Solitvdo – Immerso In Un Bosco Di Querce

Un lavoro capace di coinvolgere emotivamente l’ascoltatore

Dopo aver parlato nei mesi scorsi di due ottime uscite in ambito estremo provenienti dalla Sardegna, Infamous e VIII, oggi è il turno di un altro musicista isolano, Daniil (accreditato nel lavoro come DM), con il suo progetto Solitvdo.

A differenza di quello dalle sfumature depressive dei primi oppure virato verso sonorità death dei secondi, qui il black metal si accompagna ad atmosfere più melanconiche e, a tratti, ambient, raggiungendo vette di lirismo per certi versi sorprendenti.
L’utilizzo della lingua italiana e la solennità che ne pervade diversi passaggi, rendono il lavoro dei Solitvdo parzialmente accostabile a quello degli Abbas Taeter di Mancan ma, indubbiamente, rispetto all’opera del musicista lucano, prevale un’aura maggiormente introspettiva.
Immerso In Un Bosco Di Querce possiede, tra le sue peculiarità, liriche redatte in uno stile elegiaco che contribuisce ad ammantare di un fascino antico tracce dalle eccellenti linee melodiche: il risultato è un lavoro privo di sbavature (se escludiamo la registrazione della voce che poteva essere messa maggiormente in evidenza) e capace di coinvolgere emotivamente l’ascoltatore grazie a una scrittura mai scontata da parte dell’ottimo Daniil.
L’incipit sinfonico di Alba… introduce ad un brano come …Rivolta! che mostra senza indugi le doti del musicista sardo, un classico mid-tempo che si apre nella sua fase centrale in una parte strumentale di rara bellezza, per poi chiudersi con una sezione chitarristica di matrice classica.
La title-track è, invece, l’istantanea in grado di rappresentare al meglio la sensibilità compositiva di Daniil, riversata in una decina di minuti nei quali vengono condensate le coordinate musicali e filosofiche dell’intero lavoro, tra accelerazioni, momenti acustici e dolenti melodie, a fungere da tappeto per i poetici testi declamati con uno screaming non troppo aspro e sufficientemente intelligibile.
Altvm Silentivm è un elegante interludio ambient folk che porta alle due tracce conclusive (Al Tramonto Il Cielo In Fiamme e Nella Solitudine Il Divino), le quali, nonostante i 25 minuti complessivi di durata, non mostrano cali qualitativi evidenziando, al contrario, passaggi di rara bellezza, rivelandosi così la degna conclusione di un lavoro che, per il momento, è stato pubblicato in sole 48 copie dalla Eremita Produzioni nel formato tape, ma per il quale è prevista a dicembre l’uscita in digipack sotto l’egida della Naturmacht.
Solitvdo, in fondo, non rappresenta solo il monicker scelto per il progetto ma definisce anche un modus operandi sempre più in auge, che vede musicisti dediti a svariati generi scegliere di operare in totale autonomia, perdendo forse qualcosa, rispetto alle band classiche, a livello di reciproco scambio di idee e di ricchezza a livello strumentale, ma guadagnando altrettanto in libertà artistica e consentendo una più efficace focalizzazione degli obiettivi che si intendono raggiungere.
Un’opera come Immerso In Un Bosco Di Querce mette in luce i lati positivi di questa scelta senza alcuna controindicazione; fate vostro questo lavoro, nel formato che più vi aggrada, ne vale davvero la pena.

Tracklist:
1.Alba…
2…Rivolta!
3.Immerso In Un Bosco Di querce
4.Altvm Silentivm
5.Al Tramonto Il Cielo In Fiamme
6.Nella Solitudine Il Divino

SOLITVDO – Facebook

Nazgul Rising – Orietur in Tenebris Lux Tua

I Nazgul Rising regalano agli ascoltatori una quarantina di minuti di symphonic black al suo massimo splendore.

Il black metal cosiddetto sinfonico, dopo aver vissuto i suoi fasti con i primi Cradle Of Filth e successivamente con i Dimmu Borgir, è decisamente tornato ad essere un sottogenere di nicchia all’interno di un ambito stilistico nel quale, peraltro, l’uso massiccio delle tastiere è sempre stato visto con sospetto dai puristi.

Così, come spesso accade, dopo l’inevitabile ondata di cloni più o meno riusciti delle band guida, il ritorno ad una condizione di minore visibilità per chi si dedica a questo tipo di suoni ha fatto sì che la qualità tornasse a rivendicare il proprio primato.
I romani Nazgul Rising rappresentano uno dei migliori esempi al riguardo: rifattisi vivi dopo un lungo silenzio, pubblicano il loro primo album Orietur in Tenebris Lux Tua che si rivela una delle migliori prove ascoltate di recente in quest’ambito.
Il symphonic black del combo guidato da Trukus Trukulentus non può ovviamente connotarsi come un qualcosa di innovativo, ma possiede il grande pregio di mantenere sempre un perfetto equilibrio tra le partiture melodiche delle tastiere ed l’aggressività del black sound.
Non solo: mi spingo a dire che nomi di peso ormai da anni si sognano di comporre una raccolta di brani così efficaci e coinvolgenti, ognuno ricco di passaggi atmosferici di spessore non comune.
Emblematiche, al riguardo, le tracce centrali: Awake the Ancient Hordes of the Black Twilight è un brano strutturato su diversi piani nei quali spicca un refrain melodico difficilmente rimovibile, mentre Damnatio ad Bestias, in certi momenti, può ricordare nel suo incedere un’ipotetica versione sinfonica dei Rotting Christ, senza tralasciare infine la maestosa solennità della conclusiva Beyond the Abyss.
È in ogni caso l’intero album a non lasciare alcun dubbio sulla validità della proposta dei Nazgul Rising, che regalano agli ascoltatori una quarantina di minuti di symphonic black al suo massimo splendore.
Ecco … invece di prestare attenzione ai soliti nomi che, per carità, tanto hanno dato a livello di impronta a certi generi musicali ma che oggi sono solo sbiadite caricature di se stessi, non sarebbe male che gli appassionati provassero ad abbandonare le strade più comode scegliendo, invece, di percorrere sentieri meno battuti: in tal caso potrebbero imbattersi in realtà nascoste e, per questo, ancor più preziose come i Nazgul Rising.

Tracklist:
1. Intro
2. Battlefields of Desolation
3. The Serpent Cult
4. Awake the Ancient Hordes of the Black Twilight
5. Damnatio ad Bestias
6. Hymn of Decay
7. Throne of Eblis
8. Beyond the Abyss

Line-up:
Trukus Trukulentus – Guitars
Lord Trevius – Guitars, Bass, Drum programming
Borius The King – Vocals

NAZGUL RISING – Facebook

Atom – Horizons

“Horizons” si rivela un album decisamente ricco di spunti interessanti, a conferma del fatto che, spesso, i lavori dediti al black metal e prodotti in totale autarchia regalano risultati sorprendenti, nonostante tutti i limiti oggettivi che possono derivare da tale condizione.

