VV.AA. – A TRIBUTE TO BURZUM

La Compilation di cover della band di Vikernes – in uscita il 21 Novembre per il noto Antichrist Magazine – contiene ben 17 band provenienti da tutto il mondo (compresa una special guest d’eccezione: la bellissima e misteriosamente gotica pianista e compositrice berlinese, Katarina Gubanova). Ce n’è per tutti i gusti. Dai Burzum elementali e primevi dell’Omonimo e di Aske, passando poi per tutte le fasi di ispirazione Ambient, sino ad arrivare al periodo Folk/Viking dei giorni nostri.

Ad essere sincero, ho sempre pensato che il Tributo alla band icona di turno, dovesse per forza essere un omaggio a chi oggi non esiste più.

Un ossequioso dono sacrificale ad un’entità musicale del passato e che oggi esiste solo nei ricordi e nelle memorie dei fan. In realtà, continuo ad essere contraddetto e smentito, dalla valanga di album-tributo che escono ogni giorno, dedicati a compositori, strumentisti e band ancora molto attive, ai giorni nostri. Il Tributo spesso viene definito come l’atto che viene compiuto per adempiere ad un obbligo (in genere di carattere morale) verso qualcuno, a riconoscenza dei suoi meriti; forse sarebbe più azzeccato omaggiare il ricordo, di chi oggi non c’è più, o almeno non risulta essere più in attività…Vero è che la parola Tributo (dal latino “tributus”, derivazione di “tribus” – Tribù), spesso identifica anche l’appartenenza alla tribù. Oggi come tutti sappiamo, i Burzum non sono più in attività (l’ultima produzione risale al 2015, con il singolo Thulean Mysteries, dopodiché più nulla sino alla dichiarazione ufficiale di giugno di quest’anno di Mr. Varg Vikernes, nella quale ci informava che il progetto fosse giunto al termine, dopo ben 27 anni). In questo contesto, collocherei l’album, oggetto della recensione, ergendolo a simbolo di un’esigenza popolare, sicuramente maturata negli anni, di poter esprimere, sia tutta la devozione della tribù del Black Metal verso il loro idolo indiscusso, sia una sorta di necessità atta a sottolineare la “proprietà” (in senso ovviamente lato) dell’immensa opera che ci ha lasciato. Come a dire :”devoti alla nostra divinità e proprietari/custodi di ciò che ci ha lasciato in eredità”.
La Compilation di cover della band di Vikernes – in uscita il 21 Novembre per il noto Antichrist Magazine – contiene ben 17 band provenienti da tutto il mondo (compresa una special guest d’eccezione: la bellissima e misteriosamente gotica pianista e compositrice berlinese, Katarina Gubanova). Ce n’è per tutti i gusti. Dai Burzum elementali e primevi dell’Omonimo e di Aske, passando poi per tutte le fasi di ispirazione Ambient, sino ad arrivare al periodo Folk/Viking dei giorni nostri. Dall’Olanda gli ottimi blacksters Yaotzin, ci propongono Hvis lyset tar oss, in una versione fedelissima della title-track del capolavoro datato 1994. I truci tedeschi Khald, band della nera regione di Baden-Württemberg, rileggono Jesus’ Tod (in lingua madre Jesu død) dall’album Filosofem (1996), uno dei più grandi lavori dell’artista norvegese in ambito Black e Dark Ambient, in maniera leggermente più sinfonica (l’iniziale tremolo di Vikernes viene qui principalmente sostituito dai synth), perdendo un po’ il Raw, ma ottenendo comunque un pezzo di uguale impatto. Balzo in avanti negli anni (siamo nel 2010) con gli ucraini Atra Mors e con Belus’ død, tratta ovviamente da Belus (2010), primo album pubblicato dopo la scarcerazione di Varg, e originariamente uscito con il titolo Den Hvite Guden (“Il Dio Bianco”, in lingua norvegese), e quindi ennesima revisione del riff già presente su Dauði Baldrs (per scelta, Vikernes decise qui di ripetere paro paro il riff della canzone del 1997). Molto Black classico e poco Burzum di quegli anni, ad onor del vero. Malinconia e ricordi nella cover degli americani Aetranok che dei 10 minuti ed oltre di A Lost Forgotten Sad Spirit (dall’ep Aske del 1993) fanno copia ed incolla (da notare la voce del singer Meretrix, davvero simile a Burzum) e meritano l’acquisto del loro nuovo album “Kingdoms of the Black Sepulcher” uscito per la Symbol of Domination. Prima song tratta dall’album eponimo del 1992 (Feeble Screams from Forests Unknown) per gli olandesi Myrkur Skógur, riletta in chiave più moderna; la cover risulta piacevole, ma il suono più pulito ne impoverisce un po’ la cupa atmosfera degli esordi del signore di Bergen. I terribili “chiodati” vichinghi Wan dalla vicina Svezia, giocano facile e rivivono Stemmen fra tårnet (Aske) “alla scandinava”; il risultato è un pezzo che pare fuoriuscito direttamente dal 1993. I sinfonici germano/norvegesi Dynasty of Darkness scelgono Dunkelheit (titolo originale “Burzum”, da Filosofem), ovviamente il brano più Ambient dell’album, senza però perdersi in troppo arzigogolate ruffiane armonie, mantenendo la terrificante desolazione, che il brano originale esprime in ogni sua singola nota. Chi ama il tremolo ama My Journey To The Stars (Burzum). Qui i bravissimi germanici Mournful Winter sciorinano una tecnica sopraffina, senza però far perdere alla song il pathos originale. Con curiosità e attenzione critica mi appropinquo all’ascolto della cover di Han Som Reiste (da Det som engang var – 1993) il capolavoro strumentale dell’artista con l”A” maiuscola. I Colotyphus (Ucraina) purtroppo ne rovinano l’arcano fascino medioevale, riducendo il pezzo ad un classico (e scontato) brano di Dark Ambient sinfonico. Il sapiente utilizzo del basso non come semplice base ritmica, ma come strumento portante di tutto l’eterno corpo della canzone (più di 11 minuti) e gloriosa anima di dimenticate epopee guerresche, fece la fortuna di Glemselens Elv (Belus) ergendola ad uno dei più fulgidi esempi di Viking Metal (molto Bathoriano ad onor del vero). Purtroppo il seppur bravissimo duo dell’Arizona (Unholy Baptism) cede alla tentazione, e dà risalto alle sole chitarre per riproporre il meravigliosamente ossessivo giro di basso, così in evidenza nel brano originale. Un peccato perché, davvero, gli autori di …On the Precipice of the Ancient Abyss, sono un ottimo gruppo da tenere d’occhio. I terrificanti Bestia si cimentano nel tentativo di ripetere il successo primevo di Beholding The Daughters Of The Firmament (Filosofem); il brano, sicuramente uno dei più funerei e doom di tutto l’album, appariva già da principio inadatto al quartetto estone, fautore di un Black Metal con influenze Brutal Death; il pezzo viene rivisitato, ritmato ed infarcito di synth, facendone un buon pezzo Black, ma che nulla c’entra con l’originale. Anche il cantato schizoide di Vikernes, viene qui sostituito da uno dei più classici scream. Peccato. La brevissima War (da Burzum), vero pezzo Bathoriano appartenente alla First Wave of Black Metal, è stato scelto dai bravissimi Chaoscraft. Qui i greci dimostrano di sapere il fatto loro e di conoscere molto bene le loro origini e le loro fonti ispiratrici. Resta un mistero conoscere il motivo per il quale, per il pezzo Vanvidd (Fallen – 2011), sia stata chiamata una band di Melodic Death, invece che scegliere una tra le miriadi di band Black provenienti dalla Colombia. Qui i Thy Unmasked di Bogotà, ce la mettono tutta, ed il risultato ovviamente non poteva che essere un mix di Black e Death; bello si, ma lontano dalle idee di Varg. Quando ho letto Uruk-Hai ho pensato (con piacere) immediatamente ai bravissimi corpsepaint blacksters spagnoli; in realtà di tratta di un’altra band, ossia i Medieval Dark Ambient austriaci. Scelta comunque azzeccata per il brano Hermoðr á Helferð (Dauði Baldrs – 1997), che si collocherebbe alla perfezione tra le fila delle produzioni della one-man band di Linz. Un lungo salto nel 2012, per ascoltare la cover di Valgaldr, da Umskiptar, uno degli album più folk viking metal del Nostro. Scelta azzeccata con gli ungheresi Eclipse of The Sun, band che propone un sound molto ricco e variegato, tra il Folk, il Gothic e il Doom. Eccellente. Il Bielorusso Darkus (alias Stanislaŭ Semeniaha), unico membro dei blackster Imšar, si cimenta con un brano tratto da Det som engang var, ossia En Ring Til Å Herske. Il brano si sa, è nero e funereo come la morte stessa, drammaticamente lento e angosciosamente ripetitivo, e fortunatamente Mr. Darkus non ne storpia troppo la lugubre natura mortuaria; forse un po’ meno andante e un po’ più adagio, e sarebbe stato perfetto. Special guest a chiusura della compilation, la pianista berlinese Katarina Gubanova che, grazie al magico utilizzo dei suoi polpastrelli, rilegge Ea, Lord of the Depths (da Burzum) in chiave sinfonica per pianoforte: brano curioso e ammaliante, chiude un devoto tributo al Re del Male, spesso non proprio centrato, ma nel complesso un buon prodotto per i fan dei Burzum e per chi vuole scoprire nuove realtà Black, sino ad oggi ancora poco conosciute.

Tracklist
1. Yaotzin (Netherlands) Hvis lyset tar oss
2. Kâhld (Germany) Jesus’ Tod
3. Atra Mors (Ukraine) Belus’ Dod
4. Aetranok (USA) A Lost Forgotten Sad Spirit
5. Myrkur Skógur (Netherlands) Feeble Screams from Forests Unknown
6. Wan (Sweden) Stemmen Fra Taarnet
7. Dynasty of Darkness (Germany / Norway) Dunkelheit
8. Mournful Winter (Germany) My Journey To The Stars
9. Colotyphus (Ukraine) Han Som Reiste
10. Unholy Baptism (USA) Glemselens Elv
11. Bestia (Estonia) Beholding The Daughters Of The Firmament
12. Chaoscraft (Greece) War
13. Thy Unmasked (Colombia) Vanvidd
14. Uruk-Hai (Austria) Hermodr A Helferd
15. Eclipse of The Sun (Hungary) Valgaldr (Song of the Fallen)
16. Imšar (Belarus) En Ring Til Å Herske
17. + special guest:
Katarina Gubanova (Germany) Ea, Lord of the Depths

ANTICHRIST MAGAZINE – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=cHNZE0s4w_8

BLACK FUNERAL – THE DUST AND DARKNESS

Prodotto dalla gloriosa ed attivissima Iron Bonehead, The Dust And The Darkness contiene 4 tracce di pura acherontea malvagità.

