Defuntos – A Eterna Dança da Morte

Difficile immaginare un deciso cambio di rotta alla prossima occasione per una band con una produzione già così cospicua alle spalle, anche perché è probabile che i Defuntos non ci pensino neppure a mettere il naso fuori dalla propria angusta, ma rassicurante, cripta.

I portoghesi Defuntos sono attivi da circa un decennio, nel corso del quale si sono resi protagonisti di una quindicina di uscite tra demo, ep, split e full length.

A Eterna Dança da Morte è il settimo lavoro su lunga distanza per questo duo, e si va ad attestare stilisticamente dalle parti un blackened doom dai tratti molto scarni, specie in una base ritmica che appare addirittura debitrice ad un post punk in stile Joy Division – Bauhaus.
Il tutto farebbe presagire un qualcosa di molto intrigante ma così non è, purtroppo, perché le suddette caratteristiche sono associate ad un metodo compositivo piuttosto tetragono, per quanto non privo di un suo fascino.
In effetti, la totale rinuncia alla chitarra e alle tastiere rende l’approccio alla materia da parte dei Defuntos quanto mai minimale, cosa di per sé non deprecabile e comunque foriera di più di un passaggio affascinante, ma resta il problema di un simile schema che, se riprodotto per una quarantina di minuti, presta il fianco ad un’assuefazione che sconfina subito dopo in un senso di noia.
Troppo statico, infatti il sound del sound del duo iberico per convincere appieno anche l’ascoltatore più smaliziato ed affezionato agli aspetti più oscuri e funerei dell’arte musicale: sono oggettivamente interessanti i momenti in cui i ritmi si velocizzano ed il basso si fa incalzante, ma è davvero poco per andare oltre alla sufficienza di stima che si merita, a prescindere, chiunque si cimenti con tematiche e suoni che fanno fuggire a gambe levate tutte le persone cosiddette “normali”.
Difficile, oltretutto, auspicare o immaginare un deciso cambio di rotta alla prossima occasione per una band con una produzione già così cospicua alle spalle, anche perché è probabile che i Defuntos non ci pensino neppure a mettere il naso fuori dalla propria angusta, ma rassicurante, cripta.

Tracklist:
1. Intro
2. A Vigília Fúnebre
3. A Reza da Tristeza
4. Barranco do Velho
5. Mortuária Procissão
6. A Eterna Dança da Morte
7. No Encalço da Lua Negra

Line-up:
Conde J. – Bass
Conde F. – Drums, Vocals

Root – Kärgeräs – Return from Oblivion

Kärgeräs – Return from Oblivion è un album coinvolgente, probabilmente il migliore tra quelli editi dai Root nel nuovo millennio, e rappresenta una maniera personale e non inflazionata di interpretare la materia metallica.

Il traguardo del decimo album per i cechi Root rappresenta qualcosa in più rispetto a un semplice dato statistico: infatti, il gruppo guidato da quasi un trentennio da un mito del metal europeo come Jiří Valter (aka Big Boss) è a tutti gli effetti una di quelle realtà emerse prima dell’esplosione del black metal in Norvegia, appartenendo quindi alla genia delle band dedite a sonorità oscure, epiche ma non così estreme ed ancora legate ad un più tradizionale heavy metal.

I Root non sono notissimi dalle nostre parti e, in generale, non possono essere certo avvicinati per fama a Venom e Bathory, tanto per fare un esempio di band contigue per ispirazione e genesi, ma la considerazione di cui gode un personaggio come Valter nella scena europea è testimoniata dalla sua partecipazione come ospite su album di Moonspell e Behemoth, oltre ad essere stato chiamato dai Winterhorde ad interpretare il ruolo di voce narrante sul loro recente capolavoro Maestro.
E se non un maestro, il nostro è sicuramente uno dei decani dell’ambiente metallico ma, a giudicare dagli esiti non sembra proprio che l’età anagrafica costituisca un peso: infatti, il timbro caldo e profondo di Big Boss non è stato certo incrinato dal passare del tempo e ciò caratterizza ovviamente questo ultimo lavoro, che fin dal titolo si pone quale ideale seguito del concept album Kärgeräs, uscito esattamente vent’anni fa e considerato uno dei punti più alti raggiunti dai Root nel corso della loro lunga storia.
Rispetto a certe asprezze del passato, il sound appare decisamente meno ruvido, mettendo in luce un approccio maggiormente epico e folk, ovviamente sempre irrobustito da una massiccia dose di heavy metal.
Diciamo pure che, più dell’immarcescibile vocalist, i segni del tempo sono più visibili nella struttura musicale, ma ciò non deve essere inteso come un aspetto negativo, anzi: proprio il suo essere piacevolmente avulso da qualsiasi tentazione modernista, ammanta il lavoro di un fascino ulteriormente esaltato dalla carismatica interpretazione vocale di Valter e dal buon lavoro strumentale dei suoi compagni d’avventura.
E se, per piegarsi alle esigenze di quello che è pur sempre un concept, i Root indulgono più del solito in passaggi acustici e rarefatti, ciò non è certo un male, anche se i momenti migliori li riservano brani ben focalizzati ed incisivi come l’opener Life Of Demon e The Book Of Death.
Kärgeräs – Return from Oblivion è un album coinvolgente, probabilmente il migliore tra quelli editi dai Root nel nuovo millennio, e rappresenta una maniera personale e non inflazionata di interpretare la materia metallica.

Tracklist:
1. Life of Demon
2. Osculum Infame
3. Moment of Fright
4. The Book of Death
5. Black Iris
6. Moment of Hope
7. The Key to the Empty Room
8. New Empire
9. Up to the Down
10. Do You Think Is it the End?

