Veuve – Fathom

Raramente si ascolta un gruppo stoner con questa profondità, con questa capacità di cogliere qualche aspetto della realtà o del sogno in ogni canzone

I Veuve sono un trio di Pordenone attivo dal 2014 che suona un’interessante miscela di stoner, fuzz e space rock.

Quello che colpisce maggiormente in questo disco è la diversità dei suoni e la versatilità del gruppo, e soprattutto le piacevolissime melodie che si alternano a pezzi più pesanti. Fathom non ha un approccio solo, contiene molte cose che unite danno l’unicità dei Veuve, quel tono particolare che altri gruppi non possiedono. Con l’ascolto si possono cogliere le impalcature sonore che vi sono allestite, non vi è nulla lasciato al caso, la costruzione va avanti progressivamente ed in maniera incessante. Nonostante facciano un genere davvero abusato come lo stoner, i Veuve riescono ad essere molto originali, rivolgendosi a ciò che sta oltre il cielo e non a quello che sta sotto. Qui dimora un notevole senso di libertà, un sano escapismo che ci porta lontano da una vita che sta stretta, e grazie all’immaginazione e a un disco come Fathom si può andare lontano senza muoversi. I Veuve sono uno di quei gruppi che lavora incessantemente alla propria musica e lo si può ascoltare benissimo qui, dove tutto è curato fin nei minimi particolari. Raramente si ascolta un gruppo stoner con questa profondità, con questa capacità di cogliere qualche aspetto della realtà o del sogno in ogni canzone. Molto forte è anche il senso di melanconia, intesa come profonda comprensione della nostra limitatezza, che è infatti rappresentata dalla loro parte post rock, molto presente in canzoni come Following, un piccolo capolavoro. Diciamo che i Veuve potevano scegliere per una via più facile, magari facendo uno stoner più rapace, ma sicuramente non è il loro modo di agire, e quindi confezionano un disco profondo ed interessante, che copre molti lati della luna. Da ascoltare con molta attenzione.

Tracklist
1.Radars Are High
2.Taste Of Mud
3.Following
4.Death Of The Cosmonaut
5.Low In The Air
6.The Unseen
7.Into The Smoke

Line-up
Riccardo Quattrin – bass & vocals
Stefano Crovato – guitar
Andrea Carlin – drums

https://www.facebook.com/veuveband/

Goodbye Kings – A Moon Daguerreotype

Goodbye Kings ci lasciano un disco che parla di sogni e di verità, di lune e di sfumature in bianco e nero, ed un suono elegante che rilascia endorfine.

I Goodbye Kings sono un gruppo milanese che costruisce la propria musica attraverso le immagini, come se dovessero musicare un film od un romanzo.

Tutto ciò lo fanno attraverso un ottimo post rock che si congiunge con l’ambient e dalla narrazione di ampio respiro. Il progetto dietro il loro terzo disco è di svelare come la fotografia abbia permesso all’uomo di indagare sé stesso e la natura in maniera differente. Il loro post rock di ampie vedute è qualcosa che lascia un bellissimo gusto retrò, uno struggimento languido e caldo, un essere preso a braccetto da qualcosa di antico e che ti vuole bene. Ascoltando i Goodbye Kings si ha l’impressione di entrare in una bolla dove si è protetti dai mali del mondo esterno. In prima battuta perché i battiti al minuto si abbassano di molto, e si dà attenzione ai piccoli momenti musicali, ai particolari che si riescono a cogliere anche grazie alla sapiente masterizzazione di James Plotkin, che mise mano a lavori di Isis e Sunn O))). Non c’è solo dolcezza, ci sono anche le asperità che si esprimono con ripartenze rabbiose e diversi momenti di maggiore pathos. Il sound dei precedenti due dischi aveva indicato la rotta, e con A Moon Daguerreotype si perfeziona la traiettoria, che è una delle più interessanti in Italia, dato che un post rock dai risvolti jazz è molto difficile da proporre e ancora di più da trovare. Un’altra particolarità del gruppo è anche l’immaginario in bianco e nero, un’indagine sulle origini della nostra modernità e sulle cose che possiamo ancora essere. Un ottimo bilanciamento fra quiete e tempesta, con momenti che lasciano lo stampo sul cuore di un’era che vede troppo ma sente molto poco. I Goodbye Kings ci lasciano un disco che parla di sogni e di verità, di lune e di sfumature in bianco e nero, ed un suono elegante che rilascia endorfine.