L’amore spassionato per occultismo, satanismo (più precisamente per il “Luciferianismo”) e vampirismo, costituisce l’anima di tutta la produzione del leader del duo di Houston.

Baron Drakkonian Abaddon (alias Michael W. Ford), voce, basso ed effetti del combo, è un appassionato delle scienze occulte e di tutto ciò che graviti intorno al Satanismo e all’Esoterismo più arcano e imperscrutabile. Un Aleister Crowley dei giorni nostri, autore di numerosi libri sull’argomento e proprietario della Luciefrian Apotheca (www.luciferianapotheca.com – negozio online adatto a chiunque si voglia sbizzarrire nell’acquistare testi esoterici, oggetti satanici, incensi, erbe misteriose e così via, ed organizzarsi un Sabba casalingo), non poteva che essere contemporaneamente il front-man di numerose famose band Black Metal americane (Darkness Enshroud, Empire Of Blood e i concittadini Valefor per citarne alcune). In tutte le sue produzioni, le tematiche sopra citate, costituiscono il leitmotiv, il motivo conduttore di tutta la sua attività da strumentista, attiva da oramai 25 anni. Tutta la sua vita risulta imperniata dal tenebroso interesse per le pratiche di magia nera che, negli anni, ne hanno influenzato anche la vita privata. Sposato inizialmente con quella che viene definita un “primeva strega” dei giorni nostri, la medium Lux Ferro (alias Elda Isela Ford), scrittrice di libri esoterici e compositrice per alcune band dedite ad arcane sonorità rituali (tra cui i dark dance Psychonaut 75), Mr. Ford dedicherà la maggior parte dei suoi sforzi e delle sue attenzioni al progetto Black Funeral, oggetto di questa recensione, di cui la moglie ne è stata – seppur per un breve periodo – anche cantante.
Coadiuvato da Mr. Azgorh Drakenhof, polistrumentista australiano già proprietario dell’etichetta Dark Adversary Productions, ma soprattutto leader incontrastato della one-man band Drowning the Light, la più famosa (e prolifica) band della terra dei canguri, Abaddon ci dona questo ep ricco di nere atmosfere, occulte ambientazioni e malvagie auree, che farà sicuramente la gioia di dei fan più legati al Black Ambient più nero e tetro, ottimamente arricchito di empi rimandi ritualistici, sprigionanti nere icore direttamente provenienti dai più oscuri antri dell’Inferno.
Prodotto dalla gloriosa ed attivissima Iron Bonehead, contiene 4 tracce di pura acherontea malvagità. Dankuis Daganzipas (dalla lingua Ittita -Dark Earth) è un elogio rituale alle malvagie divinità dell’antico e misterioso popolo dell’Anatolia. Intro tribale per Alanni Goddess of the Underworld, un pezzo che si dipana su 3 minuti e mezzo circa di classico cupo Black Metal in pieno stile old school scandinavo. Versi infernali che presumibilmente gorgogliano blasfemie, annunciano l’ingresso di Chemosh of the Dust and Darkness: un elogio al Dio dei Moabiti, popolazione vissuta circa tremila anni fa sulle rive del Mar Morto, più precisamente sull’attuale altopiano del Kerak. Oscuro Dio della distruzione, a cui venivano dedicati sacrifici umani, viene qui idolatrato grazie ad un Black veloce, senza particolari fronzoli e senza nessuna tregua; un suono corvino come l’animo della divinità stessa, spesso etichettata come “abominio di Moab”, che non lascia dubbi sulla sua antica empia malvagità. Sfumature classiche in Mistress of the Pit, vero cantico consacrato ad una non ben definita nera regina dell’Abisso. Nulla a che vedere con il Black Metal nel senso stretto del termine. Cupe armonie cullate da un sapiente uso dei sinth, ne fanno un pezzo di ottimo Dark Ambient che ci strugge di malinconia e instilla nei più sensibili, desideri di abbandono all’eterno sonno, avvolti dal crepuscolo.
Un mini album di buona fattura che potrà accendere la curiosità di chi prima non si è mai accostato al sound del combo americano. Black ed Ambient in una cagliostrica miscela che appassionerà tanti, e che forse li condurrà alla scoperta della loro intera produzione (9 full-length e svariate produzioni minori).

Tracklist
1. Dankuis Daganzipas (Dark Earth)
2. Alanni Goddess of the Underworld
3. Chemosh of the Dust and Darkness
4. Mistress of the Pit

Line-up
Baron Drakkonian Abaddon (Michael Ford Nachttoter) – Vocals, Bass, Electronics
Azgorh Drakenhof – Guitars, Bass, Keyboards

BLACK FUNERAL – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=5SDv0JFqqUo

MINERVIUM – ETERNO E OMEGA

Buon ep d’esordio per questo combo black metal di Catanzaro. Un primo passo, sicuramente non falso, che molto ci racconta delle espressioni tipiche del genere mediterraneo, sia per liriche e tematiche proposte, che per linguaggio e manifestazione musicale

Quando si parla di black metal immediatamente si pensa a satanismo, anticristianesimo, occultismo o a tematiche (spesso molto care ad un certo black francese) più legate a stati d’animo umani connessi con la depressione, la disforia, la grigia malinconia e frequentemente anche misoginia, odio, avversione nei confronti di tutto e tutti (il cosiddetto “Anti”).

Ma quando ci si appropinqua a band provenienti dalla Grecia e, appunto, dalla nostra penisola, si può spesso incappare in produzioni fortemente influenzate dall’antichità classica (Magna Grecia ed Impero Romano).
I Minervium – già il nome ci riconduce immediatamente ad una precisa fase storica del nostro Paese – non fanno eccezione.
La Colonia Minervia, o più semplicemente Minervium, fu un territorio romano (inizialmente conosciuto come Solacium, città del letterato Cassiodoro – siamo circa cent’anni prima di Cristo) sito proprio sulla costa ionica, poco più a sud di Catanzaro, città natale della band, composta da Vulr (voce, all’anagrafe Kristian Barrese), Antonius Pan (chitarra), Angelo Bilotta (batteria) e Gianluca Molè (basso).
Apprezzando indubbiamente il loro attaccamento alla propria terra natia, ammiriamo volentieri il black metal da loro proposto – cantato in italiano – sicuramente di ottima fattura. Il combo, esplicitamente influenzato da quella che io definisco “fascia mediterranea” (Portogallo, Grecia e ovviamente Italia su tutte), esordisce con questo ep di 5 tracks, uscito oggi in formato digitale, ma previsto su cd il prossimo gennaio per l’attivissima russa Narcoleptica Productions (già label di band quali Darkestrah, Ritual americani e di altre 50 bands circa).
Dopo l’intro Il canto del mare (un melodico arpeggio, cullato dal leggiadro suono di onde che si infrangono sulla battigia), la prima vera track Invocando il passato, mostra fin da principio, quanto i nostri abbiano a cuore miscelare ad uno dei più classici black metal, viete atmosfere, momenti di secolare doom e nostalgiche malinconie di un antico nostro passato che fu. Anche le successive due canzoni (Cenere e la title track) paiono impregnate di vetusto passato, dove l’Antico ne imbeve ogni singola nota. Interitus (dal latino = annientamento) , ultimo breve momento strumentale di veloce black, più che categorico annullamento, a chiusura definitiva, ci appare come un nuovo inizio, un trait d’union con la prossima produzione, quasi che fosse l’attacco iniziale della prima track di un imminente probabile futuro album.
Non manca nulla: tremolo, scream, blast beat, up-tempo e mid-tempo, sapientemente alternati, armonicamente amalgamati, e soprattutto ben bilanciati, per non indurre mai l’ascoltatore, né alla noia e al sonno indotti dalla ripetitività dei tempi cadenzati, né alla schizofrenica monotonia delle hyper velocità fini a se stesse. Sonnamboliche atmosfere contornano tutto l’album, e il cantato in italiano clean spesso rende il tutto ancor più arcaico, d’un fascino remoto.
L’ascolto è piacevole, le sonorità sono limpide e la definizione musicale dei singoli strumenti ripone indubbiamente a loro favore. Una produzione all’altezza, ci permette inoltre di apprezzare le buone capacità tecniche dei ragazzi di Catanzaro. Ovvio, non siamo di fronte all’album che sconvolgerà le masse (è comunque un mini-album di esordio, ricordiamolo), ma sicuramente arricchisce la nostra scena, e propone una “new entry” che potrà dire la sua, in un futuro prossimo, in un scena, quella del black nostrano, sempre più imperiosamente ai vertici mondiali del genere.
In attesa di un full-length, ci godiamo appieno il nuovo arrivato, ma che profuma di antichi aromi e di primeve fragranze musicali.

Tracklist
1. Il canto del mare
2. Invocando il passato
3. Cenere
4. Eterno e omega
5. Interitus

Line-up
Gianluca M. – Bass
Angelo B. – Drums
Antonius Pan – Guitars
Vulr – Vocals

MINERVIUM – Facebook

METEORE: MESTEMA

I fratelli sfortunati di Massacra e Mercyless. Breve apparizione di 4 anni sulla scena Death Transalpina e 4 demo di ottima fattura. Scioltisi troppo presto e senza alcuna produzione su vinile. Da ricordare per conoscere meglio la scena Death Metal francese di allora.

Penso tutti sappiano cosa sia una meteora. Un corpo celeste che entrando nella nostra atmosfera si incendia a causa dell’attrito e con elevata velocità  passa alla nostra vista seducendoci con la sua bellezza per poi scomparire. La meteora può passare accanto al nostro pianeta senza impattarlo mai, in alcuni casi può anche creare sconvolgimento e panico colpendolo. In senso musicale molte ne sono cadute ed a volte ancora ne cadono sul pentagramma della storia della musica. Questa rubrica vuole essere uno strumento astronomico in grado di individuarle e permetterci di analizzarle, catalogarle per capire se saranno in grado di colpirci oppure solamente sfiorarci per poi morire.

MESTEMA

I Mestema, combo francese nato nel 1988, sono quello che di più si avvicinerebbe ai divini connazionali Massacra, avessero solo avuto un po’ più di fortuna e non si fossero fermati alla demo, come unica loro produzione. Autori di un ottimo Death Metal di tipico stampo transalpino, “spalmato” su 4 demotapes, i Mestema ebbero davvero vita breve. Unicamente 4 anni “on the road” e poi più nulla. Ci lasciano in eredità 4 nastri, tra cui The way of stupidity, forse la demo che riscosse a quel tempo i maggiori successi (era il 1991). Nel combo unicamente Pierre Lopez (basso e voce) David Kempf (batteria) vantano qualche partecipazione di rilievo in band note: Mr. Lopez in “Sure to be sure” dei francesi Mercyless (album del 2000) e Mr. Kempf in C.O.L.D. sempre della band di Max Otero (siamo nel 1996) e una breve collaborazione con i Neoclassici Dark Ambient parigini Elend (ma nessuna attiva partecipazione come strumentista, anche perché questi ultimi non utilizzano batteria…).