Line-up:
Big Boss – Vocals
Alesh A.D. – Guitars
Igor – Bass
Paul Dread – Drums
Hanz – Guitars

ROOT – Facebook

Cavernicular – Cavernicular Ep

La scena del capoluogo siciliano non si ferma mai e non contenta della fenomenale musica a cui ci hanno abituati, questi talenti musicali ci regalano un’altra entità, che suona come un’orda di zombie punk infatuati per il grindcore.

Immaginatevi un’apocalisse zombie in una delle nostre due isole maggiori, La Sicilia.

Il virus che riporta in vita i cadaveri viene svegliato da un’operaio al lavoro nelle catacombe dei cappuccini a Palermo, un cimitero sotterraneo famoso in tutto il mondo dove riposano centinaia di cadaveri.
I primi corpi ad essere risvegliati e che porteranno il contagio anche in superficie, vengono in contatto uditivo con quello che scatenerà la loro insaziabile fame di carne umana, il primo ep degli hardcore/grindsters Cavernicular.
La scena del capoluogo siciliano non si ferma mai e non contenta della fenomenale musica a cui ci hanno abituati, questi talenti musicali ci regalano un’altra entità, che suona come un’orda di zombie punk infatuati per il grindcore.
Sandro Di Girolamo e Giorgio Trombino dei mai troppo osannati Elevators To The Grateful Sky e di altre creature musicali dall’enorme qualità che negli ultimi anni hanno valorizzato la scena palermitana, hanno unito le forze con il batterista Giorgio Piparo (Shock Troopers, Learn e con Trombino nel progetto Funky Smuggler Brothers) e Totò, singer dei power hardcore ANF, dando vita a questo ep di quattordici minuti di caos primordiale, violento, scarno e purulento come le piaghe che si aprono ad ogni passo dei non morti.
Un morso letale di musica estrema, famelica e senza compromessi, pura violenza iconoclasta che si abbatte furiosa ed aggressiva, uno tsunami apocalittico che non lascerà indifferenti gli amanti dei generi sopracitati.
Chiaramente i musicisti sono di gran livello, così che la sezione ritmica che impazza a velocità della luce, per poi rallentare di colpo come il passo strascicato e dondolante di uno zombie, con l’uso della doppia voce (il growl di Di Girolamo e lo scream di Totò) non lasciano scampo e Cavernicular diventa un altro ottimo esempio della stoffa e creatività di questi splendidi musicisti nostrani.
Un esperimento o qualcosa di più?
Chi vivrà (o meglio) sopravviverà vedrà, nel frattempo godetevi questa bomba sonora in arrivo sul continente dalla terra del fuoco siciliana.

TRACKLIST
1.DetoNation-Annihilation Alert (Coupe D’Etat)
2.Wires
3.WreckAge
4.Stare Down-Balls Explode
5.Deprived
6.Intent
7.Vile Manipulation
8.Archaic game
9.Killing Bias
10.Doctrine Junkies
11.Fine day For A Bomb Ride
12.Equality
13.No Way To Start
14.Triggered To React

LINE-UP
Totò – yells
Sandro – grunts
Furious G. – guitar
Piparino – drums

http://www.facebook.com/Cavernicular/?fref=ts

HI-GH – We Hate You

Si oscilla la testa e ci si muove al ritmo, nulla di più semplice e divertente, ma non è così scontato.

Se fai la cover di Bomber dei Motorhead, e la fai in maniera personale, oltre a sapere cosa ci aspetta, siamo pure contenti di ricevere il pugno in faccia.

Gli HI-GH fanno metal punk o punk’n’roll con fortissime influenze del caro vecchio metallo inglese. Amanti della velocità senza controllo e dalla distorsione accompagnata dalla doppia cassa, non c’è solo questo nella loro musica, anzi, in questo ep un metallaro vecchia scuola troverà molti motivi di gioia pura, come quando si cavalca sui territori tracciati dagli Iron Maiden, sempre però con un forte dose di personalità ed originalità. Certamente non è un suono nuovo, ma la difficoltà sta nel proporlo con stile, e gli HI-GH ci riescono benissimo. L’ep è il formato giusto per gustare questo breve compendio del metal classico, di quello spirito che si è perso in questi tempi, ma ci sono gruppi come gli HI-GH che che sono a difesa di questo suono. Si oscilla la testa e ci si muove al ritmo, nulla di più semplice e divertente, ma non è così scontato. Il gruppo romano fa un ulteriore passo in avanti e ci regala un ottimo ep.

TRACKLIST
1. Burn The School Down
2. The Last Love’s Path
3. Hallefuckin’ Luja
4. We Hate You
5. Where All Hell Breaks Loose
6. Bomber (MOTÖRHEAD COVER)

LINE-UP
Tommaso “Slowly” – Bass Guitars & Lead Vocals
Marco “Psyki” – Rhythm/ Lead guitars & Background Vocals
Marco “RedEyes” – Lead/Rhythm Guitars & Background Vocals
El Tito “Oki” – Drums, Background Vocals & Synth

HI-GH – Facebook

Reapter – Cymatics

Un lavoro riuscito e perfettamente in grado di soddisfare non solo gli amanti del thrash ma in generale chiunque ami il metal

Un’altra ottima band proveniente dalla capitale, ancora una volta rapita dagli artigli della Revalve, si presente con un gran bel esempio di thrash metal dalle venature progressive, ottimamente suonato e prodotto così da farne un lavoro completo e professionale.