Tracklist
1.Camera Obscura
2.Méliés, The Magician
3.Drawing With Light
4.Phantasma
5.Giphantie
6.Space Frame Natives
7.The Ancient Camera Of Mo Zi
8.A Moon Daguerreotype

Line-up
Davide Romagnoli – electric & acoustic guitars
Matteo Ravelli – drums, fx, percussions
Luca S. Allocca – guitars, synths
Luca Sguera – keyboards, synths, percussions
Riccardo Balzarin – guitars
Francesco Panconesi – sax
Alessandro Mazzieri – bass

GOODBYE KINGS – Facebook

Destroyer Of The Light – Mors Aeterna

Mors Aeterna è uno dei motivi per cui amiamo così tanto l’underground pesante.

Il terzo disco dei texani Destroyer Of The Light è semplicemente uno dei migliori dell’anno in ambito heavy.

Mors Aeterna possiede una profondità ed una complessità rarissimi da trovare in musica. Nati ad Austin in Texas, là dove per le imperscrutabili leggi del destino c’è una bellissima e florida scena musicale in uno degli stati americani più reazionari, nel 2012 i nostri sono uno di quei gruppi che compiono un’evoluzione continua e senza requie fin dai loro inizi. Nel disco troviamo stili musicali diversi, tutti funzionali al progetto superiore, come nella massoneria. Ed infatti l’occulto qui è presente in tutto, dal titolo alla copertina, dalle musiche ai testi. Mors Aeterna è una narrazione, una ricerca di qualcosa che va oltre le umane capacità ma che è insita in noi, ed in fondo l’importante è la ricerca più che lo scopo finale. Musicalmente si può trovare qualcosa come il post doom, ovvero doom fuso con il post rock, stoner, momenti di new wave, come anche di doom classico, oltre a molto altro. Quello che conta in questo caso è chiudere gli occhi ed ascoltare: ad esempio Falling Star è un pezzo commovente, un perfetto esempio di musica pesante fatta con il cuore e con il cervello posseduto da qualche entità di un’altra dimensione. Un’altra cose che colpisce dei Destroyer Of The Light è la delicatezza, la leggiadria con la quale si sviluppa la loro musica, sembra davvero che suonino con una grazie immane e bellissima. I loro suoni si diffondono nel cervello come una benefica droga oppiacea, non ci si preoccupa più di nulla, perfettamente allineati con il globo terracqueo e non solo. L’ascolto dell’album può essere fatto continuativamente, ma anche ogni singola canzone è indicata come terapia. Perché questo lavoro dei texani è qualcosa di terapico, e lo sanno fare solo i grandi gruppi. Mors Aeterna è uno dei motivi per cui amiamo così tanto l’underground pesante. Oltre all’insieme, la miriade di particolari e di intarsi distribuiti per tutto il disco vi garantiranno molti ascolti, grazie ai quali se ne comprenderà la natura profonda.

Tracklist
1. Overture Putrefactio
2. Dissolution
3. Afterlife
4. The Unknown
5. Falling Star
6. Burning Darkness
7. Pralaya’s Hymn
8. Loving the Void
9. Into the Abyss
10. Eternal Death

Line-up
Steve Colca: guitar/vocals
Keegan Kjeldsen: guitar
Penny Turner: drums
Nick Coffman: Bass

DESTROYER OF LIGHT – Facebook

A Violet Pine – Again

Again è un album minimale, a suo modo diretto e pervaso da lunghe jam strumentali tramite le quali la mente viaggia tra l’umidità della notte e l’impatto del sole sulla sabbia del deserto: un esperienza uditiva consigliata agli amanti dei suoni post rock e stoner.

Post grunge, rock, leggere distorsioni che si fanno spazio tra suoni desertici ed oscure palpitazioni notturne, sono le caratteristiche principali dei brani che compongono Again, terzo album dei rockers pugliesi A Violet Pine.