Discography:
Horrifying Sight – Demo – 1990
Horrifying Sight / The Way of Stupidity Split Demo – Demo – 1991
The Way of Stupidity – Demo – 1991
Mestema – Demo – 1992

Line-up
Pierre – Bass, Vocals
David – Drums
Thierry – Guitars
Christian – Guitars, Vocals

https://www.youtube.com/watch?v=74NKphfxhkk

Ordinul Negru – Faustian Nights

Dopo Sorcery of Darkness, album che ha sancito definitivamente il passaggio da one-man band a vero e proprio combo, gli Ordinul Negru ci donano un’altra perla di black metal maturo, mai scontato, coinvolgente ed ammagliante.

Fulmineos, fronmant degli Ordinul Negru (ed ex voce e chitarra dal 2010 al 2013 degli storici Negura Bunget) è sicuramente un polistrumentista ed un artista fuori dal comune.

Una carriera di quasi trent’anni, incentrata pressoché unicamente nell’ambito del black metal; una serie di band (se ne contano almeno 15 tra le più famose) e con alle spalle almeno 50 produzioni (tra full-length, split, demo ed ep) e una spiazzante semplicità nel passare da uno strumento ad un altro (dalla chitarra al basso, dalla batteria alle tastiere, senza dimenticare la costante “vocals” in quasi tutte le sue band, di cui spesso è anche stato compositore di musiche e liriche) hanno reso questo artista, negli anni, una vera e propria icona del genere e fonte di ispirazione per molte band , anche al di fuori della stessa Romania.
Amante della lettura, della pittura Impressionista e di quella Surrealista, assiduo frequentatore di musei ed accanito cinefilo, Fulmineos ha da sempre arricchito ed impreziosito le sue composizioni, grazie alla sua grande cultura poliedrica.
Come detto, la sua attività di musicista si è incentrata pressoché completamente in ambito black, sebbene alcune sue band presenti e passate, subiscano forti influenze folk (Fogland), Industrial (Ekasia) e death (Apollinic Rites), con qualche strizzatina d’occhio a post metal, gothic, atmospheric e ambient.
In tutta franchezza, ci si può permettere di spaziare in così tanti generi e sottogeneri musicali, suonando differenti strumenti, unicamente quando ispirazione artistica, vena compositiva e capacità strumentali, sono parte integrante del proprio DNA.
Nati come one-man band, e rimasti tali sino all’album del 2011 (Nostalgia of the Fullmoon Nights), gli Ordinul Negru vantano ben 8 album, moltissimi split (guarda caso alcuni dei quali realizzati proprio con gli altri gruppi di Fulmineos), un ep e un demo. Il genere proposto è black metal con connotazioni esplicitamente mediterranee (molto Rotting Christ, ad essere sinceri) e tematiche sempre orientate verso i lati oscuri e più arcani della natura e dei miti ad essa connessi (come Dioniso, il Dio Greco della natura, della danza e del vino, forse meglio conosciuto – ed amato… – col nome di Bacco).
L’ultimo album Faustian Nights – uscito per la rumena Loud Rage Music – si dipana su 8 tracce della durata totale di circa 47 minuti.
Antiche magie ed oscuri poteri correlati ad una natura non sempre benevola, riferimenti alle mitologie greche, nonché espliciti nessi a personaggi della storia romana (“Burn it! Burn the city of Rome!”. Quasi un omaggio a Nerone nella track Oculta Kormos) costituiscono l’immutabile costante del pensiero del compositore.
Approaching the Door of Damnation (unico pezzo che vede come main vocalist il nuovo membro Urmuz – già seconda chitarra degli O.N.- e non Fulmineos) fin dai primi secondi ci accompagna in una mortuaria passeggiata verso la porta della dannazione eterna. Illusi dai primi accordi dall’incedere funereo, che ci fa presumere di essere di fronte ad un classico funeral black, crolliamo di fronte ad un esplosione di up-tempo black tiratissimi. E qui, la seconda illusione, interpretando (erroneamente) i primi lentissimi secondi del pezzo, come una semplice intro di una traccia di hyper black che ci induce in una corsa sfrenata, ci sfracelliamo contro un miscellaneous musicale, rimbalzando tra up-tempo, mid-tempo, momenti industrial, atmosfere nuovamente funerarie e sapiente utilizzo dei synth, che ci accompagnano per tutti gli 8 minuti del pezzo, quasi fossimo personaggi della “Danza Macabra”, famoso dipinto dell’introverso gotico pittore cinquecentesco, Baschenis de Averara, indotti al tenebroso ballo da ghignanti scheletri, simboli della Morte Sovrana.
Killing Tristan rappresenta l’omicidio della felicità. Un bellissimo black mediterraneo, fa da cornice ad una vera condanna verso tutto ciò che è speranza e ricerca della gioia. Un mid-tempo centrale ornato da meravigliosi orpelli melodici, smentisce drasticamente nientepopodimeno che Sant’Agostino, annichilendo chi, come molti di noi, trovò nella sua “De Beata Vita”, scampoli di speranza sulla ricerca della felicità.
In The Apocalypse Through a Hierophant’s Eye, ci caliamo in uno dei più misteriosi culti della storia. Lo ierofante, capo religioso supremo dell’antichissima Attica e potente sacerdote del culto misterico degli Eleusi, ci descrive, tra scream e voci clean, l’Apocalisse a noi miseri postulanti, come ineluttabile fine della Creazione. Il Demiurgo Fulmineos, sapiente musicista, ci indottrina sui culti esoterici, attraverso sonorità che danzano tra black metal e scaltri accorgimenti atmosferici, che rendono questa nostra iniziazione ancor più agonizzante.
Riappaiono bruscamente i Rotting Christ in Oculta Kormos, sublime traccia di maestoso black atmosferico. Qui si abbandona l’esoterismo e la cultura greca, per essere violentati dalla terribile consapevolezza che tutto ha una fine e noi, arsi vivi come Roma da Nerone, non siamo che vittime sacrificate all’arte dell’autocrate romano (“From peoples sacrifices I make my art!”).
Elder Magik segue la scia del precedente. Primordiali riti magici, di cui si è perso memoria, ci rimandano alla favolosa As If By Magic dei signori del black metal ellenico. Incalzanti mid-tempo, sostenuti da ritmiche thrash e da una doppia cassa, potente ma suonata con estrema lucidità e sagacia da Putrid, alias Andrei Jumugă, rendono il pezzo un maestoso omaggio al capolavoro A Dead Poem.
Faceless Metamorphosis sfreccia senza timori, come un razzo interstellare di nera musica, concedendo all’ascoltatore pochissime pause. Velocità mostruose e tremolo, feroci blast beat intervallati da brevi e gelidi mid-tempo, in cui il parlato talvolta sostituisce volentieri lo scream, incoronano la traccia come vero ed unico momento di black metal scandinavo di tutto l’album.
Sol Omnia Regit (il Sole regola ogni cosa, o meglio tutto dipende dal Sole) premia tutti gli amanti del black più atmosferico. La sensazione e la consapevolezza della fragilità umana, difronte all’incombenza della natura e della grandiosità del cosmo, ci annichiliscono con l’incedere della canzone, con un impianto musicale così maiestatico e monumentale, che non ci impone di leggerne il testo, per apprenderne l’immenso senso cosmico. Potrebbe anche essere un momento solo strumentale, privo quindi di lyrics esplicative ed illuminanti, tale è imponente nella sua struttura, che ci ricorda mestamente l’infinitesimale limitatezza della nostra natura umana.
La title track omaggia le notti del protagonista dell’Opera Prima di Goethe, spese tra cupi pensieri e difficili scelte tra studi intrapresi tra alchimia, filosofia e teologia, e l’oscura tentazione di accedere ai misteri della natura attraverso l’indagine e la lettura di antichi trattati sulla magia. Qui subentra il miglior Fulmineos che, attraverso le sue sopraffine doti compositive e la sua grande cultura a tutto tondo riesce, parafrasando il profondo sibillino significato dell’Opera (la natura nasconde oscuri segreti a cui accedervi è concesso unicamente tramite il Maligno – Faust invoca un elementale, accorgendosi poi di aver invece evocato Mefistofele stesso), a donarci un meraviglioso ma malvagio affresco di marmorei suoni, dolorose litanie, invocazioni musicali e magiche fosche melodie, che chiudono maestosamente questo splendido album.

Tracklist
1.Approaching the Door of Damnation
2.Killing Tristan
3.The Apocalypse Through a Hierophant’s Eye
4.Oculta Kormos
5.Elder Magik
6.Faceless Metamorphosis
7.Sol Omnia Regit
8.Faustian Nights

Line-up
Fulmineos – Guitars, Vocals, Lyrics (except track 1)
Putrid – Drums, Percussion
Orthros – Bass
Urmuz – Guitars, Vocals

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Black Howling – Return of Primordial Stillness

Il Black Metal portoghese non tradisce mai, con una band che, attiva dal 2003, ha saputo imporsi per doti tecniche, originalità, mutevolezza e grandi capacità evolutive, in una scena concorrenziale ricchissima, dove la numerosità di attori principali, costituisce il cast del colossal musicale Lusitano.

Se ipotizzassimo di tracciare linee immaginarie sulla cartina dell’Europa, per definire le macro fasce geografiche del genere Black Metal del Vecchio Continente, potremmo (almeno) individuare tre zone: la fascia Scandinava, il Centro Europa e l’area Mediterranea.