In poche parole Cymatics sta tutto qui e non è poco direi, la band romana sa il fatto suo e lo dimostra fin dal titolo, incentrato sulla teoria dello studioso svizzero Hans Jenny, riguardo al potere del suono in grado di strutturare la materia.
I Reapter si formano a Roma nel 2005, quindi sono più di dieci anni che il quintetto di thrashers nostrani è attivo, accompagnato da una discografia che vede, oltre a quest’ultimo lavoro, il precedente full lenght M.I.N.D., uscito sei anni fa e precedentemente due mini cd.
La firma con Revalve è un traguardo importante e meritato per la band ed il nuovo album conferma che la label nostrana ci ha visto giusto.
Thrash metal che si valorizza con una prova strumentale sopra le righe, ritmiche aggressive e che non mancano di groove moderno, enorme lavoro delle sei corde e brani che nel loro insieme creano un massiccio esempio di metallo, duro come l’acciaio ma progressivamente elaborato.
Le influenze del gruppo sono, di base, da riscontrare nella scena statunitense (Testament e Megadeth), ma nel sound dei Reapter c’è di più e, tra le trame di Cymatics, echi di Mekong Delta elevano l’opera a qualcosa di più di un semplice thrash metal album.
Il bello cè he i brani si fanno apprezzare al primo ascolto, l’appeal sprigionato è alto così come il gran lavoro strumentale che ha in Behind The Mask la sua massima espressione.
Così veniamo investiti da questo tripudio di sonorità metalliche, tra brani più diretti (l’opener Repeat) ed altri dove la vena progressiva prende il sopravvento (la notevole The Alchemist); la prova dei musicisti, sommata ad un ottimo songwriting, fa in modo che Cymatics mantenga una qualità molto alta per tutta la sua durata, con la mazzata Life And Horror a tributare i Metallica e con  la devastante Useless, la più estrema di tutto il lotto.
Cymatics risulta un lavoro riuscito e perfettamente in grado di soddisfare non solo gli amanti del thrash ma in generale chiunque ami il metal: magari non sarà originalissimo, ma è sicuramente maturo e suonato in maniera ineccepibile, a creare un thrash metal di un’altra categoria.

TRACKLIST
01 – Repeat
02 – Tsunami
03 – Time Lapse
04 – The Alchemist
05 – Life and Horror
06 – Behind a Mask
07 – Useless
08 – Fallen Angels
09 – Tram Out
10 – Omega Revolution

LINE-UP
Claudio Arduini – Vocals
Max Pellicciotta – Guitars
Daniele Bulzoni – Guitars
Jury Pergolini – Bass
Emiliano Niro – Drums

REAPTER – Facebook

Flayed – XI Million

La Kaotoxin, etichetta di norma orientata verso sonorità estreme, immette sul mercato il nuovo ep dei francesi Flayed, un combo che, alle sonorità hard rock settantiane, aggiunge una verve moderna per un risultato assolutamente travolgente.

La Kaotoxin, etichetta di norma orientata verso sonorità estreme, immette sul mercato il nuovo ep dei francesi Flayed, un combo che, alle sonorità hard rock settantiane, aggiunge una verve moderna per un risultato assolutamente travolgente.

XI Million è il terzo lavoro per il gruppo, dopo essersi lasciato alle spalle Symphony for the Flayed, esordio del 2014, e Monster Man dello scorso anno, un mini cd di cinque tracce che conferma la bravura della band nel saper miscelare attitudine old school con un suono al passo coi tempi.
Si potrebbe pensare all’ ennesima rivisitazione dei suoni vintage alla moda in questi anni, ed in parte è vero, non fosse per il talento del gruppo nel saper creare brani dall’appeal mostruoso, con l’ hammond a comandare le operazioni, un taglio americano nei chorus e nel guardare al blues come una delle fonti d’ispirazione, ma non dimenticando la scuola hard rock europea.
Deep Purple, The Black Crowes, i nuovi dei dell’hard rock come gli Inglorious, un pizzico di rock americano alla Foo Fighters e Eleven Million, Trend Is Over, e soprattutto la bluesy Fortunate Son, prendono il volo verso lidi dove l’hard rock è il re incontrastato, complice un taglio american style da far invidia al corvo nero dell’ ormai immortale Remedy (da quel capolavoro che è The Southern Harmony And Musical Companion).
La bio parla di Ac/Dc, personalmente ci trovo poco, non fosse per l’ importantissimo lavoro dell’organo e qualche accenno al soul che porta il gruppo attraverso l’oceano verso il punto esatto dove sfocia il Mississippi: ascoltatelo e fateci sapere.

TRACKLIST
1. XI Million
2. Eleven Million
3. Trend Is Over
4. Fortunate Son
5. Shoot the Trail
6. Rollin’ Monkey

LINE-UP
Renato Di Folco – vocals
Eric Pinto – guitars
Julien Gadiolet – guitars
Charly Curtaud – bass
Raphaël Cartellier – Hammond organ
Jean-Paul Afanassief – drums

FLAYED – Facebook

https://soundcloud.com/kaotoxin/flayed-eleven-million

The Burning Dogma – No Shores Of Hope

No Shores Of Hope è un album di grande pregio, che in un mondo normale porterebbe alla ribalta della scena i The Burning Dogma … ma del resto sono proprio loro i primi ad affermare, con il loro concept, che di normale, in questo mondo, c’è rimasto ormai ben poco.

Uno pensa: chi te lo fa fare di passare gran parte del tempo libero a tenere in piedi, assieme a qualche altro malato di mente, una webzine dalla quale non ci si guadagna nulla ?

