ILSA – Corpse Fortress

Esordio su Relapse per ILSA, malevola creatura che racchiude un animo doom, sludge, crust e punk.

Gli ingredienti sono sempre i medesimi, doom impregnato di sludge e cosparso di scorie crust e punk,ma gli statunitensi ILSA li sanno maneggiare con perversa maestria.

La band nata nell’underground statunitense, giunge al quinto album e all’esordio sulla lunga distanza per Relapse (da ricordare nel 2016 anche uno split con i Coffins, altri maestri del genere, sempre sulla stessa etichetta) e lo fa miscelando, come al solito, ossessione per storie orrorifiche con partiture melmose, diaboliche, colme di soffocante feedback. Nove brani, quarantotto minuti laceranti, disturbanti fino dall’opener Hikikomori aperto da un classico riff doom, sommerso da un potente feedback e da una voce in growl straziata che crea un’atmosfera da incubo; le chitarre, oltre a generare riff si lasciano andare a parti soliste sinistre che mantengono alta la tensione, con la sezione ritmica sempre molto presente che prende il sopravvento i brani come Nasty, Brutish e Ruckenfigur, davvero due cingolati impazziti che travolgono tutto senza lasciare prigionieri. Il sound rimane sempre molto minaccioso, carico, non concede requie e trova le sue radici in act come Hooded Menace, Eyehategod, dove però la miscela appare meglio centrata; la band sa creare brani convincenti, soprattutto nella final track Drums of Dark Gods (magnifico titolo) dove il basso e la batteria trasportano l’ascoltatore verso profondi e innominabili abissi e la voce gorgoglia invocando … from the jaws of Leviathan the drums of Dark Gods. Un buon ascolto in definitiva, che purtroppo si perderà nella marea di uscite underground e verrà ricordato solo dai die-hard fans.

Tracklist
1. Hikikomori
2. Nasty, Brutish
3. Cosmos Antinomos
4. Prosector
5. Old Maid
6. Long Lost Friend
7. Rückenfigur
8. Polly Vaughn
9. Drums of Dark Gods

Line-up
Sharad – Bass
Joshy – Drums
Brendan – Guitars
Orion – Vocals
Tim – Guitars

ILSA – Facebook

Bhleg – Solarmegin

Seconda mastodontica opera del gruppo svedese dedicata alla celebrazione del Sole,fonte di vita per natura e uomini: black e folk ancestrale creano emozioni intense e dal fascino incredibile.

E’ molto coraggiosa la scelta degli svedesi Bhleg di proporre un doppio album come loro seconda opera in un mondo che vive veloce, che raramente si sofferma nel vivere emozioni, dolori e gioie: due dischi, novantotto minuti di suoni intensi e creativi, rappresentano una sfida di pazienza che molti non vogliono intraprendere.

E’ un peccato che tante note, tanti colori, tante emozioni potranno essere patrimonio di pochi fortunati che non si lasceranno intimorire dalla mole dell’opera; certe forme di black metal, in questo caso miscelate con antichi aromi folk, hanno bisogno di ripetuti ascolti, del giusto mood per poter essere comprese e apprezzate per entrare sotto pelle. Il duo svedese ha impiegato quattro anni per dare seguito al debutto “Draumr ást”, discreto e passato inosservato e ci presenta un’opera dedicata alla celebrazione del Sole visto come fonte di vita per la natura e gli uomini.
I testi in svedese rappresentano sicuramente un ostacolo per la totale comprensione ma la musica, non avanguardistica o sperimentale, traccia emozioni intense creando un percorso frastagliato nella natura dove pulsa una vitalità ancora incorrotta.
Intarsi di folklore ancestrale attraversano tutti i brani e delineano melodie che talvolta emergono nitide e terse, e altre volte rimangono appena percepibili nel tessuto black, sempre modulato su ritmi non particolarmente veloci; lo scream aspro è coinvolgente e mantiene alta la tensione.
I brani sono lunghi, raccontano un rituale e hanno interessanti e malinconiche parti chitarristiche svolte secondo i canoni del genere, mostrando atmosfere rimembranti il gelo e la freddezza della old school scandinava.
Composto durante la stagione estiva, tranne alcune parti durante il solstizio di inverno e registrato durante le ore più luminose del giorno, il disco mantiene alta l’attenzione durante la sua notevole durata a patto di avere il tempo giusto da dedicare; un frettoloso ascolto lascerà del tutto indifferenti e non farà apprezzare fino in fondo il gusto melodico, i chorus evocativi, i suoni creati dagli strumenti antichi utilizzati.
Ogni brano ha qualche caratteristica particolare, i suoni ambient di Skuggspel screziati da un synth immaginifico si aprono nella dolce fierezza di Solvagnens flykt, mentre gli arpeggi folk dell’ opener Alvstrale dimostrano una grande classe e confluiscono nelle note cariche di Sunnanljus di cui esiste anche un video.
In definitiva opera interessante che ricorda in alcune parti gli Ulver del capolavoro del 1995 “Bergtatt”.

Tracklist
Disc 1
1. Alvstråle
2. Sunnanljus
3. Alyr – helgedomen
4. Gudomlig grönska
5. Alstrande sol
6. Livslågans flammande sken
7. Kraftsång till sunna

Disc 2
1. Hymn till skymningen
2. Skuggspel
3. Solvagnens flykt
4. Kärleksrit
5. Frö (Växtlighetens fader)
6. Solens ankomst

Line-up
L – Lyrics & vocals
S – all instruments
Patrick Kullberg – drums

BHLEG – Facebook

Desolation Angels – King

Vecchi guerrieri che non mollano mai, che vogliono essere salvati dal loro “demon inside”. Gran bel ritorno di una leggenda minore della NWOBHM.

Vecchi guerrieri che non mollano mai, che vogliono essere salvati dal loro “demon inside”! Il ritorno di questa leggenda minore della NWOBHM, già avvenuto con l’EP del 2014 Sweeter the meat, si compie completamente per Dissonance Records che commercializza King, uscito l’estate scorsa sul sito della band.