Ed è proprio in quest’ultima che una nazione come il Portogallo, risulterebbe seconda a nessuna (probabilmente al livello di Grecia e appena sopra il Bel Paese).
Un terra antica – la Lusitania – nata in epoca preromana, popolata da abitanti affini sì agli antichi Iberi, ma con connotazioni religiose, sociali e culturali pressoché analoghe agli antichi e misteriosi Celti, precedenti abitanti di questa terra (poi cacciati dagli stessi Lusitani che ne occuparono i territori, oggi più o meno coincidenti con l’attuale Portogallo).
Antichi culti pagani e divinità di chiara origine celtica (l’impavido Cariocecus poi sincretizzato in Ares per i Greci o ancora il “buono” Endovelicus probabilmente identificabile con Apollo), perdurati nei secoli, nonostante le coercitive evangelizzazioni (spesso senza risultato) della dominazione romana e una collocazione geografica, così lontana dal resto d’Europa (quasi a voler stigmatizzare un’appartenenza ad un continente specifico e a voler far intendere di essere l’ultimo baluardo a difesa da immaginari invasori d’oltre oceano), hanno contribuito nei secoli ad avvolgere di arcano mistero questa terra meravigliosa.
In un contesto così misteriosamente e cupamente affascinante, non poteva che trovare terra fertile un genere come il Black Metal.
Moonspell (poi orientati verso lidi musicali più melodicamente gotici e doom) e poi Decayed, Sacred Sin, e successivamente Corpus Christii, Irae, Cripta Oculta, Inthyflesh, Mons Veneris (ma si potrebbe continuare per giorni) ed appunto i nostri, i Black Howling, costituiscono l’ossatura nera della terra dei navigatori.
Satanismo, occultismo (tematica molto cara “all’area Mediterranea”), folklore, ma anche distruzione, odio, pessimismo e misantropia, temi ricorrenti nei testi, rappresentando l’incipit e l’excipit (e tutto ciò che ne viene compreso) del nero grimorio lusitano.
E sono proprio queste ultime tematiche a fare da cornice al genere proposto dal duo di Lisbona, (d’altronde il depressive portoghese rappresenta un imprescindibile ramo del Black Lusitano). Costanti atmosfere funeree e tragicità onnipresente, costituiscono il core delle loro lyrics. Sonorità angoscianti e urla strazianti, presenziano ogni loro traccia. Cinque album all’attivo, moltissimi split, due ep ed alcuni demo, rappresentano la produzione di questa prolifica band. Mai una luce, mai un bagliore, nessuna traccia di ottimistiche visioni future. Solo depressione, afflizione e nere sofferenze, convergono nel loro funereo ultimo sforzo, Return of Primordial Stillness, full length uscito per la portoghese Signal Rex, della durata di circa 40 minuti, ma contenente unicamente 4 brani (due dei quali di 15 minuti circa!).
Iberia, il primo brano, è un funeral black doom agghiacciante. Quasi sei minuti che ci accompagnano inesorabilmente verso antichi rituali funebri; mai un’accelerazione, neanche un accenno di mid-tempo … solo triste lentissimo incedere di un sound che, se accolto ad occhi chiusi e assaporato in una stanza buia, rende partecipi di una straziante mortuaria marcia. Immaginari occhi proiettati verso il cielo, consapevolmente, ci lasciano intendere di essere noi il cadavere, mestamente trasportato nel feretro . Molto Sleep di Stillborn, occhiolino ai Black Sabbath di Electric Wizard, con un sottofondo melanconicamente melodico (in cui ho rivissuto in parte le emozioni di Melissa), in una cornice dolorosamente, ma maestosamente Black.
Ma sono i due pezzi successivi che ci straziano di felicità. Un galoppante Black Metal classico, ricco di melodia, adagiato su tipici tremoli ed intarsiato da uno scream lancinante ma efficace, sostiene il corpo della traccia Celestial Syntropy (Übermensch Elevated), ove non mancano momenti lenti e sinfonici, corollati da una depressione sempre latente e arricchiti da magici assoli di chitarra di A. (dotato di tecnica sopraffina), intervallati da maestosi mid-tempo, che sfumano in momenti più thrash, evidenziando la bravura dei nostri, sia in fase solista che ritmica. La potenza esercitata da basso (sempre di A.) e batteria (di P.) risultano impressionanti. Vocalizzi strazianti (P.) vengono qui sapientemente amalgamati da angoscianti cori clean, che rendono tutto il pezzo un omaggio ai solenni sintropici aspetti della natura dell’Universo. E in antitesi all’universale ordine sintropico, non poteva mancare il disordine entropico del successivo pezzo – Celestial Entropy (Emptiness Revelation) – la canzone definitiva: il momento musicale che scandisce la morte entropica del tutto, lo stato finale ove tutte le energie universali terminano. In una parafrasi musicale, il pezzo che assorbe letteralmente ogni nostra umana vitalità, sprofondandoci in un’etera depressione, costruita su apatici tempi funebri, adagiati su melodie contaminate da un sound doom anni settanta, che collima, verso il minuto 6” circa, con un momento (seppur breve) di divino di metal settantiano, dove le apparizioni dei Black Sabbath, ci inebriano di cupa decadenza e di drammatica occulta sofferenza.
Una ripresa black veloce, il ritorno Heavy Doom e la melodica disforia musicale, accompagnano i lancinanti vocalizzi del lamento di A. sino al termine di una canzone, che più che un brano, è un inno alla fine dell’esistenza, dell’Universo, del Cosmo intero.
C’è ancora tempo per un momento strumentale (Cosmic Oblivion, interamente a cura di A.) che sancisce la morte definitiva del Cosmo. Qui, un delizioso arpeggio, sonorità elettroniche affini a rumorismi quasi sci-fi, instillano fluidi psichedelici nelle nostre vene che, adagiandoci su un letto di morte, ci cullano grazie ad echi e risonanze floydiane, rendendo meno dolorosa la fine del Tutto.
Gloria in excelsis Deo, in onore di un Dio della Musica, che mai come in questo album ha ispirato il duo Lusitano. Da non perdere.

Tracklist
1.Iberia
2.Celestial Syntropy (Übermensch Elevated)
3.Celestial Entropy (Emptiness Revelation)
4.Cosmic Oblivion

Line-up
A. – Guitars, Bass
P. – Vocals, Drums

BLACK HOWLING – Facebook

Thecodontion – Thecodontia

Prima demotape del duo laziale di Ladispoli dedito ad un black/death sperimentale. La totale assenza di chitarre potrebbe incuriosire molti, fare arretrare inorriditi alcuni, ma sicuramente ingolosire i più intransigenti collaudatori di nuovi sound.

Affrontare l’ascolto di un prodotto, nel quale dichiaratamente la band esclude la presenza di uno strumento fondamentale (almeno nel genere proposto dal duo laziale, ossia black death metal), appare fin da principio impresa ardua, figuriamoci recensirlo!
Ma andiamo per gradi.

I Thecodontion sono un duo che arriva da Roma (Ladispoli): autodefiniscono il proprio genere “Prehistoric metal of war”, intendendo fin da subito proiettare l’ascoltatore in un era preistorica ben definita (il Permiano), così antica, che i conosciuti dinosauri – a cui ci siamo tanto affezionati grazie ai vari Jurassic Park (?!) – non esistevano ancora. Siamo nell’era degli arcosauri, più precisamente dei Ticodonti (da cui prendono nome e cognome band e demotape) ossia gli antenati rettiliani dei dinosauri.
L’idea di utilizzare unicamente due bassi distorti (in aggiunta, un terzo per gli “assoli”, e tutti suonati senza ausilio di picks), batteria e parti vocali, deriva – sostengono i nostri – da un profondo desiderio di sperimentazione (ad onore del vero, già parecchio è stato fatto in ambito noise), vocato a sonorità primitive e tribali. Un lavoro sicuramente molto impegnativo; basti pensare alla difficoltà – soprattutto per un genere come l’estremo – di non far sentire la mancanza di uno strumento fondamentale come la chitarra.
In effetti, sin da un primissimo ascolto, le pazzesche distorsioni dei loro bassi creano un sound davvero primordiale – a tratti raw – e l’assenza delle chitarre passa forse un attimo inosservata.
Il primo brano Desmatosuchus Spurensis (Linked Loricata of Spur), appare come un primo grezzo lavoro dei Celtic Frost (Morbid Tales, per intenderci) suonato in modo molto ruvido, senza fronzoli, dal quale è stato depredato ogni qualsivoglia spunto di melodia. Persino la voce di Heliogabalus ricorda lontanamente quella di Mr. G.Warrior. I ritmi incalzanti di tutti i 4 pezzi e i bass effects, possono davvero riportarci a quel lontano (svizzero) 1984. Ovviamente i paragoni non devono trarre in inganno, (Morbid Tales è, rimane e sarà per sempre, uno di quei capolavori che hanno segnato un’epoca); in questo caso, ci servono unicamente per dare un’idea di quanto avessero in mente Heliogabalus e Stilgar (Basso) quando presero questa coraggiosa decisione: provare a fare qualcosa di nuovo, di sconvolgente e di assurdamente “differente”, ma partendo da basi ben note e conosciute.
Via via che si procede all’ascolto, l’assenza del guitar sound appare sempre più evidente, e l’incedere dei due/tre bassi può portare qualche volta ad una sensazione di privazione sonora, ad un’emozione di negativa carenza da riff ed assoli. Il brano successivo Erythrosuchidae (Vermillion Digigrade), non varia molto dal predecessore, se non per un paio di momenti che ricordano tanto i momenti più groove del blast beat dei primi anni ’80 (D.R.I., Repulsion e S.O.D. per intenderci).
Nel terzo brano – Longisquama Insignis (Skeletal Analysis of a Kyrgyz Diapsid), una sonorità più death fa da padrona; emerge sicuramente anche l’interesse dei nostri per il war metal di band quali Blasphemy, Teitanblood e Archgoat (e prima ancora Sarcofago e altri gruppi della scena brasiliana di quel tempo); ovviamente i riff black, gli accordi tipici del death e le atmosfere guerresche qui sono chimere. Non esistono i dualistici accordi tipici del riff death, ma unicamente il monismo sonoro del basso.
Il drumming – in quasi tutto il demo – non conosce soste. Una raffica di mitra che accompagna le “grattugiate” dei bassi, senza quasi intervalli, senza quasi alcuna interruzione; un treno diretto che non ferma in stazioni intermedie.
L’ultimo brano – Stagonolepis (Robertsoni/Wellesi/Olenkae) – è un po’ un’eccezione, con diversi stop’n’go schizoidi, segnati da distorti assoli di basso (il famoso terzo basso, di cui si parlava all’inizio), che ne dettano ripartenze e brusche fermate. Una produzione sicuramente difettante (è comunque una demo) e un sound molto spesso accostabile al noise, non favorisce di certo la distinzione dei passaggi tra up-mid-down tempo, rendendo il tutto non troppo distinguibile e spesso poco accessibile.
In definitiva, la curiosità nasce e muore dopo l’ascolto di una demo coraggiosa, che sicuramente scontenterà i più tradizionalisti, ma che forse troverà negli sperimentalisti i loro maggiori fan. Interessante potrebbe essere scoprire come il duo laziale possa sostenere il gran peso della loro piccola rivoluzione in un full length.

Tracklist
1.Desmatosuchus Spurensis (Linked Loricata of Spur)
2.Erythrosuchidae (Vermillion Digigrade)
3.Longisquama Insignis (Skeletal Analysis of a Kyrgyz Diapsid)
4.Stagonolepis (Robertsoni/Wellesi/Olenkae)

Line-up
Heliogabalus – Vocals
Stilgar – Bass

THECODONTION – Facebook

Veratrum – Visioni

Il mini album “Visioni” dei Bergamaschi Veratrum, ci dimostra per l’ennesima volta – senza per forza fare del puerile campanilismo – quanto il nostro paese non abbia nulla da invidiare nel campo del black metal, in termini di capacità strumentali e di creatività musicale, a nazioni simbolo quali Norvegia, Svezia e Grecia.