La risposa sta, come il veleno, nella coda: chi l’ha detto che non ci si guadagna? Per esempio, se non fossero stati gli stessi The Burning Dogma ad inviarmi il promo del loro disco ai fini di una recensione, quante probabilità avrei avuto di ascoltarlo? Diciamo ben poche.
Ecco, la vera ricompensa di chi si dedica ad un (non) lavoro come questo è proprio quella di scoprire e godersi realtà ai più sconosciute ma capaci di produrre musica del tutto all’altezza di nomi ben più pubblicizzati.
No Shores Of Hope è il primo full length di questa band bolognese che, già da qualche anno, prova ad agitare i sonni dell’apparentemente placida Emilia con un death metal dai tratti progressivi e sinfonici e, probabilmente, l‘essere giunti alla prova della lunga distanza senza aver affrettato i tempi deve aver giovato non poco alla resa finale del lavoro.
Il sound dei The Burning Dogma è nervoso, oscuro e cangiante, a volte quasi in maniera eccessiva a causa di fulminei cambi di tempo che possono disorientare l’ascoltatore meno scafato o, comunque, meno propenso ad approfondire i contenuti di un album complesso ma dotato di grande fascino.
Un umore disturbante che si addice a No Shores Of Hope, un concept che affronta temi magari non nuovissimi ma sempre attuali, come il degrado dell’umanità e la necessità di lottare affinché tale deriva si arresti, in modo da poter trascorrere al meglio un esistenza destinata prima o poi ad una fine ineluttabile: la rappresentazione di tutto questo avviene tramite un death metal tecnico, che si sviluppa tra pulsioni melodico/sinfoniche e rallentamenti di matrice doom, arricchito da inserti elettronici presenti per lo più nei brevi intermezzi strumentali.
Lo screaming quasi di matrice black esibito da Andrea Montefiori viene talvolta alternato ad un più canonico robusto growl, ed anche questa varietà vocale finisce per costituire un ulteriore elemento di discontinuità in un album che è ricco di sorprese e di spunti eccellenti, oltre che di una serie di brani la cui pesantezza è stemperata sia dalla tecnica, che i musicisti mettono al servizio del songrwriting (e non viceversa), sia dagli spunti melodici che segnano un po’ tutti brani.
Spiccano, in una tracklist priva di punti deboli, la più catchy Skies Of Grey, ammorbidita da una bella voce femminile, la spigolosa Nemesis e No Heroes Dawn, parte centrale della trilogia Dawn Yet To Come, dove viene riproposto un frammento tratto da Inpropagation, traccia d’apertura della pietra miliare Necroticism …, quale doveroso omaggio ad una band come i Carcass alla quale sicuramente i The Burning Down si ispirano, specie nelle piuttosto ricercate evoluzioni chitarristiche.
No Shores Of Hope, quindi, si rivela un album di grande pregio, che in un mondo normale porterebbe alla ribalta della scena i The Burning Dogma … ma del resto sono proprio loro i primi ad affermare, con il loro concept, che di normale, in questo mondo, c’è rimasto ormai ben poco.

Tracklist:
01. Waves Of Solitude
02. The Breach
03. Enigma Of The Unknown
04. Skies Of Grey
05. Feast For Crows
06. Burning Times
7. Distant Echoes
08. Hopeless
09. Dying Sun
10. Nemesis
11. Dawn Yet To Come – 1. Drowning
12. Dawn Yet To Come – 2. No Heroes Dawn
13. Dawn Yet To Come – 3. Uscimmo A Riveder Le Stelle

Line-up:
Maurizio Cremonini – Lead Guitar
Diego Luccarini – Rhythm Guitar
Giovanni Esposito – Keys
Antero Villaverde – Drums
Simone Esperti – Bass
Andrea Montefiori – Vocals

THE BURNING DOGMA – Facebook

Sepulchral Curse – At the Onset of Extinction

Quattro brani che confermano la buona proposta del gruppo scandinavo, ora pronto per il passo cruciale del full length.

A volte ritornano !

E come nel famoso romanzo di Stephen King, i finlandesi Sepulchral Curse ci investono come nel primo ep (A Birth In Death, uscito un paio di anni fa) con il loro death/black metal brutale, nelle atmosfere più che nella velocità, dall’animo nero come la notte in un sperduto cimitero nelle lande del loro paese di origine.
E’ la Transcending Obscurity ad occuparsi di questo secondo lavoro, At the Onset of Extinction, composto da quattro brani di abissale metal estremo, oscuro e pesante, dal piglio cimiteriale e oltremodo vario nell’alternare ritmiche al limite del death/doom, come nella splendida Disrupting Lights of Extinction, che conclude con un lungo corteo funebre l’ep, partito in quarta con l’aggressiva e malvagia Envisioned in Scars.
Il growl orrendo e mostruoso di Kari Kankaanpää, le linee chitarristiche che sparano devastanti mitragliate death/black e solos lacrimanti sangue, sono sempre le caratteristiche maggiori del gruppo di Turku che non ne vuol sapere di uscire dalla totale e maligna oscurità del proprio sound e ci scaraventa in abissi demoniaci, dove regnano morte e distruzione.
In generale il sound del nuovo album è più ragionato rispetto al primo album, spostando di poco le coordinate stilistiche ed aggiungendo gli olandesi Asphyx alle classiche ispirazioni di scuola death scandinava e brutal statunitense.
Quattro brani che confermano la buona proposta del gruppo scandinavo, ora pronto per il passo cruciale del full length, che aspettiamo fiduciosi.

TRACKLIST
1.Envisioned in Scars
2.In Purifying Essence
3.Gospel of Bones
4.Disrupting Lights of Extinction

LINE-UP
Niilas Nissilä – Bass
Tommi Ilmanen – Drums & Vocals
Aleksi Luukka – Guitars
Jaakko Riihimäki – Guitars
Kari Kankaanpää – Vocals

SEPULCHRAL CURSE – Facebook

Path Of Sorrow – Fearytales

Se questo album fosse stato pubblicato da una band svedese un po’ di anni fa, i Path Of Sorrow sarebbero comparsi sulle copertine delle riviste di settore al fianco di At The Gates, In Flames, Dark Tranquillity, ecc. tutto qui … e non è poco.

Sono passate due settimane da quando mi sono seduto alla scrivania per tentare di raccontare i contenuti dell’ultimo album degli In Flames.