Sono passati quattro anni dal precedente lavoro e la band, ora composta da Giuseppe Procida (voce e chitarra), Francesco Yacopo Bizzoca (basso) e Paolo Ormas (batteria e tastiere) torna con un lavoro notturno, strumentale, sempre impossessato da quel demone stoner-gaze che ha sempre contraddistinto la musica del gruppo.
Un album che si inoltra senza paura nel rock dell’ultimo decennio del secolo scorso, immagazzinando influenze ed ispirazioni che vanno oltre i soliti nomi (tanto si ascolta dei seminali The God Machine del capolavoro Scenes From The Second Storey), pur tenendo ben presente nello spartito attimi di rock bagnato dalla pioggia di Seattle.
Un album notturno si diceva, atmosfere plumbee, umide anche se in lontananza il vento del deserto arriva a riscaldare brani come Run Dog Run! o la parte finale di Where Boys Steal Candles.
Again è un album minimale, a suo modo diretto e pervaso da lunghe jam strumentali tramite le quali la mente viaggia tra l’umidità della notte e l’impatto del sole sulla sabbia del deserto: un esperienza uditiva consigliata agli amanti dei suoni post rock e stoner.

Tracklist
01. Interstellar Love
02. Run Dog, Run!
03. Again
04. When Boys Steal Candles
05. Black Lips
06. Monster
07. Z00

Line-up
Giuseppe Procida – vocal, guitar
Francesco Yacopo Bizzoca – bass guitar
Paolo Ormas – drums, synth

A VIOLET PINE – Facebook

A Swarm Of The Sun – The Woods

Non sono suoni per tutti, è musica che parla ad anime che sanno agire dentro la sconfitta, ma è qualcosa di davvero valido e sentito, musica che è sentimento e vita, sangue vivo che scorre lentamente e fa uscire il calore.

A volte si ascoltano cose che ti lasciano qualcosa dentro, e rarissime volte si sente un disco che in pratica parla di cosa vivi o di cosa provi.

Questo lavoro del duo svedese A Swarm Of The Sun per ognuno può essere una cosa diversa, è un disco aperto a tutto, un libero fluire della coscienza di due persone che incontra altri flussi simili ed entrano in sintonia. La coppia parte dal post rock per arrivare all’ambient, ma soprattutto creano atmosfere basse, ansiogene, si è costantemente in pericolo, la salvezza è lontana, è un requiem che suona per noi. Le canzoni sono tre e misurano ognuna più di tredici minuti, sono delle suite che si sviluppano perfettamente, tre sogni che sospendono il tempo durante l’ascolto. A Swarm Of The Sun sono giunti al quarto album, sono un gruppo conosciuto ed apprezzato e portano avanti la via scandinava al post rock, che è una cosa diversa poiché incontra in maniera importante l’ambient, soprattutto nella composizione delle canzoni. La calma di alcuni momenti è ancora più terribile, il suono rarefatto del gruppo incide l’anima e ci fa tornare indietro a pensieri antichi. Si comincia ad ascoltare la canzone e non si riesce a smettere, come quando sei sotto ad un temporale e ti stai bagnando ma non puoi farne a meno. Non sono suoni per tutti, è musica che parla ad anime che sanno agire dentro la sconfitta, ma è qualcosa di davvero valido e sentito, musica che è sentimento e vita, sangue vivo che scorre lentamente e fa uscire il calore. Le soluzioni musicali del gruppo sono molteplici e tutte molto ben approfondite, non c’è nessuna derivazione, è tutto originale. Per capire, ci sono momenti nei quali ricordano alcune atmosfere dei Radiohead, soprattutto quelle in cui l’ascoltatore capisce in profondità cosa vogliono dire e ne è partecipe. Quando entra la voce nella terza canzone è davvero difficile non piangere lacrime di consapevolezza. Un disco che come un acido ad ognuno farà un effetto diverso, ma che è oggettivamente meraviglioso.

Tracklist
1.Blackout
2.The Woods
3.An Heir to the Throne

Line-up
Erik Nilsson
Jakob Berglund

A SWARM OF THE SUN – Facebook

Julinko – Nèktar

Nèktar è un disco che ha molte letture e regala tantissimi spunti diversi, è uno di quei dischi che porta l’ascoltatore lontano, in una terra dove le leggi fisiche non sono le stesse, un sogno che chiede di mutare forma per essere capito in fondo, un disco di musica bellissima e psichedelicamente altro.