Gli italiani Veratrum (death/blacksters con già all’attivo un demo, due album e due ep, compreso l’oggetto di questa recensione) devono il loro nome ad una particolare pianta (il Veratro, dal latino ‘vere’ – veramente e ‘atrum’ – nero) molto tossica, che annovera, tra le sue principali caratteristiche, quella di possedere il rizoma, una sorta di radice che si sviluppa (in genere orizzontalmente e quindi non in profondità) sotto terra.

Il rizoma permette la nascita di nuove gemme, anche se, in superficie, la pianta al termine del suo flusso vitale, muore.
Jung metaforizzò il rizoma:
“La vita mi ha sempre fatto pensare a una pianta che vive del suo rizoma: la sua vera vita è invisibile, nascosta nel rizoma. Ciò che appare alla superficie della terra dura solo un’estate e poi appassisce, apparizione effimera.” (Da sogni, ricordi e riflessioni).
Parafrasando, la vera natura dell’esistenza è inaccessibile (nel sottosuolo, eterna ed insondabile), mentre ciò che vediamo e viviamo giornalmente, risulta effimero e forse troppo spesso illusorio.
È questa, a mio modo di vedere, la chiave di lettura, di questo ep autoprodotto (uscito al momento unicamente in formato digitale): ricondurre il tutto ad un semplice album black death risulterebbe ingiustamente riduttivo per il quartetto di Bergamo.
Qui il sapore visionario (Visioni, appunto) ed onirico della vera essenza della vita universale, viene espresso in maniera ermeticamente sublime. Il messaggio che assimiliamo durante l’ascolto (il cantato in lingua madre, ci permette di assaporarne le mille sfumature) è di un qualcosa di non detto, di non visto, di metaforicamente sotterraneo, ma che ogni essere umano sa che esiste, e semplicemente lo disconosce, volutamente, forse per ignoranza, forse per atavico terrore.
“La verità non è sempre ciò che appare”- ci dice Tim Burton; occorre andare oltre, oltre il vero.
E allora ci immergiamo nel magistrale black death sinfonico del brano Oltre il Vero, dove i nostri ci accompagnano attraverso profezie di mondi sconosciuti, insegnandoci a vedere ad occhi chiusi. Musicalmente, un armonico mix di mid tempo death, intervallato da pesantissimi cadenzati tempi thrash, fa da cornice ad un black sinfonico, imponente, maestoso, mentre lo scream e il growl duettano alla perfezione, dettandone i ritmi sino alla fine, quasi facciano parte della base ritmica, e non delle parti vocali. Un bell’assolo, arricchito da un coro strepitoso e da synth tanto imponenti da sembrare suonati a quattro mani, ci conducono alla fine del brano: “Oltre il vero, Oltre il cosmo”. Dopo la breve Per Antares, più che un brano, un vero e proprio rituale cosmico dedicato alla Gigante Rossa della Costellazione dello Scorpione – Antares, ci godiamo L’Alchimista, brano essente di un Universo, al di là degli Universi conosciuti, che irrompe con un blast beat quasi perfetto, veloce, d’effetto, ed un scream malignamente oscuro; qui si va oltre il semplice tremolo, denotando una buona padronanza delle chitarre da parte di Haiwas e Rimmon. Non tarda a subentrare l’influsso death, che rallenta sì il brano, ma che ne orchestra divinamente la struttura. Ed è proprio l’alternanza di black e death, armoniosamente miscelati dai synth e da antiche salmodie, ad arricchire un brano mai monotono, da assaporare, ad occhi chiusi, godendone le visioni, che esso ci provoca. “Vedrò lo Scorpione, il suo occhio rosso…” cantano i nostri, ed il viaggio verso verità inimmaginabili, al di là del mondo conosciuto, è quasi terminato. Visioni ed onirico, riferimenti ad Antichi Dei ancestrali, di un testo che pare scritto da (o in omaggio di) H.P.Lovecraft, rappresentano il corpo del brano La Stella Imperitura, la cui anima musicale, maestosamente sinfonica, si solidifica, diventando un tutt’uno con il corpo. Clean, growl e scream danzano, al ritmo di un meraviglioso black, a tratti terribilmente veloce, ed oramai pregno di basi death metal che rendono il sound dei Veratrum, uno splendido connubio di due stili musicali, simili tra loro, ma che, solo se sapientemente armonizzati, come in Visioni, sanno dispensare linfa vitale e musicale. “Qui siamo pronti per salire…” prima strofa del brano che ci prepara al lungo viaggio, fermi sulla soglia, di Limen Operis, ultima chicca strumentale, leggiadro e soave accompagnamento, verso verità sconosciute.
Resta la speranza di veder uscire Visioni anche su cd, il digitale non mi appaga… scusate se sono un tradizionalista, vecchio o meglio antico, almeno quanto Cthulhu.

Tracklist
1.Oltre il Vero
2.Per Antares
3.L’Alchimista
4.La Stella Imperitura
5.Limen Operis

Line-up
Haiwas – Vocals, Guitars, Orchestrations
Rimmon – Guitars, Vocals
Marchosias – Bass
Sabnok – Drums

VERATRUM – Facebook

Moonreich – Fugue

Fugue dei francesi Moonreich è un’opera black, non nel senso moderno del termine; ossia, come spesso purtroppo accade, un minestrone musicale di chitarre, basso, batteria, screams, impregnato di canti gregoriani ed infarcito di organi, tastiere e synth, ma la si individua proprio nella struttura e nel corpo di ogni singolo brano, grazie ad uno studio attento dell’immortale musica del ‘700.

Come è vero che la Finlandia è la terra dei mille laghi, l’Ile de France, da dove provengono i Moonreich, la si può definire la terra dei mille fiumi (d’altro canto Ile-Isola prende proprio il nome dalla moltitudine di fiumi e rii che circondano questa regione della Francia; nome che altrimenti non troverebbe altra spiegazione, non avendo sbocchi sul mare).

E’ proprio questa magnifica regione, che ci ha donato negli anni gemme black di squisita fattura e alcune di queste ottime band annoverano tra i loro componenti proprio i membri dei Moonreich: L., il nostro corpulento singer, già frontman dei melodic blacksters Ishtar, Weddir, chitarra e voce, ma anche gigante (pure lui…) leader degli sperimentali Aevlord ed ex The Negation (consiglio). Oppure Siegfried, bassista, il più attivo fra tutti (Taliesin, Valland, ma anche ex Nyseius, ex Azziard, per citarne alcuni) e, infine, Sinai, bravo chitarrista già dei blacksters Griffon. Insomma una terra prolifica, che oggi ci dona questo Fugue (fuga, con duplice ambiguo significato di composizione musicale e di stato di amnesia e di disturbo psicologico).
Ma indubbiamente ciò che i nostri ci hanno voluto esprimere in questo loro ultimo sforzo è la loro passione per una costruzione musicale più complessa, elaborata su contrappunti musicali (tipici delle fughe di Bach) che intrecciano, amalgamano alla perfezione, due differenti melodie, che in un avvolgimento spiroidale, si inseguono, si rincorrono, senza quasi mai raggiungersi, ma soprattutto senza mai sovrapporsi. Ed in questo sublime abbraccio, si immedesimano divinamente gli imprescindibili blast beat, tremolo e scream, quasi come a sottolineare che l’estremo, il nostro caro black metal, non ne costituisce altro che la terza melodia, quando nel ‘700 era ancora materia oscura, e di certo non prevista nel Die Kunst Der Fuge, l’Arte della Fuga di J.S.Bach.
E pertanto l’album non poteva che cominciare con due vere e proprie “fughe” (Every Time She Passes Away
e Every Time the Earth Slips Away), fulgidi esempi di coraggiosa ricerca sonora ma soprattutto di grande capacità ed inventiva musicale dei nostri.
Basterebbero queste due gemme, per terminare la recensione qui e per donare un voto molto alto, ma siccome siamo avidi di nuovi ascolti, ci immergiamo nel terzo pezzo, With Open Throat for Way Too Long, che come un tuono ci sconquassa i timpani, ci capovolge lo stomaco. Una rasoiata inaspettata, di una violenza inaudita; pochi fronzoli, velocità estreme, una ritmica incalzante, pochissimi mid e molti up tempo. Forse la track che subisce le maggiori influenze death (mostrate ampiamente anche dal growl dei backing vocals). Un vero pugno nello stomaco, ove la Fuga qui viene forse interpretata nel suo secondo significato di disturbo psicologico, nel disintegrante incedere, che può essere apprezzato solo dai malati di mente (come chi vi scrive). Heart Symbolism (singolo da cui viene tratto il loro video ufficiale) è un omaggio alla natura, nel senso più entomologico del termine. Qui gli insetti sembrano danzare ai ritmi vertiginosi di un black devastante; nascono, vivono, cacciano, si nutrono, muoiono, sullo sfondo di grigi sottoboschi, in un caleidoscopio di immagini proiettate quasi alla rinfusa, che alla velocità della luce, mantengono il tempo, dettato dalla furia ritmica dei nostri. “Spread your wings” canta ad un certo punto L. e magicamente si staglia l’immagine di una farfalla.
La marziale Rarefaction (a tratti molto Marduk) ci mette tutti sull’attenti, dove il “riposo” viene comandato dai mid tempo, che alienano il nostro breve momento di pausa con assoli distorti, sino alla ripartenza che da marcia militare si trasforma in una corsa perdifiato; nella seconda parte del pezzo, si riparte con un momento molto death di relativa calma, nel quale la ritmica e l’incredibile voce di L. ci cullano sino ad accompagnarci ad un rarefatto monotono torpore. Il risveglio ci scaraventa nella desolata siccità di Carry That Drought Cause I Have No Arms Anymore, con un melodico arpeggio elettrico che dona a questo lamento musicale un fascino quasi etereo, da gustare ad occhi chiusi, lasciandoci trasportare in terre devastate da carestie, miserie, travolti da totale indigenza, privi di ogni forma di sostentamento, se non la nostra amata musica.
Conclude l’album un brano di black metal classico, di ottima fattura, The Things Behind the Moon, quasi a ricordarci che i nostri amano sì le fughe … ma senza disdegnare qualche volta di tornare a casa.
Black roads, take me Home, To the place I belong …

Tracklist
1.Fugue, Pt. 1: Every Time She Passes Away
2.Fugue, Pt. 2: Every Time the Earth Slips Away
3.With Open Throat for Way Too Long
4.Heart Symbolism
5.Rarefaction
6.Carry That Drought Cause I Have No Arms Anymore
7.The Things Behind the Moon

Line-up
L. – Vocals
Weddir – Guitars, Vocals
Siegfried – Bass
Sinaï – Guitars

MOONREICH – Facebook

Oubliette – The Passage

Secondo album dopo 4 anni di silenzi, eccezion fatta per due singoli, usciti unicamente in digitale per questo combo americano fautore di un ottimo melodic black metal: The Passage vi coinvolgerà e vi appassionerà dalla prima all’ultima nota.

