interessanti realtà italiane dedite alla gothic dark wave nella prima metà degli anni ’90.

I Fear Of The Storm sono stati protagonisti di una vicenda piuttosto frequente in ambito musicale, tanto più se il genere proposto pone le sue radici nell’underground ed il paese in cui tutto ciò si verifica è l’Italia.

La band siciliana, all’inizio degli anni novanta, si rese protagonista di una serie di demo su cassetta che riscossero una certa attenzione tra gli appassionati di darkwave e che, prima di fare il salto di qualità definitiva pubblicando il primo lavoro su lunga distanza, a causa di incomprensioni con la loro etichetta dell’epoca di fatto cessarono l’attività, lasciando in nel limbo anche una certa quantità di musica che sarebbe rimasta inedita per molto tempo.
Del resto io stesso, benché abbia amato non poco Cure, Bauhaus e Joy Division, tanto per citare i tre nomi principali, e, ad occhio e croce, sia più o meno coetaneo dei musicisti che diedero vita ai Fear Of The Storm, ne ignoravo l’esistenza prima di ricevere il promo da Francesco Palumbo (My Kingdom Records), l’artefice di questa meritoria riscoperta.
Già, perché senza la sua iniziativa, favorita dal fatto che due ex FOTS, Carlo Disimone e Valeria Buono, oggi fanno parte del roster della label salernitana con il loro ottimo progetto Dperd, quelli come me, distratti all’epoca da sonorità altrettanto oscure ma ben più metalliche (nel ’91 Forest Of Equibrium dei Catherdal avviò un’esplorazione senza ritorno dei cunicoli più oscuri e reconditi del doom) e soprattutto i più giovani, non avrebbero mai avuto l’opportunità di riscoprire questa band che poco aveva da invidiare per freschezza e creatività alle band d’oltremanica.
Madness Splinters (1991-1996) contiene, distribuiti su tre CD, i demo tape R.I.P., The Key Of My Silence e ...So Sad To Die In Oblivion…, il mini cd 1995 e II, l’album rimasto fino ad oggi inedito, per un totale di 41 brani ed oltre 3 ore e mezza di dark wave d’autore.
Il promo in nostro possesso contiene solo un parte di questa mole di musica ma si rivela comunque più che sufficiente per farsi un’idea quanto di buono i Fear Of The Storm abbiano prodotto nel corso della loro carriera, oltre che constatare, grazie alla disposizione dei brani in ordine cronologico, l’evoluzione del sound che dagli esordi genuini e ruspanti, aventi per riferimento la dark wave più asciutta ed essenziale (primi Cure e Joy Division), era giunto ad una forma davvero matura e quasi per nulla derivativa di gothic wave (da ascoltare con attenzione le splendide A Wondrous Sensation e The Factory Of Dreams, tratte appunto da II), passando per pulsioni nefiliane rinvenibili, ad esempio, in Eyes (dove in certi momenti il sound si avvicina a quello dei Rubicon, ovvero i FOTN senza Carl McCoy).
Da rimarcare, oltre all’operato degli attuali Dperd (con Disimone mai scontato con la sua chitarra), il fondamentale lavoro al basso di Antonio Oliveri e la prestazione dietro il microfono di Tony Colina, perfetto per il genere con la sua voice, spesso affiancata da quella di Valeria Buono (alle prese anche con le tastiere).
Gli amanti di queste sonorità dovrebbero essere irresistibilmente attratti da questa raccolta, mentre, per quanto riguarda il futuro dei Fear Of The Storm, non ci sono notizie certe su un loro ritorno né una tantum dal vivo né con materiale di nuovo conio, anche se le porte non paiono essere del tutto sbarrate ad entrambe le opzioni. Vedremo, nel frattempo Madness Splinters possiede tutte le caratteristiche per colmare qualsiasi vuoto.