Etereo, esoterico, dolce, lancinante e additivo viaggio messo in musica in maniera davvero originale per questo terzo disco della creatura sonica chiamata Julinko, il primo in forma di terzetto.

La dea musicale che ha dato avvio al tutto è Giulia Parin Zecchin, cantante, chitarrista e visionaria che fonda il gruppo a Praga nel 2015 e per varie tappe arriva a concepire questo piccolo capolavoro in una discografia già ottima. Il disco possiede un suono che fa nascere un universo tutto suo, lo stile musicale ingloba molte cose, molti rimandi e tante cose che rendono speciale il tutto. Per prima cosa spicca la voce di Giulia, che altro non è che una bellissima connessione ad un qualcosa di superiore, che si può capire solo se legato alla musica degli altri componenti del gruppo, Carlo Veneziano alla batteria e synth e Francesco Cescato al basso. Nèktar è un distillato di riverberi, psichedelia profonda e di un’oscurità che piano piano si prende tutto. C’è un senso di sogno, di visione alchemica che prepara a qualcosa d’altro, un non stare mai fermi in un mondo che vive nel buio e scava nei simboli. Come altri pochi esempi, Giulia è una sciamana che suona per far nascere o rinascere qualcosa di antico che è in noi dormiente. L’ispirazione del disco le è venuta in un momento di conoscenza indotta da agenti esterni ed interni che ha fatto diventare il Nèktar del titolo un percorso a ritroso dalla morte ad una nuova vita. Giulia taglia carni con la sua voce e la sua chitarra, che è come una spada oppiacea che uccide e fa godere, il resto del gruppo la segue benissimo, in un percorso che non può essere lineare, ma che è anzi scosceso e difficile come tutti i percorsi iniziatici. La musica è dolce e sinuosa, pericolosa e bellissima come il canto di una sirena. Musicalmente si segue una certa tradizione italiana fortemente underground che ha sempre dato ottimi frutti, quella di un certo tipo di psichedelia rumorista e lisergica di alta qualità. Nèktar è un disco che ha molte letture e regala tantissimi spunti diversi, è uno di quei lavori che porta l’ascoltatore lontano, in una terra dove le leggi fisiche non sono le stesse. Un sogno che chiede di mutare forma per essere capito in fondo, un disco di musica bellissima e psichedelicamente altro.

Tracklist
1.Into the Flowing Stream Plunge Me Deep
2.Deadly Romance
3.Venus’Throat
4.Leonard
5.The Hunt
6.Spirit
7.Servo
8.Death and Orpheus
9.The Woods, the Wheel
10.Nèktar

Line-up
Giulia Parin Zecchin – Guitar and Voice
Carlo Veneziano – Drums and Synth
Francesco Cescato – Bass

JULINKO – Facebook

A Day In Venice – III

Si parte dal post rock, ma non c’è solo quello, si va molto oltre, tenendo sempre come punto di partenza una melodia ed una dolcezza, carezze sotto la pioggia.

Terzo disco per il progetto post rock ed altro del chitarrista triestino Andrej Kralj, che lo ha iniziato nel 2013.

A Day In Venice è un concentrato di calma e tenebrosa bellezza, dal clima carico di sentimento e presentimento, per un’esperienza sonora originale ed inedita in Italia. Si parte dal post rock, ma non c’è solo quello, si va molto oltre, tenendo sempre come punto di partenza una melodia ed una dolcezza, carezze sotto la pioggia. Andrej suona tutti gli strumenti e il tutto è molto ben strutturato, dato che fornisce alla sua musica una veste molto particolare, non scadendo mai nell’ovvio, mentre troviamo alla voce Paolo Brembi, che arricchisce notevolmente i brani. Dentro a questo dolce disco troviamo anche tanto emo, nella sua accezione anni novanta, quando era un qualcosa di indie e di melodico che si fondeva con altri generi. Non c’è fretta qui, le ferite hanno tutto il tempo per cicatrizzarsi, e navigando dentro al nostro mare burrascoso abbiamo un porto chiamato A Day In Venice dove fermarci. In ogni canzone troviamo qualcosa di notevole, siano essi passaggi ben concatenati o più per esteso il sentire generale. Sottovalutare questo album sarebbe un grosso errore, soprattutto per le emozioni che provoca a chi ama la musica non convenzionale, e soprattutto quella che induce ad esprimere ciò che proviamo. I riferimenti sono sicuramente tanti, ma su tutti direi che i Radiohead hanno lasciato un’impronta indelebile su alcuni cuori che poi si sono messi a fare musica. Guardare il mare e le sue onde insieme a qualcun altro, sapendo che un appoggio c’è sempre: III riporta l’attenzione su noi stessi e su chi ci circonda, e questo disco potrebbe essere il vostro migliore amico.