Atom, progetto solista di Fabio, musicista cesenate, arriva al suo secondo atto su lunga distanza dopo l’esordio avvenuto lo scorso anno con “Waiting for the End”.

Horizons si rivela un album decisamente ricco di spunti interessanti, a conferma del fatto che, spesso, i lavori dediti al black metal e prodotti in totale autarchia regalano risultati sorprendenti, nonostante tutti i limiti oggettivi che possono derivare da tale condizione.
Proprio il fatto di riuscire a proporre un lavoro privo di particolari cali di tensione nell’arco dei suoi tre quarti d’ora di durata, denota doti compositive di buon livello e, pur muovendosi in un ambito musicale decisamente affollato, è apprezzabile in particolare una certa impronta personale conferita da Fabio alla diverse tracce.
Di fatto il black degli Atom prende spunto a livello stilistico e ritmico da quello di matrice scandinava, arricchendolo con un gusto melodico sempre in primo piano: grazie a questo, il latente senso misantropico che aleggia sui brani viene stemperato in umori più malinconici che, più di una volta, vanno a sconfinare nel depressive, creando così un flusso sonoro sempre in bilico tra queste due anime.
Per gusto personale ho molto apprezzato sia la traccia d’apertura External Spectator sia, soprattutto, l’accoppiata centrale formata da Hazy Dreams, con la sua trascinante melodia chitarristica, e The Cold Eternal Light, dove sempre la chitarra regala arpeggi pregevoli, nelle quali il musicista romagnolo riesce probabilmente a focalizzare al meglio i propri intenti.
Meno convincente, invece, un brano come Atheist Manifesto, proprio perché esce parzialmente dalle coordinate sonore espresse negli episodi citati risultando così poco funzionale al contesto del lavoro, mentre un aspetto sul quale ci sarebbe da apportare qualche correttivo, anche in fase di produzione, sono senz’altro le vocals: lo screaming è troppo gracchiante in certi momenti, rivelandosi adatto stilisticamente ai tratti disperati del depressive più intransigente, piuttosto che alle sonorità meno esasperate in tal senso contenute in Horizons.
Se è vero che nel black non si va certo alla ricerca del bel canto, sarebbe ugualmente auspicabile nel futuro il ricorso ad uno stile vocale meno aspro e, magari, parzialmente intelligibile, vista anche la buona qualità dei testi.
Un peccato veniale che inficia, comunque, in minima parte la resa oltremodo soddisfacente di un album che mette in evidenza un nuovo stimolante progetto solista sfornato dall’underground estremo tricolore.

Tracklist:
1. External Spectator
2. Through Empty Days
3. Hazy Dreams
4. The Cold Eternal Night
5. Prelude to the Disenchantment
6. Atheist Manifesto
7. Dead Time
8. Horizons (outro)

Line-up:
Fabio – All Instruments, Vocals

ATOM – Facebook

Demonic Resurrection – The Demon King

The Demon King è un lavoro assolutamente da ascoltare, un macigno di metal estremo sinfonico che vi stupirà.

L’India regala band e gioiellini metallici ogni qualvolta il nostro sguardo ma, soprattutto, il nostro udito si rivolge verso il lontano paese asiatico.

I Demonic Resurrection non sono neanche dei novellini della scena metallica del paese, a ben vedere, e il loro debutto (“Demonstealer”) risale addirittura al 2000; per arrivare e prima di questo ultimo The Demon King hanno pubblicato altri due full-length, “A Darkness Descends” (2005) e “The Return to Darkness” (2010).
Il gruppo di Mumbai continua per la sua strada fatta di un black/death sinfonico sulla scia dei Dimmu Borgir, contaminato dal death progressivo alla Opeth, molto ben riuscito, suonato alla grande e dall’impatto devastante.
Il nuovo album, sempre per Candlelight, non sposta di una virgola le coordinate del gruppo e piacerà agli amanti dei generi estremi sopracitati, portando con sè lo spirito e le strutture che hanno fatto grandi le band di riferimento.
Le tastiere di Mephisto sono le protagoniste del sound della band, molto ben inserite nel contesto sonoro, il songwriting viaggia a ritmi veloci con pochi intermezzi per musicisti che vanno subito al sodo, intrattenendoci con la giusta cattiveria e buone idee.
Facing the Faceless, la title-track e Shattered Equilibrium sono le song che, ad un primo ascolto, mi hanno entusiasmato, ma il disco nel complesso gira che è un piacere, mantenendosi al di sopra della media nel genere proposto.
Non è la prima volta che incontro album cosi ben riusciti provenienti dall’India, probabilmente l’essere al di fuori dei circuiti europei o americani permette alle band di sviluppare il proprio credo musicale senza farsi condizionare troppo dalle mode del momento e andando dritte per la loro strada; i Demonic Resurrection ne sono l’ennesima prova: ottimi musicisti, produzione perfetta e composizioni che stupiscono per maturità e talento.
Ottime le parti in growl e riuscite anche quelle pulite ad opera di The Demonstealer, anche chitarrista, e perfetta la sezione ritmica, sia nelle sfuriate black sia nelle parti più cadenzate dal sapore death; l’elemento sinfonico è sempre presente, aggiungendo un tocco epico al sound di questo bellissimo lavoro e richiamando alla memoria un altro nome, magari meno famoso, come quello dei Bal-Sagoth, che hanno influenzato più gruppi di quanto si possa immaginare.
The Demon King è un lavoro assolutamente da ascoltare, un macigno di metal estremo sinfonico che vi stupirà.
Monumentale.

Tracklist:
1. The Assassination
2. Facing the Faceless
3. The Promise of Never
4. Death, Desolation and Despair
5. The Demon King
6. Architect of Destruction
7. Trail of Devastation
8. Shattered Equilibrium
9. Even Gods Do Fall
10. The End Paradox

Line-up:
The Demonstealer – Vocals, Guitars
Mephisto – Keyboards
Virendra Kaith – Drums
Ashwin Shriyan – Bass
Nishith Hegde – Guitars (lead)

DEMONIC RESURRECTION – Facebook

Blut Aus Nord / P.H.O.B.O.S. – Triunity

Molto valida l’idea della Debemur Morti di abbinare in questo split album due realtà che, muovendosi da punti di partenza piuttosto lontani tra loro,sono approdate con il tempo a sonorità relativamente vicine, non solo per attitudine sperimentale.

Split dalle diverse ed interessanti motivazioni, questo che vede all’opera due band francesi differenti per fama ed estrazione, ovvero i monumenti del black/death avanguardistico Blut Aus Nord e gli interessanti industrial doomsters P.H.O.B.O.S..