Via ogni dubbio, il disco è bello, molto bello, ricco di freschezza, ricco di atmosfera, dove i due chitarristi originali (Robin Brancher e Keith Sharp) assemblano magnifiche canzoni nelle quali si mescolano antichi suoni con un tocco di modernità; il senso melodico dei Desolate Angels dà vita a brani trascinanti, energetici (Doomsday) e nei quali la voce espressiva e sentita del singer Paul Taylor (qualcuno lo ricorderà negli Elixir di Son of Odin) riempie la scena di emozioni importanti, come in Another turn of the screw, dove il lavoro intrecciato delle chitarre srotola note vibranti fino al delizioso assolo. Queste due songs che aprono l’opera ci fanno capire che la band ci crede, è convinta, se ne frega delle mode e ci vuole far viaggiare con la memoria ai primi anni 80, quando la band emerse in U.K.: due full length nel 1986 (Desolation Angels) e nel 1990 (While the flame still burns), poi il silenzio, interrotto dal box del 2008 Feels like thunder, ricco di demo, live e inediti. I musicisti hanno gusto, sanno suonare e il disco non conosce momenti di stanca: quarantacinque minuti di buone vibrazioni anche quando si rallentano i ritmi, ma non il coinvolgimento (Devil Sent); i toni convulsi di Your Blackened Heart e l’urgenza vocale di Taylor infiammano i cuori e già me la immagino in sede live far esplodere i piccoli locali dove presumo possano fare sfracelli. Le delicate e malinconiche note di Find your life esplodono in momenti di rabbia dove ci ammoniscono che è necessario …find your life, or be lost forever… mentre le killer song Hellfire e Sky of pain rammentano che l’arte del riff non è cosa per tutti. I toni più cupi di My demon inside  suggellano un gran ritorno che consiglio caldamente.

Tracklist
1. Doomsday
2. Another Turn of the Screw
3. Devil Sent
4. Rotten to the Core
5. Your Blackened Heart
6. Find Your Life
7. Hellfire
8. Sky of Pain
9. My Demon Inside

Line-up
Keith Sharp – Guitars
Robin Brancher – Guitars
Clive Pearson – Bass
Chris Takka – Drums
Paul Taylor – Vocals

DESOLATION ANGELS – Facebook

Visigoth – Conqueror’s Oath

I barbari statunitensi si ripresentano dopo due anni da The Revenant King con un buon lavoro devoto ai canoni dell’epic true heavy metal,roccioso e fiero, ma inferiore allo splendido esordio.

Duri come l’acciaio, i barbari di Salt Lake City si ripresentano dopo l’ottimo debutto del 2015, The Revenant King, con un nuovo disco forgiato con il classico epic true heavy metal.

Le radici sono profondamente immerse nel suono epic americano dei bei tempi e i cinque musicisti ripercorrono con grinta, tenacia e discreta personalità questa strada, sguainando riff devoti e abbastanza memorabili, vocals e chorus rocciosi e carichi di pathos: il loro intento è sincero e convinto, non volendo modificare le regole del genere ma solo scrivere canzoni battagliere e indomite. Otto brani per quaranta minuti di musica dal forte impatto energetico: fin dall’opener Steel and Silver i canoni del genere vengono rispettati, con grandi chitarre che tagliano l’aria con riff e assoli fortemente epici ed il vocalist Jake Rogers che intona fieri inni accompagnato da chorus che esaltano l’atmosfera.Tutti i brani sono di buon livello, tranne forse Salt City, un po’ fuori fuoco e più “easy”, ma le vere punte del lavoro si trovano in Warrior Queen (bel titolo) compatta e decisa nel suo incedere, con un bel interplay di chitarra che ha sentori di NWOBHM e un’interpretazione molto sentita di Rogers. La melodia iniziale di Traitor’s Gate, accompagnata dalle accusatorie vocals, esplode in un tornado irrefrenabile scandito dal chorus vibrante e teso per una song che alza la temperatura della battaglia e sarà memorabile in sede live. La velocissima Blades in the Night continua a infiammare gli animi e non concede tregua attraversata da assoli perentori, mentre la title track è un mid-tempo quasi marziale dove sono ripercorsi con inalterata fierezza i canoni del genere e nel quale non mancano momenti esaltanti, con chitarre tonanti e chorus il cui motto è “sing through our souls like thunder and blood”. Una classica ma splendida cover completa un buon lavoro che a mio parere rimane però al disotto del disco d’esordio.

Tracklist
1. Steel and Silver
2. Warrior Queen
3. Outlive Them All
4. Hammerforged
5. Traitor’s Gate
6. Salt City
7. Blades in the Night
8. The Conqueror’s Oath

Line-up
Jamison Palmer Guitars
Leeland Campana Guitars
Matthew Brown Brotherton Bass
Mikey Treseder Drums
Jake Rogers Vocals

VISOGOTH – Facebook

Ayat – Carry On, Carrion!

Dieci pallottole che deflagrano in faccia a chiunque abbia il coraggio di avvicinarsi a questo disco, frenetico, viscerale, urgente, incompromissorio.

Dieci pallottole che deflagrano in faccia a chiunque abbia il coraggio di avvicinarsi a questo disco, frenetico, viscerale, urgente, incompromissorio: Ayat proviene dal Libano, terra instabile, è un duo che proclama di suonare “bulldozer heavy metal” e lo fa con una ferocia senza pari generando brani che si nutrono di black, grind, death con una attitudine punk-hardcore molto pronunciata.

Sono arrivati dopo nove anni a produrre il loro secondo album per la statunitense Moribund Records e il carico d’odio è rimasto invariato, loro rimangono contro ogni “religious establishment” compreso l’Islam e contro il genere umano in genere. La musica è potente, non da un attimo di respiro, è furiosa, i riff si inseguono su blast beat incessanti, che si impastano con le vocals in scream aspre, vomitate che talvolta rallentano in parti salmodiate ancora più sinistre. Brani lunghi che fanno della violenza il loro credo dove si corre a rotta di collo senza soluzione di continuità, qualche rallentamento in verità molto raro, titoli esplicativi e indicativi della rabbia viscerale che scorre nel sangue dei due musicisti. Già dall’opener Raw Power  le carte si svelano e si rimane inebetiti di fronte alla decisione e alla potenza di fuoco dei musicisti; il disco prosegue deciso erogando energia distruttrice e annichilente (I Think I Killed Her, Aysha, Closure Is Boring). Nel quinto brano i toni, pur rimanendo tesissimi, diventano più cadenzati e aprono al “piece de resistence” di Jerusalem, di quasi sedici minuti, diviso in due parti, dove nella prima su una base musicale lenta e quasi marziale sono introdotti samples di vari commentatori statunitensi sull’Islam, su Israele e Palestina, mentre la seconda parte rappresenta la risposta della band a tutti questi commenti e qui i toni tornano a infiammarsi: una volta di più la rabbia e l’odio prendono il sopravvento, spazzando qualsiasi minimo residuo di umanità. In definitiva un concentrato di tensione e violenza per una band come Ayat (in arabo segno o miracolo) che rende la propria arte una ragione di vita.

Tracklist
1. Raw War (Beirut Unveils Her Pussy Once More)
2. Every Time a Child Says “I Don’t Believe in Allah” There Is a Little Allah Somewhere That Falls Down Dead
3. I Think I Killed Her
4. Aisha
5. Fever in Tangiers, or to William
6. Closure Is Boring
7. The Pig Who Had Miraculously Been Spared Decomposition
8. Jerusalem I
9. Jerusalem II
10. The First Art of Arrogance, Part II (The Apocalypse Is but an Ejaculation)

Line-up
Reverend Filthy Fuck – Vocals
Mullah Sadogoat – Guitars, Bass

AYAT – Facebook

Hamferð – Támsins likam

Gli Hamferð completano la trilogia concettuale sulla morte e sulla perdita e lo fanno con un capolavoro nel quale la parte strumentale è perfettamente bilanciata tra ardore e intimismo, con la voce di Jón Aldará ad incendiare i nostri sensi.