Tracklist:
CD I
“R.I.P.”
1. Into The Storm
2. Eyes Of Death
3. Hatred
4. R.I.P. (abridged)
5. Images (Into The Helter Skelter)
6. Walking Through The Town
7. The Little Girl
8. Dreams Are Trasforming

“The Key Of My Silence”
9. Blood
10. Tears Of Sand
11. The Key
12. Around The Fire
13. Jungle And Desert
14. Towers Of Silence
15. Epitaph
16. Fear

CD II
“…So Sad To Die In Oblivion…”
1. Madness Splinters
2. Adrift In Limbo
3. Sunset
4. Ghostown
5. Sadness
6. The Dark River Of Oblivion
7. Drop After Drop
8. Eyes
9. Weightless

“1995”
10. The Return
11. Tears Of Sand
12. Marble Dust
13. Adrift In Limbo
14. Timeless Wailing Of Ageless Souls

CD III
“2”
1. Bleeding Fingers
2. Dancing Amid The Clouds
3. Her
4. The Factory Of Dreams
5. R.I.P. (Including A Descent Into The Well)
6. Higher And Farther
7. In Quest Of…
8. The Eyes Of Death
9. A Wondrous Sensation
10. Slow Motion
11. Sleepless Dreams(bonus track)

Line-up:
Valeria Buono: keys, vox
Carlo Disimone: guitars, drums programming, vox
Antonio “Mad” Oliveri: bass, slider pestering, vox
Tony Colina: male vox, bits of keys, piano on CD II and III
Massimiliano Busa: drums on CD I from song 1 to 8

FEAR OF THE STORM – Facebook

FVNERALS – Wounds

Suoni plumbei e oppressivi, ma che affascinano e feriscono noi ascoltatori

L’ oscurità ammanta costantemente la nostra anima e i Fvnerals, con il loro Wounds, ce lo ricordano in ogni momento; sono emersi dalle terre albioniche in quel di Brighton nel 2013 con il singolo The Hours, bissato nel 2014 con il full The Light per poi pubblicare, dopo un ulteriore singolo (The Path nel 2015), questo pregevole gioiellino.

La loro arte si nutre di doom, funeral, ambient, post-rock, drone miscelata e dosata in un suono che appare atmosferico, profondo, oppressivo con la voce della cantante Tiffany a sublimare e ad accompagnare in modo inquietante questo viaggio; qui non sono eretti muri di suono distorti e non ci sono vocals stordenti e aggressive, ma tutto è più “subdolo”, un lento flusso di coscienza che scava lentamente nella nostra anima ferendola e accentuando a ogni ascolto un profondo senso di isolamento.
Anche il fatto che i sette brani, per un totale di circa quaranta minuti, siano legati e scivolino uno sull’altro serve a rendere più affascinante, misterioso e desolante il percorso, come nell’ultimo brano Where, introdotto da note lontane di piano, accompagnato da una desolata voce e levigato da tristi e disperate note di chitarra; un po’ la summa di tutto il lavoro, come l’ ultimo granello di sale cosparso sulla nostra lacerata anima. Ottimo lavoro da una giovane band che mi ha molto emozionato e che spero possa “colpire” altre anime “torturate”.

TRACKLIST
1. Void
2. Wounds
3. Shiver
4. Teeth
5. Crown
6. Antlers
7. Where

LINE-UP
Tiffany Strom – vocals,bass,synth
Syd Scarlet – guitar
Chris Cooper – drums

FVNERALS – Facebook

King Dude – Sex

In definitiva Sex è un disco di folkore americano altro, ben suonato e composto ancora meglio.

Continua il viaggio nelle molteplicità dell’animo umano di King Dude, il cantautore neofolk e darkwave americano che tanto bene ha fatto in questi ultimi anni. King Dude ha cambiato i confini di un genere di nicchia ma dalle grandi potenzialità come il neoofolk, facendolo sposare alla darkwave e alla new wave.

Il suo cantato è potente, suadente e racconta viaggi nelle malebolge, negli anfratti del nostro io, angoli ciechi che non vediamo nemmeno allo specchio. La sua voce ti entra dentro, e scava alla ricerca di cose che sono dentro di noi e che a volte spingono per uscire. La sua maturazione è costante disco dopo disco, e sta portando ad una musicalità che è unica ed appartiene solo a lui. Il sasso gettato nello stagno del neofolk da King Dude sta portando una ventata di novità nel genere, che stava ristagnando. Sex è una ricerca intorno a tutto ciò che è sesso, ma è soprattutto un’indagine pasoliniana su questo sommovimento del corpo e dell’anima che si chiama sesso. Potrà sembrare una bestialità, ma King Dude mi sembra l’unico che possa raccogliere l’eredità di Johnny Cash, quel mettere in musica in altra maniera i sentimenti umani, con un codice totalmente diverso dagli altri.
Il suo stile è immediatamente riconoscibile ed è un piacere fisico stare ad ascoltare le sue storie. In definitiva Sex è un disco di folkore americano altro, ben suonato e composto ancora meglio.