Non tragga in inganno il nome francese Oubliette (termine che identifica un tipo di prigione medioevale, caratterizzata da un’unica apertura a botola, posta sul soffitto); qui siamo di fronte ad un combo americano, più precisamente del Tennessee, capitanato dalla coppia (nel senso stretto del termine) Emily (vocals) e Mike (lead guitar) Low.

In The Passage, album uscito a giugno per l’americana The Artisan Era (già famosa per essere l’etichetta di ottime band quali A Loathing Requiem, Inferi e soprattutto i grandissimi prog deathmetallers Augury) signore e signora Low ci propongono un ottimo black metal melodico, ricco di atmosfera e di avvolgenti umidi climi autunnali.
Imponente e maestosa l’opening track, A Pale Innocence, breve momento strumentale costruito su una base ritmica solida e un robusto drumming che, silenziato quasi improvvisamente da un bellissimo arpeggio di chitarre, ci introduce a The Curse. E allora facciamo subito la conoscenza di Miss Low. Uno scream potente, quasi maschile, si amalgama alla perfezione, sia con i tremoli serrati e velocissimi del bravissimo marito Mike e degli altri (due!) chitarristi – Harris e Wampler – sia con i frequentissimi mid-tempo, qui ancor più valorizzati da brevi ,ma sensazionali, atmosferici periodi musicali.
Pioggia e campane a morto sono l’intro di Solitude. Qui la tecnica dei nostri è eccelsa. I riff quasi maideniani dell’inizio (sarà un puro caso, ma anche qui abbiamo tre chitarristi…), ci rimandano per un istante alla gloriosa ottantiana NWOBHM inglese. Un pezzo splendido nella sua struttura melodica, ma mai troppo ruffiano, con un corpo classicamente black e – volendo ripeterci- un cantato scream, quello di Emily Low (nulla da invidiare alla nostra bravissima Raffaella Rivarolo, alias Cadaveria, solo forse un pizzico più profondamente epico) azzeccatissimo e sempre in armonia con gli altri strumenti, rendendo l’ascolto piacevolmente snello, di un brano fluido come un fiume (di sangue) che scorre.
Momento sublime con Elegy, eccelso brano gotico, armonizzato da leggiadri arpeggi e soavi voci femminili, che non ha nulla da invidiare a band del calibro di Nightwish nei loro momenti più melodici, e che farebbe arrossire di invidia mostri sacri del gothic doom  death dei primi anni ’90 (dagli Amorphis di The Karelian Isthmus, ai Paradise Lost di Gothic, passando da Always dei The Gathering), per poi terminare con un classico veloce periodo black, tanto per mostrarci che i nostri non cadranno mai nella rete del “troppo fuori tema”. Infine, di questo meraviglioso pezzo, prendiamo buona nota degli ottimi leads di Mr. Low.
Dopo una crepuscolare e malinconica Emptiness, dalla breve durata (49”), ecco The Raven’s Lullaby, sublimi sette minuti di autunnale nostalgica bruma musicale. Anche qui gli arpeggi rendono il brano uggioso come una piovosa mattina di novembre, ma l’imponenza musicale di tutto l’impianto sonoro nel suo insieme, non ci fa mai assopire completamente. Ci mantiene in un costante dormiveglia, quasi a volerci cullare, ma non ad indurre completamente sopore, per poterne assaporare ogni singola maiestatica nota.
Grande equilibrio tra melodie black, gothic doom e schegge di psichedelia in Barren. Un pezzo quasi floydiano, almeno nei suoi primi due minuti e mezzo. Attingendo da acide sonorità rock dei Seventies, muta la nostra brama per l’estremo, in una più ovattata necessità di suoni tenui, surreali, soporiferi che, in un turbinio di stordenti luci e profumi anni ’70, ci annebbiano la coscienza, sino al brusco risveglio del minuto 2:36, che quasi come un versetto dell’Apocalisse, ci ripiomba nel loro ottenebrante malinconico –ma nel contempo magicamente suadente – black metal.
Con grande tristezza arriviamo al termine dell’album, non prima di aver assaporato in toto un vero black in pieno stile scandinavo – The Passage – che pare uscito direttamente dalla produzione di un certo Roberto Mammarella della (mitica) Avantgarde Music. Un pezzo alla Carpathian Forest di Strange Old Brew per intenderci, vero maestoso epic black metal a cui non manca nulla, se non un’altra canzone a seguire. Ma l’album è oramai terminato, lo show finito, e a noi non resta che attendere nuove gemme … dalla terra della country music.

Tracklist
1.A Pale Innocence
2.The Curse
3.Solitude
4.Elegy
5.Emptiness
6.The Raven’s Lullaby
7.Barren
8.The Passage

Line-up
Mike Low – Guitars
Emily Low – Vocals
Todd Harris – Guitars
Greg Vance – Drums
Andrew Wampler – Guitars
James Turk – Bass

OUBLIETTE – Facebook

The Passage by Oubliette

Pensées Nocturnes – Grotesque

Nuovi stili musicali, nuove avanguardie, influenzano positivamente o inquinano irrimediabilmente il black metal? Un quesito per tutti coloro che approcciano album come Grotesque, della one-man band francese Pensées Nocturnes. A voi l’estrema decisione.

Quello che non manca sicuramente alla one-man band francese dei Pensées Nocturnes è il coraggio.

Al giorno d’oggi, le mille sfumature che ha assunto il black metal, hanno reso il genere sicuramente più accessibile; molti – probabilmente – che in passato aborrivano questa lato estremo del metal, hanno iniziato ad avvicinarsi al genere, anche grazie alla moltitudine di album di sottogeneri, che oggi invadono gli scaffali dei negozi di dischi (o meglio i siti internet, vista la repentina e triste scomparsa del classico negozietto sotto casa).
In Grotesque, album uscito nel 2010 e riedito in vinile quest’anno da Les Acteurs de l’Ombre Productions, oggetto di questa recensione, il genere proposto da Vaerohn si potrebbe definire avantgarde post black metal con sfumature barocco/neoclassiche(!), cantato in francese.
Ma andiamo per gradi. Il primo pezzo Vulgum Pecus, dopo un desolante inizio da marcia funebre, procede senza che, in alcun modo, qualcuno possa identificarne una band black metal. Pezzi orchestrali maestosi, pomposi, legni, ottoni ed archi che sostituiscono i più “tradizionali” strumenti del genere, quali chitarre zanzarose e bassi distorti, in assenza totale di drumming ritmico (blast beat) e parti vocali (scream). La parte terminale accoglie persino un sottofondo di applausi stile Scala di Milano, quasi a voler sottolineare che ciò che andremo ad ascoltare non sarà un semplice album, bensì un vero e proprio concerto sinfonico.
Se non fosse per la durata del pezzo (più di tre minuti) avrei pensato ad un (bellissimo) intro. A questo punto, cresce l’attesa e la curiosità, per il secondo pezzo, Paria, che, dopo alcuni secondi di cacofonica introduzione di batteria e basso, mostra il suo vero intento: struggere l’ascoltatore, deprimerlo sino a condurlo al suicido, annichilendolo al punto da renderlo completamente abulico ed indolente. Un lamento angosciante, costruito su accelerazioni scoordinate e momenti soporiferi, scanditi da batteria e piatti, e da sprazzi di gorgheggi vocali più accostabili ad un tenore, intervallati da urla strazianti (tra lo scream e il growl). Senza soluzione di continuità tra gli strumenti (quasi sempre si ha l’impressione che le basi ritmiche facciano a pugni e che tutto sia improvvisato), il genere proposto da Vaerohn, vacilla tra uno stile che vuole essere estremo, ma che non lo è almeno nel senso letterale del termine, ed un’opera sinfonica, un funeral depressive doom di matrice classica, sostenuto da una base quasi jazzata (ma nel senso disarmonico del termine). Come nella successiva Rahu che, addirittura, sotto ad un vero cantato scream (finalmente) quasi trascende, nelle sue seppur brevi accelerazioni, uno speed metal, inaspettato, e forse mai ascoltato prima. Malinconici arpeggi, accompagnati da violoncelli, fagotti, clavicembali – e chi più ne ha più ne metta – da orchestra barocca, sempre quasi sembrando in disaccordo tra loro, con una voce in bilico tra un lamentoso clean e uno straziante scream/growl , sono ciò che ci si può aspettare, acquistando questo album. Eros è un pezzo più shoegaze inglese che metal vero e proprio, che non fa altro che acutizzare la ferita oramai aperta, per chi si aspettava un album black, o estasiare chi invece era alla ricerca di nuove sperimentazioni sonore. Anche in questa traccia, dopo il classico riff monocorde tipico del genere, diciamo in drone style, si percepisce l’amore smisurato del francese per la musica classica (la parte terminale è un trionfo di trombe e tromboni). Monosis, è il momento più funebre dell’album. Una voce sempre tra il clean, nella sua espressione più lirica, e uno scream strozzato e straziante, che mostra quanto il nostro, più che cantare, voglia esternarci la sua disperazione per la vita terrena. Suoni più da Bladerunner danno un tocco sci-fi al pezzo, subito seguiti da una parentesi folkeggiante – quasi gypsy – da festa di Santa Sara (patrona di tutti i Gitani), che sfocia poi irrimediabilmente nel caos sonoro di ritmiche sparate alla velocità della luce, in completa disarmonia tra loro.
Se qualcuno avesse ancora dubbi sul fatto che Mr.Vaerohn volesse sconvolgerci in qualche modo, ecco che arrivano Hel e la successiva Thokk (depressive cacophonic classic black metal?) emblematici esempi di ciò che abbiamo ascoltato sinora; in Hel qualche inserto di xilofono da film dell’orrore ci ottenebra la mente, ci vaporizza quel poco di luce interiore che ancora ci era rimasta, mentre l’organo da chiesa di Thokk, fa piazza pulita di quel che ci resta di ancora umano.
L’ultima track (un teatralmente tragico pezzo di pianoforte) è Suivante (Seguente), che chiude un drammatico capitolo musicale, quasi sicuramente capolavoro per chi ama la sperimentazione sonora e queste nuove forme artistiche, un deludente (ed inquinante) nuovo approccio al black, per i tradizionalisti.
Il voto 6, deriva dalla media tra 7, per il coraggio e la ricerca di nuovi suoni, e 5 per l’aver voluto inserire la parola black in questo contesto.
Ultima nota di colore, tanto per prenderci ancor più alla sprovvista: face painting d’ordinanza per il nostro, ma più che Abbath pare un misto tra Pennywise e il Joker … Bambini, paura!