La mia recensione la potete trovare qui su MetalEyes e chi l’ha già letta sa che la delusione del sottoscritto per un gruppo storico che, di fatto non esiste più, è stata tanta ed è alta la sensazione che il canto del cigno per un certo tipo di death metal melodico sia alle porte.
Fortunatamente ci pensa la scena underground a tenere alta la bandiera di un genere che, in barba agli imbolsiti protagonisti dell’ultimo decennio del secolo scorso, carica il suo cannone metallico di bombe devastanti (qualitativamente parlando) e mira al cuore degli amanti del metal estremo melodico centrandoli in pieno.
Dai vicoli che scendono a mare, tra gli anfratti e gli angoli dimenticati dal tempo di un centro storico che pompa sangue metallico in una Genova che, per una volta, si veste da Göteborg, arrivano i Path Of Sorrow, al debutto su lunga distanza con questo splendido esempio di death metal melodico come lo hanno voluto e creato i maestri svedesi più di vent’anni fa, irrobustito da letali dosi di thrash metal, ed impreziosito da una vena melodica entusiasmante.
Attiva dal 2012, la band arriva a questo primo episodio dopo tanta gavetta a suon di concerti (con Necrodeath, Electrocution, The Modern Age Slavery, Epitaph, The Vision Bleak) e vari cambi di line up che portano alla formazione attuale, alla firma con Buil2Kill Records e alla porta dei Blackwave Studio di Fabio Palombi (Nerve), che si chiude alle loro spalle per riaprirsi solo quando Fearytales è pronto per travolgervi con undici spettacolari brani in cui melodic death, thrash, sfumature ed atmosfere dark gothic, vi confonderanno facendovi smarrire tra le anguste vie della Superba che, d’incanto, si trasformano in una foresta magica, oscura e pericolosissima.
Chiariamolo subito, se siete in cerca di chissà quale chimera dell’originalità, tornate sui vostri passi perché rischiereste di inoltrarvi nel sottobosco e non uscirne più: Fearytales rimane un ‘opera che del death metal melodico made in Svezia si nutre, nel thrash trova la dirompente forza estrema e nelle atmosfere oscure e dark ci sguazza, mentre i nomi storici del genere sono tutti li sulla balconata ad applaudire.
Prodotto alla perfezione e suonato ancora meglio, l’album non concede cedimenti, i brani si susseguono uno più bello dell’altro alternando sfuriate ad  atmosfere molto suggestive, ottimi momenti di metallo cadenzato e fughe sui manici delle asce da brividi.
L’ottima prova dei musicisti valorizza un songwriting ispirato e l’impressione di essere al cospetto di un combo sopra la media è altissimo, mentre Under The Mark Of Evil toglie il respiro dandoci il suo benvenuto in Fearytales.
La muscolosa Survive The Dead è solo l’antipasto alla maligna e cattivissima Martyrs Of Hell, mentre il gran lavoro delle sei corde nella melodica Nobody Alive (addio In Flames), ci porta dritti nella boscaglia e a The Crawling Chaos, capolavoro dell’album insieme alla stupenda thrash-folk- epic metal Sea Of Blood: The March For Morrigan, fulgido esempio dell’ispirato songwriting del gruppo ligure.
This Is The Entrance mette la parola fine a questo bellissimo lavoro, la luce del sole si fa spazio tra i rami e dopo i primi passi fuori dalla foresta, la voglia di tornare indietro è tanta, così come quella di ripremere il tasto play.
Se questo album fosse stato pubblicato da una band svedese un po’ di anni fa, i Path Of Sorrow sarebbero comparsi sulle copertine delle riviste di settore al fianco di At The Gates, In Flames, Dark Tranquillity, ecc. tutto qui … e non è poco.

TRACKLIST
1. Into The Path
2. Under The Mark Of Evil
3. Survive The Dead
4. Martyrs Of Hell
5. Lords Of Darkned Skies
6. Nobody Alive
7. Umbrages…
8. …Where Nothing Gathers
9. The Crawling Chaos
10. Sea Of Blood : The March For Morrigan
11. This Is The Entrance

LINE-UP
Attila – Drums
Robert Lucifer – Bass
Mat – Vocals
Davi – Electric,Acoustic & Classical Guitars,Mandolin,Piano
Jacopo – Electric Guitars

PATH OF SORROW – Facebook

Kosmokrator – First Step Towards Supremacy

Un passo avanti verso quello che potrebbe essere un full length sopra la media: aspettiamo fiduciosi e nel frattempo ci godiamo un altro rituale a firma Kosmokrator.

Avevamo conosciuto la musica dei black/deathsters belgi Kosmokrator un paio di anni fa, in occasione dell’uscita del demo To The Svmmit, li ritroviamo oggi con un nuovo mini cd sempre licenziato dalla Ván Records che ci illumina sui passi avanti intrapresi dal gruppo.

Il quintetto, alle prese con un sound oscuro, devastante e pregno di atmosfere malvagie, con una produzione nettamente migliore del precedente lavoro, conferma la sua natura estrema e misteriosa con questi quattro brani racchiusi in First Step Towards Supremacy.
Più diretto e meno liturgico del suo blasfemo predecessore, l’album confida su un’attitudine dannata e naturalmente estrema dei musicisti coinvolti nel progetto, l’alternanza tra parti prettamente black e altre più death oriented sono sempre la principale caratteristica del combo di sacerdoti del male e, per merito di una buona registrazione, si coglie una buona tecnica strumentale, messa in secondo piano rispetto alle nere atmosfere di sacrale musica dallo spirito occulto.
Un gruppo tutto da scoprire e dalle ottime potenzialità, i Kosmokrator si rivelano come protagonisti di un metal estremo che, anche nelle più frequenti parti di ferocia e crudeltà, mantiene una forte atmosfera rituale, in un’orgia di note e canti infernali.
Basterebbe la lunga suite estrema Myriad per farvi un sunto sull’impatto che la musica del gruppo ha sull’ascoltatore: maligna, infernale e misantropica, anche se questa volta è tutto il lavoro che risplende della fioca luce di candele nere.
Un passo avanti verso quello che potrebbe essere un full length sopra la media: aspettiamo fiduciosi e nel frattempo ci godiamo un altro rituale a firma Kosmokrator.