E’ un’opera di cristallina bellezza il terzo disco degli Hamferð, giunti con Támsins likam alla chiusura della trilogia concettuale dedicata alla morte e alla perdita.

A cinque anni da un disco meraviglioso come Evst il sestetto faroese, che nel frattempo ha sostituito il bassista, ora Ísak Petersen, ci regala un vero e proprio capolavoro di intensità e disperazione quasi insostenibili.
La storia tratta di una famiglia distrutta dalla perdita di un figlio, vista sia dalla parte del padre che della madre , la quale, per sopperire al dolore cerca conforto in entità soprannaturale del folklore isolano.
Il tutto è emozionalmente molto straziante e viene reso dalla band con un suono perfettamente equilibrato tra parti intime e solenni; il cantato faroese si dimostra un valore aggiunto ed è ulteriormente esaltato dal canto intenso e sentito di Jón Aldará, a mio parere tra i migliori singer sulla scena, il quale variando timbriche e toni inanella una serie di interpretazioni di altissimo livello.
I sei brani creano un pathos, una spiritualità che non ha eguali e fin dalla prima traccia Fylgisflog si rimane senza parole, quando note delicate di chitarra e violoncello tratteggiano una atmosfera in cui le clean vocals di Jon colpiscono profondamente, prima che il brano si incendi in un death doom intenso, dove il growl alternato al pulito timbro solenne lacera il cuore dell’ascoltatore; la musica raggiunge cosi alti livelli di angoscia da turbare nel profondo, i musicisti sono molto concentrati e convinti, le chitarre non suonano melodie accattivanti, ma ricercano e creano atmosfere che possano definire il senso di mancanza, la tragedia, la disperazione provata dai genitori per la loro perdita (da vedere il video di Frosthvarv per riuscire a comprendere appieno il significato del disco).
La band in una intervista ha affermato che l’ascolto di alcuni musicisti classici (Mahler, Rachmaninoff) ha contribuito alla creazione di un perfetto bilanciamento tra “bellezza, dissonanza e disperazione” e tutto questo si evince dal complessivo ascolto dell’ opera dove non una sola nota è sprecata, ma tutto è coinvolgente, volto a creare un assoluto quadro di disperazione e angoscia.
Le atmosfere intime e inquietanti di Frosthvarv, il canto solenne ed evocativo di Aldará in Tvístevndur meldur, nutrono il cuore di calde e uniche sensazioni, l’aggressività ammantata di angoscia di Hon syndrast ci ricorda che il death doom sa regalare emozioni uniche e, infine, gli abbondanti dieci minuti di Vápn í anda ci gettano in profondi abissi di sconforto suggellando un capolavoro.

Tracklist
1. Fylgisflog
2. Stygd
3. Tvístevndur meldur
4. Frosthvarv
5. Hon syndrast
6. Vápn í anda

Line-up
Remi Johannesen – Drums
John Egholm – Guitars
Theodor Kapnas – Guitars
Esmar Joensen – Keyboards
Jón Aldará – Vocals
Ísak Petersen – Bass

Hamferð – Facebook

Gribberiket – Sluket

Band norvegese notevolissima con forte personalità: doom, noise e black miscelati ad arte per un risultato originale e per nulla scontato.

Giusto ricordare, prima di essere inondati dalle nuove uscite del 2018, il disco d’esordio dei Gribberiket, strana creatura norvegese che nel 2013 aveva fatto uscire il demo in cassetta Knefall, ristampato poi su cd dalla Dead Seed che ora si occupa di commercializzare Sluket, il loro vero esordio, uscito sul finire del 2017.

Si tratta di un quartetto norvegese dotato di forte personalità, che li ha portati a elaborare un suono assolutamente fuori di testa, dove sono miscelati in modo urticante e malsano doom sghembo e noise, il tutto cosparso di inquietante black con rumori ed effetti a rendere il suono sinistro e intossicante; tre lunghi brani, con il corollario di due corti intermezzi, incendieranno il vostro cervello con un suono lento, distorto, fangoso, senza creare muri di suono ma lacerando lentamente i vostri sensi atterriti di fronte a tanta insanità. Le chitarre non hanno fretta, inanellano lenti riff inabissandosi in abissi di rumori e intanto il brano cresce in modo inquietante e la voce (?) strazia, squarcia, urla in norvegese terrificando l’atmosfera; la ritmica segue strade impervie creando rituali dove la tensione mozza il fiato. I sedici minuti abbondanti della final track, sublimano al meglio quanto detto, il brano è un vero e proprio “piece de resistence”, avanza inesorabile e interminabile, si alimenta delle urla che descrivono traiettorie desolanti e respingenti mentre le chitarre si inseguono e si intrecciano lente ed esasperate. Difficile descrivere a parole l’arte molto personale esibita dalla band, ma il tutto funziona bene; già il demo aveva fatto intravedere che il loro suono era originale e non aveva classici punti di riferimento. Come sempre l’underground cela band assolutamente uniche, che coltivano la loro visione incuranti del mondo che scorre attorno a loro.

Tracklist
1. Sluket
2. Gjestebud
3. See, der blev en død udbaaren
4. Med sine lidelser
5. Nytelsen og oppløsningen

Line-up:
Witchfucker Wangen – Bass
Gimp Molestor – Drums
Kybermensch – Guitars, Noises
SFS – Vocals, Guitars

Sinistro – Sangue Cássia

Terzo full length per i Sinistro, che affinano la propria capacità compositiva donandoci un doom atmosferico, personale, ricco di pathos e tensione, con vocals in portoghese: stupefacenti.

Band in costante e forte ascesa, i portoghesi Sinistro agli albori del nuovo anno consegnano ai nostri padiglioni auricolari il loro terzo full length, sempre per Season of Mist.

Visti dal vivo, di supporto ai Paradise Lost, mi avevano impressionato con un doom intenso e atmosferico accompagnato in modo molto efficace e teatrale dalla voce di Patricia Andrade, che nonostante le minute forme è in grado di ammaliare la platea con i suoi vocalizzi e le sue movenze. La band, con il nuovo Sangue Cassia ha ulteriormente affinato il lato compositivo, ancorando il proprio sound ad un doom molto atmosferico, fluido, sempre carico di tensione ma “addolcito” dalla cangiante vena interpretativa di Patricia, capace di donare a ogni brano un valore aggiunto; fin dai primi splendidi dieci minuti di Cosmos Controle, la parte strumentale molto carica e decisa viene seduttivamente accarezzata da vocals raffinate ed eleganti per creare un’atmosfera calda, trafitta da note di keyboard dal sentore cosmico. Il cantato in portoghese aggiunge una velo di tristezza e di mistero affascinante e la parte strumentale non erige muri di suono, ma spiega la propria possanza in modo calmo e imponente, cercando più l’atmosfera che la forza. I brani, otto, per quasi un’ora di musica, acquistano profondità con gli ascolti, le chitarre ricercano melodie non convenzionali interagendo con le tastiere e, ripeto, l’ interpretazione vocale è stupefacente, così intensa, ricca di pathos (Lotus) da trasportare la musica verso orizzonti sconfinati. Qualche aroma darkwave e cinematografico permea il lavoro, così come le ritmiche trip hop presenti in Nuvem danno un quid in più a questo bel disco.
In definitiva una band personale e il consiglio è quello di non perderla dal vivo, dove potrete gustare al meglio le capacità interpretative di Patricia.