C’era ovviamente curiosità per le scelte stilistiche intraprese da Vindsval e soci dopo la trilogia “777” che aveva spostato progressivamente il sound verso coordinate meno estreme per approdare ad una sorta di dark industrial/ambient nell’atto conclusivo “Cosmosophy”: chi non aveva apprezzato tale svolta può dormire sonni tranquilli visto che i Blut Aus Nord sono tornati a fare, con la bravura che è loro riconosciuta, quel metal estremo ricco di dissonanze ma, nel contempo, capace di avvolgere nelle proprie intricate spire, che ha fornito in passato frutti prelibati; le tre tracce sono ugualmente intense, complesse e avvincenti, anche se la vena oscuramente melodica che si manifestava a tratti in “777” non è andata del tutto dispersa (Némeïnn). Dei P.H.O.B.O.S., al contrario, nulla conoscevo pertanto non ho a disposizione particolari termini di paragone: intanto va detto che trattasi di una one-man band, attiva da oltre un decennio e con tre full-length all’attivo, condotta dal parigino Frédéric Sacri e, indubbiamente, il loro industrial doom non mostra il minimo ammiccamento a sonorità più fruibili, mostrandosi impietosamente ossessivo, alienante, insomma nulla che possa interessare qualcuno che non abbia un minimo di familiarità con questi suoni, ma molto intrigante per chi, invece, in passato si fece irretire da entità mostruose quali Godflesh o Scorn. Ho trovato molto valida l’idea della Debemur Morti di abbinare in questo split album due realtà che, muovendosi da punti di partenza piuttosto lontani tra loro, sono approdate con il tempo a sonorità relativamente vicine, non solo per attitudine sperimentale. Triunity si rivela così, nel contempo, una risposta eloquente ai dubbi espressi da qualcuno (non certo da parte mia, visto che considero la trilogia “777” un’opera magnifica in ogni sua parte) nei confronti delle scelte stilistiche operate dai Blut Aus Nord nel recente passato, e un’opportunità per far conoscere ad un pubblico auspicabilmente più ampio i meno noti ma ugualmente efficaci, nonché degni della massima attenzione, P.H.O.B.O.S..

Tracklist:
1. Blut aus Nord – De Librio Arbitrio
2. Blut aus Nord – Hùbris
3. Blut aus Nord – Némeïnn
4. P.H.O.B.O.S. – Glowing Phosphoros
5. P.H.O.B.O.S. – Transfixed at Golgotha
6. P.H.O.B.O.S. – Ahrimanic Impulse Victory

Line-up:
Blut aus Nord:
Vindsval – Vocals, Guitars GhÖst – Bass
Gionata “Thorns” Potenti – Drums

P.H.O.B.O.S.:
Frédéric Sacri – Guitars, Keyboards, Vocals

BLUT AUS NORD – Facebook

Chiral – Abisso

Un EP davvero coinvolgente, composto da un musicista che, a giudicare dalle premesse, possiede tutti i numeri per lasciare in un prossimo futuro un segno tangibile nella scena metal tricolore.

Chiral è un giovane musicista piacentino che, con Abisso, mostra senza indugi il suo intento di proporre musica in grado di coniugare le ruvidezze e le ritmiche del black, la disperazione del depressive ed il malinconico gusto melodico di un progressive dai tratti ovviamente piuttosto cupi.

Abisso è un EP che arriva ad un anno di distanza dal demo “Winter Eternal” e, considerando che il progetto Chiral è di nascita recente, stupisce ancor di più la qualità messa in mostra in questa occasione.
Il lavoro è un breve concept incentrato sulle reazioni di una persona messa di fronte alla cruda realtà di dover affrontare la tragedia di una malattia incurabile e sulle nefaste conseguenze che ciò provoca anche a livello psichico, fino all’approssimarsi dell’atto conclusivo.
In questo senso le tematiche trattate non sono una novità (al riguardo vi invito a riscoprire il magnifico “The Incurable Tragedy” degli Into Eternity) ma spicca fin da subito l’abilità di Chiral nel tratteggiare i singoli momenti del racconto, alternando momenti di rabbia, dolore e disperazione ben rappresentati dalle diverse sfumature stilistiche esibite nelle diverse circostanze.
Abisso è diviso in due atti: il primo introduce in maniera efficace l’ascoltatore in questo riuscito melange emozionale con Disceso Nel Buio e Oblio, prima che la title-track apra il secondo ergendosi a brano guida ed autentica perla, nella quale le accelerazioni del black lasciano ancor più spazio a momenti di grande pathos creati dal lavoro chitarristico di Chiral, che privilegia l’impatto e l’intensità rispetto al puro sfoggio di tecnica: mai come in questo caso l’etichetta progressive affibbiata al nostro si rivela agli antipodi di una sterile e solo formale vena sperimentale.
Un EP davvero coinvolgente, composto da un musicista che, a giudicare dalle premesse, possiede tutti i numeri per lasciare in un prossimo futuro un segno tangibile nella scena metal tricolore.

Tracklist:
1. Atto I: Disceso Nel Buio
2. Atto I: Oblio
3. Atto II: Abisso
4. Atto II: In Assenza

Line-up:
Chiral – Everything

CHIRAL – Facebook

Ars Moriendi – La Singulière Noirceur d’un Astre

Arsonist si dimostra abile nell’amalgamare le ruvidezze del black con un indole progressiva dalle tinte fosche raggiungendo il risultato, tutt’altro che scontato, di esibire una certa varietà di schemi senza che questa risulti, nel contempo, troppo cervellotica.

Non è una novità constatare che la scena estrema francese è, probabilmente, quella con il più elevato numero di band in grado di proporre sonorità fuori dagli schemi riuscendo a coniugare originalità ed efficacia.

A metà degli anni ’90, nelle terre d’oltralpe, Misanthrope ed Elend, sia pure su piani stilistici differenti, mettevano già ampiamente in mostra quell’indole sperimentale che avrebbe portato qualche anno più tardi nomi quali Blut Aus Nord e Deathspell Omega a collocarsi quali punte di un movimento, definibile a grandi linee, come black metal avanguardistico. Gli Ars Moriendi, one man band di Clermont-Ferrand, attiva da oltre un decennio e giunta, con La Singulière Noirceur d’un Astre, al terzo album, possono in qualche modo essere accostabili per umori e suoni alle prime due band citate, alla luce di una spiccata versatilità unita ad un gusto melodico di prim’ordine, anche se, di fatto, in molti passaggi appare piuttosto evidente soprattutto la vicinanza con i tedeschi Nocte Obducta. Arsonist si dimostra abile nell’amalgamare le ruvidezze del black, invero non troppo accentuate, con un indole progressiva dalle tinte fosche raggiungendo il risultato, tutt’altro che scontato, di esibire una certa varietà di schemi senza che questa risulti, nel contempo, troppo cervellotica. L’album è composto da cinque lunghi brani, piuttosto differenti tra loro per stile ed umori, tra i quali spicca l’episodio che maggiormente richiama alla mente la band di Mainz, De Ma Dague …, che si guadagna la menzione d’onore per il suo scorrere, con buona fluidità, tra partiture atmosferiche basate su liquide note di chitarra ed accelerazioni controllate guidate dalla voce aspra, ma espressiva, del musicista francese. Ma La Singulière Noirceur d’un Astre è davvero molto più di un semplice gioco di rimandi: Arsonist fa vivere ampiamente la sua creatura di luce propria, passando senza soluzione di continuità da frammenti di minimalismo ad ampie aperture atmosferiche, da canti ecclesiastici alla furia dei blast beat, per una caleidoscopica esibizione di indiscutibile talento compositivo. Il terzo album degli Ars Moriendi è senz’altro di non facile fruizione ma non presenta, d’altro canto, quei momenti di sperimentazione fine a se stessa dei quali, spesso, in molti abusano per occultare una semplice carenza di idee. Davvero un ottimo lavoro che potrebbe indurre diversi ascoltatori ad effettuare una ricognizione retrospettiva della produzione della one man band transalpina.