TRACKLIST
1.Initiate Decimation
2.Death Worship
3.Kosmokratoras III – Mother Whore
4.Myriad

LINE-UP
T. – Bass
E. – Drums
C.M. – Guitars
M. – Guitars, vocals
J.- -Vocals

Crest Of Darkness – Welcome The Dead

Welcome The Dead è un lavoro che non tradisce le aspettative, e del resto i Crest Of Darnkneess ed Ingar Amlien sono nomi che forniscono ampie garanzie in tal senso

Torniamo ad occuparci dei Crest Of Darkness, creatura infernale generata dalla mente di Ingar Amlien, che ci accompagna da ormai circa un ventennio.

Come ho già avuto modo di dire in occasione dei lavori più recenti, il musicista norvegese per motivi anagrafici è arrivato a maneggiare la materia con un approccio diverso rispetto ai suoi più giovani connazionali, quelli che in prima persona generarono quello che oggi conosciamo come black metal.
Infatti, Amlien, mentre qualcuno si dilettava a bruciare chiese o a commettere altri atti criminosi che portarono alla ribalta il movimento anche per motivi extramusicali, costituiva una delle travi portanti dei Conception, autori di un elegante power/prog metal che li portò a riscuotere un certo successo nella prima metà degli anni novanta: il suo approdo al black, quindi, avvenne con qualche anno di ritardo rispetto alla genesi del genere e questo, assieme al suo retaggio musicale, ha reso in qualche modo differente la produzione dei Crest Of Darkness rispetto a quella più tradizionale.
Tale scostamento non va ricercato nell’approccio stilistico vero e proprio, in quanto quello del trio norvegese, anche se contaminato da una buona componente death, segue in maniera abbastanza fedele i dettami codificati a suo tempo, risultando però una spanna sopra la media delle uscite del settore grazie ad una cura dei particolari ed all’abilità tecnica che è, comunque, nel DNA di chi si cimentava in gioventù in generi molto esigenti da questo punto di vista.
Con l’ausilio di altri due abili musicisti, il chitarrista Rebo ed il batterista Bernhard, neppure loro più di primo pelo, Amlien conferma e rafforza, con Welcome The Dead, tutto quanto di buono realizzato specialmente da quando la discografia della sua band ha ripreso vigore ed impulso, dopo un lungo periodo di silenzio a cavallo degli ultimi due decenni.
L’album si rivela così intenso, cattivo, suonato e prodotto ottimamente e privo di cali di tensione: se vogliamo, ai Crest Of Darkness manca quel pizzico di urgenza compositiva che si può rinvenire in chi si avvicina al black con il piglio nichilista e blasfemo dei ventenni, ma brani come la title track, The Almighty e Scourged And Crucified costituiscono esempi inattaccabili di arte nera, come del resto buona parte delle restanti tracce, impreziosite spesso da assoli di chiara matrice heavy, sciorinati dall’ottimo Rebo.
Fanno eccezione due episodi particolari, come l’acustica My Black Bride e la conclusiva Katharsis, nella quale il recitato dell’attore norvegese Espen Reboli Bjerke conferisce ulteriore e solenne evocatività ad un sound che, in questi ultimi minuti del disco, si fa più meditabondo e rallentato.
Welcome The Dead è un lavoro che non tradisce le aspettative, e del resto i Crest Of Darnkneess ed Ingar Amlien sono nomi che forniscono ampie garanzie in tal senso, e così sarà finché il maturo musicista scandinavo avrà voglia di continuare a forgiare, con la medesima convinzione, l’arte metallica nei suoi tratti più oscuri e corrosivi.

Tracklist:
1. Welcome The Dead
2. Chosen By The Devil
3. Scourged And Crucified
4. My Black Bride
5. Borrowed Life
6. The Almighty
7. Memento Mori
8. The Noble Art
9. Katharsis

Line-up:
Ingar Amlien: vocals, bass, guitars on “My Black Bride”
Bernhard: drums
Rebo: lead and rhythm guitars

Guest: Kristian Wentzel: keyboards
Espen Reboli Bjerke: voice on “Katharsis”

CREST OF DARKNESS – Facebook

Wyruz – Judge and Jury

Thrash metal, con le ispirazioni che guardano alla scena della Bay Area ma potenziate da un impatto moderno

L’esplosione che deriva dall’ascolto del nuovo album dei metal/thrashers norvegesi Wyruz, è di quelle che creano danni, fanno sogghignare il sottoscritto e tacere i santoni del rock, sempre pronti a giudicare il lavoro degli artisti, eroi di un mondo che, in quanto forma d’arte, dovrebbe rimanere al di fuori di semplici e superficiali giudizi.