Tracklist
1. Dark electricity
2. Walls of madness
3. Tunnel of ashy lights
4. Her body rocks
5. Prison is a red sky
6. I am nowhere in time
7. The golden stone
8. Temple of the dog
9. Far

Line-up
Andrej Kralj
Paolo Brembi

A DAY UN VENICE – Facebook

kNowhere – Spiral

Un sound intimista, sofferto e dalle atmosfere ombrose, che scivola liquido per poi sbattere contro muri di rock duro e drammatico, è quello che ci propone la band torinese, con sfumature grigie come il cielo autunnale della loro città avvolta in una sottile coltre di foschia dentro la quale è facile perdersi alla ricerca di sé.

Nella scena underground tricolore si stanno muovendo label sempre più professionali e con roster di tutto rispetto che spaziano tra molti dei generi che gravitano nell’universo rock/metal.

Una di quelle più attive attualmente è di sicuro la Volcano Records, rifugio per un numero importante di ottime realtà nazionali ed estere.
L’ultima proposta dell’etichetta napoletana sono I kNowhere, alternative band piemontese in uscita con un nuovo lavoro intitolato Spiral, con nove brani per poco più di trenta minuti in compagnia del loro alternative post rock, dal taglio dark in molti passaggi, ma legato all’alternative anni novanta e a gruppi come Biffy Clyro e God Machine.
Un sound intimista, sofferto e dalle atmosfere ombrose, che scivola liquido per poi sbattere contro muri di rock duro e drammatico, è quello che ci propone la band torinese, con sfumature grigie come il cielo autunnale della loro città avvolta in una sottile coltre di foschia dentro la quale è facile perdersi alla ricerca di sé.
Dall’opener The Fly alla conclusiva The Seed (da cui è stato estratto un video) i kNowhere ci invitano a seguirli tra atmosfere di sofferenza e ricerca interiore attraverso un post rock che non lesina atmosfere drammatiche e forza elettrica, sempre in un crescendo di notevole impatto.
The Sword è l’esempio di come la band, da sfumature post rock, accresca l’intensità fino ad esplosioni di alternative rock che si nutre di una drammatica elettricità che ci accompagna per tutta la durata di Spiral.
I kNowhere risultano quindi un altro centro da parte della Volcano Records e Spiral un lavoro emozionale e personale, assolutamente consigliato.

Tracklist
1. The Fly
2. Imploding
3. The Sword
4. Envy
5. Taking Time
6. Tsunami
7. Ulisse
8. Pride
9. The Seed

Line-up
Federico Cuffaro – Vocals, guitars
Bruno Chiaffredo – Drums, backing vocals

KNOWHERE – Facebook

Forlorn Seas – Exodus

Exodus è un buon inizio per i Forlorn Seas, con sette tracce ispirate che troveranno sicuramente il supporto degli amanti del metal moderno di matrice progressiva.

L’underground rock/metal riesce sempre a regalare ottime sorprese, magari in un momento di stanca come il periodo di fine anno quando di solito si tirano le somme dei dodici mesi trascorsi e si perde l’attenzione necessaria per assaporare nuove proposte.

I padovani Forlorn Seas sono una di queste, alla caccia di estimatori tra gli ascoltatori del metal progressivo di stampo moderno, un genere in cui il baratro della tecnica fine a sé stessa a danno di un sound più emotivo e fruibile diventa sempre più profondo; la giovane band se ne esce con questo lavoro maturo e passionale, nel quale la tecnica è al servizio di un metal dalle tinte dark e atmosferiche senza perdere quel tanto di carica estrema che basta per allontanare ogni dubbio sulla loro forza espressiva, bravi come si dimostrano nell’alternare metal estremo e post rock mantenendo la giusta tensione.
Non perdono il filo del discorso i musicisti veneti, rimanendo dentro i confini di un genere che trova nuova energia in brani come Lost Oracles, la seguente Oniricon o la più melodica Children Of Aton.
L’alternanza tra potenza elettrica ed armonie acustiche è quasi perfetta e permette all’ascoltatore di godere della musica del gruppo senza perdere la giusta attenzione, anche grazie al minutaggio non troppo elevato dei sette brani in programma.
Exodus è un buon inizio per i Forlorn Seas, con sette tracce ispirate che troveranno sicuramente il supporto degli amanti del metal moderno di matrice progressiva.