Tracklist:
1. De l’intouchable mort
2. Vanité
3. De ma dague…
4. Ars Moriendi
5. La singulière noirceur d’un astre

Line-up: Arsonist All instruments, Vocals

ARS MORIENDI – Facebook

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VIII – Drakon

“Drakon” è un album al quale la semplice etichetta death/black non solo sta stretta ma, per certi versi, può risultare anche fuorviante, alla luce delle pesanti influenze dark-doom e di una certa vena sperimentale esibita in diverse parti del lavoro.

L’esordio su lunga distanza del duo sardo VIII (già Division VIII) è l’ennesima espressione di vitalità di una scena estrema italiana in teoria inesistente, almeno se dovessimo dar retta ai singoli musicisti di volta in volta interpellati, ma che, per fortuna, continua a sfornare puntualmente band e dischi di notevole fattura.

Drakon ne è un ulteriore esempio, nel suo esibire un black death che possiede tutti gli ingredienti per soddisfare gli appassionati di questa sonorità, in particolare chi apprezza i Forgotten Tomb che, volutamente o meno, vengono chiamati sovente in causa nelle parti più ritmate.
Se l’opener Ode To Qayin ci fa intravvedere una band che si muove appunto nei pressi di un black metal cadenzato e di grande efficacia, la successiva Chalice With Blood Poisoned by Snake Bite, dopo una partenza che pare confermare tale tendenza esibisce invece rallentamenti e passaggi caratterizzati da una caliginosa oscurità: ed è in effetti questo il vero marchio del duo cagliaritano, ovvero l’alternanza tra le sfuriate tipiche del black tradizionale e le aperture al death più cupo e dalle sfumature occulte, unite a passaggi asfissianti ai limiti del doom.
Insomma non ci si annoia certo con gli VIII, tra la rivisitazione della marcia funebre nella cangiante Exequias Itinera, un brano dal tocco funereo come In Utero Matris che, complice l’uso dell’hammond, avrebbe fatto la sua ottima figura nella tracklist di “Feretri” degli Abysmal Grief, e la title-track, episodio black doom che lascia il segno delimitando la parte centrale del lavoro.
Le trame allucinate di Meta Stasis – Carcinogenic Cell, specialmente nella sua seconda metà, e della conclusiva Descending the Abyss, sono la pietra tombale collocata su un lavoro indubbiamente complesso ma che merita d’essere sviscerato nella sua interezza.
Il rischio che passi inosservato, confuso tra le miriadi di uscite, è piuttosto elevato, ed è anche compito di chi tratta di musica sulla carta stampata o sul web far sì che ciò non avvenga; tra l’altro Drakon è un album al quale la semplice etichetta death/black non solo sta stretta ma, per certi versi, può risultare anche fuorviante, alla luce delle pesanti influenze dark-doom e di una certa vena sperimentale esibita in diverse parti del lavoro.
Francamente nomi ben più noti e pubblicizzati non hanno minimamente raggiunto il livello di intensità toccato con questo loro primo album dagli VIII, ai quali oggettivamente manca solo una produzione appena un po’ più nitida e, magari, anche qualcuno che si prenda seriamente la briga di promuoverne la musica in loro vece.

Tracklist:
1. Ode To Qayin
2. Chalice With Blood Poisoned by Snake Bite
3. Exequias Itinera
4. In Utero Matris
5. Drakon
6. Meta Stasis – Carcinogenic Cell
7. Descending the Abyss

Line-up:
DrakoneM – Vocals, Guitars, Bass
Mark – Drums

VIII – Facebook

The Committee – Power Through Unity

Al netto delle tematiche trattate, quest’esordio dei The Committee è uno dei migliori che mi sia capitato di ascoltare in questa prima metà del 2014 e, alla fine, questo è ciò che più conta.

Una copertina a dir poco sospetta e molti altri particolari inerenti questa band potrebbero scoraggiare l’ascolto da parte di chi cerca di tenersi alla larga da dischi che possano, in qualche modo, mostrare un preciso schieramento degli autori a livello ideologico.

Passando al vaglio tutti gli aspetti, dalla grafica ai testi, istintivamente verrebbe da collocare questa band, che ha la propria base operativa in Belgio, piuttosto a destra ma, al riguardo, i The Committee dichiarano di essere apolitici, essendo il loro unico intento quello di dare una voce ai morti, in particolare a quelli che, nelle diverse guerre che hanno insanguinato l’Europa negli ultimi cent’anni, si sono trovati dalla parte degli sconfitti. A questo punto devo necessariamente fidarmi del russo Igor Mortis e soci (tutti provenienti da nazioni differenti), perché, fortunatamente, per farmi ricredere mettono sul piatto un argomento potentissimo quale è la musica, che giunge a spazzare via buona parte delle remore nell’avvicinamento a questo disco. Power Through Unity, infatti, è uno splendido album a base di un black doom dai toni perennemente drammatici e solenni, come impone del resto la scelta lirica della band che verte essenzialmente su una rilettura dei momenti più tragici della storia russa dalla rivoluzione in poi. Una produzione impastata il giusto, che forse toglie limpidezza ai suoni rendendoli nel contempo ancora più cupi, una scelta stilistica che predilige ritmi medi o rallentati, e brani che mantengono sempre alta una certa tensione emotiva, sono le caratteristiche peculiari di un lavoro che, indubbiamente, si rivela una piacevole sorpresa, presentando al suo interno due episodi formidabili per intensità quali By My Bare Hands e The Last Goodbye, entrambi pesantemente influenzati dal doom, ma senza che per questo il resto della tracklist sia trascurabile: Not Our Revolution e The Man of Steel sono due mid-tempo di grande spessore, nei quali i The Committee si muovono come una sorta di versione raffinata degli Immortal, con le chitarre a tessere con il caratteristico tremolo linee melodiche di sicuro coinvolgimento. Non da meno neppure Katherine’s Chant, che nella parte finale riprende la melodia dell’omonimo e notissimo canto popolare sovietico, mentre Power Through Unity costituisce l’emblema dell’auspicata coesione tra i popoli russi e germanici, riuscendo a inserire in maniera efficace i temi portanti dei due inni nazionali all’interno della canonica struttura black. Il tema della riscrittura della storia a seconda di chi sia il detentore del potere è sicuramente sempre attuale (e noi italiani lo sappiamo molto bene), così come è altrettanto evidente che i punti di vista possano cambiare, a seconda del vissuto delle popolazioni coinvolte e, in ogni caso, penso che nessuno possa avere qualcosa da eccepire sulla condanna delle atrocità subite dai deportati nei gulag o sulla commiserazione delle vittime delle guerre; detto questo, ribadisco che questo album d’esordio dei The Committee, al netto delle tematiche trattate, è comunque uno dei migliori che mi sia capitato di ascoltare in questa prima metà del 2014 e, alla fine, questo è ciò che più conta.

