A Sad Bada / Infame / Goethya / Aura Hiemis – 4 Ways To Die

4 Ways To Die si rivela uno spaccato attendibile dello stato di salute di una scena che si conferma in grande fermento e ricca di band dal potenziale probabilmente ancora inespresso.

L’etichetta cilena Australis Records sta facendo un gradissimo lavoro begli ultimi tempi, volto a portare alla luce il maggior numero possibile di band che affollano il sottobosco underground delle nazione sudamericana che possiede la scena più attiva in ambito metal estremo.

Il genere trattato in questo 4 Ways To Die è il doom, radicato con forza in un paese che ha dato i natali a realtà seminali quali Ppema Arcanus e Mar de Grises, ad altre affermate come i Procession o in grande ascesa come Mourning Sun e Lapsus Dei, con la proposta che vede raggruppate quattro band capaci di offrire il genere nelle sue diverse sfumature.
Si parte quindi con due brani degli A Sad Bada, con It’s Just My Blood,breve traccia inedita a base di un urticante e pesantissimo sludge, e You Must Know, singolo uscito nel 2017 e qui riproposto nei suoi dodici minuti all’interno dei quali diviene preponderante un’anima post metal sempre opportunamente sporcata da fangosi riff.
Gli Infame appaiono molto più grezzi e meno predisposti ad aperture pseudo melodiche, infatti Putrido Reflejo e Planicies de Locura vengono letteralmente ingerite e poi vomitate da questo duo di Antofagasta che offre il meglio nel secondo dei due brani, in virtù di un sound più avvolgente e rallentato.
Dei Goethya nulla si sa, salvo che il brano proposto è una incompromissoria tranvata di oltre un quarto d’ora il cui titolo (Bilis Negra Sofocante) lascia poco spazio all’immaginazione, anche se non mancano momenti di discontinuità rispetto ad un sound che oscilla tra death e doom ma che nella fase centrale della traccia regala incisivi e reiterati passaggi di chitarra solista.
I più noti del quartetto di band incluse in 4 Ways To Die sono comqune gli Aura Hiemis, alla luce di quindici anni di attività che hanno fruttato quattro full length e del fatto che il leader V. ha fatto parte per un certo periodo dei citati Mar De Grises; quello offerto in questo caso è un più classico ed organico death doom, decisamente meglio prodotto e in generale più curato rispetto ai brani ascoltati in precedenza
Visceral Laments Pt II è un traccia notevole per intensità, varietà ed interpretazione vocale, e lo stesso si può dire anche per Broken Roots; insomma, il livello si alza notevolmente forse anche perché le sfumature del genere si prestano maggiormente ad un sound più organico e ben focalizzato.
Detto ciò, 4 Ways To Die si rivela uno spaccato attendibile dello stato di salute di una scena che si conferma in grande fermento e ricca di band dal potenziale probabilmente ancora inespresso.

Tracklist:
1. A Sad Bada – It’s Just My Blood
2. A Sad Bada – You Must Know
3. Infame – Putrido reflejo
4. Infame – Planicies de locura
5. Goethya – Bilis negra sofocante
6. Aura Hiemis – Visceral Laments Pt II
7. Aura Hiemis – Broken Roots

Line-up:
A Sad Bada
Gastón Cariola – Guitars
Fernando Figueroa – Guitars, Vocals
Roberto Toledo – Bass
Alejandro Ossandon – Drums

Infame
D.A. – Guitars, Drums, Vocals
I.M. – Guitars, Vocals

Aura Hiemis
V. – Bass, Keyboards, Drum programming, Vocals, Guitars

A SAD BADA – Facebook
INFAME – Facebook
AURA HIEMIS – Facebook

Vanha – Melancholia

Melancholia è un’opera matura ed impeccabile, da qualsiasi punto di vista la si voglia osservare: neppure la configurazione da one man band riesce a scalfire il valore di quello che è destinato a restare uno dei migliori lavori del 2019 in ambito melodic death doom

Questo secondo full length per il progetto solista dello svedese Jan Johansson, denominato Vanha, ci consegna una nuova splendida realtà musicale in grado di ammaliare gli amanti del death doom melodico.

Melancholia è un lavoro contenente spunti evocativi che si susseguono senza soluzione di continuità e pongono questo musicista quale vertice del genere nel suo paese, stante la fine dei When Nothing Remains e la perdurante mancanza di nuovi lavori da parte dei Doom Vs. di Johan Ericson.
Il nostro Jan maneggia la materia esattamente come si attende chi la ama, quindi nell’album altro non si troverà se non quanto programmaticamente promesso dal titolo. I sei brani medio lunghi si sviluppano esibendo costantemente un dolente sentire che trova, poi, puntualmente sfogo in magnifici spunti chitarristici e si fa davvero fatica a scegliere l’una o l’altra traccia come possibile emblema della bontà dell’opera.
Dovendolo fare, personalmente opto per le tracce incastonate al centro dell’album, Starless Sleep, dalle ritmiche ulteriormente rallentate e con le sei corde di Johansson che offrono linee strappalacrime e, soprattutto, Your Heart in My Hands, sette minuti di commozione provocata dall’alternarsi di un lieve tocco pianistico al consueto affastellarsi di melodie sempre evocative e mai stucchevoli.
Melancholia è un’opera matura ed impeccabile, da qualsiasi punto di vista la si voglia osservare: neppure la configurazione da one man band riesce a scalfire il valore di quello che è destinato a restare uno dei migliori lavori del 2019 in ambito melodic death doom

Tracklist:
1. The Road
2. Storm of Grief
3. Starless Sleep
4. Your Heart in My Hands
5. Fade Away
6. The Sorrowful

Line-up:
Jan Johansson – All instruments, Vocals

VANHA – Facebook

Officium Triste / Lapsus Dei – Broken Memories

In attesa dei prossimi e auspicabili full length da parte di queste due notevoli realtà del death doom melodico, questo split album è sicuramente un appuntamento da non mancare per chi ama, oltre al genere, anche questo particolare formato

Questo split album ci consegna degli ottimi brani ad opera di due realtà operanti in ambito melodic death doom attive fin dal secolo scorso, i cileni Lapsus Dei e gli olandesi Officium Triste.

E ormai inutile rimarcare quanto la scena cilena sia quella preponderante in ambito di doom in Sudamerica e la band guidata da Rodrigo Poblete è una delle più longeve in tale ambito, benché la sua produzione in circa vent’anni di attività sia limitata a tre full length, oltre a qualche uscita di minor minutaggio. Sicuramente il turbinio di musicisti che si sono avvicendati nel corso degli anni ad accompagnare il leader non ha favorito la stabilità e quindi una maggiore produttività, fatto sta che i tre brani che vengono presentati in questo split album ci mostrano una band ispirata e in grado di offrire il genere nelle sue migliori vesti. L’afflato melodico che pervade una traccia come Human rimanda ai migliori Swallow The Sun, anche se la maggiore anzianità di servizio dei Lapsus Dei allontana ogni sospetto di eccessiva derivatività, e lo stesso vale per l’ancor più romantica Sleepless. Più nervosa a tratti è The Feeling Remains, nonostante venga addolcita non poco dal ricorso alle clean vocals.
Gli Officium Triste non hanno certo bisogno di presentazioni, nonostante il loro ultimo lavoro Mors Viri risalga al 2013. In questo periodo il vocalist Pim Blankenstein non è certo rimasto fermo, collaborando a più riprese con i Clouds di Daniel Neagoe e probabilmente questo può averlo indotto ad esibire l’approccio vocale suadente e melodico di The Weight of the World, cover di un brano degli Editors uscita anche come singolo nel 2017 ed episodio decisamente evocativo, per quanto non così canonico se prendiamo come riferimento il genere proposto dalla band olandese. Con le due tracce successive, Crossroads of Souls e Pathway (of Broken Glass), registrate dal vivo (anche se non sembrerebbe) a Malta nel 2014, si ritorna infatti al feroce growl di Pim e ad un sound che porta ben impresso il marchio degli Officium Triste, come sempre capaci di conferire in tali frangenti drammaticità e malinconia al loro sound.
In attesa dei prossimi e auspicabili full length da parte di queste due notevoli realtà del death doom melodico, questo split album è sicuramente un appuntamento da non mancare per chi ama, oltre al genere, anche questo particolare formato