Tracklist
1.Lost Oracles
2.Oniricon
3.Children Of Atom
4.Crestfallen
5.Thirst
6.The Kingdom Below
7.Blossom

Line-up
Alberto Rondin – Vocals
Giovanni Lazzari – Guitar / Back vocals
Alessandro Casagrande – Guitar
Marco Michelotti – Drums
Nicola Guarino – Bass, Back vocals

FORLORN SEAS – Facebook

San Leo – Y

Si viene rapiti da queste frequenze, da questi suoni che sono chiavi di un software superiore, stati d’animo fusi con l’acciaio degli angeli, potentissime visioni minimali che lasciano stucchi dorati nella volta celeste.

Il duo riminese San Leo è un gruppo che usa la musica per contornare un universo profondo e tutto da scoprire.

Le composizioni sono molto ben strutturate e sono assolutamente slegate dalla forma canzone, possiedono un ritmo ed una vita tutta loro e molto particolare; questo è l’ultimo capitolo della trilogia comincia con XXIV nel 2015 e proseguita con Dom nel 2017, un lungo percorso esoterico di ricerca sia spirituale che musicale. La musica vera e profonda, con un significato anche nel suono oltre che in ciò che si vuole dire, è come questa dei San Leo, che non ha in pratica un genere di riferimento, ma scaturisce da una sorgente profonda che è arcaicamente insita dentro di noi. I titoli lunghi, in un’era come la nostra connotata dal simbolismo dell’eiaculazione precoce in cui tutto deve essere veloce e chiaro, sono già poesie e prese di posizione di per sé, e si accompagnano benissimo alla musica. Il duo chitarra e batteria è una forma diffusa nel mondo della musica, e ne abbiamo alcuni validi esempi anche qui in Italia, ma dimenticate ciò che avete sentito fino ad ora in questo ambito, perché questo è un processo alchemico che non vi lascerà come prima. Inutile cercare di usare qui la dicotomia musica facile e comprensibile versus musica difficile e intellettuale: qui c’è la musica che ricerca, che va incessantemente avanti, senza fermarsi per farsi acclamare. Le idee sono molte e tutte molto valide e ben congegnate, il dipanarsi della trama ha un senso ben compiuto, che però cela moltissimo di quello che non si vede e che si deve scoprire, e per tutti avrà un significato diverso, perché siamo tutti ricettori differenti. Si viene rapiti da queste frequenze, da questi suoni che sono chiavi di un software superiore, stati d’animo fusi con l’acciaio degli angeli, potentissime visioni minimali che lasciano stucchi dorati nella volta celeste. Y è un disco incredibile per una traiettoria musicale unica in Italia, supportata da varie e notevoli etichette italiane.

Tracklist
1) Una presenza, una doppia entità nascosta nell’ombra: tra le fenditure del legno risiedeva il riflesso
del vero volto
2) La lama in attesa, la vertigine di un gesto inesorabile, l’eco sinistra delle urla del re
3) Lasciami precipitare come pioggia di meteore: a me fuoco e distruzione, a me catastrofe e
rinascita
4) Nella risacca udì la voce della mutazione marina, un mormorio di ossa tramutate in conchiglie

Line-up
Marco Tabellini – guitar
Marco Migani – drums

SAN LEO – Facebook

Crippled Black Phoenix – The Great Escape

Ci sono concatenazioni sonore che sono tipiche del gruppo di Waters, Gilmour e soci, e poi c’è quel tocco in stile Mogwai in libera uscita che è qualcosa di bellissimo.

Quando sei un collettivo che annovera fra i propri membri molti nomi fra il meglio della scena psichedelica mondiale e specialmente quella inglese non è facile fare ottimi dischi e non sbagliarne uno, ma i Crippled Black Phoenix ci riescono anche questa volta.