Judge and Jury è un bellissimo esempio di thrash metal devastante, moderno ma con un’attenzione particolare per la tradizione del genere, insomma una mazzata metallica di metal estremo ben piantata nel nuovo millennio ma che rimarca le sue storiche e nobili origini.
La band si chiama Wyruz ed è un quartetto di Hamar, cittadina della fredda Norvegia, terra di metal estremo, che ancora una volta regala  un gruppo sopra la media.
Attivo dall’alba del nuovo millennio e con un primo lavoro uscito quattro anni fa (Fire At Will) il gruppo, tramite la Battlegod Productions, licenzia questo adrenalinico Judge and Jury, una botta metallica suonata straordinariamente bene, valorizzata da produzione e songwriting ineccepibili.
Thrash metal dicevamo, con le ispirazioni che guardano alla scena della Bay Area ma che vengono potenziate da un impatto moderno, mentre le ritmiche abbattono dighe e lo tsunami creato viene tenuto a bada da una prova al microfono spettacolare da parte di Vegar Larsen, chitarrista ma soprattutto vocalist straordinario, con una dose di metal alternativo nelle vene e la storica scuola dei singer del genere perfettamente studiata, che gli permette di fare il bello e cattivo tempo su una scaletta di brani devastanti in cui la sezione ritmica impazza (Kenneth Skårholen alle pelli e Atle Sjørengen Johannessen al basso) e le chitarre vomitano riff uno più intenso dell’altro, con un manico nella storia del genere e l’altro pregno di quel groove chefa la differenza.
Un mastodontico lavoro, con una serie di tracce da infarto (Cripple the Slaves, quella tempesta estrema che di nome fa Limitations, la marcia devastante di Wither e la clamorosa In Hell), le influenze che spaziano come una tromba d’aria che vortica da una parte all’altra sulla costa e un cantante che vince per distacco la palma del migliore nel genere oggi in circolazione.
Album imperdibile, gruppo straordinario, perderlo sarebbe un peccato mortale.

TRACKLIST
1. Carved In Stone
2. Cripple The Slaves
3. The Final Sigh
4. Limitations
5. Not The Enemy
6. Wither
7. Judge And Jury
8. In Hell
9. Desolation
10. Fury
11. Public Enemy
12. No Serenity
13. Scars

LINE-UP
Vegar Larsen – Vocals, Guitars
Kim Nybakken – Guitars
Atle Sjørengen Johannessen – Bass
Kenneth Skårholen – Drums

WYRUZ – Facebook

Vanexa – Too Heavy To Fly

I nuovi Vanexa, a giudicare da questo lavoro, appaiono tutto fuorché che un gruppo con quarant’anni di musica metal sul groppone.

Si torna a parlare dei Vanexa, dunque di storia dell’heavy metal made in Italy.

La band ligure ritorna dopo più di vent’anni con un nuovo lavoro, una line up nuova di zecca e tanto heavy rock, magari non agguerrito come negli storici lavori degli anni ottanta, ma dalla classe di un’altra categoria ed un lotto di canzoni ispirate.
La storia del gruppo è conosciuta a memoria, almeno da chi ha nel cuore le sorti dell’heavy metal ed in particolare di quello suonato nello stivale: partiti sul finire degli anni settanta con l’esordio omonimo targato 1983, il gruppo del duo ritmico Sergio Pagnacco (basso) e Silvano Bottari (batteria), i soli rimasti della formazione originale, hanno scritto pagine importanti per il metallo tricolore ed i loro pochi, ma bellissimi lavori, hanno creato intorno al gruppo un aura leggendaria.
Oggi, affiancati dall’ottimo vocalist Andrea “Ranfa” Ranfagni singer di razza e vero portento al microfono, e con una coppia d’asce sontuosa con Artan Selishta a far danni in compagnia del talentuoso Pier Gonella (Necrodeath, Mastercastle), ci regalano questo ottimo Too Heavy To Fly, licenziato dalla Punishment 18 Records.
Heavy rock più che metal, è bene chiarirlo, la rabbia giovanile ha lasciato il posto ad un più ragionato approccio alla nostra musica preferita che, al netto di prestazioni sugli scudi dei protagonisti, equivale a dieci perle hard & heavy, ruvide, melodiche ma soprattutto elevate da una forma canzone che non lascia indifferenti.
Sotto questa nuova veste, diciamo più patinata, i Vanexa trovano le fonte della giovinezza con una serie di brani freschi, dalle ariose atmosfere, rinvigoriti da chitarre adrenaliniche, ma deliziati pure da molte parti melodiche che si manifestano non solo nelle ballad e nei molti mid tempo, ma anche quando sono la grinta ed i watt a guidare il suono.
Brani dalle ritmiche serrate, un gran lavoro delle sei corde ed una prestazione esemplare del singer, impreziosiscono le canzoni dei nuovi Vanexa che, a giudicare da questo lavoro, appaiono tutto fuorché che un gruppo con quarant’anni di musica metal sul groppone.
Tutte ottime canzoni, su cui spiccano la robusta title track e la seguente 007, per una partenza tutta potenza e classe, di un’ altra categoria Rain, mentre The Traveller conclude alla grande l’album con Ken Hensley degli Uriah Heep a valorizzare il brano con i suoi tasti d’avorio.
Nel mezzo, come detto, tanto ottimo heavy rock, non solo per nostalgici, ma assolutamente protagonista anche in questi disgraziati anni del nuovo millennio.
Noi siamo di passaggio, le leggende restano…

TRACKLIST
1. Too Heavy To Fly
2. 007
3. Life Is A War
4. Rain
5. It’s Illusion
6. Tarantino Theme
7. In The Dark
8. Kiss In The Dark
9. Paradox
10. The Traveller

LINE-UP
Andrea “Ranfa” Ranfagni – vocals
Pier Gonella – guitars
Artan Selishta – guitars
Sergio Pagnacco– bass
Silvano Bottari – drums

VANEXA – Facebook

Tyron – Rebels Shall Conquer

L’atmosfera dark, le ritmiche mai troppo lanciate e lo sviluppo dei brani appartengono alla scuola Iced Earth e brani come From Prey To Predator e l’anima progressiva della notevole Maverick dimostrano in toto l’amore del gruppo per la band di Jon Schaffer.

I Tyron sono una band tedesca dedita ad un metal power che guarda più alla tradizione U.S.A. che a quella musicale della terra d’origine.