Tracklist:
1. Lapsus Dei – Human
2. Lapsus Dei – Faithless
3. Lapsus Dei – The Feeling Remains
4. Officium Triste – The Weight of the World
5. Officium Triste – On the Crossroads of Souls (Live)
6. Officium Triste – Pathway (of Broken Glass) (Live)

Line-Up:
Officium Triste
Martin Kwakernaak – Drums, Keyboards
Gerard de Jong – Guitars
Pim Blankenstein – Vocals
Niels Jordaan – Drums
William van Dijk – Guitars
Theo Plaisier – Bass

Lapsus Dei
Luis Pinto – Drums
Rodrigo Poblete – Guitars (lead), Vocals
Jose Agustin Bastias – Bass
Alejandro Giusti – Vocals (on The Feeling Remains), Guitars

Julio Leiva – vocals on Human and Faithless

LAPSUS DEI – Facebook

OFFICIUM TRISTE – Facebook

Swallow the Sun – When a Shadow Is Forced into the Light

Un’opera da ascoltare con il cuore, lasciandosi trasportare dalle note di canzoni malinconiche, colme di dolcezza e nostalgia: “love is stronger than death”.

Difficile approcciarsi e spiegare a parole un’opera cosi pregna di significati per l’autore, Juha Raivio, da sempre leader dei finlandesi Swallow the Sun, giunti con When a Shadow Is Forced into the Light al loro settimo full length, a quattro anni di distanza dal monumentale Songs from the North.

Gli ultimi tre anni sono stati molto difficili per Juha, colpito negli affetti più profondi, con la morte della compagna Aleah: per un artista di tale sensibilità è impossibile non cercare di elaborare questa tragedia attraverso la musica, da sempre capace di veicolare sentimenti profondi come vita e morte. Nel 2016 il testamento sonoro dei Trees of Eternity fu incantevole con il suo atmosferico doom e le sue melodie soavemente cantate da Aleah, mentre le laceranti tensioni nel 2017 di Hallatar, con il growl di Tomi Joutsen a incendiare l’animo, hanno rappresentato il tributo per Aleah e il grido di dolore di Juha. Dopo aver pubblicato a fine 2018 l’EP Lumina Aurea, atmosferico e rarefatto funeral/drone doom che, come afferma Raivio, rappresenta qualcosa (a black bleeding wound) che non avrebbe mai pensato di scrivere, il nuovo anno ci porta l’ultimo viaggio sonoro della band madre con il quale l’artista vuole dimostrare che l’amore è sempre più forte della morte. Il lavoro non rappresenta un’evoluzione compositiva nella storia della band, ma piuttosto un amalgama tra le sonorità presenti nei primi due dischi di Songs from the North, l’anima melodica di Gloom e la dolcezza acustica di Beauty, per un risultato che deve essere ascoltato con il cuore, tralasciando valutazioni cerebrali o ricerche evolutive che forse ora all’artista non interessano particolarmente. Otto brani meditativi, quasi intimisti, con melodie cristalline nell’incipit di ogni brano, che si increspano e si inaspriscono durante lo svolgimento; atmosfere estremamente malinconiche, ombrose, profondamente nostalgiche, impregnano ogni nota, mantenendo sempre un grande gusto e un perfetto equilibrio, laddove clean vocals tenere ed espressive sono il veicolo ideale per esprimere i malinconici testi mantenendo il growl sullo sfondo. La title track ha una toccante maestosità e il violino lacera l’anima, Kotamaki dal canto suo canta con toni caldi e appassionati prima di esplodere in un growl violento e doloroso; la forte presenza di archi dona calore atmosferico, portandoci in un mondo desolato e dolente. When a Shadow Is Forced into the Light è un’ opera molto sentita ed emotivamente profonda: l’amore muove le corde dell’artista e prestando ad ogni passaggio la giusta attenzione, senza fretta, si è inebriati di sensazioni estremamente nostalgiche e malinconiche. E’ necessario infatti ascoltare l’album nella sua interezza, trovando il giusto tempo per lasciarsi trascinare in un viaggio che nessuno vorrebbe mai intraprendere, ma che ci intrappola in un abisso di dolore. Difficile dare una valutazione con un semplice ed arido voto ad un’opera cosi intensa, e neppure sarà importante ricordarla a fine anno tra i migliori dischi: è significativo, invece, viverla come un grande atto di amore verso la compagna di un’artista che nel brano finale ci ricorda che “it’s too late to dream again of tomorrow without the dark that will remain within me“.

Tracklist
1. When a Shadow Is Forced into the Light
2. The Crimson Crown
3. Firelights
4. Upon the Water
5. Stone Wings
6. Clouds on Your Side
7. Here on the Black Earth
8. Never Left

Line-up
Juha Raivio – Guitars, Keyboards, Songwriting, Lyrics
Matti Honkonen- Bass
Mikko Kotamäki – Vocals, Songwriting, Lyrics (track 6)
Juuso Raatikainen – Drums
Juho Räihä – Guitars
Jaani Peuhu – Keyboards, Vocals (backing)

SWALLOW THE SUN – Facebook

Majestic Downfall – Waters Of Fate

Waters Of Fate è un’opera densa, rocciosa e al contempo piuttosto ricca di aperture melodiche che si alternano senza soluzione di continuità a robusti riff e al growl di Jacobo che, talvolta, assume sembianze più disperate e strazianti.

Giusto dieci anni fa l’album Temple Of Guilt mise in luce il nome di Jacobo Córdova, al passo d’esordio su lunga distanza con il suo progetto Majestic Downfall.

In questo lasso di tempo il musicista messicano ha consolidato la propria fama all’interno della scena doom d’oltreoceano e oggi giunge, con Waters Of Fate, al proprio quinto full length, un traguardo che normalmente viene raggiunto da chi ha realmente il talento e la continuità necessaria per mantenere viva la fiamma della passione musicale.
Il nuovo album non delude le giuste aspettative di chi ha imparato a conoscere questo interessante progetto nel corso degli anni, e l’opener Veins è il miglior viatico possibile in quanto ci mostra subito il volto più efficace dei Majestic Downfall, quello capace di unire con grande disinvoltura passaggi di grande robustezza ad ampie aperture melodiche, mantenendo il tutto nell’alveo dei death doom melodico più tradizionale.
Nonostante una traccia come questa offra diversi e stimolanti cambi di scenario nel corso dei propri tredici minuti, ci sarà sempre qualcuno che non perderà l’occasione di ricordarci come in tali occasioni il tutto appaia già sentito: un parere lecito e spesso fondato, ma al riguardo il mio consiglio è di farsi un’idea propria, perché chi considera il doom estremo alla stregua di altri generi continuando a battere su questo tasto (a meno che, ovviamente, non ci si trovi di fronte ad un vero e proprio plagio) significa che non ne ha colto né l’essenza né la sua vera natura.
Waters Of Fate è in realtà un’opera densa, rocciosa e al contempo piuttosto ricca di aperture melodiche che si alternano senza soluzione di continuità a robusti riff e al growl di Jacobo che, talvolta, assume sembianze più disperate e strazianti: i quattro lunghi brani portanti sono esemplari per quanto riguarda l’interpretazione ottimale del genere e, come sempre, per poterne assimilare al meglio i contenuti sono necessari diversi ascolti; d’altra parte qui il dolore non viene esibito in maniera esplicita tramite passaggi dall’irresistibile potenziale evocativo, bensì va ricercato all’interno delle pieghe di un sound che, forse mai come in quest’occasione, trae linfa dai maestri Evoken, rielaborandone la lezione in maniera meno ottundente ed asfissiante e dando maggiore spazio a soluzioni acustiche e soliste, sia di chitarra che di basso.
Forse nei brani contenuti nello split con i The Slow Death del 21014 l’impatto emozionale era apparso ai massimi livelli, ma quest’ultimo lavoro esibisce una struttura solida e priva di cedimenti, frutto evidente di un lavoro compositivo ed esecutivo di grande maturità.