Tutte le dilatate note di questo ultimo lavoro valgono la pena di essere ascoltate e sofferte, perché qui c’è il fumo che esce dallo specchio rotto delle nostre esistenze. Ogni disco del collettivo britannico ha rappresentato un episodio particolare e a sé stante, nel senso che ogni volta era uno splendido capitolo a parte, un qualcosa di assoluto. Il filo che lega tutti i loro dischi è la qualità, la bravura nel creare un’atmosfera oppiacea e particolarissima, e in The Great Escape ci si può immergere e non ne uscirete come prima. Qui siamo maggiormente nei territori dello slow core, ma con un disegno assai più ampio di quello a cui ci hanno abituato gli altri gruppi. Personalmente, e come tutte le visioni soggettive può essere sbagliata, ho sempre visto i Crippled Black Phoenix come la versione moderna e in certi frangenti migliore dei Pink Floyd, e questo lavoro rafforza ulteriormente la mia convinzione. Ci sono concatenazioni sonore che sono tipiche del gruppo di Waters, Gilmour e soci, e poi c’è quel tocco in stile Mogwai in libera uscita che è qualcosa di bellissimo. Come detto sopra ogni disco è a sé, e qui addirittura ogni canzone vive in uno proprio stato, sempre di grazia ma con sfumature diverse. Il lavoro questa volta è doppio, anche perché ogni canzone è di lunga durata, e questo gruppo riesce a fare brani di nove minuti come il singolo To You I Give ( sentite i primi due minuti della canzone e pensate a chi somigliano…) dei quali non si ha mai abbastanza. Nell’underground questo collettivo ha una grande e solida reputazione ed è più che meritata, ogni album è sempre ottimo e denota un ulteriore avanzamento. Il primo disco è più lento, nel secondo invece ci sono delle cose più veloci, quasi tribali, ma sempre uniche e particolari. I Crippled Balck Phoenix sono uno dei gruppi migliori e più originali della scena underground, da sentire e risentire sia questo disco che tutta la loro produzione.

Tracklist
1 You Brought It Upon Yourselves
2 To You I Give
3 Uncivil War (Pt I)
4 Madman
5 Times, They Are A’Raging
6 Rain Black, Reign Heavy
7 Slow Motion Breakdown
8 Nebulas
9 Las Diabolicas
10 Great Escape (Pt I)
11 Great Escape (Pt II)
12 Hunok Csataja (Bonus)
13 An Uncivil War (Pt. I & II) (Bonus)

Line-up:
Justin Greaves
Daniel Änghede
Mark Furnevall

Ben Wilsker
Tom Greenway
Jonas Stålhammar
Belinda Kordic
Helen Stanley

CRIPPLED BLACK PHOENIX – Facebook

Glasir – New Dark Age

E’ davvero difficile riuscire a rendere in maniera così compiuta l’idea concettuale che sta dietro ad un lavoro musicale senza proferire parola: i Glasir ci riescono splendidamente, aiutati da una rara chiarezza di intenti.

I texani Glasir avevano già raccolto importanti consensi all’epoca del loro esordio intitolato Unborn, grazie ad un’interpretazione personale e sentita di un genere quanti mai scivoloso come il post rock di natura strumentale.

Tre anni dopo il trio di Dallas ritorna con New Dark Age, album che a livello concettuale fotografa in maniera impietosa la condizione di un’umanità per lo più inconsapevole della propria insignificanza, specialmente nel momento in cui la natura sta presentando il conto di tutte le malefatte perpetrate nel corso degli ultimi secoli nei suo confronti in nome del progresso.
La musica è allora solo una panacea che può rendere più sopportabile il quotidiano risveglio ed affrontare un’era di oscurità etica che pare non avere alcuno sbocco; i Glasir provano a raccontarci questo con tre quarti d’ora di post rock liquido, apparentemente cullante ma in realtà pesantemente intriso idi inquietudine e di malinconia.
I sei brani si muovono lungo coordinate oblique, dove emergono suoni  e forme dissonanti (Into the Sun), reiterati arpeggi (Holy Chemistry), scenari prossimi all’ambient (Dissolution) e intriganti soluzioni ritmiche (The Last Firmament) che conducono al fulcro del lavoro, quella lunga Black Seas of Eternity, in cui i Glasir riversano tutto quanto è consentito a livello di idee e pulsioni dal loro indiscutibile talento compositivo, alla quale segue la conclusiva Hurt Us Again con il violino a renderne ancora più dolente l’incedere.
E’ davvero difficile riuscire a rendere in maniera così compiuta l’idea concettuale che sta dietro ad un lavoro musicale senza proferire parola: i Glasir ci riescono splendidamente, aiutati da una chiarezza di intentiE’ davvero difficile riuscire a rendere in maniera così compiuta l’idea concettuale che sta dietro ad un lavoro musicale senza proferire parola: i Glasir ci riescono splendidamente, aiutati da una chiarezza di intenti che rende paradossalmente lineare un sound tutt’altro che semplice, e da un artwork che restituisce i colori innaturali delle città moderne, in realtà ben diversi da quelli che il nostro occhio si ostina voler percepire.