Il chitarrista e cantante Pavlos Batziakas ed il bassista Lars Kaufmann fondarono il gruppo nel 2008 sotto il monicker Lilith Laying Down, con cui incisero un ep di quattro brani.
Dopo un full length e vari cambi di line up la storia della band riprende nel 2014 con il cambio di nome in Tyron, la firma per Iron Shield ed un nuovo esordio con Rebels Shall Conquer, lavoro che risulta un buon esempio di power thrash metal oscuro, ben suonato e nobilitato da una vena progressiva nell’ottimo lavoro delle asce.
Dal tono vocale del buon Batziakas, che rcorda la timbrica del più famoso Hetfield, il primo nome che salta in mente è quello dei Metallica, ma fortunatamente non solo.
L’atmosfera dark, le ritmiche mai troppo lanciate e lo sviluppo dei brani, appartengono alla scuola Iced Earth e brani come From Prey To Predator e l’anima progressiva della notevole Maverick dimostrano in toto l’amore del gruppo per la band di Jon Schaffer.
Un buon ibrido, dunque, tra il thrash progressivo dei Metallica di ….An Justice For All ed il metal power del gruppo autore del capolavoro Something Wicked This Way Comes, perciò originalità zero ma impatto da vendere, ottima tecnica, una voce gagliarda e belle canzoni, elaborate, cattive il giusto e a tratti travolgenti.
Una band che con il suo lavoro potrebbe conquistare molti apprezzamenti tra i fans dei due gruppi citati e la forza che sprigionano Sick Of It All e Holister Riot o le atmosfere in crescendo di Blazing Trail saranno certamente apprezzate dagli amanti dei suoni d’oltreoceano.

TRACKLIST
1. Mens Fate
2. From Prey To Predator
3. Murder
4. Maverick
5. Sick Of It All
6. Blazing Trail
7. Beast Inside
8. Hollister Riot

LINE-UP
Pavlos – Vocals, Guitar
Lars – Bass
Andrey – Guitar
Andreas- Drums

http://www.facebook.com/TyronBandOfficial/

Calligram – Demimonde

In questi venti minuti scarsi i Calligram ci vanno giù duro con una rabbia degna dei tempi che viviamo.

I Calligram vengono presentati come una band inglese dedita al black metal, ma entrambe le notizie sono parzialmente inesatte: infatti, il gruppo ha la propria base a Londra ma è, di fatto, composta da musicisti provenienti da diversi paesi, tra i quali il nostro, e il genere suonato in realtà può essere inserito nel filone black ma con molta approssimazione, visto che è percepibile una robusta componente hardcore punk.

Tutto questo rende molto meno prevedibile il contenuto dell’ep d’esordio dei Calligram, intitolato Demimonde: non che si reinventi la ruota, e nemmeno si richiede di farlo, però in questi venti minuti scarsi i cinque londinesi d’importazione ci vanno giù duro con una rabbia degna dei tempi che viviamo, con chitarre e la base ritmica a creare un bel muro sonoro trovando quale ideale mezzo per esprimerla, oltre ad un sound potente, lo screaming efferato di Matteo Rizzardo che ci espone quella che non è certamente una visione della realtà circostante tutta rose e fiori.
Ne è riprova l’ultimo brano intitolato, non a caso, Bataclan, dove un incipit di matrice doom lascia spazio ad una foga distruttrice e distorta la cui essenza racchiude il malessere e lo sconcerto rispetto a quanto accaduto a Parigi giusto un anno fa.
I Calligram appaiono una realtà dalle notevoli prospettive, anche se questo loro collocarsi in una sorta di terra di mezzo tra black e hardcore può rivelarsi un’arma a doppio taglio: in tal caso c’è solo da augurarsi che gli estimatori dei rispettivi generi decidano di convergere verso il comune obiettivo di ascoltare musica disturbante, cruda e diretta, al di là di ogni possibile catalogazione.

Tracklist:
1. Red Rope
2. Bed of Nails
3. Drowned
4. Black Velvet
5. Bataclan

Line-up:
Bruno Polotto – Guitar
Tim Desbos – Guitar
Smittens – Bass Guitar
Ardo Cotones – Drums
Matteo Rizzardo – Vocals

CALLIGRAM – Facebook

 

Buzzard Canyon – Hellfire & Whiskey

Un lavoro sui generis, dalle buone atmosfere e qualche anthem carico di allucinato hard rock, ma dedicato a chi del genere vuole ascoltare veramente tutto.

Poche notizie ma tanto stoner rock per la band del Connecticut Buzzard Canyon, in questo autunno fresca di stampa con il nuovo Hellfire & Whiskey.

Un ep omonimo uscito lo scorso anno è l’unico dato tangibile sul passato del gruppo, e la firma per Salt Of The Earth e l’entrata in studio per registrare questo nuovo lavoro ne sono la conseguenza, mentre i musicisti attraversano il deserto americano con l’autoradio che a bomba spara Kyuss, Queen Of The Stone Age e compagni di avventure nel mezzo della Sky Valley.
Hellfire & Whiskey segue le avventure musicali stonate dei paladini dello stoner rock anni novanta e, passo dopo passo, seguono le impronte lasciate sulla sabbia da Josh Homme e soci.
Poco più di mezz’ora rimembrando trip risalenti ad una ventina di anni fa, con la voce della singer che, alternata a vocalizzi maschili sinceramente più consoni al genere, ripercorrono sentieri bruciati dal sole con brani ordinari come Highway Run e Wyoming, con un solo picco che per un poco allontana la band dal deserto americano per seguire la bruma britannica nel riff di Louder Than God, che sa tanto di Cathedral con la benedizione del sommo pontefice Lee Dorrian.
Un lavoro sui generis, dalle buone atmosfere e qualche anthem carico di allucinato hard rock, ma dedicato a chi del genere vuole ascoltare veramente tutto.

TRACKLIST
1.Highway Run
2.Soma’ Bitch
3.Red Beards Massacre
4.Wyoming
5.Louder Than God
6.The End
7.Feathered Serprent
8.Not My Cross

LINE-UP
Matt Raftery
Randy Dumas
Aaron Lewis
Amber Leigh
Mike Parkyn

BUZZARD CANYON – facebook

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