Tracklist
1. Cosmos Controle
2. Lotus
3. Petalas
4. Vento Sul
5. Abismo
6. Nuvem
7. Gardenia
8. Cravo Carne

Line-up
RICK CHAIN – GUITAR
FERNANDO MATIAS – BASS
PAULO LAFAIA – DRUMS
PATRICIA ANDRADE -VOCALS
RICARDO MATIAS – GUITAR

SINISTRO – Facebook

Nortt – Endeligt

Sono passati dieci anni ma Nortt sembra ancora più convinto nell’esplorare oscuri e vuoti abissi, ove non risiedono speranza ma solo morte e desolazione.

Perfetta sound track per un viaggio nell’inquietudine e nella disperazione.

Dopo dieci anni di silenzio discografico, Nortt ritorna a raggelarci con la sua arte ricolma di note funeral, black e doom perfettamente miscelate a creare una dark ambient disturbante e lugubre.
Il musicista danese, dopo “Galgenfrist” del 2007, scarnifica ulteriormente il suo suono e con poche note e suoni minimalisti offre nove composizioni lente, profonde, strazianti, da sentire nel profondo del nostro io; è musica che ci porta a un confronto continuo con noi stessi, con le nostre paure, con le nostre vite senza punti di riferimento, con un vuoto interiore difficile se non impossibile da colmare.
Il senso di morte, di abbandono, di tragicità che permeano ogni nota vanno al di là di ogni descrizione su carta, ognuno ha dentro di sé la propria interpretazione di questo mondo, che nelle note di Nortt appare maledetto e in disfacimento morale e materiale.
Pochi suoni all’interno dei brani delineano scenari di sconfinata e lugubre tragicità che raggiungono vette emozionali laceranti: in Afdo un tocco epico aggiunge splendore e magnificenza.
Le atmosfere, già terrifiche fin dall’inizio, raggiungono picchi di gelo e desolazione con il passare dei minuti e gli ultimi tre brani rilasciano segnali di morte non comuni, inerpicandosi su suoni dark ambient che non hanno nulla di umano.
Nortt afferma che negli ultimi dieci anni non ha registrato alcunché in quanto ha vissuto in un mondo dove non aveva necessità di farlo; sono passati dieci anni ma la sua arte sembra ancora più convinta nell’esplorare oscuri e vuoti abissi, ove non risiedono speranza ma solo morte e desolazione. Un grande ritorno!

Tracklist
1. Andægtigt dødsfald
2. Lovsang til mørket
3. Kisteglad
4. Fra hæld til intet
5. Eftermæle
6. Afdø
7. Gravrøst
8. Støv for vinden
9. Endeligt

Line-up
Nortt Everything

NORTT – Facebook

Chaos Moon – Eschaton Mémoire

Grande ritorno della USBM band con un lavoro ricco di passione e personalità …opening the cosmic wound.

Una grande atmosfera e una eccezionale cover disegnata da Jef WhItehead (in arte Wrest dei Leviathan), rendono l’ascolto della nuova opera dei Chaos Moon un’esperienza trascendentale e lisergica; il monicker, attivo dal 2004 con il demo Chaos Rituals, contemplava solo la presenza di Alex Poole come mastermind del progetto e abbracciava maggiormente sonorità funeral che, nel tempo, sono state accantonate per un approccio al black metal molto particolare, con una forte propensione nel creare atmosfere insolite e personali.

Ora la band è diventata un quartetto e ci propone in tre brani, per quaranta minuti di musica, un’opera molto intensa, sofferta, con un suono freddo e con atmosfere nebbiose, frutto di un uso sapiente di synth e varia effettistica. La ricerca della band ha portato a concepire un’opera di un livello superiore, dove l’equilibrio tra un’atmosfera malsana, oscura, decadente e un black feroce, retto da un grande drumming, si mantiene costante senza cedimenti. I brani sono ben “costruiti”, sono fluidi, coinvolgenti e colpiscono sia il cuore che l’intelletto. Un magnifico pezzo come Of wrath and forbidden wisdom, nel suo maestoso ed inquietante sviluppo, crea atmosfere che possono ricordare alcuni temi emperoriani; lo scream accompagna in modo espressivo feroci riff che costantemente caricano il brano di oscura energia. La title track divisa in due momenti alterna furioso, ruvido e caotico black con momenti più pacati, condotti da linee di synth gelide e sferzanti. E’ un’opera che deve essere ascoltata nella sua interezza e con particolare attenzione perché le sensazioni che emana hanno un loro personale fascino: è sempre una sfida per il black riuscire a creare, da materiali noti, nuova e grande Arte Nera.

Tracklist
1. The Pillar, the Fall, and the Key I
2. The Pillar, the Fall, and the Key II
3. Of Wrath and Forbidden Wisdom
4. Eschaton Mémoire I
5. Eschaton Mémoire II

Line-up
Esoterica Guitars, Atmosphere
Jack Blackburn Drums
S.B. Guitars, Atmosphere
E.B. Vocals

CHAOS MOON – Facebook

Häive – Iätön

E’ realmente necessario che ogni ascoltatore “open minded” trovi un po’ di tempo da dedicare ad un’opera così affascinante di dark/folk intriso di black metal.

Dopo uno iato temporale di dieci anni, dopo una meraviglia come Mieli Maassa, uscito nel 2007, riemerge Häive, la creatura con cui esplora il suo mondo musicale il musicista finnico Janne ‘Varjosielu’ Väätäinen, che suona ogni strumento ed è accompagnato in alcune session vocali da Noitavasara.

