Evoken – Atra Mors

La band del New Jersey ritorna con un full-length a cinque anni di distanza da “A Caress Of The Void” e, come sempre, non delude le attese raggiungendo probabilmente uno dei punti più alti di una già splendida carriera.

Visto che, mentre scrivo questa recensione, ci troviamo in pieno periodo olimpico, mi è venuto spontaneo pensare che gli Evoken siano, assieme ai Mournful Congregation e agli Skepticism, i più autorevoli candidati a un ipotetico podio nella specialità del death-doom.

La band del New Jersey ritorna con un full-length a cinque anni di distanza da “A Caress Of The Void” e, come sempre, non delude le attese raggiungendo probabilmente uno dei punti più alti di una già splendida carriera.
La capacità di immergere l’ascoltatore in atmosfere plumbee e soffocanti, senza risultare mai noiosi o ripetitivi, è privilegio di pochi eletti dei quali gli Evoken fanno parte a buon diritto.
Rispetto a quanto fatto lo scorso inverno con “The Book Of Kings” dai succitati australiani, i nostri accentuano, come da attitudine, la componente death, privilegiando un impatto maggiormente basato sui riff di chitarra pur non disdegnando passaggi acustici, per lo più racchiusi nei due brevi strumentali A Tenebrous Vision e Requies Aeterna.
Se le chitarre assumono un ruolo preponderante nel sound dei maestri statunitensi, le tastiere svolgono un sapiente lavoro di raccordo caratterizzando con rara efficacia i momenti di maggiore intensità e pathos.
Atra Mors viene inaugurato dalla title-track facendo capire sin dalle prime note che, nonostante nulla sia cambiato, il dolore continua a rinnovarsi in maniera costante alimentando in una catena senza fine i rimpianti, le disillusioni e la disperazione per un cammino che, giorno dopo giorno, si avvicina sempre più alla sua fine.
Questo terrificante viaggio nei recessi più profondi della psiche umana prosegue con la meraviglia rappresentata da Descent Into Chaotic Dream, il cui assolo di chitarra finale è poesia allo stato puro.
Grim Eloquence e An Extrinsic Divide proseguono con il loro lento incendere verso il momento del definitivo distacco, ma è con le atmosfere a volte dissonanti di The Unechoing Dread che le tenebre finiscono per avvolgerci impietosamente, con il magistrale growl di John Paradiso a infierire definitivamente sul nostro spirito già sufficientemente provato.
Into Aphotic Devastation conclude, passeggiando senza misericordia sui nostri miseri resti mortali, questo percorso lastricato di sofferenza al termine del quale provo a immaginare la domanda che formulerebbe spontaneamente chi non è avvezzo a questo tipo di musica: per quale motivo dovrei sopportare tutto questo ?
La risposta è che il death-doom non è solo una forma artistica caratterizzata da una rara integrità e aliena a qualsiasi tipo di compromessi: ascoltare opere del valore di Atra Mors ci ricorda in modo costante e senza remissione il carattere aleatorio della nostra esistenza, invitandoci così ad affrontarla quotidianamente con la giusta consapevolezza e il necessario disincanto, prima che tutto si concluda ineluttabilmente con l’approdo in “… a soundless realm, an unforgiving place where time seems endless …”
Un disco imperdibile.

Tracklist :
1. Atra Mors
2. Descent into Chaotic Dream
3. A Tenebrous Vision
4. Grim Eloquence
5. An Extrinsic Divide
6. Requies Aeterna
7. The Unechoing Dread
8. Into Aphotic Devastation

Line-up :
John Paradiso Guitar, Vocals
Chris Molinari Guitar
Nick Orlando Guitar
Dave Wagner Bass
Don Zaros Keyboards
Vince Verkay Drums

Doomed – The Ancient Path

Nel tirare le somme, non si può che apprezzare in maniera incondizionata questo lavoro, che mette in mostra il sicuro talento del musicista di Zwickau.

Doomed è il progetto solista del musicista tedesco Pierre Laube, attivo anche come chitarrista e tastierista nei P.HA.I.L.