Tracklist:
1.Into the Sun
2.Holy Chemistry
3.Dissolution
4.The Last Firmament
5.Black Seas of Eternity
6.Hurt Us Again

Line-up:
Austin Vanbebber: Drums
Conner McKibbin: Guitar
Nate Ferguson: Bass Guitar

GLASIR – Facebook

Sylvaine – Atoms Aligned, Coming Undone

La sensibilità artistica di Sylvaine si concretizza soprattutto nei brani in cui la sua eterea interpretazione è l’ideale completamento di un sound atmosferico e sognante, ma non dispiace neppure imbattersi in qualche ruvidezza che ci ricorda che anche le creature più angeliche nascondono un loro lato oscuro.

Quando ci si trova a dover parlare del disco di un’artista non proprio tra i più noti, il fatto che compaia tra gli ospiti invece qualche nome “pesante” spinge in maniera istintiva a fare accostamenti che talvolta si rivelano fuorvianti, soprattutto perché finiscono per spostare l’attenzione a margine degli album invece che focalizzarsi sui loro effettivi contenuti.

Il fatto che, ancora una volta, la brava ed affascinante Sylvaine si avvalga della collaborazione di Stephan Paut (alias Neige) rende automatico l’avvicinare il progetto solista della musicista norvegese agli Alcest; tale abbinamento è sicuramente fondato, ma non deve però far pensare però che tale imprimatur faccia scadere una album come Atoms Aligned, Coming Undone nel calderone delle copie sbiadite di una qualcosa di già sentito.
Il post rock/shoegaze di Sylvaine è più personale di quanto non possano farci presumere tutti questi indizi e se l’impronta melodica che traspare in gran parte del lavoro ci riconduce sicuramente nei pressi di Les Voyages de l’âme e dintorni, è fuor di dubbio che la suadente voce femminile ed un approccio molto più soffuso, talvolta rarefatto, conferiscono al tutto una fisionomia propria piuttosto lontana da una conclamata derivatività.
Non resta quindi che godersi l’incedere per lo più morbido, ma non privo di un fondo di inquietudine che (questo sì) è tratto comune di chi si cimenta con queste sonorità. La sensibilità artistica di Sylvaine si concretizza soprattutto nei brani in cui la sua eterea interpretazione è l’ideale completamento di un sound atmosferico e sognante (Worlds Collide, per esempio), ma non dispiace neppure imbattersi in qualche ruvidezza che ci ricorda che anche le creature più angeliche nascondono un loro lato oscuro, pronto a travolgerci con disperati soprassalti sonori (Mørklagt).
Se poi, alla fine, si tratta di rispondere a qualcuno che ci chiede se Atoms Aligned, Coming Undone sia un album consigliato agli estimatori degli Alcest e della conseguente genia, la risposta è ovviamente sì, ribadendo però con forza che quanto offerto da Sylvaine non è solo una bella copia bensì un’opera di grande qualità che è, semmai, un’importante alternativa ai nomi più noti in ambito post rock/shoegaze.

Tracklist:
1. Atoms Aligned, Coming Undone
2. Mørklagt
3. Abeyance
4. Worlds Collide
5. Severance
6. L’Appel du Vide

Line-up:
Sylvaine: vocals, guitars, synthesizers, bass, drums, percussion

Stephen Shepard: session drums on tracks 3 & 5
Stéphane “Neige” Paut: session drums on tracks 1, 2, 4 & 6

SYLVAINE – Facebook