Tracklist:
1. Veins
2. Waters of Fate
3. Contagious Symmetry
4. Spore
5. Collapse Pitch Black

Line-up:
Jacobo Córdova – Vocals, Guitars, Bass, Keyboards, Drums
Alfonso Sánchez – Drums

MAJESTIC DOWNFALL – Facebook

Phlebotomized – Deformation Of Humanity .

Non sappiamo quale sia stata la molla che ha spinto Tom Palms a tornare sul mercato con questo leggendario monicker, resta il fatto che ascoltare musica di questo livello è sempre un piacere, quindi mai come in questo caso deve essere accolto un rientro sulla scena dopo oltre vent’anni come quello dei geniali Phlebotomized.

Nessuno avrebbe scommesso in un ritorno dei seminali Phlebotomized, band che dalla notevole scena olandese di primi anni novanta arrivò alle orecchie di chi allora, come oggi, non si accontentava dei soliti ascolti, ma si inoltrava in un underground metallico in grado anche in quegli anni di regalare gruppi e opere sopra la media.

I Phlebotomized, con il primo album intitolato Immense Intense Suspence, andarono oltre quello che si suonava allora con un sound geniale, di difficile catalogazione e sorprendentemente avanti rispetto a quello che si aveva modo di ascoltare nel metal estremo.
Doom, progressive, brutal, melodic, symphonic death: Immense Intense Suspence era tutto questo e anche di più, difficile da capire, ma tremendamente affascinante così come Skycontact, secondo ed ultimo lavoro targato 1997 che sterzava leggermente verso un’atmosfera psichedelica risultando comunque un’altra gemma musicale di valore inestimabile.
Il chitarrista Tom Palms, unico superstite della formazione originale, torna con altri musicisti a rinverdire i fasti di quei due storici album con Deformation Of Humanity, nuovo lavoro licenziato dalla Hammerheart Records che rompe un silenzio durato ben ventuno anni,.
Di musica sotto i ponti ne è passata tanta, il death metal progressivo non fa più notizia, così come le band che al metal estremo abbinano altri suoni e sfumature, ma la qualità di questo nuovo lavoro è talmente alta che cancella in un sol colpo non solo gli anni trascorsi ma un gran numero di colleghi dediti al genere, lontani dal geniale songwriting del nuovo Phlebotomized.
Tra le splendide note di capolavori come Chambre Ardente, Descende To Deviance, Proclamation of a Terrified “Breed” e la title track si trovano in perfetto equilibrio tutti i generi estremi, dal più melodico, al più brutale, in perfetta armonia tra cambi repentini di sound ed atmosfere ancora oggi difficilmente eguagliabili.
Non sappiamo quale sia stata la molla che ha spinto Tom Palms a tornare sul mercato con questo leggendario monicker, resta il fatto che ascoltare musica di questo livello è sempre un piacere, quindi mai come in questo caso deve essere accolto un rientro sulla scena dopo oltre vent’anni come quello dei geniali Phlebotomized.

Tracklist
1. Premonition (Impending Doom)
2. Chambre Ardente
3. Descend To Deviance
4. Eyes On The Prize
5. Desideratum
6. My Dear …
7. Proclamation Of A Terrified “Breed”
8. Until The End
9. Deformation Of Humanity
10. Until The End Reprise
11. Ataraxia II

Line-up
Rob Op `t Veld – Synths
Dennis Bolderman – Guitar
Tom Palms – Lead Guitar
Ben de Graaff – Vocals
Alex Schollema – Drums
André de Heus – Bass guitar

PHLEBOTOMIZED – Facebook

Ghostheart Nebula – Reveries

I Ghostheart Nebula riescono a far proprie le diverse sfumature del genere convogliandole in un sound che mette sempre in primo piano l’impatto emotivo, e questo è esattamente ciò che chiede chi si approccia a queste sonorità.

I Ghostheart Nebula son il più gradito quanto inatteso regalo per gli appassionati del death doom melodico italiano.

Come ho già avuto occasione di affermare più volte, mentre per quanto riguarda il doom nella sua veste più classica nel nostro paese la scena è decisamente fiorente, le band di assoluto livello appartenenti al versante più estremo del genere (funeral o death doom che sia) sono decisamente di meno.
L’ep Reveries ci consegna quindi una nuova entusiasmante realtà nata dall’incontro tra tre musicisti lombardi (Nick Magister, Maurizio Caverzan e Bolthorn) le cui band di provenienza non rimandano in maniera scontata all’ambito doom; forse anche per questo l’approccio al genere del trio è quanto di più fresco ed emozionante ci sia stato dato modo di ascoltare ultimamente.
Pur immettendo nel tutto alcune sfumature riconducibili al post metal, i Ghostheart Nebula non si perdono in divagazioni di sorta ed esibiscono, senza particolari mediazioni, un carico di emotività travolgente dalla prima all’ultima nota del lavoro; eventuali dubbi sull’esito dell’opera vengono fatti svanire dall’opener Dissolved che, dopo una delicata introduzione, esplode letteralmente con tutto il suo fardello di malinconia e disperazione, con un Maurizio Carverzan che non indugia in clean vocals ma esibisce un growl lacerante.
Elegy Of The Fall ha un impatto meno immediato ma è pervasa da un diffuso senso melodico, con reminiscenze dei Valkiria, una delle band che nell’ambito del genere nel nostro paese possono essere definite storiche: qui si possono apprezzare le doti di Nick Magister come chitarrista e quelle di Bolthorn, il cui basso è tutt’altro che un semplice elemento di contorno nell’economia del sound.
A.R.T.E. (Always Remember Those Eyes) è invece, a mio avviso, il picco emozionale del lavoro, con le sue sonorità struggenti che occupano il proscenio in alternanza a rarefatti passaggi pianistici e morbide linee di chitarra, trovando un possibile termine di paragone con i recenti lavori dei Clouds; si parla quindi di assoluta eccellenza in campo melodic death doom, e ogni minimo dubbio viene spazzato via dall’ultima gemma intitolata Denialist, nella quale trova spazio la limpida voce dell’ospite Therese Tofting, la cui apparizione equivale ad un barlume di soffusa speranza incastonato nel drammatico incedere di un’altra canzona stupenda.
I Ghostheart Nebula riescono a far proprie le diverse sfumature del genere convogliandole in un sound che mette sempre in primo piano l’impatto emotivo, e questo è esattamente ciò che chiede chi si approccia a queste sonorità: Reveries è un’opera che al primo colpo si mette in scia delle migliori band del settore e ci si augura, a questo punto, che non resti l’abbagliante manifestazione di un progetto estemporaneo ma che costituisca, semmai, il primo passo di una band di grande spessore in grado anche di portare anche dal vivo la propria splendida musica.