TRACKLIST
1.Holy Christos
2.Who Taught You How To Love
3.I Wanna Die at 69
4.Our Love Will Carry On
5.Sex Dungeon (USA)
6.Conflict & Climax
7.The Leather One
8.Swedish Boys
9.Prisoners
10.The Girls
11.Shine Your Light

KING DUDE – Facebook

Dool – Oweynagat

Non resta che attendere i Dool alla prima prova su lunga distanza: le premesse fanno presagire qualcosa di speciale.

A forza di parlare bene di tutto quanto viene sfornato con il marchio Prophecy, qualcuno potrà pensare persino che io sia al soldo del mio quasi omonimo Stefan.

In realtà, l’unico beneficio non da poco che ne traggo (e con me tutti gli appassionati di musica) è quello di imbattermi in album eccellenti da parte di realtà consolidate, oppure avere la possibilità di scoprire novità fresche e sfolgoranti come questi Dool.
Trattasi di un quintetto proveniente da Rotterdam, nel quale sono confluiti diversi musicisti già discretamente noti nella scena rock/metal dei Paesi Bassi, come la cantante Ryanne Van Dorst (Elle Bandita), il batterista Micha Haring ed il bassista Jacob Van De Zande (The Devil’s Blood) ed i chitarristi Reinier Vermeulen (The New Media) e Nick Polak (Gold).
Oweynagat è un singolo che prepara il terreno al full length programmato per l’inizio del 2017, ma basta ed avanza per far drizzare le antenne agli ascoltatori più attenti: infatti il brano, che spazia dal punk rock di cui la vocalist è portatrice, fino alla darkwave e all’alternative metal, si rivela davvero brillante per intensità e melodia, e l’interpretazione convincente della Van Dorst è supportata da un gran lavoro della band, che trova finalizzazione nello splendido crescendo chitarristico finale. Ma non finisce qui: la canzone viene riproposta subito dopo in una versione acustica (con il sottotitolo Inside The Cave Of The Cat), riuscendo ad apparire persino superiore a quella originale: le atmosfere rarefatte, un’altra prova vocale vocale magnifica ed un arrangiamento di rara eleganza spiazzano, meravigliano ed inquietano allo stesso tempo.
Non resta che attendere i Dool alla prima prova su lunga distanza: le premesse fanno presagire qualcosa di speciale.

Tracklist:
1. Oweynagat
2. Oweynagat – Inside The Cave Of The Cat

Line-up:
Ryanne van Dorst – vocals
Micha Haring – drums
Job van de Zande – bass
Reinier Vermeulen – guitar
Nick Polak – guitar

DOOL – Facebook

Darkhaus – When Sparks Ignite

Ottimo lavoro in un genere molto più difficile da gestire di quanto si possa pensare

L’alleanza o l’alchimia tra il metal e sonorità pop dal taglio elettronico e dark, ha portato in questi anni molta fortuna ai gruppi che si sono cimentati nel genere, con singoli ruffiani e dalle ritmiche irresistibili, passati senza soluzione di continuità nei club e sui canali satellitari, ad uso e consumo di chi preferisce ascolti poco impegnativi e alternativi al solito rock da classifica.