Come fa intendere la scelta (invero non troppo originale) del monicker, la musica contenuta in questo lavoro
è votata a un death-doom oscuro e privo di compromessi; rispetto ad altre uscite del genere The Ancient Path ha un carattere maggiormente chitarristico mentre la tastiera assume prevalentemente un ruolo di accompagnamento.
L’opener Sun Eater è esemplificativa dell’intento, da parte di Pierre, di colpire prevalentemente l’ascoltatore con l’impatto di riff granitici piuttosto che con atmosfere malinconiche; chiaramente se l’effetto è notevole nel suo insieme è anche vero che questa scelta stilistica, alla lunga, può rivelarsi controproducente.
Per ovviare a questo possibile inconveniente il musicista tedesco alterna brani nei quali prevale la componente death ad altri dal mood leggermente più atmosferico e dai rallentamenti ai confini con il funeral, come avviene per esempio in She’s Calling Me e parzialmente in Caesar’s Whore.
E’ evidente che la migliore dote di Pierre risiede nella linearità priva di fronzoli della sua proposta unita alla volontà di rifuggire da facili soluzioni melodiche; in tal modo il disco si mantiene di livello medio alto per tutta la sua durata, con la perla, come è giusto che sia, posta in chiusura.
My Love Is Dead, infatti, smussa certe spigolosità presenti negli episodi precedenti lasciando fluire finalmente la tensione emotiva accumulata fino a quel momento: ciò che ne scaturisce è un brano che amalgama alla perfezione pathos e impatto sonoro.
Nel tirare le somme, non si può che apprezzare in maniera incondizionata questo lavoro, che mette in mostra il sicuro talento del musicista di Zwickau.
Un progetto come Doomed merita d’essere supportato da una label ed essendocene molte sparse in tutta Europa che hanno già dimostrato coraggio e lungimiranza, questa è una ghiotta occasione per arricchire qualitativamente il proprio roster.

Tracklist:
1. Sun Eater
2. Collapsing Guts
3. She’s Calling Me
4. Caesar’s Whore
5. Death Is No Respecter
6. My Love Is Dead

Line-up:
Pierre Laube – Vocals, All Instruments

Inborn Suffering – Regression To Nothingness

Il gruppo francese, tra gli altri pregi, possiede la capacità di attingere, come è normale che sia, ai grandi del passato senza assomigliare a qualcuno in particolare

I parigini Inborn Suffering si presentano all’appuntamento con il secondo full-length a distanza di sei anni dal promettente “Wordless Hope”; la band di ragazzi di belle speranze, che mostrava sprazzi di qualità in un contesto death-doom fatto ancora di qualche ingenuità e una cifra stilistica personale da trovare, è maturata definitivamente ripresentandosi sulla scena con un lavoro splendido come questo Regression To Nothingness.

La dote principale dei transalpini è la capacità di evocare sensazioni morbosamente decadenti grazie a una notevole perizia tecnica e alla carica interpretativa del vocalist Laurent, il quale, tra growl, parti recitate e urla strazianti riesce a trasmettere alla perfezione il senso di angoscia che pervade ogni brano di quest’album.
L’unico appunto che si può fare agli Inborn Suffering è quello d’aver prodotto un disco dalla durata forse eccessiva; infatti, sia Another World che la title-track sono episodi buoni ma non all’altezza dei precedenti, mentre Self Contempt Kings chiude comunque alla grande l’album riportandolo alle vette qualitative alle quali avevamo fatto l’orecchio nella sua prima parte.
Slumber Asylum inaugura l’abum, facendo presagire il crescendo che caratterizzerà il poker di brani iniziali di Regression …, passando per la splendida Born Guilty per arrivare alle maestose Grey Eden e Apotheosis (mai titolo fu più azzeccato), tracce nelle quali la chitarra disegna melodie di rara ispirazione e la band raggiunge le proprie vette compositive.
Il gruppo francese, tra gli altri pregi, possiede la capacità di attingere, come è normale che sia, ai grandi del passato senza assomigliare a qualcuno in particolare; se l’influenza che si nota maggiormente è forse quella dei Swallow The Sun, ciò resta comunque circoscritto più all’attitudine melodica che non allo sviluppo vero e proprio delle composizioni.
Regression To Nothingness è l’ennesimo bersaglio centrato dalla Solitude nonché l’ulteriore regalo di questo 20102 agli estimatori di un genere, magari snobbato, ma capace di produrre in maniera continua realtà di valore assoluto come gli Inborn Suffering.