Tracklist:
1. Dissolved
2. Elegy Of The Fall
3. A.R.T.E. (Always Remember Those Eyes)
4. Denialist (feat. Therese Tofting)

Line-up:
Maurizio Caverzan: voce
Nick Magister: chitarra, synths, programmazione
Bolthorn: basso

GHOSTHEART NEBULA – Facebook

Helevorn – Aamamata

Non era facile riuscire a fare un ulteriore passo avanti rispetto ad un disco già splendido come Compassion Forlorn, ma gli Helevorn si sono letteralmente superati pubblicando un’opera con la quale si dovrà confrontare da oggi in poi chiunque voglia cimentarsi con il gothic doom.

Gli Helevorn appartengono a quella categoria di band che tipicamente, in ambito doom, si prendono tutto il tempo necessario tra un disco e l’altro decidendo di proporre nuovo materiale solo quando hanno realmente qualcosa da dire.

E da dire c’è davvero molto in questi tempi, specialmente per chi non accetta di restare indifferente di fronte alle tragedie umane che la maggior parte di noi preferirebbe nascondere sotto al tappeto, facendo finta di niente per non essere costretto a fare i conti con la propria coscienza.
Gli Helevorn, essendo maiorchini, come tutti gli isolani hanno un rapporto speciale  con quel Mare Nostrum che negli ultimi anni si e trasformato nell’estrema dimora di migliaia di esseri umani, costretti a rischiose e spesso fatali traversate per sfuggire alle guerre o semplicemente alla povertà,  e spinti virtualmente sott’acqua da una politica volta solo ad ottenere facile consenso da parte di popoli colpevoli, a loro volta, di una ributtante ignavia.
L’aver dedicato un intero album al dramma dei migranti, in un momento in cui chi solleva il problema viene visto quasi sospetto, fa onore alla sensibilità di una band che d’altra parte anche in passato non ha mai rinunciato a prendere posizioni ben definite in ambito sociale o politico.
A livello musicale quella degli Helevorn è stata una crescita lenta ma costante e se già Compassion Forlorn aveva sancito l’ingresso del gruppo iberico tra i  nomi di punta della scena gothic death doom europea, Aamamata rafforza questa posizione con il valore aggiunto, come detto, di contenuti lirici importanti.
Per capire appieno la potenziale levatura dell’album basta godersi la visione di un’opera che unisce magistralmente musica, filmati e grafica come è il video di Blackened Waves, brano commovente per intensità e drammatica evocatività: Josep Brunet riesce a lacerare l’anima dell’ascoltatore utilizzando praticamente la sola voce pulita, in virtù di una profondità interpretativa che non lascia dubbi alcuni sulla sincerità del suo sentire, e il growl che affiora solo nell’ultimissima parte del brano è strettamente funzionale a rimarcare con forza il dolore, la rabbia e l’impotenza di chi vuole avere ancora occhi per vedere.
Il valore dell’intero lavoro emerge poi con prepotenza ascolto dopo ascolto, facendo sì che ad ogni passaggio un brano sempre diverso si manifesti di volta in volta in tutto il suo splendore: così, se il singolo appena citato appare difficilmente superabile, successivamente la stessa impressione verrà fornita dalle ritmiche coinvolgenti e dalle aperture melodiche di A Sail to Sanity e Forgotten Fields, dalla paradiselostiana Once upon a War o dalla superba Aurora, il cui incedere nel finale riporta inevitabilmente alla più grande metal band iberica (in questo caso lusitana) di sempre.
E ancora la struggente Goodbye Hope, dall’enorme potenziale evocativo tra passaggi più soffusi e sussulti drammatici, appare quale picco qualitativo insuperabile, ma successivamente lo stesso può valere per la cangiante The Path to Puya, che dal doom più cupo passa senza alcun contraccolpo alla cristallina voce di Heike Langhans (Draconian), per arrivare al dolente e controllato finale dell’album affidato a La Sibil·la, canzone dal testo interamente in catalano.
Una citazione a parte la merita Nostrum Mare, traccia che è di fatto il manifesto lirico dell’album, con la quale gli Helevorn hanno voluto coinvolgere idealmente gran parte delle le nazioni che si affacciano sul Mediterraneo affidando parti del testo a voci recitanti nelle diverse lingue (è una grande soddisfazione scoprire che per quella italiana sia stato scelto un caro amico come Pablo Ferrarese dei Tenebrae); “Et deixo un pont d’esperança i el far antic del nostre demà perquè servis el nord en el teu navegar / Et deixo l’aigua i la set, el somni encès i el record / Et deixo un pont de mar blava / El blau del nostre silenci d’on sempre neix la cançó”: ecco, chi avesse voglia di tradursi questi versi avrà ben chiaro quale sia lo spessore dell’intero lavoro anche sul piano strettamente poetico.
La produzione affidata ad un fuoriclasse come Jens Bogren rende Aamamata inattaccabile anche dal punto di vista della resa sonora e il resto lo fa la band, capace di tessere melodie assimilabili rapidamente ma destinate a fissarsi per sempre nella memoria, sulle quali poi si staglia la prestazione vocale di un Josep Brunet che, oggi, nella speciale classifica combinata tra clean vocals e growl, si può considerare a buon diritto uno dei migliori cantanti in circolazione.
Non era facile riuscire a fare un ulteriore passo avanti rispetto ad un disco già splendido come Compassion Forlorn, ma gli Helevorn si sono letteralmente superati pubblicando un’opera con la quale si dovrà confrontare da oggi in poi chiunque voglia cimentarsi con il gothic doom.; senza dimenticare, infine, che per le sue caratteristiche Aamamata potrebbe risultare gradito non solo ai doomsters più incalliti aprendo agli Helevorn la possibilità di raggiungere un’audience più vasta, visto che, pur inducendo con costanza alla commozione, il sound non mostra quasi mai le caratteristiche più opprimenti e depressive del genere lasciando spazio solo ad una malinconia che, come un indolente moto ondoso, si infrange sulla nostra anima erodendola poco alla volta.

May the waves remind us of our shame and misery, forever

Tracklist:
1. A Sail to Sanity
2. Goodbye, Hope
3. Blackened Waves
4. Aurora
5. Forgotten Fields
6. Nostrum Mare (Et deixo un pont de mar blava)
7. Once upon a War
8. The Path to Puya
9. La Sibil·la

Line-up:
Josep Brunet – Voices
Samuel Morales – Guitars
Guillem Morey – Bass
Sandro Vizcaino – Guitars
Enrique Sierra – Keys
Xavi Gil – Drums

HELEVORN – Facebook

Sönambula – Bicéfalo

Bicéfalo è un album che, fin dalla prima nota, si rivela grezzo, asciutto, basato su un riffing sempre incisivo e da un supporto ritmico ben in evidenza: l’andamento mediamente sostenuto viene interrotto da bruschi rallentamenti, così come da ottime sortite metodiche delineate dalla chitarra solista.

Il death doom nella sua forma più asciutta ed essenziale proposto ai giorni nostri è un qualcosa che ha il pregio di lasciarsi ascoltare con piacere ma, al contempo, ha il difetto di risultare ben difficilmente un qualcosa capace di lasciare un segno indelebile.