Con alterne fortune, le band in questione non si contano più, il sound proposto ultimamente sta tirando leggermente la cinghia non fosse appunto per gruppi come i Darkhaus, al secondo lavoro dopo l’esordio My Only Shelter uscito ormai tre anni fa.
Una band dal taglio internazionale, non solo per il sound proposto, ma soprattutto nella line up che vede Gary Meskil dei ben più temibili Pro Pain, affiancato da una manciata di musicisti di diverse nazionalità.
Infatti dietro al microfono troviamo lo scozzese Ken Hanlon, l’austriaco Rupert Keplinger alla sei corde ed il tedesco Paul Keller alle pelli, senza dimenticare l’altro arrivo da casa Pro Pain, Marshall Stephens.
Una band internazionale appunto come la propria proposta: When Sparks Ignite infatti segue il mood del primo lavoro, un rock/metal dal taglio moderno elettronico e dark pop, molto melodico, con tutti brani di ampio respiro e qualche riff grintoso piazzato qua e là per piacere (non poco) ai fans orfani degli ultimi Sentenced, e dei Rammstein meno marziali.
Il cantato melodico e ruffiano, porta con sé molto della dark wave anni ottanta, così come qualche atmosfera da vampirelli metropolitani che faranno la gioia dei fans più giovani.
Tutto funziona però e molto bene, l’album è colmo di belle canzoni, orecchiabili e curate in ogni dettaglio, non una nota fuori posto, come si evince dall’ascolto dell’album, e in molti casi i chorus si stampano in mente al primo passaggio.
Cinquanta minuti per un album del genere non sono pochi, ma il gruppo non perde un colpo collezionando una raccolta di brani che mantiene un appeal altissimo per tutta la sua durata.
Difficile trovare un brano che spicchi sul resto, ma vi propongo tre titoli: l’opener All Of Nothing, After The Heartache e To Live Again, tracce che non mancheranno di affascinare, melodiche, ruvide e pregne di appeal radiofonico.
Ottimo lavoro in un genere molto più difficile da gestire di quanto si possa pensare, promosso a pieni voti.

TRACKLIST
1. All Of Nothing
2. The Last Goodbye
3. Feel My Pain
4. Second Chance
5. After The Heartache
6. Helpless
7. Devil’s Spawn
8. Oceans
9. Lonesome Road
10. To Live Again
11. Tears Of Joy
12. Bye Bye Blue Skies

LINE-UP
Ken Hanlon – Vocals
Rupert Keplinger – Guitars
Marshall Stephens – Guitars
Gary Meskil – Bass
Paul Keller – Drums

DARKHAUS – Facebook

Wrekmeister Harmonies – Light Falls

Il prodigio del giorno che diventa notte, in un dolce scomparire della luce, e poi tutto nero, terribile eppure bellissimo. Come la musica dei Wrekmeister Harmonies.

Una lenta, graduale caduta di ogni cellula e fibra del nostro corpo in un buio dominato dalla caduta della luce. La luce in alcuni casi cade, e la musica può descrivere benissimo il senso della perdita di ciò che per noi è il bene più prezioso : la luce.

Torna uno dei migliori collettivi musicali della terra, i Wrekmeister Harmonies, ora in formazione sicuramente più minimale rispetto al passato, anche perché nei dischi precedenti transitano ivi una trentina di musicisti per volta, e che musicisti, il meglio dell’avanguardia. I Wrekmeister Harmonies sono un gruppo speciale, un unicum nella musica, e con questo disco lo dimostrano ampiamente. Fondati dal visionario J R Robinson nel 2006, hanno subito mostrato un qualcosa di decisamente diverso rispetto a tutti gli altri gruppi. Dopo il successo dell’ultimo album Night Of Your Ascension, JR ha sentito il bisogno di cambiare stile compositivo ed obiettivi. Il titolo prende spunto da romanzo di Primo Levi, Se Questo è un Uomo, scritto sulla sua esperienza ad Auschwitz. Levi, morto suicida nella sua Torino, tratta soprattutto dell’idea che l’uomo diventa inumano quando tutti accettano questo cambio senza remore, e quindi anche imprigionare un uomo per la sua razza diviene normale. Parole che suonano quanto mai attuali. La musica dei Wrekmeinster Harmonies è puro rumore che genera poesia, è poderosa, delicata, coccola e colpisce al volto, senza soluzione di continuità. Si spazia in molti generi, dal post rock, al post metal, dalla new wave al drone, sempre su livelli altissimi. Tutto qui ha un significato ben preciso, e sembra di sentire una sezione poetica dei Neurosis, giusto per far capire da che parte si potrebbe andare. Light Falls è una connessione tra noi stessi e una strana forza eterea che attraversa il mondo e ci fa mutare, girare e vivere. Questo gruppo è un’entità in continuo movimento, una dolce mutazione, un cullarsi mentre tutto intorno diviene buio. E infatti il prodigio del giorno che diventa notte, in un dolce scomparire della luce, e poi tutto nero, terribile eppure bellissimo. Come la musica dei Wrekmeister Harmonies.
“ Stay In, Go Out, Get Sick, Get Well, Light Falls”.