Fin dalla cover, veramente splendida e particolare, siamo introdotti in un mondo magico di suoni e oscurità, dove l’artista esplora temi come la natura, la disperazione e l’oblio attraverso un intenso suono folk immerso in note black metal evocative e ricche di atmosfera. Otto brani, quaranta minuti di musica fuori dal tempo che non ha bisogno di furia e di tempi veloci per sviluppare il viaggio dell’artista; qui ci sono cristalline melodie folk, che si appoggiano su mid tempo intensi, fluidi e carichi di energia. Chi ha conosciuto e apprezzato la precedente release rimarrà, ancora una volta, estasiato, come il sottoscritto, di fronte alla grande capacità compositiva dell’artista, capace di variare le atmosfere all’interno dei brani, come nel terzo brano Lapin Kula, dove uno scream deciso accompagna una tersa melodia pregna di oscurità per poi, dopo un solo con aromi heavy metal, sfrangiarsi in note dark folk e aprirsi in note di chitarra molto evocative e desolate.
Le vocals sono in finnico e aggiungono un fascino peculiare ed arcano all’intero lavoro, donando quell’unicità, quella sensazione di un lavoro fuori dal tempo; qui non ci sono segnali di suoni classicamente atmosferici o parti post black, ma solo il viaggio di un musicista unico, dotato di classe cristallina, alla ricerca di una personale via per esprimere la sua visione della natura: la copertina interna del cd è esplicativa, con il musicista che ammira l’invernale natura incontaminata della sua terra. E’ realmente necessario che ogni ascoltatore “open minded” trovi un po’ di tempo da dedicare ad un’opera così affascinante, perché non resterà assolutamente deluso e attenderà pazientemente altri dieci anni per riassaporare queste emozioni uniche.

Tracklist
1. Iätön (Ageless)
2. Turma (Ruin)
3. Lapin Kouta (Kouta from Lapland)
4. Kuku, kultainen käkeni (Sing My Golden Bird)
5. Tuulen sanat (The Spell of Wind)
6. Salojen saari (Esoteric Isle)
7. Tuonen lehto, öinen lehto (Grove of Tuoni, Grove of Evening)
8. Virsi tammikuinen (Song of January)

Line-up
Varjosielu – Vocals, Guitars, Bass, Drums, Mouth harp, Kantele

HÄIVE – Facebook

Cold Cell – Those

Un’opera intensa, gelida carica di odio verso il genere umano dove…the lowliness of man is inviolable.

Band svizzera di Basilea, relativamente conosciuta, i Cold Cell giungono in quattro anni di attività al loro terzo full length e suonano, con sempre maggiore convinzione, un black metal molto dark, atmosferico e moderno.

Sono cinque musicisti che, pur non avendo una grande storia, tranne il batterista attivo nei Schammasch, splendida entità con un suo personale suono, hanno le idee chiare e ci propongono un’opera intensa, ben composta e ben suonata dispiegando un sound gelido, carico di malsane atmosfere e sferzato da taglienti chitarre molto ispirate. Il suono dei Cold Cell evolve in atmosfere plumbee, grigie, rimembranti desolati paesaggi metropolitani derivanti, secondo me, anche da alcuni oscuri aromi darkwave. Le vocals in scream sono molte, decise, cariche di odio e accompagnano perfettamente il suono di piccole perle come la lunga Tainted Thoughts dove toni incompromissori rappresentano la base per una violenta cavalcata piena di furore e ferocia; i brevi momenti in cui le chitarre si calmano sono carichi di tensione e lasciano l’ascoltatore atterrito di fronte a tanta cattiveria. La faccia moderna del black si nutre di concetti, come la perdita della coscienza, la morte della spiritualità, la disumana ferocia dell’ uomo e colpisce in modo profondo con un sound freddo che lacera e taglia con lame gelide ciò che rimane dell’animo umano; un brano disturbante come Sleep of Reason lascia una cupa disperazione e un mondo senza speranza alcuna di redenzione. L’angosciante Drought in the Heart annichilisce con una tangibile disperazione e ci fa apprezzare lo sforzo compositivo di questi musicisti provenienti da una stato che tanto ha dato e dà ancora alla musica estrema.

Tracklist
1. Growing Girth
2. Entity I
3. Seize the Whole
4. Tainted Thoughts
5. Sleep of Reason
6. Entity II
7. Drought in the Heart
8. Heritage

Line-up
In Bass, Vocals (backing), Keyboards
aW Drums
Ath Guitars
S Vocals
W4 Guitars

COLD CELL – Facebook

Bell Witch – Mirror Reaper

Opera magnifica intrisa di dolore, disperazione e desolazione.

La prova del terzo disco è sempre un esame difficile per molte band e gli statunitensi di Seattle, Bell Witch, vi giungono con l’animo colmo di disperazione e dolore dopo la dipartita del drummer e vocalist Adrian Guerra, avvenuta nel 2016.

La band, da sempre un duo, è attiva dal 2011 con l’omonimo demo e ha sempre proposto un personale e peculiare funeral doom molto intenso incentrato sul suono del basso suonato da Dylan Desmond, ora accompagnato da Jesse Shreibman alla batteria; chi ha seguito la loro carriera musicale avrà apprezzato le grandi capacità compositive e la grande inventiva riversata nei precedenti due dischi (Longing del 2012 e Four Phantoms del 2015), dove il suono del basso magistralmente suonato riempie totalmente gli spazi e crea lunghi brani molto affascinanti. Ora questo monumentale Mirror Reaper sposta il loro concetto di suono sondando ulteriori orizzonti; due brani, As Above e So Below per un totale di circa 84 minuti di musica, dall’alto contenuto emotivo, dove i temi trattati riguardano la vita e la morte, la desolazione e la disperazione. I paesaggi creati dai due musicisti rappresentano il dolore opprimente che pervade la loro anima lacerata dalla perdita del collega e amico. Non è un disco difficile, non ha nulla di sperimentale o avanguardistico, ma ha bisogno di tempo per entrare sottopelle, per invadere l’animo con la sua essenza spirituale. Il suono si dipana lento, introspettivo, meditativo con il basso che disegna poche note angosciose e opprimenti, con un’alternanza di pieni e vuoti sapientemente condotta. La prima parte dell’opera As Above si sviluppa come un ricordo di note che si alternano e si spengono una dietro l’altra in mezzo a una nebbia plumbea, dove non esiste una meta certa perché’ tutto si è interrotto in mezzo a dolenti lamenti; la tristezza è tangibile, si aprono varchi in altre dimensioni spirituali come specchi riflettenti un io diverso. Suoni di organo in sottofondo (novità per la band) diffondono strati di sofferenza e vuoto incolmabile caricando il viaggio di tensione e passione. Qui si evidenzia l’essenza del puro suono doom dove tutto si muove ma nel contempo appare immoto, dove tutto procede lentamente ma rimane carico di tensione; l’alternanza di growl e clean vocals, molto presenti nella seconda parte So Below, la presenza di alcuni chorus mantengono alta la tensione rendendo tutto oltremodo interessante, gli arabeschi del basso che germoglia poche lunghe note suonate col cuore, sviluppano una esperienza unica nel funeral doom. Il duo può ricordare a tratti gli Skeptcism o gli Shape of Despair per la capacità di aprire nella mente scenari e paesaggi di enorme desolazione ma la capacità di riuscire a farlo con una cosi parca strumentazione è unica. In definitiva un’ opera magnifica impreziosita da una mirabile e suggestiva cover dell’artista polacco Mariusz Lewandowski.