Tali considerazioni valgono anche per questo secondo full length dei baschi Sönambula, band guidata dall’esperto chitarrista e vocalist Rapha Decline.
Bicéfalo è un album che, fin dalla prima nota, si rivela grezzo, asciutto, basato su un riffing sempre incisivo e da un supporto ritmico ben in evidenza: l’andamento mediamente sostenuto viene interrotto da bruschi rallentamenti, così come da ottime sortite metodiche delineate dalla chitarra solista.
In tali frangenti il musicista di Bilbao dimostra d’essere un buon interprete dello strumento e questo ci fa pensare che, forse, dando un maggiore sfogo a passaggi più ariosi il risultato complessivo avrebbe potuto risentirne positivamente.
I brani sono tutti abrasivi il giusto, il ringhio di Rapha non fa sconti e mentre si ascolta il disco si scapoccia il giusto ma arrivati al termine sorge spontanea una domanda: quante volte lo ascolterò ancora?
L’uniformità stilistica dei Sönambula è un punto di forza, per il suo essere coerente ai dettami del genere, e di debolezza per il fatto che dopo la prima canzone sarà ben chiaro che il canovaccio seguito resterà inevitabilmente quello.
Ciò che ne scaturisce è comunque un lavoro valido e che sicuramente troverà il dovuto apprezzamento da parte di chi predilige questo tipo di sonorità estreme.

Tracklist:
1. Mutación sintética
2. Héroe sangriento
3. Huesos
4. Nostromo
5. Detritus
6. Colección macabra
7. Bicéfalo

Line-up:
Rapha Decline – Guitar/Vocals
Errapel Kepa – Bass
Maider – Drums

SONAMBULA – Facebook

Ferum – Vergence

Per i Ferum, Vergence rappresenta un primo passo ineccepibile e quindi una base ideale per costruire qualcosa di ancora più interessante e consistente in futuro.

L’esibizione in musica del dolore e del disagio può avvenire in maniere diverse, certo è che che il metal offre in tal senso diverse ed efficaci gamme: quella scelta dagli esordienti Ferum è un death doom corrosivo e decisamente avaro di slanci melodici.

La band ha la sua base a Bologna ed e stata fondata da Samantha, la quale si disimpegna alla voce e alla chitarra, oltre ad essere autrice di tutte le musiche, e da Angelica (batteria), raggiunte in seguito da Matteo al basso.
Il growl è aspro ed efferato più che profondo, come è sovente quello femminile, e si adegua ottimamente ad un sound volto ad esprimere la giusta dose di rabbia e disgusto; la componente death è prevalente nel suo rappresentare la frangia più morbosa e putrida del genere, con i rallentamenti di matrice doom che giungono puntuali a conferire quel pizzico di varietà sotto forma di cambi di tempo.
Così quest’opera prima dei Ferum lascia buone impressioni, in virtù di una convinzione ed una chiarezza d’intenti che non sono sempre facilmente riscontrabili: dei cinque brani offerti, i primi tre si snodano in maniera uniforme, mentre il quarto, decisamente più cadenzato, è l’efficace cover di Funeral, traccia che segnò l’esordio nel 1990 degli storici statunitensi Cianide.
Chiude l’ep Ed È Subito Sera, brano che riprende liricamente la breve poesia di Quasimodo: anche in questo caso il trio brilla per il suo sound essenziale e coinvolgente che si apre a tratti, questa volta. anche melodicamente andando a lambire lidi black metal.
Per i Ferum, Vergence rappresenta un primo passo ineccepibile e quindi una base ideale per costruire qualcosa di ancora più interessante e consistente in futuro.

Tracklist:
1. Siege Of Carnality
2. Perpetual Distrust
3. Subcoscious Annihilation
4. Funeral (Cianide cover)
5. Ed È Subito Sera (Outro)

Line-up:
Angelica: drums
Samantha: guitars, vocals
Matteo: bass

FERUM – Facebook

The Ghost I’ve Become – Circle of Sorrow

L’auspicio è che i The Ghost I’ve Become trovino quanto prima l’appoggio esterno ideale per cominciare a pensare ad un primo full length che, con questi presupposti, potrebbe svelarne le indubbie doti ad numero ben più consistente di appassionati.

Due anni dopo l’ep d’esordio Hollow ritroviamo I finnici The Ghost I’ve Become con un nuovo ep che conferma quanto di buono era già stato esibito a suo tempo.

Nonostante tali valide premesse, non si può fare a meno di notare, quale aspetto negativo, il fatto che una band di tale prospettiva continui ad essere priva del supporto fattivo non solo di un etichetta ma anche di un agenzia di promozione e, purtroppo, in un mondo in cui troppo spesso chi appare ottiene molta più considerazione rispetto a chi vale, tutto questo non può che rivelarsi alla lunga un handicap per questi ottimi musicisti.
Il songwriter e chitarrista Lauri Moilanen ripropone gli schemi vincenti che ben conosciamo, rafforzandoli ulteriormente ed asservendoli al cupo concept che egli stesso ha ideato, ben supportato dalla buona produzione curata dall’altro chitarrista Joonas Kanniainen e ottimamente illustrato dall’inqueitante artwork curato dal vocalist Jomi Kyllönen.
Indubbiamente questo atteggiamento improntato ad un DIY, elevato però ai massimi termini in quanto a professionalità, continua a portare frutti prelibati, in quanto Circle of Sorrow è un lavoro nel quale vengono miscelate al meglio le influenze che i nostri riescono a rielaborare in maniera personale, benché l’impronta di band come gli imprescindibili Swallow The Sun e dei loro contraltari d’oltreoceano Daylight Dies siano ben percepibili.
Denial e Torment rappresentano al meglio il doloroso crescendo che porta alle splendide aperture melodiche di Grief e al commovente intimismo dell conclusiva Yearn: da notare in questi ultimi due brani, l’importante contributo della voce pulita affidata al musicista canadese Marc Durkee, a dimostrazione dell cura dei particolari che non viene mai meno nell’operato dei The Ghost I’ve Become.
Non si può quindi che ribadire con soddisfazione come la band di Oulu sia una delle promesse più concrete in ambito death doom e anche se, come detto, realtà di livello nettamente inferiore riescono a trovare il supporto di etichette anche importanti, continuo sempre a pensare (o meglio dire a sperare) che la meritocrazia alla fine abbia la meglio sulla capacità di vendersi.
L’auspicio è che Moilanen e soci trovino quanto prima l’appoggio esterno ideale per cominciare a pensare ad un primo full length che, con questi presupposti, potrebbe svelarne le indubbie doti ad numero ben più consistente di appassionati.

Tracklist:
1. O
2. Denial
3. Torment
4. Grief
5. Yearn

Line-up:
Lauri Moilanen – Guitars, backing vocals
Joonas Kanniainen – Guitars
Jomi Kyllönen – Vocals
Jaakko Koskiniemi – Bass

Guests:
Marc Durkee – Clean Vocals
Tommi Tuhkala – Drums
Aleksi Tiikkala – Piano

THE GHOST I’VE BECOME – Facebook

The Crawling – Wolves and the Hideous White

Wolves and the Hideous White non è affatto un’esibizione del death doom nella sua versione più tetragona o putrescente, ma trae correttamente linfa dalla fondamentale scuola britannica, mettendo da parte tentazioni gotiche per privilegiare un impatto più opprimente ma non scevro di appigli melodici.

Secondo full length per i nordirlandesi The Crawling, validi promulgatori del verbo del death doom più canonico.

Wolves and the Hideous White però non è affatto un’esibizione del genere nella sua versione più tetragona o putrescente, ma trae correttamente linfa dalla fondamentale scuola britannica, mettendo da parte tentazioni gotiche per privilegiare un impatto più opprimente ma non scevro di appigli melodici.
Fulcro del lavoro è il brano per certi versi più anomalo, Drowned In Shallow Water, che arriva a spezzare il più robusto incedere dell’iniziale title track e della notevole Still No Sun, traccia in quota primi Paradise Lost; qui affiorano pulsioni post metal che non snaturano affatto un sound sempre ben identificabile, anche quando il lavoro chitarristico esibisce inedite dissonanze.
Superato il breve e non particolarmente incisivo episodio A Time For BrokenThings, con Rancid Harmony il trio di Lisburn ritorna ad infierire con grande efficacia alternando riff micidiali ad aperture melodiche minime ma sempre significative; Promises and Parasites chiude senza sorprese negative questo ottimo lavoro che, come quasi sempre avviene rispetto a ciò che ci giunge dalle lande di oltremanica, gode di una buona produzione atta a valorizzare al meglio il crudo operato del chitarrista cantante Andy Clarke e dei suoi sodali Stuart Rainey (basso) e Gary Beattie (batteria).
Wolves and the Hideous White è una bella conferma per una band relativamente nuova ma già in grado di imporre un sound convincente e, nei limiti di quanto consentito dal genere affrontato, piuttosto personale.