Tracklist
1.Vulgum Pecus
2.Paria
3.Râhu
4.Eros
5.Monosis
6.Hel
7.Thokk
8.Suivant

Line-up
Vaerohn – Vocals, all instruments, songwriting, lyrics

PENSEES NOCTURNES – Facebook

Immortal – Northern Chaos Gods

Nono album per gli Immortal: il loro capolavoro, senza Abbath, ma con un Demonaz in grandissima forma e secondo posto nelle vendite in Germania!

A distanza di ben 9 anni da All Shall Fall esce l’ultimo lavoro dei leggendari norvegesi Immortal, vera icona del black metal mondiale.

Di anni ne sono passati da quel lontano 1991 quando, con l’uscita del loro primo demo omonimo, si iniziò a delineare l’oscuro sentiero del nuovo genere musicale, l’estrema espressione sonora di un manipolo di adepti, a quel tempo ridotto a pochi pazzi scandinavi che, attingendo da band cult quali Venom, Celtic Frost, Hellhammer e Bathory, vollero dare un nuovo senso alla musica estrema; stiamo parlando degli inizi degli anni ‘90, ovvero quando i “metallari più estremi” erano già stati sconvolti dai nuovi orientamenti musicali – alcuni vissero quel momento come vera e propria violenza personale – di album quali Human (Death), Chaos A.D. (Sepultura), Shades of God (Paradise Lost), e pertanto di band-icona del death metal, ossia la massima espressione di estremizzazione dell’heavy metal di allora.
Forse per questa ragione (e per diverse altre) il black ebbe una certa facilità, nel radicarsi tra coloro i quali, volendo sfidare ulteriormente i propri timpani, e oramai convinti del fatto che l’heavy metal dovesse essere solo l’inizio della missione che un qualche Dio della musica gli aveva assegnato per spingersi sempre oltre, portarono il secondo senso, alla sfida finale, quella terminale.
Ed ecco allora che ci venne in aiuto il black metal, estremo non solo nella musica, ma anche nelle liriche, nel look (il favoloso face-painting), e in tutto quello che esso rappresentava: Darkthrone, Mayhem, Satyricon, Dimmu Borgir, Emperor, Enslaved ed Immortal, appunto.
Pensando proprio agli attori di questa recensione, non posso che inchinarmi, di fronte al nuovo lavoro. Da Diabolical Fullmoon Mysticism del 1992 ne è passata di acqua (nera ed inquinata) sotto i ponti. Addirittura, tra i vari cambi di line-up, quasi ovvie per band così longeve, ci siamo ”persi” per strada l’emblematico co-fondatore della band, Mr. Olve Eikemo, alias Abbath Doom Occulta, oggi sostituito in toto dal bravissimo altro membro storico e co-fondatore della band Demonaz (compositore, voce, chitarra e testi) e coadiuvato dal bestiale drumming di Horgh, che dal 1997 fa da spola tra gli Hypocrisy e, appunto, gli Immortal. Al basso (ospite) un certo Peter Tagtgren, frontman degli Hypocrisy e qui anche in veste di curatore della registrazione.
Northern Chaos Gods – posso affermarlo con sicurezza – è il vero capolavoro degli Immortal! Violento, gelido, oscuro, ma altresì, vichingo, epico, ancestrale. L’album inizia con la title-track, che ci travolge con i suoi 4 minuti e mezzo circa di pura essenza Immortal; velocità della luce e ritmi sempre e solo serratissimi, non ci permettono un secondo di respiro, facendoci trattenere il fiato sino alla fine. Possiamo respirare, un poco, grazie al blast beat della successiva Into The Battle Ride, dall’efficace groove estremo per la gioia degli headbangers più scatenati. Benvenuti nel mito con Gates To Blashyrkh, leggendario regno di ghiaccio governato dal Dio-Re The Mighty Ravendark: favoloso pezzo, il migliore dell’album, il più complesso e magistralmente suonato dai nostri. Mid-tempo, arpeggi e tremolo, rendono questa track un imponente, monumentale, epico inno ai miti nordici e vichinghi. “The Northern Dark – Where Winterkings Rule – Far From The Light – Gates To Blashyrkh Rise”, sussurra a metà canzone Demonaz, accompagnato unicamente da un desolato arpeggio, prima di ripartire con potenza e vigore.
Vero european blast per Grim And Dark, un pezzo carico di energia, dove l’alternarsi di grancassa/piatti e rullante ci precipita ad un loro show, sognando di essere in prima fila, sotto il palco, a sbattere la testa.
We are Called To Ice”, canta nella successiva Demonaz, con i suoi ciclici ritmi che, come cadenzati da un metronomo, ci ossessionano con la loro incessante pesantezza e ripetitività; vi giuro, inizierete a muovere la testa su e giù, inconsciamente, sino all’ultima nota.
When Mountains Rise – insieme all’ultima traccia Mighty Ravendark – sono, in assoluto, le più bathoryane dell’album. Qui i riff di Demonaz, e l’ipnotico incedere del drumming di Horgh creano suoni malinconicamente viking, che lentamente ci avvolgono e quasi ci assopiscono. Ma ci pensa Blacker Of Worlds a farci uscire improvvisamente dal torpore: una vera bomba sonora, il brano più corto dell’album, ma anche il più veloce e il più acido, quasi raw.
L’album termina con i quasi 10 minuti di Mighty Ravendark, altra magnifica espressione bathoryana delle ghiacciate Terre del Nord. La struttura e il corpo, ovviamente, ricordano Gates To Blashyrkh (medesima origine ispiratrice). Nelle liriche, le parole come frozen, cold winds, frost e shadows, ne sono l’epifora; no sun, storm e snow ne sono l’anafora. Racchiudono il corpo gelido, di un rapsodico e leggendario pezzo che, abbracciato all’inizio e alla fine da un solenne arpeggio, rimarrà nella storia del black metal, e ne sarà, quasi sicuramente, l’imprinting per le future produzioni del genere.

Tracklist
1.Northern Chaos Gods
2.Into Battle Ride
3.Gates to Blashyrkh
4.Grim and Dark
5.Called to Ice
6.Where Mountains Rise
7.Blacker of Worlds
8.Mighty Ravendark

Line-up
Demonaz – Vocals, Guitars, Songwriting, Lyrics
Horgh – Drums

IMMORTAL – Facebook

Funeral Mist – Hekatomb

L’album della svolta per i Funeral Mist: il side project di Arioch/Mortuus dei Marduk ci convince. Ad oggi, uno dei migliori album black metal del 2018.

Gli esordi degli svedesi Funeral Mist, sicuramente affetti anche da produzioni non all’altezza, non mi hanno mai completamente convinto; una band i cui primi vagiti risalgono al lontano 1995, ma che vede uscire il primo full-length solo nel 2003 (Salvation, in precedenza era già uscito un ep, Devilry).

Onestamente non sono mai impazzito per questo gruppo svedese. Devilry e Salvation erano molto caos sonoro e poca musica; si potrebbe definire un raw all’ennesima potenza. Violenza e velocità, quasi sempre fini a se stesse, un sound talvolta difficilmente accostabile al genere Black Metal , ove il raw ne rappresenta unicamente un singolo aspetto, e forte delle miriadi di possibili varianti (classic, funeral, doom, depressive, symphonic, ambient, drone, atmospheric su tutte), che non impone necessariamente a una band di suonare per il solo gusto di raggiungere velocità warp; violenze sonore più accostabili al grindcore e cacofonie musicali che confondono l’ascoltatore e lo mandano in confusione troppo spesso, più tipiche di uno stile noise (ma sarà poi un genere musicale, mah?). I primi Napalm Death o il deathcore di molte band americane di fine anni ‘90 (pensiamo agli Atrocity US), sembrano qui far da padrone, più che oneste (e meglio centrate) storiche influenze tipiche del genere: dai primi Bathory ai Darkthrone, dai Mayhem ai Marduk …appunto, e prima ancora Venom ed Hellhammer . Furiosi attacchi sonori, poche pause, quasi nessun mid-tempo, ed un cantato – quello di Arioch, meglio conosciuto come Mortuus, frontman dei Triumphator e soprattutto singer dei Marduk dal 2004, all’anagrafe Hans Daniel Rostén – sovrastato spesso dalla base ritmica che copre il disperato tentativo di una voce che vuole emergere, senza quasi mai successo, come un operaio che cerca di farsi sentire dai propri colleghi, mentre un martello pneumatico in un cantiere assorda tutto e tutti . Queste sono – a mio avviso – le sensazioni che abbiamo, ascoltando i primi due lavori dei nostri. A dire il vero non butterei via completamente questi due album; per chi ama il raw portato all’estremo, un drummng – quello di Necromorbus – senza respiro, sparato alla velocità della luce, chitarra e basso che pare facciano a gara per decidere chi è più veloce, incartandosi qualche volta tra loro, generando effetti spesso cacofonici, e un cantato sempre in bilico tra lo scream e il growl, deve possedere anche questi primi lavori. Non fosse altro per comprendere meglio quale sia stata la successiva evoluzione (e aggiungo, per fortuna) del gruppo svedese, o farei meglio a dire della one-man band di Arioch, visto che dal successivo album, (Maranatha) sino ad arrivare all’oggetto della nostra recensione, i vecchi membri (Necromorbus e Nacash) sono scomparsi, sebbene fonti non ufficiali parlino di una collaborazione con il batterista dei Deathspell Omega.
Effettivamente già da Maranatha (2009) si percepiva l’intento di Mr. Rostén di voler cambiare qualcosa, di voltar pagina, di sperimentare. Intendiamoci, non a discapito della velocità – baluardo imprescindibile del frontman dei Marduk…appunto – bensì anche a favore di un suono più complesso, più misurato, più ragionato, per una miglior amalgama di velocità e pause, di violenza sonora e profondi cadenzati respiri. Arioch ha lavorato anche sulla propria voce, qui spesso in bilico tra uno scream e un crust (forse troppo spesso crust), intervallato dall’ossimoro, clean-sporco.
Inaspettato il cambiamento, inatteso il cambio di marcia. Inverosimile, seppur credibile e soprattutto agognato, il nuovo Hekatomb, ovvero il sinestetico oscuro sapore di diabolica maligna novità sonora; nefande furiose velocità permeate di annichilenti pause, rese ancor più sulfuree da un synth in sottofondo, trasportato da un desolato alito di vento, che pare uscito direttamente da Silent HIll (come in Cockatrice) e che quasi in un estremo mortale abbraccio, si lega alla successiva Metamorphosis, cadenzata da lenti ritmi funerei, suggellati dai dolorosi lamenti di Arioch, e da rabbrividenti cori gregoriani.
Non manca il tremolo tipico del guitar sound in pieno stile Black che, costruito su riff che tolgono letteralmente il fiato, fornisce munizioni al drumming, in una sparatoria sonora dove, come un potente e micidiale RPG, miete vittime tra gli ascoltatori. Stiamo parlando di tracks come Within the Without (non With or Without You), che nei brevissimi e rarissimi momenti di quiete, ci diletta con sottofondi di campane a morto, che flirtano con il cantato di Arioch, in un’armoniosa ma macabra storia d’amore; o come in Hosanna, vero fiume sonoro in piena, che esonda travolgendoci, come un flash flood tanto inaspettato, da coglierci all’improvviso, in una giornata tranquilla, annegando ogni nostro credo musicale, vero o falso che sia.
Che dire poi di Pallor Mortis, lamentoso mefitico momento teatrale “his et nunc”, che ci avvolge e ci obbliga a vivere – ora o mai più – un dissennato percorso musicale, che potrà solo ed unicamente portarci all’estremo fatale passo; laceranti e strazianti urla (forse) infantili, in un equilibrio da cerimoniale sabbatico, fanno da contraltare al disperato scream di Arioch, che più che in qualsiasi altra canzone dell’album, qui ci inebria e ci ubriaca di vino rancido, sino a farci perdere i sensi. Canzone terminale (anche nel letterale senso della parola) ma anche demoniaca avanguardia di quello che saranno (speriamo) le prossime future produzioni.