TRACKLIST
1.Light Falls I – The Mantra
2.Light Falls II – The Light Burns Us All
3.Light Falls III – Light Sick
4.The Gathering
5.Where Have You Been My Lovely Son?
6.Some Were Saved Some Drowned
7.My Lovely Son Reprise

WREKMEISTER HARMONIES – Facebook

Ljáin – Endasalmar

Roba del Demonio. Sono rari i gruppi che esordiscono in tal modo nella scena musicale, qualsiasi genere si prenda in considerazione.

Dalla fredda e vulcanica Islanda esordiscono i Ljáin con una demo che non vede alcuna speranza di salvezza. L’unico riferimento da considerare è Moon (dagli antipodi Australiani) che con Chaduceus Calice aveva dato un seguito ai primi dischi di Xasthur. Si sente l’odore di freddo, sudore e mura ovattate di una sala prove, in cui la registrazione grezza e violenta sbatte corpi ovunque. E’ una sinfonia cacofonica, suonata con distorsioni, urla possedute da chissà quale entità e batteria suonata con coltelli invece di bacchette. Raw-hostile e brutal black metal senza citare alcun virtuosismo satanico, non ce n’è bisogno. Una intro che abbassa le tende e mette tutti a tacere (Eilíf þjáning) prima di dare voce ad una malattia sonora che con Hlekkir holdsins ci riporta a”De Mysteriis… e alle perversioni vocali di Pelle. Alcuni attimi di apparente tregua a metà traccia e torniamo sotto la maledizione di Endasálmar che dà il titolo alla demo, iniziando contorta per chiudere in un doom degno di nota. Acquisto decisamente consigliato da mettere in un altarino, non appena un’etichetta si farà sotto per questo promettente gruppo. Qual’ è il voto massimo? Aggiudicato …

TRACKLIST
1.Eilíf þjáning
2.Svartigaldur
3.Hlekkir holdsins
4 Endasálmar

Nocturnal Degrade – The Dying Beauty

The Dying Beauty ha tutte le carte in regola per soddisfare chi ricerca un approccio più emotivo che fisico al black metal

Terzo album per i Nocturnal Degrade, nati nati nello scorso decennio come progetto solista del musicista romano Cold, al quale ora si affianca il batterista M.VII.F.

I territori battuti in questo lavoro sono quelli del black metal di matrice nordica, con ampi riferimenti a Burzum ma con una decisa componente depressive che permea l’intero sound di un’aura di oscura e talvolta disperata malinconia.
L’opener Consequence è sufficientemente esemplificativa del contenuto di The Dying Beauty, con il suo incedere negli alvei della tradizione del genere sovente arricchita, però, da passaggi chitarristici che rimandano ad umori darkwave.
Se, come è naturale, il disco non apporta novità sostanziali a sonorità ampiamente codificate in passato, ciò che fa piacevolmente la differenza è la capacità di Cold di pervadere ogni brano di linee melodiche struggenti, che scavano tunnel di dolore all’interno delle montagne di riff e blast beat.
Se In December e Iceberg Of Memories ricalcano in qualche modo la pregevole struttura mostrata in Consequence, l‘anima dark emerge con prepotenza nella title track, traccia splendida e picco assoluto di un lavoro che riserva un’altra coppia di episodi meno convenzionali ma non per questo di minore interesse: Of My Soul and the Macrocosm e Celeste (Pale Blue Ocean) mostrano, infatti, due volti diversi della materia ambient, con la reiterazione di un dilatato fraseggio chitarristico nella prima e il delicato minimalismo della seconda, composta per l’occasione da Gianni Pedretti (Colloquio e Neronoia).
Cold riesce ad impirimere alla sua musica quell’intensità che spesso manca in interpretazioni del genere, dove l’attenzione alla forma porta inevitabilmente ad esiti intrisi di manierismo: anche se di durata inferiore ai quaranta minuti The Dying Beauty ha tutte le carte in regola per soddisfare chi ricerca un approccio più emotivo che fisico al black metal.

Tracklist
1. Consequence
2. In December
3. Of My Soul and the Macrocosm
4. Iceberg of Memories
5. The Dying Beauty
6. Celeste (Pale Blue Ocean)

Line-up:
Cold – all intruments
M.VII.F – drums

NOCTURNAL DEGRADE – Facebook