Tracklist:
1. Wolves and the Hideous White
2. Still No Sun
3. Drowned In Shallow Water
4. A Time For Broken Things
5. Rancid Harmony
6. Promises and Parasites

Line-up:
Andy Clarke – Guitar/Vocals
Gary Beattie – Drums
Stuart Rainey – Bass/Backing Vocals

THE CRAWLING – Facebook

Helllight – As We Slowly Fade

As We Slowly Fade è un album che non deve sfuggire a chi apprezza il death doom melodico nelle sue espressioni emotivamente più elevate.

As We Slowly Fade è il sesto full length degli Helllight ed esce giusto dieci anni dopo quel Funeral Doom che fece balzare all’attenzione degli appassionati il nome della band di Fabio De Paula.

Mi è capitato di ascoltare, qualche mese fa, quell’opera che presentava una montagna di intuizioni magnifiche, sia pure inserite all’interno di una struttura perfettibile sotto diversi aspetti, e non si può fare a meno di notare come il musicista brasiliano abbia intrapreso una lenta ma costante progressione che ha portato il suo gruppo ad essere uno dei nomi più rispettati in ambito doom, non solo in Sudamerica.
Il death doom melodico e atmosferico sciorinato in As We Slowly Fade, del resto, è quanto mai europeo per stile ed espressione musicale, trovandosi a gravitare nell’orbita dei Saturnus assieme a realtà quali Doom Vs. e When Nothing Remains: il lavoro chitarristico di De Paula è di primissima qualità, così come tutto il comparto strumentale che vede il fedele Alexandre Vida al basso e il neo arrivato Renan Bianchi alla batteria a fornire un puntuale supporto ritmico.
La voce è invece ciò che in certi momenti può assumere un carattere divisivo: se il growl è assolutamente e positivamente nella norma, le clean vocals continuano a lasciare qualche dubbio per il loro essere sempre un po’ troppo stentoree e con l’effetto di attenuare il carico di drammaticità del songrwiting; sarà un caso, o forse no, se per me i brani migliori dell’album sono The Ghost e The Land Of Broken Dreams, gli unici nei quale De Paula si astiene dall’esibire la voce pulita e forse anche per questo, ma non solo, risultano i più vicini ai lidi funeral. Ma questo resta in qualche modo un punto che più di altri è strettamente connesso alla soggettività: quel che conta è che la musica degli Helllight, ancora una volta, non delude offrendo un pregiato dono a tutti gli appassionati di questo tipo di doom; la title track, While The Moon Darkens, e Bridge Between Life And Death sono infatti tracce lunghe ma ricche di magnifici spunti e caratterizzate da un elevato tasso di evocatività.
Fa storia a sé la conclusiva Ocean, canzone alla quale dà il suo contributo anche una voce femminile e nella quale il leader regala alcuni minuti finali di struggenti melodie chitarristiche: una degna coda per un album che, come d’abitudine degli Helllight, si rivela impegnativo per l’ascoltatore soprattutto a causa di una durata che come sempre supera abbondantemente l’ora.
As We Slowly Fade è, in definitiva, un album che non deve sfuggire a chi apprezza il death doom melodico nelle sue espressioni emotivamente più elevate.

Tracklist:
1 Intro
2 As We Slowly Fade
3 While The Moon Darkens
4 The Ghost
5 Bridge Between Life And Death
6 The Land Of Broken Dreams
7 Ocean

Line-up:
Fabio de Paula – Guitars, Vocals, Keyboards
Alexandre Vida – Bass
Renan Bianchi – Drums

HELLLIGHT – Facebook

Cóndor – El Valle del Cóndor

Il sound del quintetto colombiano amalgama in modo sagace gli elementi dell’heavy/death/doom, e li modella lasciando che le atmosfere si dilatino senza perdersi troppo, potenziate da mid tempo potenti ed un rantolo di matrice death nel cantato.

Arrivati al quarto lavoro sulla lunga distanza, i Cóndor si presentano come una delle realtà più presenti nella scena metal underground della capitale colombiana Bogotá.

Il gruppo, infatti, in cinque anni di attività ha dato vita a tre lavori, prima che La Caverna Records licenziasse questo ultimo album incentrato su un doom/death metal dai risvolti heavy e old school.
Una proposta assolutamente underground ma che mantiene una sua forte personalità: il sound del quintetto colombiano amalgama in modo sagace gli elementi dei tre generi citati, li modella lasciando che le atmosfere si dilatino senza perdersi troppo, potenziate da mid tempo potenti ed un rantolo di matrice death nel cantato.
L’album si apre con una lunga intro strumentale dal titolo Obertura, con le chitarre che sprigionano riff dissonanti e carichi di watt, mentre El Paramo De Pisba accelera le ritmiche avvicinandosi al death metal.
La Cuchilla Del Tambo è un breve brano strumentale che funge intermezzo prima che Santa Rosa De Osos apra squarci doom/death metal, in un contesto ritmico dai molti cambi di tempo.
El Valle del Cóndor ha nei molti strumentali, come Cabeza de Buitre, i momenti più riusciti e si conclude con le note folk della title track a suggellare un buon lavoro in arrivo da una scena ancora tutta da scoprire come quella colombiana.

Tracklist
1.Obertura
2.El Páramo de Pisba
3.La Cuchilla del Tambo
4.Santa Rosa de Osos
5.Aw’tha
6.Gudrún
7.Cabeza de Buitre
8.Raudo es el Cauca
9.El valle del Cóndor

Line-up
Andrés Felipe López Vergara – Drums, Vocals
Francisco Fernández López – Guitars
Antonio Espinosa Holguín – Guitars, Vocals
Alejandro Solano Acosta Madiedo – Bass
Jorge Eduardo Canal Corredor – Guitars, Vocals

CONDOR – Facebook

Svarthart – Awaiting The Return

Il problema degli Svarthart è che il loro death doom è davvero troppo scarno per poter attrarre chi desidera ascoltare dolenti melodie, ma non è neppure abbastanza crudo ed incisivo per lasciare un segno.

Awaiting The Return è il secondo full length dei belgi nome, Svarthart nella quale ritroviamo Tom Mesens musicista che abbiamo conosciuto con l’altro suo progetto solista Riven.