Tracklist
1.In Nomine Domini
2.Naught but Death
3.Shedding Skin
4.Cockatrice
5.Metamorphosis
6.Within the Without
7.Hosanna
8.Pallor Mortis

Line-up
Arioch – Bass, Vocals, Guitars

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DECAYED – Of Fire and Evil

Dodicesimo album dei capostipiti del Black Metal Lusitano. Un album maturo, completo, da avere assolutamente.

Sinceramente, quando nel 1992 ricevetti per posta il demo Thus Revealed dei portoghesi Decayed, autodefinitisi band black metal, nutrivo forti dubbi, non fosse altro per la loro provenienza.

Il 26 febbraio del lontano 1992 uscì, quello che per molti (e per il sottoscritto) fu il vero, primo, unico Manifesto del Black Metal, ossia A Blaze In The Northern Sky di Fenriz & Co. Il glaciale inizio, da dove tutto cominciò. Il Nero, Freddo ed Oscuro lato del Metal. La trasposizione del tutto musicale, fino ad allora conosciuto. Lo stravolgimento dei canoni fondamentali della musica. Suono estremo, per me, per pochi e per nessun altro. Misogina declinazione musicale, ove tutto era permesso, perché l’IO musicale era tutto…gli altri, il nulla. Vivo solitario, in terre dimenticate, di inverni precoci, di freddo glaciale, di oscuro male che incarna l’essenza della mia esistenza, della mia Terra, nordica, desolata, ove l’inverno stesso dura dodici mesi, ove il sole non brilla mai, né alto nel cielo, né nei nostri cuori. Immaginate ora lo stupore (ma soprattutto la reticenza) nell’affrontare un prodotto proveniente dal Portogallo, più precisamente da Parede/Cascais, vicino a Lisbona! Nel nostro (e nel mio, del tempo) immaginario, terra di sole, di calde estati e di miti inverni…Invece, dovetti ricredermi: al primo approccio, ricevetti una sferzata lungo la schiena. Rabbrividii all’ascolto di brani come Last Sleep e Awakened By Hate, minuti di intenso ipotermico libido musicale: era l’aprile del 1992, ma il demo era uscito già a gennaio, ossia un mese prima dell’uscita del Capolavoro! Da quel giorno, i Decayed – sempre fedelissimi al loro stile – ne hanno fatta di strada. Longevi come pochi altri (nati nel 1990 come Decay), oggi, questi “non più ragazzini” ci propongono Of Fire And Evil (ovviamente non d’amore e altre storie…). Partiamo subito con Firestorm (dopo un Intro da brividi – Winds from Hell), vera tempesta di fuoco; violento attacco sonoro senza compromessi, in stile Marduk, senza respiro. The Schyte Of Death incalza, con i suoi riff alternati a mid-tempo sempre ben amalgamati, in un botta e risposta che coinvolgerebbe anche l’headbanger più pigro a sbattere la testa, sino a quasi svenire. La successiva A Blood Moon è in pieno stile black nordico; ritmato da chitarre “zanzarose” e riffs monotoni e ripetitivi: l’essenza del black che, come spesso accade nell’album, i nostri non disdegnano di arricchire con – seppur brevi – assoli di lead. Spesso i pezzi vengono introdotti da un parlato brevissimo, che pare introduca sempre l’ascoltatore alla prossima avventura musicale, quasi una presentazione live al prossimo pezzo in divenire, ma che in realtà accrescono l’ansia per il nuovo ascolto. Dopo un altro ottimo assaggio di tradizionale black con Across The Sea e una pausa con i funerei arpeggi di Prelude To The Carnage, arriva (appunto) Blaphemous Carnage. Un pezzo che – soprattutto nel chorus –sembra uscito da Seven Churches; thrash black di cupo, satanico rovente inferno sonoro. Tsunami di note con l’immediata God Is Dead! titolo che non lascia dubbi, testo che illumina sugli intenti della band, note che uccidono  nostri padiglioni auricolari. La successiva track (The Skull Of Akator) ci trasporta direttamente ad El Dorado, o meglio conosciuta come Akator , ossia the lost city of gold, il vero capolavoro black metal di tutto l’album (e la mia preferita), tinta di epico mistero Inca. La successiva Alvorecer De Almas Perdidas (uscita anche come singolo e video ufficiale) è un pezzo travolgente, un misto di rabbia e furia, dove lo scream di Vulturius, da il meglio di sé, urlando sopra ad un susseguirsi di cambi tempo e ad un inseguirsi di chitarra-basso-batteria, tra tempi black, crust ed accelerazioni quasi alle soglie del grind. L’album termina con la title track, non una vera e propria canzone, ma una marcia funebre che, dopo un’oscura ma sensuale voce di donna che ripete Of Fire And Evil, quasi a convincerci che il Lato Sinistro del Sentiero sia quello giusto da percorrere, veniamo precipitati direttamente nei meandri dell’Inferno con Lui (il Diavolo) che ci ipnotizza, ci ottenebra la mente, in un sottofondo di funereo, terrificante terrore.
Vero, non siamo nel Finnmark norvegese ma, vi assicuro, anche questo viaggio in Portogallo raffredderà anche i cuori e gli animi più caldi.

Tracklist
1.Winds from Hell… Intro
2.FireStorm
3.The Scythe of Death
4.A Blood Moon
5.Across the Sea
6.Prelude to the Carnage
7.Blasphemous Carnage
8.God Is Dead!
9.The Skull of Akator
10.Alvorecer De Almas Perdidas
11.Of Fire and Evil

Line-up
José Afonso – Guitars, Vocals
Vulturius – Vocals, Bass
Gabriele Giuseppe Rachello – Drums

DECAYED – Facebook

MORTUARY DRAPE – NECROMANTIC DOOM RETURNS

Un salto nel passato. Un salto nel buio. La compilation contenente i primi due demo. Una perla da collezionismo.

Una band che non necessita di alcuna presentazione. Per chi, da anni, è appassionato di death/black/thrash, troverà sicuramente nella sua collezione un album di questo storico quintetto piemontese (ai tempi delle prime produzioni, quartetto).

Chi è più fortunato (e anziano) forse potrà vantare di possedere i loro primi lavori (su nastro), come Necromancy e Doom Returns (rispettivamente 1987 e 1989), i primi due storici demo-tape di una band che ha segnato ed influenzato i percorsi successivi di decine di gruppi, che hanno voluto perseguire la scia del death metal più oscuro, occulto, legato soprattutto a magia nera, esoterismo e negromanzia (si potrebbe parlare di “The dark side of the death” in questo caso…). Se non vi fosse riuscito di accaparrarvi questi due demo, alla fine degli anni ’80, ci ha pensato l’italiana Iron Tyrant (già responsabile di alcune importanti ristampe dei nostri, tra cui – su vinile e picture – il primo mitico ep Into the drape) che ci regala questa compilation, contenente appunto i primi due lavori più alcune tracce live, tra cui l’eponima Mortuary Drape e la funerea Inquisition. Si parte (dopo Intro d’obbligo che dà il nome al primo demo) con la cavalcata di Primordial, fulgido esempio di come il black/thrash/death & roll dei Venom da anni stesse mietendo vittime, nessuno escluso, nemmeno i nostri. Brividi lungo la schiena per Into the Catacomba, trito di funerei mid-tempo e riff magicamente neri, con poche accelerazioni, come nella successiva Presences che dopo un breve inizio di basso, passa in un crescendo da ritmi pesanti, ben cadenzati, a velocità tipiche del thrash ottantiano. Necromancer e Soul in Sorrow, con il loro black/thrash d’annata, ci mostrano come in quegli anni solo chi aveva coraggio prendeva strade in netta contraddizione con l’incalzare successo della spensieratezza tipica del thrash di quel periodo (si legga Caught in a Mosh del quintetto targato USA, o “parla inglese o muori” dei ragazzacci di NY), mai banalmente alla ricerca del successo facile, ottenebrando i riff, ovattando con carta carbone (quindi rigorosamente nera) ogni singola nota, lanciando messaggi di cupo, misterioso, arcaico, funereo, puro terrore. “Falling in a gloom Trance – drawing the sleep of dead” (da Medium Morte qui presente dal vivo, e che chiude questa compilation) non ci lascia dubbi, solo oscure certezze. Infine, non aspettatevi la produzione di The Astonishing dei Dream Teather. Contestualizziamo le demo-tape, siamo a fine anni ’80: qui sventola la bandiera dell’underground, finemente realizzata con drappi da camera mortuaria.

Tracklist
1.Necromancy (Intro)
2.Primordial
3.Into the Catacomba
4.Presences
5.Vengeance from Beyond
6.Obsessed by Necromancy
7.Evil Death
8.Undead Revenge
9.Necromancer
10.Pentagram
11.Obscure World
12.Soul in Sorrow
13.Intro
14.Mortuary Drape
15.Zombie
16.Inquisition
17.Medium Mortem

Line-up
Wildness Perversion – Vocals
D.C. – Lead Guitar
S.R. – Lead Guitar
S.C. – Bass Guitar
M-B. – Drums

MORTUARY DRAPE – Facebook