Tracklist
1.Mirror Reaper (As Above)
2.Mirror Reaper (So Below)

Line-up
Dylan Desmond Bass, Vocals
Jesse Shreibman Drums, Vocals, Organ

BELL WITCH – Facebook

Taake – Kong Vinter

Dopo tanti anni l’arte di Hoest, sempre sincera ed appassionata, convince ancora. con un’opera potente e ricca di inventiva.

Puntuale, ogni tre anni, ritorna Hoest, alias Taake , a deliziare i nostri padiglioni auricolari con la sua idea personale di black metal, ora con Kong Winter a livelli più consoni alla qualità dei suoi primi tre dischi veramente fondamentali per comprendere appieno la “second wave”dell’arte nera.

Come al solito, Hoest suona tutti gli strumenti e letteralmente riempie ogni brano con una miriade di riff tesi, simili a rasoiate; le sue idee melodiche sono sempre particolari e nel primo brano Sverdets Vei, potente e veloce, la parte centrale si apre in una parte melodica avvincente ed evocativa che cambia in toto la prospettiva del brano. Le intricate e serrate parti di Intrenger hanno un forte potere ipnotico nella loro ripetitività e danno un tocco molto groove, tipico della ricerca sonora intrapresa dall’artista, che memore delle radici del genere, cerca sempre di innestare un approccio progressivo nel tessuto sonoro dei suoi brani. Il suo non è un black metal atmosferico come è inteso oggi, spesso intriso di suoni post-metal, ma l’atmosfera che riesce a creare rimane gelida, carica come il miglior suono estremo scandinavo; potrà non piacere ai classici ricercatori del vero “true”, ma il sacro fuoco creativo non può non lasciare indifferente chi ricerca un’opera black, ben suonata e colma di inventiva. Hoest è sempre stato un personaggio controverso, un po’ una voce fuori dal coro ma la sua onestà artistica non può essere assolutamente messa in discussione. I primi tre dischi, che consiglio di riascoltare, sono dei veri classici e sono tasselli importanti nella evoluzione dell’arte nera; quest’ultimo album, accompagnata da una cover classica ma affascinante, non raggiunge i livelli qualitativi di quelle opere ma è lo sforzo sincero di un’artista che ha ancora molto da dire. A me il disco è piaciuto molto e consiglio di ascoltare con molta attenzione le cangianti atmosfere dell’ ultimo lungo brano Fra Bjoergegrend mot Glemselen per comprendere fino in fondo la magia dell’arte di Hoest.

Tracklist
1. Sverdets vei
2. Inntrenger
3. Huset i havet
4. Havet i huset
5. Jernhaand
6. Maanebrent
7. Fra bjoergegrend mot glemselen

Line-up
Hoest – All instruments, Vocals

TAAKE – Facebook

Urarv – AURUM

Aldrahn, il carismatico leader, afferma “we’re traveling to remote regions of metal music and mental space with this music”. Sono sicuramente sulla buona strada!

La faccia moderna del black metal è quella mostrata dai norvegesi Urarv che esordiscono, dopo un demo del 2016, con Aurum per la Svart Records: band nuova, ma capitanata da una “vecchia” conoscenza come Aldrahn, con illustre passato alle vocals e alle chitarre in Thorns, Dodheimsgard di Kronet Till Longe, Monumental Possession, A Umbra Omega senza dimenticare gli Zyklon-B.

Tutte band di alto livello alle prese con le diverse sfaccettature del black, dall’avantgarde all’ industrial e anche il nuovo progetto proclama con fierezza che l’arte nera ha sempre e ancora molto da dire. Opera potente, a suo modo visionaria, che in otto brani devastanti mostra sotto la superficie tante particolarità che possono essere colte dopo ripetute frequentazioni del disco; i ritmi martellanti carichi di tensione di Ancient DNA fanno da impalcatura per le linee melodiche nervose e spigolose della chitarra e le vocals, vero trademark, passano da veri e propri ululati a scenari deliranti, scagliando invettive piene di sinistro odio. Aldrahn ha un suo particolare stile, non è uno scream classico, ha una capacità interpretativa magnetica che identifica e rende peculiare ogni brano; in Broken Wand le linee vocali sono malevole e per niente rassicuranti, trascinando l’ascoltatore verso un abisso profondo, mentre la musica prodotta dal trio (Sturt al basso e Trish alla batteria) cavalca impetuosa per ricercare “uncharted territories”.
L’ inizio terremotante di Guru, nel suo impressionante divenire, scaglia proiettili incandescenti che annichiliscono il non prudente ascoltatore; le atmosfere gelide di Valens Tempel ricordano pagine indelebili del miglior black nordico, ma proiettano anche il suono verso spazi inesplorati, con vocals istrioniche e cangianti.
I nove minuti della finale Red Circle sublimano la ricerca sonora della band, con un suono teso, carico, dove la linea melodica si deve ricercare nel profondo della struttura e non affiora mai in superficie.
Band strana al di fuori dei normali canoni del genere, ma affascinante nella sua ricerca di un suono personale: credo però che il meglio debba ancora arrivare!

Tracklist
1. Forvitringstid
2. Ancient DNA
3. The Retortion
4. Broken Wand
5. Guru
6. Valens Tempel
7. Fancy Daggers
8. Red Circle

Line-up
Aldrahn – Guitars, Vocals
Sturt – Bass
Trish – Drums

URARV – Facebook

Blut Aus Nord – Deus Salutis Meæ

Chapeau a Vindsval, unica mente dei Blut Aus Nord che, dopo venti anni di musica estrema, dimostra una creatività senza pari, presentandoci un’opera breve ma intensa e ricca di stimoli emozionali.

Creatura mutevole i transalpini Blut Aus Nord, attivi ormai sulla scena black metal dal lontano 1995 con “Ultima Thulee”; da qualche album (la trilogia 777) tutto è nelle mani e nel multiforme ingegno di Vindsval, che dimostra anche in questa opera, Deus salutis meae, una grande capacità compositiva ed esecutiva sempre alla ricerca di sensazioni forti.