Lo scorso anno abbiamo parlato, purtroppo in termini non troppo lusinghieri, dell’esordio su lunga distanza degli Svarthart intitolato Emptiness Filling the Void e va detto subito che i progressi rispetto a quell’opera sono stati davvero pochi.
Rispetto a quanto offerto in maniera apprezzabile da Mesens con i Riven, la differenza non è riscontrabile solo nel fatto che in questo caso non stiamo parlando di una one man band ma anche in un approccio che riconduce più al death doom che non al funeral.
Ma se in un un album come Hail to the King, pur nel suo minimalismo, gli aspetti positivi superavano senz’altro quelli negativi, nel caso di Awaiting The Return purtroppo le cose si ribaltano, nel senso che le fasi meno convincenti del lavoro non vengono compensate da un songwriting che si rivela privo di passaggi di particolare interesse. Un growl eccessivamente piatto finisce per affliggere ulteriormente un sound di suo già soffocato da una produzione insufficiente, esattamente come accadeva in Emptiness Filling the Void, con la differenza che almeno, nel presente album, in alcuni frangenti balenano radi lampi melodici capaci di attrarre l’attenzione per un tempo comunque troppo ridotto.
Il problema degli Svarthart è che il loro death doom è davvero troppo scarno per poter attrarre chi desidera ascoltare dolenti melodie, ma non è neppure abbastanza crudo ed incisivo per lasciare un segno come fatto di recente, tanto per non andare troppo lontani, dai connazionali Iteru.
Dovendo trarre qualche conclusione da questo lavoro, mi verrebbe da consigliare a Mesens di dedicarsi anima e corpo al suo progetto Riven, dal quale sembra che vi siano oggettivamente dei margini per trarre quelle soddisfazioni e quei riscontri che difficilmente potranno provenire dal suo operato con il marchio Svarthart.

Tracklist:
1. While Sadness Is Following
2. Waiting
3. Blinded by Lies
4. Harbringer
5. Ignition
6. The Murder, Part One
7. The Murder, Part Two
8. Aan de afgrond
9. Dawning

Line-up:
Zeromus – Guitars (lead)
Svartr – Guitars, Vocals
Sven – Bass

SVARTHART – Facebook

Who Dies in Siberian Slush – Intimate Death Experience

Convincente ritorno, a sei anni dall’ultimo full length, di una delle più influenti band della scena doom moscovita, gli Who Dies in Siberian Slush di Evander Sinque.

A sei anni dall’ultimo full length We Have Been Dead Since Long Ago… torna una delle più influenti band della scena doom moscovita, gli Who Dies in Siberian Slush di Evander Sinque.

Quel lavoro, seppure di buna fattura, non aveva comunque raggiunto il ragguardevole livello dell’esordio Bitterness of the Years That Are Lost del quale erano state mantenute sostanzialmente le principali linee guida, sotto forma di un funeral death doom a tratti dissonante e poco incline alla melodia.
Intimate Death Experience, in tal senso, conferma invece il cambio di direzione giù mostrato nei due brani presenti nello split The Symmetry Of Grief (in coppia con il finnici My Shameful) , facendo intuire fin dall’inizio che il sound non sarà affatto scevro di malinconici passaggi, per lo più chitarristici ma anche delineati dalla tastiera.
Inoltre, a fornire quella peculiarità che è sempre la benvenuta purché non si tramuti in un un elemento spiazzante, troviamo l’interessante contributo del flauto e soprattutto del trombone, uno strumento che più di altri, utilizzato in un simile contesto, restituisce la sensazione di trovarsi al cospetto della banda che accompagna il defunto nel suo ultimo viaggio.
Va detto che i due brani presenti nello split album citato, And It Will Pass e The Tomb of Kustodiev, li ritroviamo anche in quest’occasione, sebbene riarrangiati, il che non è un male perché trattasi di tracce decisamente buone, ma non si può fare a meno di notare al contempo che la musica inedita presente in Intimate Death Experience ammonta a poco meno di venti minuti.
Poco male, però, quando i due brani di nuovo conio, al netto dell’intro Through the Heavens e del breve recitato Solace, si rivelano alcune delle cose migliori offerte dagli Who Dies in Siberian Slush nella loro storia: infatti Remembrance e, soprattutto, On Different Sides lasciano finalmente sfogo ad un indole melodica che, comunque, non finisce per sopraffare lo stie sempre un po’ naif e originale dei moscoviti.
In particolare la traccia che chiude il lavoro è davvero splendida, nel suo tragico e doloroso crescendo conclusivo che mette in mostra quello che a mio avviso è il lato migliore della band di Evander Sinque, come sempre autore di un’interpretazione vocale di grande intensità.
Il ritorno, quasi contemporaneo, di due dei nomi più pesanti della scena doom russa come gli Who Dies in Siberian Slush ed i Comatos Vigil (sia pure con il suffisso A.K. causa beghe tra gli ex membi originari) riporta ala luce un movimento che negli ultimi anni era stato messo in ombra da altre stimolanti realtà provenienti dalle nazioni dell’area ex-sovientica; non è stato facile per Evander ripartire, specialmente dopo la prematura e dolorosa scomparsa di Gungrind, ma i risultati che scaturiscono da Intimate Death Experience sono oltremodo convincenti.

Tracklist:
1. Through the Heavens
2. And It Will Pass
3. Remembrance
4. The Tomb of Kustodiev
5. Solace
6. On Different Sides

Line-up:
Igor T. – Drums
E.S. – Vocals
Flint – Guitars (lead)
A. Kraev – Bass
A.Z. – Flute
L.K. – Keyboards, Trombone
Alexey K. – Guitars, Vocals (backing), Synthesizer

WHO DIES IN SIBERIAN SLUSH – Facebook

Eternal Candle – The Carved Karma

The Carved Karma è un lavoro ottimo, maturo benché i musicisti coinvolti siano ancora oggi relativamente molto giovani, convincente in ogni sua parte, sia quando vengono tessute dolenti melodie che rimandano al death doom sia quando è un’anima progressiva a prendere il sopravvento.

Le difficoltà nel proporre musica di un certo tipo nei paesi arabi i cui governi sono profondamente connessi alla religione islamica sono note a tutti ma questo non impedisce a musicisti meritevoli e capaci di porsi in evidenza sia pure magari in tempi più dilatati rispetto a quelli abituali.

È questo il caso degli iraniani Eternal Candle, il cui esordio The Carved Karma, nonostante abbia visto la luce nelle scorsa primavera, risale a circa sei anni fa e questo a ben vedere fa ancora più rabbia specialmente dopo essersi resi conto del valore intrinseco di quest’opera,
Togliendo subito qualsiasi dubbio in merito, va detto infatti che The Carved Karma è un lavoro ottimo, maturo benché i musicisti coinvolti siano ancora oggi relativamente molto giovani, convincente in ogni sua parte, sia quando vengono tessute dolenti melodie che rimandano al death doom sia quando è un’anima progressiva a prendere il sopravvento.
La band guidata da Mahdi Vaezpour non esprime un sound nuovo di zecca ma brilla nel fondere in maniera mirabile tutte quelle istanze musicali che, per fortuna, sono immuni a qualsiasi tipo di barriera fisica o mentale: tutto questo dà vita ad un’opera che, al di là delle inevitabili reminiscenze che può provocare in questo o quel passaggio, gode di un’impronta forte e della freschezza tipica delle band collocate geograficamente ai margini del mondo musicale che conta.
Volendo molto semplificare, gli Eternal Candle propongono un sound che risulta un’ideale punto di incontro tra i Novembers Doom e gli Opeth di Deliverance (a mio avviso l’ultimo dei lavori in cui Åkerfeldt ha saputo equilibrare al meglio le contrastanti pulsioni del suo immaginario musicale), ma è bene ribadire che ciò è utile solo ad inquadrare parzialmente la band asiatica in un ambito stilistico perché The Carved Karma offre decisamente molto di più di un compitino all’insegna del taglia e cuci.
Il malinconico e oscuro incedere del death doom viene costantemente incalzato dalle turbolenze progressive che si manifestano ora sotto forma di un riffing nervoso ora di eleganti arpeggi acustici per poi incontrarsi e stringersi in un saldo abbraccio quando è la chitarra dì Mahdi tesse splendide linee soliste
L’efficace tonalità harsh e growl di Babak Torkzadeh ben si sposa agli interventi con voce pulita dello stesso Vaezpour e tutto ciò avviene in maniera assai fluida, così come passaggi decisamente robusti si stemperano naturalmente in eleganti soluzioni melodiche.
L’album si rivela così compatto e senza punti deboli, tanto che si fatica a trovare un brano che spicca in particolare sugli altri, anche se The Ripped Soul, dovendo scegliere, si fa preferire perché incarna al meglio lo stile degli Eternal Candle, con l’alternanza tra il progressive death doom alla Novembers Doom della prima parte ed il sognante e melodico finale.
In The Carved Karma si rinvengono talvolta accenni ai Dark Suns del capolavoro Existence così come, in certe soluzioni strumentali, alla scena death doom melodica russa (non è casuale probabilmente il fatto che proprio da quelle parti si sia scelto di mixare e masterizzare il lavoro prima d’essere finalmente pubblicato).
Tutto questo va a comporre un quadro complessivo che rende doveroso dare una possibilità a questi valenti ragazzi iraniani, con la speranza che la loro ispirazione trovi nuovo impulso per offrirci altro materiale inedito di conio più recente.