Tracklist:
1. Not Our Revolution
2. The Man of Steel
3. By My Bare Hands
4. The Last Goodbye
5. Katherine’s Chant
6. Power Through Unity

Line-up:
Marc Abre – Bass, Backing Vocals
William Auruman – Drums, Percussion
Aristo Crassade – Guitars, Backing Vocals
Igor Mortis – Vocals, Guitars

THE COMMITTEE – Facebook

Dark Mirror Ov Tragedy – The Lunatic Chapters Of Heavenly Creatures

I Dark Mirror Ov Tragedy ci regalano una vera opera Horror,drammaticamente romantica e dotata di un fascino irresistibile.

L’immaginario orrorifico in oriente è piu’ radicato di quello che si possa pensare: ogni paese, dal Giappone alla Cina, passando per le due Coree, abbondano di leggende su fantasmi e vampiri e, inevitabilmente, anche la letteratura e il cinema da quelle parti hanno un loro consolidato panorama horror, che ultimamente abbiamo avuto modo di gustare nei remake americani come il famosissimo “The Ring”, buona pellicola di genere ma ovviamente nemmeno paragonabile alla terrificante versione originale.

Dalla Corea del Sud abbiamo potuto ammirare il bellissimo “Two Sisters”, film gothic sulla falsariga del ben più famoso “The Others” con la splendida Nicole Kidman uscito alcuni anni fa. Aggiungiamoci una cultura musicale che nei paesi occidentali neanche ci sogniamo (nelle scuole la musica è presa molto seriamente e messa alla pari delle altre materie) e che determina nei ragazzi un’ottima conoscenza della musica e degli strumenti classici. Non c’è da meravigliarsi allora se dalla Corea del Sud arrivano a noi, tramite WormHoleDeath, questi ottimi Dark Mirror Ov Tragedy, combo di ben sette elementi nato nel 2003 e con due full-length ed un Ep in archivio. Il loro The Lunatic Chapters Of Heavenly Creatures, nuovo e bellissimo album, stupisce per abilità tecnica e songwriting al top, riportando allo splendore le gesta di Dani Filth e dei suoi Cradle e dei magnifici lavori dei primi anni novanta, quei “The principle of evil made flesh” e “Dusk and her embrace”. Ma, credetemi, neppure la band inglese riusciva, anche in album che hanno creato un genere partendo da una base black, ad essere cosi magniloquente nelle sinfonie di cui questo lavoro è colmo, strabiliando nelle melodie del piano e del violino che, più di altro, fanno la differenza. Il vocalist Material Pneuma mantiene per tutto l’album uno screaming filthiano, in linea con le band di genere, le due asce, al secolo Senyt e Gash, macinano riff come da copione e la sezione ritmica (Reverof- basso e Confyverse-batteria) vola come uno sciame di pipistrelli sul cielo di Seul, ma keyboards e violino sono di un’altra categoria: Zyim ed Arthenic ammaliano, tra fughe sinfoniche e intermezzi di raggelante atmosfere gothic, facendo risplendere i loro strumenti grazie anche ad una produzione ottima che offre la possibilità di godere della loro abilità anche quando la band spara bordate di metallo estremo, reso elegante dalle sempre bellissime melodie degli strumenti classici. Una vera opera horror, drammaticamente romantica e dotata di un fascino irresistibile, come lo sguardo ammaliante di un vampiro dagli occhi a mandorla. I brani di questo incredibile lavoro sono tutti indiscutibilmente riusciti, ma una menzione particolare va a Dancing in the Burning Mirror, The Constellation of Shadows e The Name of Tragedy. Potreste pure perdervi un album di questo genere, basta che non andiate in giro a dire che meglio dei Cradle of Filth non c’è nessuno. Fantastici.

Tracklist:
1. Thy Sarcophagus
2. Unwritten Symphony
3. Dancing in the Burning Mirror
4. Ichnography on Delusion
5. Virtuoso of the Atmosphere
6. Perish by Luminos Dullness
7. The Constellation of Shadows
8. The Name of Tragedy
9. The Noumenon I Carved

Line-up:
Gash – Guitars
Material Pneuma – Vocals (lead)
Confyverse – Drums
Reverof – Bass, Vocals (backing)
Senyt – Guitars
Arthenic – Violin
Zyim – Keyboards

DARK MIRROR OV TRAGEDY – Facebook

Narbeleth – A Hatred Manifesto

Black metal a Cuba? Difficile immaginare qualcosa di più lontano dall’immaginario scandinavo, eppure i Narbeleth risultano credibili quanto una band di Bergen.

Black metal a Cuba? Difficile immaginare scenari sociali e naturalistici più lontani dall’immaginario scandinavo, eppure…

Nel paese caraibico in effetti esiste una scena metal composta da qualche decina di band dedite per lo più ai generi estremi; in tal senso quindi Dakkar, titolare del progetto solista Narbeleth, non è una mosca bianca ma rappresenta in ogni caso un’anomalia. È tanto più apprezzabile, quindi, questo suo riuscito tentativo di fare proprio un genere musicale che per una lunga serie di buoni motivi non dovrebbe far parte del dna di alcun abitante dell’isola. Per assurdo proprio questo, alla fine, consente ai Narbeleth di non omologarsi eccessivamente ai consueti dettami stilistici nel cimentarsi in un genere nel quale il più è già stato detto, esibendo invece quella purezza d’intenti che chi opera in nazioni metallicamente più evolute per forza di cose tende a smarrire. Dakkar propone un black che reca l’impronta di una band storica come gli Immortal, con qualche rimando anche al progetto solista di Abbath, I, e dei meno noti ma ugualmente validi Urgehal (omaggiati con la cover di Nyx) del compianto Trondr Nefas, ma la differenza la fa l’intensità con la quale il musicista cubano spara questa mezz’ora di black di levatura sorprendente per la sua capacità di riproporre con assoluta freschezza sonorità che ormai conosciamo a memoria . Al di là delle ottime Breathing a Wind of Hatred e Nihilistic Propaganda, il lavoro dei Narbeleth non mostra mai la corda, nonostante l’inevitabile sospetto con il quale si finisce per guardare un prodotto di questo tipo quando proviene da aree geografiche diverse da quelle tradizionali, figuriamoci poi quando ci arriva da luoghi che evocano immagini decisamente meno disturbanti rispetto a quelle riconducibili all’iconografia del black metal. Un progetto senz’altro valido quello di Dakkar, e a questo punto potrebbe anche valere la pena di riscoprire il suo precedente full-length, “Diabolus Incarnatus”, risalente al 2012.