Tracklist :
1. Slumber Asylum
2. Born Guilty
3. Grey Eden
4. Apotheosis
5. Another World
6. Regression to Nothingness
7. Self Contempt Kings

Line-up :
Remi Depernet – Bass
Thomas Rugolino – Drums
Sebastien Pierre – Keyboards
Stéphane Peudupin – Lead Guitars
Laurent Chaulet – Rhythm Guitars, Vocals

Woccon – The Wither Fields

“The Wither Fields” si rivela un prodotto di elevata qualità che fa presagire un futuro interessante per la band della Georgia.

Qualche giorno fa, collegandomi a Facebook, ho trovato questo messaggio “… se ti piacciono Daylight Dies e Swallow The Sun, prova ad ascoltare questo…”.

Per uno come me questi due gruppi costituiscono un’esca formidabile, pertanto ho cliccato il link senza esitare neppure per un attimo: il risultato è stata la scoperta degli interessantissimi Woccon.
Il monicker, piuttosto particolare, fa riferimento a una piccola tribù indiana del North Carolina, anche se la band è originaria della Georgia, per la precisione di Athens, città che annovera tra i suoi figli più illustri un’icona del rock come i R.E.M.
Ovviamente i nostri musicalmente hanno poco o nulla a che vedere con i famosi concittadini, dato che la loro proposta, come si può facilmente intuire dai nomi ai quali fanno riferimento, è fatta di un elegante e melodico death-doom.
La band capitanata dal chitarrista e cantante Tim Rowland, con The Wither Fields arriva al secondo Ep, dopo l’esordio dello scorso anno intitolato “Through Ancestral Fires”, dimostrando d’aver acquisito già una notevole maturità compositiva; l’ascolto dei quattro brani contenuti nel lavoro scorre davvero in maniera piacevole e lascia qualche rimpianto solo per la durata limitata.
Nell’esame “track by track” per una volta parto dalla coda, ovvero da A Falling Devotion perché si tratta dell’unico episodio per il quale mi sento di muovere una piccola critica ai ragazzi statunitensi: non tanto per il valore del brano in sé, che è assolutamente all’altezza, bensì per essere caduti anch’essi nella tentazione di avvalersi di una voce femminile.
Attenzione, la brava Lili svolge benissimo il proprio lavoro, ma nel genere proposto dai Woccon questa soluzione appare un po’ forzata: infatti il brano, quando Tim esibisce il suo ottimo growl, sprigiona una tensione emotiva che finisce fatalmente per scemare nel momento in cui il sound si deve predisporre per accogliere una voce dall’impostazione totalmente diversa.
Le altre tre tracce ci presentano però una band dalle idee piuttosto chiare, protesa a una forma di death-doom dai tratti meno catacombali rispetto alla media e che si potrebbe descrivere come un riuscito mix tra i Swallow The Sun e i nostri Valkiria; in particolare Lament, che costituisce la vetta artistica dell’album, non avrebbe sfigurato affatto all’interno di un disco del valore di “Here Comes The Day”, soprattutto per un lavoro chitarristico che ricorda da vicino quello di Valkus e Mike.
La strada intrapresa dai Woccon sembra proprio essere quella giusta: The Wither Fields si rivela un prodotto di elevata qualità che fa presagire un futuro interessante per la band della Georgia.
Gli obiettivi per il futuro devono essere fondamentalmente due: il primo è quello di personalizzare ulteriormente il sound, per evitare qualche similitudine di troppo con tutte le band citate come fonte di ispirazione, mentre il secondo è trovare un’etichetta lungimirante che si faccia catturare dal contenuto di questo Ep.
Quindi, label di tutto il mondo, fatevi avanti !

Tracklist :
1. Our Ashes
2. Shattered Mirrors
3. Lament
4. A Falling Devotion

Line-up :
Tim Rowland – Guitar, Vocals
Tiler Kuykendall – Guitar
Wade Jones – Drums
Sam Dunn – Bass

Malasangre – Lux Deerit Soli

“Lux Deerit Soli” è un’esperienza sonora che chiunque ami immergersi in atmosfere oscure e pervase da autentica sofferenza deve affrontare senza indugi.