Nella loro lunga carriera discografica i Blut Aus Nord hanno sempre cercato di rielaborare il verbo black, allargando i confini della musica estrema; non si sono mai persi in derive convenzionali e con un un sacro fuoco interiore hanno dato vita a opere estreme sempre varie e di alta qualità, spingendo l’ascoltatore a continue sfide uditive ed emozionali. E’ il caso anche di questa opera, breve nei suoi trentatré minuti, ma molto intensa e densa nel definire un sound quasi alieno nel fondere death, aromi doom e black nella sua forma più industrial e meno raw; dieci brani, compresi tre intermezzi dai titoli in greco carichi di sonorità dark ambient. Fin dal primo vero brano, Chorea Macchabeorum, il suono è intrigante, sorprendente, distruttivo con fredde linee di synth, taglienti e potente drum machine; le linee vocali, non preponderanti in tutto l’album, sono sommerse dagli strumenti e fuoriescono sinistre e demoniache intessendo raggelanti litanie (Impius). Il suono ha qualcosa di alieno e demoniaco allo stesso tempo, il blend sonoro creato da Vindsval è unico ed è difficile a un primo ascolto, cogliere le tante sfumature nei brani, tutto è fuso in modo vitale e ha un qualcosa di allucinogeno; brani come Apostasis, violenti, carichi di suoni dissonanti ed obliqui, dimostrano che la musica estrema ha ancora molto da dire; i ritmi incalzanti si “ammorbidiscono” in Abisme e lambiscono territori doom titanici e carichi di tensione, dove non vi è alcuna speranza per il genere umano. Le traiettorie sonore che si intersecano in ogni brano danno un tocco avanguardistico, le lobotomizzanti schegge chitarristiche invitano alla catarsi e dimostrano una ricerca non comune, distante dalle recenti opere della band. Una cover virata su varie tonalità di grigio e nero, ad opera della artista ucraina Anna Levytska, dà un tocco visionario alla grande energia dell’opera. Vindsval offre un’ulteriore prova della sua grande vitalità artistica, che è lungi dall’essere esaurita, visto che sono annunciati la IV parte di Memoria Vetusta e un misterioso progetto a nome La lumiere sous le monde. Opera da ascoltare e metabolizzare con molta calma.

Tracklist
1. δημιουργός
2. Chorea Macchabeorum
3. Impius
4. γνῶσις
5. Apostasis
6. Abisme
7. Revelatio
8. ἡσυχασμός
9. Ex Tenebrae Lucis
10. Métanoïa

Line-up
W.D. Feld – Drums, Electronics, Keyboards
Vindsval – Guitars, Vocals
GhÖst – Bass
Thorns – Drums

BLUT AUS NORD – Facebook

Aphonic Threnody – Of Loss and Grief

Il death doom regala un’altra perla nel 2017 con il secondo full length degli Aphonic Threnody, band capace di raggiungere notevoli vette di lirismo e di emozioni.

Una delicata melodia ci introduce al secondo full length degli Aphonic Threnody e diventa subito complicato esprimere a parole il profondo senso di smarrimento di cui queste note si nutrono; la disperazione, l’abbattimento, il viaggio verso una profonda depressione che permeano i settantatré minuti di Of Loss and Grief  rappresentano uno specchio in cui l’ascoltatore deve riflettersi per catturare appieno l’arte della band, attiva dal 2013 con l’EP First Funeral.

Una creatura internazionale comprendente musicisti italiani, cileni e inglesi che, in questo disco, si circondano di ospiti provenienti da alcune tra le migliori band del settore (My Shameful, Worship, Mournful Congregation, Ataraxie, Alunah) per dare “vita” a un’opera intensa, affascinante e debitrice del migliore death doom degli anni 90 ammantato di oscurità funeral.
Il disagio emozionale è grande, così come è importante la capacità creativa dei musicisti che trovano sempre il “quid” giusto in ogni brano per farci intraprendere un viaggio carico di disperazione e dolore; non si inventa nulla di nuovo, ma colpisce la sensibilità e l’intensità della’arte espressa.
Il growl espressivo, presente in tutti i brani, colpisce profondamente e l’alternarsi con female vocals in All I’ve Loved dà un’ulteriore sapore tragico al brano, che pur iniziando con una melodia più limpida si inabissa in lidi doom di gran livello e in liriche di tristezza sconfinata … all I’ve loved is lost.
Brani lunghi con punte di circa venti minuti (Lies) in cui il suono si dipana lento, maestoso quando le chitarre erigono muri melodici ricchi di sfumature, sfrangiandosi talvolta in intarsi acustici e madrigaleschi molto suggestivi per poi lasciarsi andare in parti soliste cariche di lirismo e forza.
Nei sei brani non ci sono riempitivi, tutto è frutto di una vera e sentita ispirazione per il lato oscuro della vita che è in ognuno di noi e di cui l’ascoltatore del doom si alimenta costantemente. Le idee e i suoni fluiscono naturalmente, non vi è nulla di manieristico: questi brani raccontano un viaggio nelle miserie umane, nella perdita di ogni speranza, e un interminabile brano come Lies deve trovare l’ascoltatore predisposto verso questa forma d’arte che, in un mondo frenetico e spesso inconcludente, ha bisogno di essere metabolizzata lentamente per poter penetrare a fondo nell’anima. Disco perfetto per le fredde e umide serate novembrine.

Tracklist
1. Despondency
2. Life Stabbed Me Once Again
3. All I’ve Loved
4. Lies
5. Red Spirits in the Water
6. A Thousand Years Sleep

Line-up
Roberto Mura – vocals
Riccardo Veronese – bass\guitars
Juan Escobar – keys\vocals

APHONIC THRENODY – Facebook

Monarch – Never Forever

Ancora una buona prova da parte dei Monarch, gruppo culto di extreme doom europeo: convinti della loro arte ci regalano un’opera intensa, avvolgente nel suo drone-doom.

Nome di culto nella scena extreme doom europea, i francesi Monarch si ripresentano dopo Sabbracadaver del 2014, sempre per l’etichetta statunitense Profound Lore che continua, a ragione, a credere nella loro oscura arte.

La band, attiva ormai dal 2005, oggi con Never Forever ci propone un grandioso abisso di suoni drone stesi su un colossale e profondo doom e, come afferma la band, ci presenta “a new path to explore”. Cinque lunghi brani, ed il suono estenuante (non in accezione negativa) che viene prodotto si tinge di una vena melanconica e sinistra, dove le clean vocals, sussurrate ed eteree di Emilie Bresson, producono sinistre ambientazioni plumbee per nulla rassicuranti (Song to the void); il mood deve essere quello giusto per abbandonarsi e lasciarsi conquistare dalla profondità dei riff creati dalle due chitarre.
In questo disco risalta maggiormente , rispetto ai precedenti, l’importanza maggiore data alla struttura di brani che, nonostante il lungo minutaggio, mantengono forma e non perdono nulla in atmosfera, sempre spettrale e ossessiva. Il primo brano Of night, with knives è esemplificativo: lento, imponente, screziato dal lento salmodiare delle vocals, accompagnato da chorus intensi che si sfaldano su vocals sgraziate, si abbatte senza speranza sull’ascoltatore; l’atmosfera pesante mantiene una vena malinconica, non molto presente nei precedenti lavori, piuttosto intensa e inattesa. Gli altri tre brani presentano una band matura, conscia dei propri mezzi, che non teme di coverizzare in Diamant Noir il brano dei Kiss, Black Diamond, trasfigurandolo completamente e riducendolo in un qualcosa difficilmente riconducibile al brano originale. L’ultimo brano, Lilith, con i suoi venti minuti accentua l’iniziale componente drone creando un’atmosfera immobile e spettrale prima di far iniziare il viaggio verso luoghi con aromi di kosmische musik. In definitiva, ancora una buona prova da parte di musicisti capaci, con personalità e che amano ricercare il meglio dalla propria arte.