Tracklist:
1. Total Isolation
2. Breathing a Wind of Hatred
3. Fuck Off!
4. Rotten to the Core
5. Land of the Heathen
6. Posercorpse
7. Nihilistic Propaganda
8. Nyx (Urgehal cover)

Line-up:
Dakkar – All instruments, Vocals

NARBELETH – Facebook

Imber Luminis – Imber Aeternus

Un disco che va ascoltato con la giusta predisposizione d’animo, pena il rischio di rifiutarlo non appena i suoni si intristiscono e la voce di Déhà esprime senza alcuna mediazione le sensazioni di uno spirito lacerato da un dolore che non può essere in alcun modo lenito né sopportato.

Ci sono al mondo persone particolarmente in gamba, capaci di ottimizzare al massimo il proprio tempo per dedicarsi a molteplici attività, e il fatto che ci riescano pure con buoni risultati crea un senso di leggera frustrazione a chi fatica nell’organizzarsi in maniera decente una normalissima esistenza.

Il caso in esame è quello del musicista belga Déhà, che i lettori dotati di migliore memoria ricorderanno d’aver trovato anche nelle recensioni dei Deos, degli Slow e dei C.O.A.G..
Il fatto sorprendente non è solo che tutti questi lavori fossero accomunati da una qualità non comune ma risiede soprattutto nella varietà dei generi trattati, aspetto che depone a favore della versatilità compositiva di Déhà: infatti, se nei Deos, in compagnia di Daniel Neagoe, il genere prescelto era un death-doom di ottima fattura, con il monicker Slow spostava le coordinate sonore verso un funeral altrettanto convincente mente come C.O.A.G., in maniera invero sorprendente, si cimentava con le velocità esasperate del grindcore.
Imber Luminis ci mostra un ulteriore volto del musicista di Mons e, anche se è sempre il doom la base di partenza, in effetti questo è, tra tutti i lavori citati, quello che mostra le maggiori sfaccettature stilistiche.
Due brani lunghissimi, ciascuno ben oltre i venticinque minuti, conducono l’ascoltatore in un viaggio che prende l’avvio con le note dai tono quasi sognanti, ai confini dello shoegaze, di Imber, per poi spostarsi progressivamente, sia nel corso dello stesso brano sia in particolare con la successiva traccia Aeternus, verso una sofferenza priva di filtri, urlata nel vero senso del termine, facendo impallidire in tal senso anche i più estremi esponenti del depressive.
Un’interpretazione vocale sentita, volutamente eccessiva fino a lambire i confini del kitsch, porta l’album a livelli di disperazione quasi parossistici, il tutto assecondato da un impianto sonoro che mette costantemente in primo piano l’impatto emotivo, per un risultato finale francamente stupefacente.
Un disco che va ascoltato con la giusta predisposizione d’animo, pena il rischio di rifiutarlo non appena i suoni si incupiscono e la voce di Déhà esprime senza alcuna mediazione le sensazioni di uno spirito lacerato da un dolore che non può essere in alcun modo lenito né sopportato.
Un altro lavoro splendido per l’indaffarato musicista belga e, peraltro, questa degli Imber Luminis non è detto che sia l’ultima delle sue molteplici incarnazioni; quantità e qualità, non sono invero in molti ad unirle con tale disinvoltura in campo artistico …

Tracklist:
1. Imber
2. Aeternus

Line-up:
Déhà – All instruments, Vocals

IMBER LUMINIS – Facebook

Necrodeath – The 7 Deadly Sins

“The 7 Deadly Sins” è l’essenza del metal estremo, è tutto quanto vorrebbe ascoltare chi apprezza sonorità potenti, dirette, asciutte e tecnicamente ineccepibili in costante bilico sul sottile confine tra black, death e thrash.

The 7 Deadly Sins è l’essenza del metal estremo, è tutto quanto vorrebbe ascoltare chi apprezza sonorità potenti, dirette, asciutte e tecnicamente ineccepibili in costante bilico sul sottile confine tra black, death e thrash.

Il fatto che questo risultato venga ottenuto dai Necrodeath, ovvero coloro che in Italia hanno fatto la storia del genere, in occasione del loro undicesimo full-length, non deve sorprendere né d’altra parte, deve costituire un motivo per sminuire il resto delle band che animano una scena in grande fermento.
Semplicemente, dopo gli esordi a fine anni ‘80 che li ha fatta assurgere allo status di band di culto, il terremotante ritorno a cavallo dello scorso secolo con una coppia di dischi eccellenti, la fase di lieve appannamento nella seconda metà dello scorso decennio coincisa qualche lavoro contraddistinto da scelte stilistiche non sempre condivisibili, e l’ottimo ritorno tre anni fa con l’ispirato “Idiosincrasy”, la band genovese torna ad impadronirsi del trono che le spetta di diritto, mettendo sul piatto una quarantina di minuti di furia iconoclasta veicolata da capacità tecniche sopra la media e presentando un rilevante elemento di novità, racchiuso non tanto nel versante stilistico quanto in quello lirico.
Per la prima volta, infatti, i Necrodeath utilizzano in maniera continua e convincente la lingua italiana per descrivere la loro personale visione dei sette vizi capitali, un esperimento che riesce alla perfezione anche perché abilmente mediato dalla costante alternanza con il più tradizionale idioma inglese.

Sloth (accidia, assieme al’avarizia il peggiore dei sette vizi, sempre ammesso che gli altro lo siano tutti realmente …), Envy e Wrath sono sfuriate che lasciano il segno e che in maniera sintetica ed ugualmente efficace ribadiscono le coordinate di un genere, mentre Greed chiude l’elencazione dei Seven Deadly Sins esulando parzialmente dal contesto con l’esibizione di una componente melodica che consente a Pier Gonella di liberare le sue indiscusse di chitarrista.

La reincisione di due classici, provenienti rispettivamente da “Fragment Of Insanity” (Thanatoid) e “Into The Macabre” (Graveyard of the Innocents), sono il gradito omaggio volto ad impreziosire un disco che conferma quanto una storia ormai quasi trentennale (anche se dei protagonisti originari è rimasto il slo Peso) sia ben lungi dall’essere vicina al suo epilogo.
Chi si è entusiasmato, peraltro con più di una buona ragione, per quelle band che in quest’ultimo periodo hanno riportato all’attenzione il thrash riproponendolo sia nella sua versione più pura sia contaminandolo con il black o con il death, provi ad ascoltare con attenzione quest’album che chiarisce in maniera inequivocabile quali siano le gerarchie all’interno del genere.

Tracklist:
1. Sloth
2. Lust
3. Envy
4. Pride
5. Wrath
6. Gluttony
7. Greed
8. Thanatoid
9. Graveyard of the Innocents

Line-up:

Peso – Drums
GL – Bass
Pier – Guitars
Flegias – Vocals

NECRODEATH – Facebook

Sercati – The Rise Of The Nightstalker (Tales Of The Fallen PT II)

Continua la saga del Nigthstalker, concept atmospheric black metal ideato dai belgi Sercati.

Secondo capitolo della saga del Nightstalker ad opera dei belgi Sercati, trio black metal molto atmosferico, che esordì con due demo nel 2009 ed arrivò al primo capitolo intitolato “Tales Of the Fallen” nel 2011.