Tracklist:
1. In the Absence of Us
2. The Ripped Soul
3. Sick Romance
4. A Path to Infinity
5. A Dismal Inhabitant
6. The Absurd Sanity
7. The Void
8. Hear My Cry
9. My Turn
10. Prayer of the Hopeless
11. A Wage of Affliction

Line-up:
Mahdi Vaezpour: Composer,Clean Vocal,Lead Guitar
Babak Torkzadeh: Growl And Harsh Vocal
Armin Afzali: Bass
Amir Taqavi: Electric Guitar
Josef Habibi: Drums

ETERNAL CANDLE – Facebook

Iteru – Ars Moriendi

Ars Moriendi è un lavoro a suo modo sorprendente e che merita di arrivare alle orecchie degli appassionati del doom più oscuro e malevolo.

Notevole ep d esordio per i belgi Iteru, autori di un death doom rituale ed opprimente come di rado capita di ascoltare.

Oltre al fatto che si tratta di un trio, l’unica cosa che è data sapere sulla band è che i musicisti coinvolti appartengono alla scena black metal belga, un aspetto che rende a suo modo ancor più intrigante il tutto, visto che chi è abituato a viaggiare a velocità più elevate di norma tende ad interpretare in maniera differente sonorità dai tempi più diluiti.
Gli Iteru non cercano consenso attraverso una proposta dolente e melodica, ma con Ars Moriendi portano il genere alle sue estreme conseguenze senza spostare la barra verso il death, come fa la maggior parte delle band in casi analoghi: l’album è doom al 100%, con il retaggio black che affiora in alcune sfuriate in doppia cassa e nel tremolo di certi passaggi solisti, per il resto tutti gli ingredienti si trovano al loro posto, a partire da un growl impietoso e il rombo ribassato all’inverosimile sullo sfondo.
I quattro lunghi brani sono litanie che disassano l’ascoltatore in virtù di suoni non particolarmente curati ma veraci il giusto, per rendere ancor più credibile il senso di soffocamento che la band vuole indurre in chi decide si assoggettarsi a questo infame rituale; del resto, chi fa le pulci ai dischi doom o black focalizzandosi sugli aspetti meramente tecnici ha decisamente sbagliato indirizzo.
Ars Moriendi è un lavoro a suo modo sorprendente e che merita di arrivare alle orecchie degli appassionati del doom più oscuro e malevolo: gli Iteru però non si limitano a andare giù pesanti con un riffing monolitico, poiché il loro senso della melodia non è affatto trascurabile, così come la tendenza a creare passaggi emozionanti pur se collocati su uno sfondo per lo più minaccioso.
La conclusiva To the Gravewarden sembrerebbe essere è la traccia più canonica e relativamente più fruibile grazie ad una riconoscile e reiterata linea chitarristica, peccato che a metà dei suoi dieci minuti si trasformi in un devastante episodio all’insegna del più oscuro black metal, mentre l’iniziale Through the Duat rappresenta la vera e propria sintesi sonora dei biechi intenti degli Iteru.
We the Dead e Salvum Me oscillano tra arpeggi, sprazzi melodici e distruttivi e ineluttabile ferocia, andando a completare un quadro che raffigura un doom metal sicuramente non convenzionale e quindi piuttosto originale; le note di presentazione parlano di analogie con The Ruins Of Beverast, Urfaust, Blut Aus Nord ed Evoken ma, a seconda dei punti di vista, si può essere totalmente d’accordo o dissentire del tutto. Giusto così, non resta che lasciare ad ogni singolo ascoltatore la possibilità di farsi un’idea propria su un album davvero meritevole d’essere approfondito.

Tracklist:
1. Through the Duat
2. We the Dead
3. Salvum Me
4. To the Gravewarden

Painthing – Where Are You Now…?

Where Are You Now…? è un esordio ideale, che consente ai Painthing di piazzare una base già solida per un impianto compositivo che sembra avere i numeri necessari per crescere ulteriormente di livello in futuro.

Nel tirare le somme di una scena importante come quella polacca non si può fare a meno di notare come non abbia tutto sommato prodotto band di grande spessore in ambito funeral death doom, a differenza di quanto accaduto in altri generi.

Forse non riusciranno a modificare questo stato di cose i Painthing, ma il loro esordio su lunga distanza Where Are You Now…? possiede senza dubbio tutti i crismi per essere ricordato con piacere dagli appassionati del genere.
La band di Varsavia infatti fa per gran parte del lavoro quello che alla fine ci si aspetta, ovvero l’offerta di sonorità malinconiche ma non tragiche, contraddistinte da un buon gusto melodico e suonate e prodotte in maniera lineare, il che non vuol dire che siano scolastiche o scontate bensì ben focalizzate sull’obbiettivo di trasmettere emozioni, che è poi il target vero del genere.
I Paithing prendono come possibile riferimento, tra i molti disponibili, i When Nothing Remains, una delle band che in questo decennio ha saputo coniugare al meglio in senso melodico le asprezze del death con il dolente sentire del doom, e da questa base, pescando ovviamente anche altrove, si muovono fin dall’opener Between facendo intendere che il loro obiettivo verrà perseguito senza percorrere improbabili strade alternative.
Certo, anche qui troviamo le spesso famigerate clean vocals (il cui utilizzo da parte di molte band sembra quasi sia una sorta di pegno da pagare non si sa bene a chi, con esiti per lo più scoraggianti), ma per fortuna tutto sommato accettabili nelle loro sfumature e non improbabili come quelle che affossarono l’esordio dei connazionali Oktor, dei quali ritroviamo qui i fratelli Rajkow-Krzywicki, alle prese con la sezione ritmica.
Detto ciò, il growl di Kuba Grobelny è di ottima fattura e buona intelligibilità, cosi come è valido il lavoro chitarristico dello stesso vocalist e di Michał Świdnicki, quanto misurato ed essenziale quello tastieristico di Darek Ojdana; ed è così che, senza reinventare la ruota, i Painthing esibiscono per circa un’ora la loro intrigante idea di melodic death doom, facendosi ascoltare con un certo agio dall’inizio alla fine, con menzione di merito per una traccia coinvolgente come The Shell I Live In.
Where Are You Now…? è un esordio ideale, che consente alla band polacca di piazzare una base già solida per un impianto compositivo che sembra avere i numeri necessari per crescere ulteriormente di livello in futuro.

Tracklist:
1. Between
2. Widow And The King
3. Buzz And Madness
4. The Shell I Live In
5. Psychosis 4:48
6. Only Death Will Divide Us
7. To Live Is To Fight
8. So Be It

Line-up:
Michał Świdnicki – Guitars
Darek Ojdana – Keyboards
Kuba Grobelny – Vocals, Guitars
Jan Rajkow-Krzywicki – Bass
Jerzy Rajkow-Krzywicki – Drums

PAINTHING – Facebook