Tracklist
1. Of Night with Knives
2. Song of the Void
3. Cadaverine
4. Diamant Noir
5. Lilith

Line-up
Emilie Bresson – Vocals, Electronics
Shiran Kaïdine – Guitars
Miomio – Guitars
MicHell Bidegain – Bass
Benjamin Sablon – Drums

MONARCH – Facebook

Venenum – Trance of Death

Esordio che lascia a bocca aperta: la capacità esecutiva e compositiva della band tedesca sigla un’opera dove il death si contamina e si muta in un caleidoscopico mondo intenso, maestoso e ricco di emozioni.

Si sono presi tutto il tempo necessario, i Venenum, per esordire sulla lunga distanza: dopo un EP, uscito solo su cassetta nel 2011, hanno lavorato sul loro suono e ora, per Sepulchral Voice, presentano Trance of Death, cinquanta minuti di death di altissimo livello nel suo intreccio di note old school con aromi psichedelici, trash e progressive.

Il tempo sarà galantuomo, spero, perchè il full length è veramente di gran classe, ricco di idee, di suoni stratificati, intrecciati con una classe compositiva di primo livello. I musicisti sanno quello che vogliono, hanno la mente aperta a svariate contaminazioni, non si abbandonano a funambolismi o a inutili tecnicismi ma sono concentrati nello sviluppare un distillato di death oscuro, aggressivo amalgamandolo con mille idee sempre coese con lo sviluppo del brano, per un risultato intenso e maestoso. Fanno parte della stessa famiglia di band come Execration, Obliteration, Tribulation, tutte entità che non si accontentano di proporre il lato brutale del suono della morte ma lo aprono a mutazioni e contaminazioni. Il suono si mantiene potente, aggressivo, ottimamente condotto da una coppia di chitarre che si muovono impazzite ricercando linee melodiche cariche di oscuri presagi (Merging Nebular Drapes), mentre il growl deciso accompagna noi ascoltatori in un mondo grigio e desolato. Due brani come The Nature of the Ground e Cold Threat, al di là dell’impatto terremotante con un drumming preciso, vario e potente, contengono tanti cambi di atmosfera sia nelle parti veloci che lente, che hanno bisogno di tempo per essere completamente apprezzati. L’apoteosi e la totale sublimazione della loro arte è nella title track divisa in tre parti, per ventisei minuti caleidoscopici dove la band ci regala una interpretazione epica, maestosa, densa: la prima parte, Reflections, è disumana nella sua potenza, le linee melodiche toccano lidi voivodiani creando suoni ultraterreni. La seconda parte, Metanoia Journey, si abbandona a una vena maggiormente progressive ammorbidendo i toni ma non l’inventiva; intriganti suoni di tastier aggiungono ulteriore sapore alla tavolozza dei colori. L’inizio lento ma carico di tensione della terza parte, There are other worlds, è ingannevole perché il gruppo scatena la propria forza inerpicandosi su strade acide e psichedeliche, forgiando atmosfere dilanianti sempre colme di inventiva in cui le chitarre si rincorrono, si attorcigliano sempre in cerca di… other worlds. Un esordio che lascia a bocca aperta !!!

Tracklist
1. Entrance
2. Merging Nebular Drapes
3. The Nature of the Ground
4. Cold Threat
5. Trance of Death, Part I – Reflections
6. Trance of Death, Part II – Metanola Journey
7. Trance of Death, Part III – There Are Other Worlds…

Line-up
H.L. Songwriting (tracks 2, 3, 5)
F.J.L. Drums
P.T. Guitars
F.S.A. Vocals, Bass
D.P. Guitars, Keyboards

VENENUM – Facebook

Dead Woman’s Ditch – Seo Mere Saetan

Folklore albionico, horror, doom, sludge e black: ecco la ricetta per un buonissimo esordio da una band con grandi potenzialità.

Una cupa cover, opera dell’artista rumena Luciana Nedelea, già autrice nel 2017 delle copertine di Digir Gidim, Ghost Bath e Scath na Deithe, ci introduce all’opera prima sulla lunga distanza dei Dead Woman’s Ditch, quartetto albionico attivo dal 2014 con tre demo disponibili in digital download.

La band, originaria del Somerset, prende il suo peculiare nome dal folklore della zona ricco di storie oscure e orrorifiche: il ditch si trova nelle Quantock Hills e ha contenuto il corpo senza sepoltura, per un anno e un giorno, di Sarah Walford uccisa dal marito John nel 1789. Questa insana storia rappresenta l’immaginario di questo side project creato dal chitarrista Glenn Charman, noto per aver suonato il basso nei grandi Electric Wizard dal 2012 al 2014; gli altri musicisti presenti, pur non avendo ugual notorietà, accompagnano con competenza il percorso musicale. Il suono creato è intrigante e miscela con buone capacità compositive doom, sludge, black e intensi aromi psichedelici. I brani sono intensi e insinuanti, entrano lentamente sottopelle e lasciano un’atmosfera che non si dimentica facilmente, marcando in modo indelebile i nostri sensi. Fin dal primo brano, The Ugly Truths, la band colpisce con linee melodiche sinistre e colme di di visioni orrorifiche, potenziando il tutto con uno sgraziato scream, alternato a un ruvido clean; i tempi sono lenti e dilatati e si sfibrano in parti elettroacustiche che accentuano la tensione del brano. Anche gli altri cinque brani ammantano l’atmosfera di insano orrore, avvolgendoci in una brumosa attesa colma di sinistri presagi; l’andamento profondamente doom e le vocals salmodianti sfregiate da influssi black di We Are Forgiven sono la rappresentazione di una lenta ascesa verso un patibolo ricolmo di indicibili sofferenze. Break The Mind e Mr.Ripper, con i loro influssi marcatamente sludge, si attorcigliano addosso impedendoci di muoverci e respirare e le chitarre marcano il territorio con pregevoli linee melodiche acide e visionarie. L’ultimo brano Crusade, ben oltre gli undici minuti di durata, rincara la dose rielaborando tutti gli ingredienti fin qui usati e offrendoci un lento, desolato viaggio dove le chitarre riempiono l’aria con note intense, inquiete e acide, soprattutto nella parte finale nella quale registrazioni audio sovrapposte chiudono il cerchio di un orrore senza fine. Buonissimo esordio per una band dalle grandi potenzialità.

Tracklist
1. The Ugly Truths
2. Failed to Rot
3. We Are Forgiven
4. Break the Mind
5. Mr. Kipper
6. Crusade

Line-up
Glenn Charman – vocals,guitar,noise
George Rhone – vocals,guitar
Chris Rust – bass
Robin Corbet – drums

DEAD WOMAN’S DITCH – Facebook