Un bel viaggio agli inferi senza biglietto di ritorno è forse ciò che davvero ci serve per esorcizzare una realtà paradossalmente ancora più cupa di quella dipinta dai Malasangre, ma che continuiamo bellamente a ignorare “facendo finta di essere sani”

Lux Deerit Soli non cerca di indorarci la pillola nemmeno per un attimo, con la sua miscela soffocante di funeral e drone alla quale un cantato di chiara matrice black fornisce un ulteriore elemento letale.
L’incedere lento, quasi esasperante delle due pachidermiche tracce Sa Ta e Na Ma, entrambe dalla durata superiore alla mezz’ora, sono un autentica prova di resistenza per chiunque tenti di approcciarle ma, quando si giunge al termine dell’ascolto, la soddisfazione che si prova è direttamente proporzionale all’impegno profuso.
Descrivere in maniera organica un monolite sonoro di tale portata è un esercizio complesso: come termine di paragone può rivelarsi utile una comparazione con il recente “Munus Solitudinis” dei Krief de Soli, che al confronto, in certi frangenti, potrebbe apparire quasi “orecchiabile”…
I Malasangre, infatti, scarnificano fino all’osso la materia funeral e, scientemente, evitano di ricorrere ai lugubri intermezzi tastieristici, che spesso altre band utilizzano per dare un minimo di respiro alle proprie composizioni, ottenendo così un effetto magmatico e annichilente allo stesso tempo.
La band italiana ritorna con questo terzo full-length a ben sette anni di distanza dal precedente, offrendoci un lavoro dall’enorme valore oltre che un raro esempio d’integrità artistica e, perché no, di coraggio nel proporre una musica che, inevitabilmente, sarà sempre e comunque appannaggio di un limitato numero di persone dotate di particolare sensibilità.
Lux Deerit Soli è un’esperienza sonora che chiunque ami immergersi in atmosfere oscure e pervase da autentica sofferenza deve affrontare senza indugi.

Track-list :
1. Sa Ta
2. Na Ma

Line-up :
NC-9.5 – Bass
FH-37 – Drums, Samples
TK-7.8 – Guitars
VP-33 – Guitars, Samples
EM-00 – Vocals

Abske Fides – Abske Fides

E’ possibile che gli Abske Fides siano ancora alla ricerca di una stabilità che consenta loro di focalizzarsi su un percorso musicale ben definito.

Gli Abske Fides dopo una serie di interessanti Ep e una storia alle spalle già abbastanza lunga, arrivano all’esordio su lunga distanza con questo album autointitolato sotto l’egida delle sempre attiva Solitude.

Il lavoro in oggetto rappresenta un’ulteriore evoluzione del combo brasiliano che, dal black metal degli esordi, è passato successivamente a una forma di cavernoso funeral doom per giungere oggi a un particolare connubio tra doom e post-metal.
L’operazione riesce anche se non al 100%: infatti, se la proposta musicale è davvero valida nella sua alternanza tra parti cupe, con riff convincenti e vocals aggressive, e momenti più rarefatti con venature psichedeliche, alcune piccole imperfezioni esecutive e clean vocals non sempre all’altezza della situazione ne inficiano in parte la resa finale.
Ma, nonostante ciò, la band paulista dimostra d’avere numeri di prim’ordine, specialmente in brani intensi ed emozionanti come Won’t You Come e 4.48, o come in The Coldness of Progress, dove emergono inattese influenze opethiane.
L’album necessita di diversi ascolti prima d’essere assimilato in maniera ottimale, ma questo sforzo viene ripagato da una qualità compositiva comunque meritevole d’attenzione.
E’ possibile che gli Abske Fides, dopo le già menzionate sterzate stilistiche, siano ancora alla ricerca di una stabilità che consenta loro di focalizzarsi su un percorso musicale ben definito; questo full-length si colloca in ogni caso ben al di là della sufficienza e potrebbe trovare diversi estimatori tra gli appassionati di sonorità meno convenzionali.