La storia fantasy raccontata in questa saga parla di un angelo e della sua discesa sulla terra per salvare se stesso e l’umanità, aiutato e protetto da un’entità, appunto il Nightstalker.
Il trio di Liegi, musicalmente, è molto vicino al dark/gothic più che al black: l’album, infatti, risulta molto melodico e solo lo screaming, peraltro punto debole del lavoro, avvicina l’album al black metal.
Le orchestrazioni sono ben congegnate, l’uso del piano e degli strumenti acustici, che in questo lavoro trovano molto spazio,rendono l’ascolto molto vario.
Anche nelle parti dove la band velocizza il suono, l’aura e’ sempre atmosferica e non si va oltre ad una ritmica cadenzata; peccato, ripeto, per lo screaming da folletto (sullo stile del primo Mortiis) che rovina un po’ l’eleganza mostrata dal songwriting.
Accenni al dark (Hunt Between Fallen) e poi tanta melodia per un lavoro, che potrebbe risultare appetibile a molti fan dai gusti diversi, ma anche spunti vicini al folk metal ed uno spirito prog che aleggia su gran parte di un disco oggettivamente ben suonato dai ragazzi belgi, peraltro ancora molto giovani.
Meritano un accenno Until My Last Breath, strutturata su un riff classico, l’appendice acustica di In Equilibrium, accompagnata da delicate tastiere, bissata da My Legacy, anch’essa di chiara ispirazione primo Mortiis e la conclusiva The Hero We Don’t Deserve, brano che racchiude tutte le atmosfere di un lavoro da ascoltare in completo relax per farsi accompagnare, sulle ali dell’angelo, dentro i meandri della musica dei Sercati.

Tracklist:
1. Rememberance
2. Hound from Hell
3. Until My Last Breath
4. Hunt Between Fallen
5. In Equilibrium
6. My Legacy
7. Face to Face
8. No More Fear
9. The Hero We Don’t Deserve

Line-up:
Steve “Serpent” Fabry – Bass, Vocals
Yannick Martin – Drums
Florian Hardy – Guitars

SERCATI – Facebook

Ancient Bards – A New Dawn Ending

Gli Ancients Bards si confermano come una delle band di riferimento per il symphonic power metal con un album stupefacente.

Magnifico è la parola che più di altre può descrivere un’opera come il terzo album dei nostrani Ancient Bards: i musicisti romagnoli, ormai considerati una delle band di punta del power sinfonico europeo, non deludono fan e addetti ai lavori e se ne escono con un disco che si candida fin da ora come il top nel genere in questo anno di grazia 2014.

Per chi ancora non li conoscesse, gli Ancients Bards sono attivi dal 2006 e hanno all’attivo, prima di questo, due album: l’esordio del 2010 “The Alliance Of The Kings”, che ne faceva intuire le grandi potenzialità, ed il bellissimo “Soulless Child”, del 2012. Il nuovo A New Dawn Ending supera la più rosee aspettative, confermando le qualità della band e regalando al metal una nuova regina: Sara Squadrani. La vocalist, di ritorno dall’esperienza con Anthony Lucassen sul nuovo album del suo progetto Ayreon, sfodera una prova magnifica: il suo contributo in personalità e talento fa di questo lavoro, già di per sè bellissimo, un oggetto che, al di là dei gusti, dovrebbe essere presente sullo scaffale di qualsiasi appassionato di metal. Hanno fatto passare tre anni prima di tornare sul mercato, ma è valsa la pena attendere visti i risultati; infatti, il gruppo torna più che mai consapevole della propria forza e l’ascoltatore così si trova davanti ad un album devastante sotto ogni profilo: una produzione stupefacente, un songwriting grandioso, musicisti al top ed un sound epico, magniloquente e sinfonicamente cinematografico, dove il power metal è spogliato dei soliti clichè rivestendolo di un’eleganza metallica fuori dal comune. Allora va da sè che, dall’intro Before The Storm, verrete investiti da questa travolgente esperienza e i settanta minuti circa di durata vi sembreranno un attimo, presi per mano dalla stupenda voce di Sara che vi accompagnerà in questo sogno fatto di orchestrazioni, accelerazioni, emozionanti atmosfere epiche, bordate di cannoni power scagliate dalle mura del castello del quale la vocalist è magnifica sovrana. A Greater Purpose, l’esaltante Across This Life, In My Arms ,scelta come singolo, The Last Resort, dove appare in qualità di ospite “Re” Fabio Lione, ed i sedici minuti della conclusiva title-track, sono solo alcuni dei passaggi di quest’album che rimarrà nel mio stereo per molto, molto tempo. Mette i brividi pensare all’evoluzione di questi ragazzi in soli tre full-length e se, come leggenda vuole, il terzo album per una band è quello della conferma e della consacrazione, allora siamo senza dubbio davanti ad una delle migliori realtà symphonic metal del pianeta, punto.

Tracklist:
1. Before the Storm
2. A Greater Purpose
3. Flaming Heart
4. Across This Life
5. In My Arms
6. The Last Resort
7. Showdown
8. In the End
9. Spiriti Liberi
10. A New Dawn Ending

Line-up:
Martino Garattoni – Bass
Daniele Mazza – Keyboards
Claudio Pietronik – Guitars
Sara Squadrani – Vocals
Federico Gatti – Drums

ANCIENT BARDS – Facebook

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Forgotten Tomb – Darkness in Stereo: Eine Symphonie des Todes – Live in Germany

Ogni appassionato di metal che si rispetti non dovrebbe farsi sfuggire l’occasione di ascoltare il primo documento live ufficiale della formidabile band emiliana, che in quest’ora scarsa propone alcuni dei propri cavalli di battaglia

In occasione dell’uscita del loro nuovo DVD Darkness in Stereo: Eine Symphonie Des Todes – Live in Germany i Forgotten Tomb fanno un gradito omaggio ai loro fan offrendo in free download la registrazione del concerto tenuto in occasione del Kings Of Black Metal Festival del 2012 in quel di Ansfeld (Germlania).

Ogni appassionato di metal che si rispetti non dovrebbe farsi sfuggire l’occasione di ascoltare il primo documento live ufficiale della formidabile band emiliana, che in quest’ora scarsa propone alcuni dei propri cavalli di battaglia, come i più datati Todestrieb, Solitude Ways e Disheartenment e i più recenti Reject Existence, Shutter e Spectres over Venice ma, ovviamente, molti altri potranno essere apprezzati all’interno del DVD che contiene ben 3 spettacoli tenuti dai Forgotten Tomb in Germania nel corso del 2012 . Il concerto, ripulito il giusto a livello di suoni senza minimamente snaturarne l’essenza, mostra Herr Morbid e soci in piena forma, capaci di catturare il pubblico con una serie di brani eccezionali all’insegna del caratteristico black-doom impreziosito da un lavoro chitarristico dall’innato gusto melodico. L’occasione per fare proprio questo ottimo documento musicale è ghiotta ma, mentre i fan più affezionati difficilmente si faranno sfuggire l’opportunità di procurarsi il DVD, soprattutto chi non conoscesse ancora una delle migliori band tricolori in circolazione ha la possibilità di colmare tale grave lacuna, magari andandosi anche a recuperare in seguito alcune delle pietre miliari del nostro metal estremo quali “Songs To Leave” e “Springtime Depression”.