Tracklist:
1. The Consequence of the Other
2. Won’t You Come
3. The Coldness of Progress
4. Aesthetic Hallucination of Reality
5. 4.48
6. Embroided in Reflections

Line-up:
K. – Drums, Bass, Vocals
Nihil – Guitars
Necrophelinthron – Guitars, Keyboards, Violin, Vocals

Ankhagram – Thoughts

Resta solo da vedere in quale direzione Dead vorrà eventualmente spingere il suo progetto negli anni a venire, per ora non resta che ascoltare con piacere questo ottimo lavoro.

Avevamo lasciato Ankhagram nel 2010 alle prese con “Where Are You Now”, un buonissimo lavoro impregnato di death-doom atmosferico, che lasciava presagire interessanti sviluppi per il futuro.

Nonostante l’ancora giovane età di Dead, questo il nickname del musicista russo che è unico depositario del progetto, Thoughts è il quinto full-length pubblicato in sei anni: un intervallo di tempo già importante nel corso del quale il sound si è progressivamente evoluto, guadagnando in personalità e maturità rispetto ai primi album caratterizzati da apprezzabili slanci creativi alternati a evidenti ingenuità.
Ankhagram nel 2012 significa funeral-doom dall’accentuata componente ambient, un mix sonoro che scongiura la segregazione negli antri rumoristici del drone a vantaggio di un’indole melodica che solo di rado viene screziata dal growl di Dead.
L’opener Gates In Mind, pur essendo il brano di gran lunga più breve del lotto, risulta già indicativa dell’indirizzo stilistico dell’album, con il delicato giro di pianoforte che ci accompagna dall’inizio alla fine senza risultare, nonostante ciò, prolisso o stucchevole.
Ben più impegnativo si rivela l’ascolto di Don’t Feel This Life che ci riporta in territori funeral, sulla falsariga di Ea e Comatose Vigil, tanto per restare all’interno dell’ex-impero sovietico; i diciotto minuti di sviluppo della traccia sono pervasi, piuttosto che dalla disperazione o dal cupo nichilismo di altre uscite nello steso ambito, da un soffuso senso di malinconia che si rivela una caratteristica costante di Thoughts.
Lost In Reality è un altro bell’episodio di stampo ambient nel quale il costante sottofondo rappresentato dallo sferragliare di un treno non può che rappresentare metaforicamente lo scorrere del tempo, mentre I’m A Fake e Without Us ripropongono il funeral di stampo atmosferico che, come abbiamo visto, è nelle corde di Dead.
La title-track chiude degnamente l’album dopo quasi settantacinque minuti di ottima musica riportando alla ribalta il volto ambient della one-man band russa.
Proprio perché la componente ambientale è accompagnata da un deciso tratto melodico, l’ascolto dell’album si rivela tutt’altro che faticoso, ovviamente rapportando il tutto al genere proposto; personalmente non mi sento di muovere alcuna critica al musicista di Ekaterinburg, anzi, ritengo che Thoughts ne rappresenti il raggiungimento della definitiva maturità artistica.
Resta solo da vedere in quale direzione Dead vorrà eventualmente spingere il suo progetto negli anni a venire, per ora non resta che ascoltare con piacere questo ottimo lavoro.

Tracklist :
1. Gates in Mind
2. Don’t Feel this Life
3. Lost in Reality
4. I’m a Fake
5. Without Us
6. Thoughts

Line-up :
Dead – All instruments, Vocals

Falling Leaves – Mournful Cry Of A Dying Sun

E’ sorprendente la maturità compositiva esibita dalla band in ogni brano, dando vita così a una raccolta di brani splendidi

I Falling Leaves arrivano dalla Giordania e, indubbiamente, nonostante il paese mediorientale abbia già regalato alla scena metal una grande band come i Bilocate, costituisce sempre e comunque una piacevole novità poter ascoltare metal proveniente da paesi tradizionalmente e culturalmente lontani da questo tipo di sonorità.