Tracklist:
1. Springtime Depression
2. Reject Existence
3. Shutter
4. Solitude Ways
5. Todestrieb
6. Spectres over Venice
7. Disheartenment

Line-up:
Ferdinando “Herr Morbid” Marchisio – guitar, vocals
Andrea “A.” Ponzoni – lead guitar
Alessandro “Algol” Comerio – bass
Kyoo Nam “Asher” Rossi – drums

FORGOTTEN TOMB – Facebook

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Eternal Silence – Raw Poetry

Ottimo esordio per gli Eternal Silence, band che va a rimpolpare il già nutrito gruppo delle ottime realtà del nostro paese in materia di symphonic gothic metal.

Il symphonic gothic metal sta attraversando un momento di stanca in questo periodo: le top band, chi più chi meno, non hanno confermato negli ultimi lavori le aspettative che fan e addetti ai lavori avevano nei confronti di chi aveva portato ad una buon successo di pubblico e critica il genere nei primi anni del nuovo millennio.

Un po’ per defezioni clamorose, vedi la separazione Turunen vs. Nightwish che ha portato la band finlandese, dopo la parentesi Annette Olzon, a chiedere prestiti importanti ad altre band (Floor Jansen) per continuare l’attività live, un po’ perché i nuovi album, pur essendo buoni lavori, risentono di un calo fisiologico del songwriting, sta di fatto che non si riescono più a raggiungere le vette qualitative del recente passato. Tutta un’altra storia però, se volgiamo sguardo e udito all’underground dove, specialmente nella nostra penisola, negli ultimi mesi sono usciti album davvero interessanti da parte di band che, oltre alle doti tecniche, aggiungono buone idee e una freschezza compositiva che ha del miracoloso, tanto che cominciare a parlare di scena non penso possa essere considerata un’eresia. Ne fanno sicuramente parte i varesini Eternal Silence, all’esordio sotto l’ala della Underground Symphony e con al’attivo un demo del 2012 (“Darkness and Regret”) che già faceva intravedere indubbie potenzialità. In occasione del loro esordio su lunga distanza i nostri hanno fatto le cose in grande: confezione in digipack, produzione ottima che avvolgono idealmente un album affascinante, dotato com’è di strutture eleganti che si alternano a brani dal forte impatto, rendendolo l’alternativa perfetta all’ordinarietà delle uscite marchiate dalle band più famose. La massiccia componente power presente nelle ritmiche alza il tiro dei brani e si passa agevolmente da cavalcate sinfoniche che possono ricordare i primi Nightwish a song dove il piano e la bellissima voce della musa Marika “Ophelia” Vanni ci trasportano in sognanti territori gothic. Da apprezzare anche il lavoro del chitarrista Alberto Cassina, protagonista di solos vari e dall’impronta hard rock, così come la sezione ritmica, metallica laddove vengono richiesti muscoli e velocità, e le orchestrazioni e gli interventi tasti eristici, pomposi sicuramente ma eleganti, con una lode particolare alle bellissime melodie pianistiche. Nella tracklist spiccano Lord of the Darkest Night, Braving My Destiny, Death and the Maiden (dove vocals maschili dal sapore alternative si alternano con la voce di Marika per un effetto originale e riuscitissimo, oltre ad essere impreziosita da ottimi solos) e la conclusiva Vigdis, nella quale la band dà il via ai fuochi d’artificio concludendo nella maniera migliore un altro ottimo album da parte di un gruppo, ancora una volta, tutto italiano.

Tracklist:
1. Musa
2. The Day of Regret
3. Braving My Destiny
4. Incubus
5. Forlorn Farewell
6. Run in Search of Flame
7. Lord of the Darkest Night
8. Beneath This Storm
9. Braided Fates
10. December Demise
11. Death and the Maiden
12. Vigdis

Line-up:
Marika “Ophelia” Vanni – Vocals
Alberto Cassina – Guitars, Vocals
Davide Rigamonti – Guitars
Matteo “Bulldozer” Rostirolla – Keyboards
Alessio Sessa – Bass
Davide “Tapato” Massironi – Drums

ETERNAL SILENCE

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Árstíðir Lífsins – Þættir úr sǫgu norðrs

Ciò che maggiormente colpisce, in “Þættir úr sǫgu norðrs”, è la profondità della musica proposta, capace di riprodurre con rara efficacia il carattere ancestrale di poemi composti in epoche così lontane dalla nostra.

Abbiamo fatto la conoscenza di questa ottima band nel 2012 in occasione dello split album con gli Helrunar, Fragments: A mythological Excavation.

Dopo qualche tempo senza dare notizie e con una formazione ridotta a trio, che vede i tedeschi Stefán (Kerbenok) e Marsél (Helrunar) e l’islandese Árni (Dysthymia), dopo la fuoriuscita di un membro storico quale Georg, l’interessante combo si ripresenta con questo mini cd che trae ispirazione da due diversi poemi islandesi risalenti al decimo secolo. Come è facilmente intuibile, il black degli Árstíðir Lífsins possiede un marcato tratto epico e certamente l’utilizzo di testi cantati nell’antico idioma isolano ne accentua tale caratteristica.
Nel contempo, la componente tedesca della formazione indubbiamente caratterizza a modo suo il sound della band conferendogli quindi anche una particolare aura di algida solennità.
I due primi brani sono di fatto contigui oltre che ispirati allo stesso poema, mentre del tutto diversa è la terza traccia, molto teatrale e caratterizzata da parti corali e sinfoniche, sicuramente lontana da qualsiasi sfumatura estrema.
Il lavoro è piuttosto breve, poco più di 25 minuti, ma è fuori discussione che l’accoppiata iniziale costituisca un qualcosa che non è ascoltabile tutti i giorni per intensità e coinvolgimento emotivo (anche se su piani stilistici leggermente differenti, siamo molto vicini ai migliori Lunar Aurora, mentre Hrafns þáttr réttláta è un brano per iniziati che esula decisamente dal contesto introdotto dalle due parti di Þórsdrápa.
Ciò che maggiormente colpisce, in Þættir úr sǫgu norðrs, è la profondità della musica proposta, capace di riprodurre con rara efficacia il carattere ancestrale di poemi composti in epoche così lontane dalla nostra.
Per una band che è ormai garanzia di elevata qualità una splendida prova, capace di lenire l’attesa per un nuovo album che, si spera, non si faccia attendere ancora per troppo tempo.

Tracklist:
1. Þórsdrápa I
3. Þórsdrápa II
3. Hrafns þáttr réttláta

Line-up :
Stefán: Guitars, bass, vocals & choirs
Árni: Drums, double bass, viola, vocals & choirs
Marsél: Storyteller, vocals & choirs

Guests;
Sveinn: Horn, keyboards & effects
Bjartur: Viola

Árstíðir Lífsins – Facebook