Immagino che per i nostri non sia semplicissimo proporre in patria il loro raffinato gothic-doom (chi dalle nostre parti si lamenta provi a consolarsi pensando che c’è sempre chi sta peggio), ma è evidente che ciò non li ha affatto scoraggiati a giudicare dalla riuscita dell’album e, soprattutto, leggendo i prestigiosi nomi della scena che si sono mossi per contribuire alla realizzazione di Mournful Cry Of A Dying Sun.
Diciamo subito che gli ospiti di grido, da soli, non sono mai garanzia di qualità, ma i Falling Leaves dimostrano, nel corso del lavoro, di poter tranquillamente camminare con le proprie gambe.
Risulta infatti sorprendente la maturità compositiva esibita dalla band in ogni brano, dando vita così a una raccolta di brani splendidi, in particolare per la capacità di produrre atmosfere malinconicamente crepuscolari e ammantate di una morbosa eleganza.
Altro ragguaglio fondamentale per chi vorrà ascoltare il disco è la totale assenza di qualsiasi rimando alla tradizione musicale araba, a differenza di quanto fatto dai già citati Bilocate: il gothic-doom della band di Zarqa è quanto di più ortodossamente fedele alla tradizione europea si possa immaginare.
Si diceva degli ospiti: il primo a entrare in scena è Josep Brunet degli spagnoli Helevorn, che presta il suo efficace growl all’opener Reaching My Last Haven, brano che non lascia molto spazio all’ottimismo con le sue atmosfere drammatiche che accompagnano un battito cardiaco nel suo lento spegnersi.
In Blight tocca a Pim Blankenstein degli Officium Triste fornire il proprio contributo vocale a una traccia molto evocativa, mentre in Trapped Within si erge a protagonista il violino, cosa che, ovviamente non può che riportare ai capiscuola My Dying Bride.
Silence Again (Silence Pt. II), sequel del brano presente nel demo del 2010, accentua ancor più questa vicinanza ai maestri albionici, collocandosi sulla scia di quella perla di decadenza gotica che fu “For My Fallen Angel”.
Ma è con Vanished Serenity che i Falling Leaves raggiungono, a mio avviso, l’apice del disco: il brano inizia con una meravigliosa melodia di chitarra che introduce il growl del mitico Paul Kuhr (Novembers Doom); il gigantesco (sia per statura artistica che fisica) musicista americano si impadronisce letteralmente del brano regalando anche clean vocals e un recitato da brividi (no sun, no light, no hope…).
Anche quando i sei ragazzi si mettono completamente in proprio (coadiuvati solo dal prezioso violino del musicista norvegese Pete Johansen), come accade negli ultimi due brani, il livello si mantiene assolutamente inalterato e Celestial, in particolare, mette in mostra le ottime doti vocali di Abdul-Aziz oltre alle pennellate chitarristiche di Ala’a e Anas.
I quarantasette muniti del disco volano via senza momenti di noia; se vogliamo trovare il classico pelo nell’uovo (molto sottile in questo caso) non si può fare a meno di notare che, se gli ospiti, con la loro presenza, forniscono una sorta di imprimatur alla band, dall’altra spingono istintivamente la scrittura dei brani che li coinvolgono verso territori più affini ai gruppi di appartenenza.
Ma questi sono aspetti del tutto marginali quando, come nel caso di Mournful Cry Of A Dying Sun, ciò che ne scaturisce è l’ennesima perla di gothic-doom regalataci da questo ricco (purtroppo solo musicalmente parlando …) 2012.

Tracklist :
1. Reaching My Last Haven
2. Blight
3. Trapped Within
4. Silence Again (Silence Pt. II)
5. Vanished Serenity
6. Memories Will Never Fade
7. Celestial
8. Dying Sun (Outro)

Line-up :
Ala’a Swalha – Guitars
Anas Safa – Guitars
Abdul-Aziz – Assaf Vocals
Rami Mazahreh – Drums
Saif Al-Swalha – Bass
Husam Haddad – Keyboards

Graveflower – Return To The Primary Source

Chiudete gli occhi e lasciatevi cullare dalle note dolenti di My Turn, brano che dopo un intro acustica lascia spazio alle struggenti clean vocals di Aaron Stainthorpe … ; poi riapriteli e passate direttamente alle note informative relative alla band e scoprirete che il cantante in realtà risponde al nome di Vladimir Semenischev e che, come i musicisti che lo accompagnano, non proviene dalle brumose lande albioniche ma dalla ben più lontana Ekaterinburg (Russia).

Questo tipo di introduzione serve a far capire quanto il disco dei Graveflower sia debitore nei confronti del sound che i My Dying Bride hanno contribuito a creare nella prima metà degli anni ’90 e, a conti fatti, tutto questo finisce per costituirne sia il maggiore pregio sia il principale difetto.
Non c’è alcun dubbio, infatti, che la band russa riesca a riportare in vita in maniera efficace e appropriata le sonorità che hanno contraddistinto pietre miliari del doom/death come “Turn Loose The Swans” o “The Angel And The Dark River” ma, d’altra parte, l’adesione al modello originario in certi frangenti è talmente fedele da sfiorare il plagio.
Pertanto riesce difficile fornire un giudizio obiettivo e soprattutto slegato da quanto appena osservato: chi, come il sottoscritto, ama in maniera incondizionata questo genere musicale, non può evitare di farsi coinvolgere dalla bravura di Vladimir e soci nel comporre brani al rallentatore, dal mood romantico e decadente, e l’ascolto ripetuto di questo lavoro trasmette sensazioni in gran parte positive. Detto questo, e ribadito che il doom, per sua natura, non si presta a troppe divagazioni o commistioni stilistiche, è innegabile che dai Graveflower per il futuro ci si attende quanto meno uno scostamento più deciso dai canoni espressivi che la band dello Yorkshire ha dettato due decenni or sono.
Alla fine il verdetto per la band russa è di assoluzione, sia pure con tutte le riserve già esposte, con le seguenti motivazioni : 1) Return To The Primary Source, se spogliato di ogni ingombrante termine di paragone, è un bel disco, considerando tra l’altro che si tratta del passo d’esordio. 2) Se i My Dying Bride decidessero un giorno di tornare alle sonorità e all’intensità emotiva degli esordi, immagino che la cosa sarebbe accolta con favore dalla maggior parte dei fans, quindi il fatto che qualcun’altro li abbia in qualche modo anticipati non mi pare così deprecabile ….

Tracklist :
1. White Noise
2. My Turn
3. Rain in Inferno
4. Just a Moment
5. Falling Leaves
6. Autumn Within
7. Rain Without End

Line-up :
Danil Aleshin – Drums
Dimitry Solodovnikov – Guitars
Andrey Pilipishin – Guitars
Vladimir Semenischev – Vocals, Bass

Nethermost – Alpha

Certamente questo primo assaggio mostra una band dalle idee molto chiare, per quanto certo non innovative

Interessante Ep di esordio per questa band con base a Laredo (Texas), composta da John Johnston alla voce e da Cynthia e Waldo Rocha a occuparsi di tutti gli strumenti.

Alpha si compone di quattro brani nei quali viene esibito un gothic-doom influenzato dai Paradise Lost e dai primi Katatonia ; i Nethermost sono autori di una proposta molto lineare e priva di fronzoli e proprio per questo, ancora più apprezzabile.
Intanto, nonostante una presenza femminile nella line-up, viene smentito subito il clichè che in questi casi prevede la scontata dicotomia tra growl e voci angeliche, con il solo John a occuparsi delle parti vocali, mentre Cynthia con la sua chitarra tratteggia melodie malinconiche ma supportate da una base ritmica piuttosto vivace.
Certamente questo primo assaggio mostra una band dalle idee molto chiare, per quanto certo non innovative; assodato che un brano come Tower Of The Winds è un autentico gioiello, il trio dovrebbe concentrarsi sull’obiettivo di diversificare maggiormente la proposta.
Infatti, l’unica critica che si può rivolgere a un lavoro come Alpha è la sua eccessiva uniformità: le quattro tracce suonano in maniera piuttosto simile tra di loro e impostate su un classico mid-tempo, caratteristiche queste che, se non costituiscono un problema su una durata inferiore ai venti minuti, potrebbero rivelarsi controproducenti nel momento in cui i Nethermost dovessero decidere di cimentarsi sulla lunga distanza.
Comunque per ora molto bene così; considerando che l’Ep è autoprodotto, una label che volesse farsi avanti potrebbe ricavare notevoli soddisfazioni da questa band.

Tracklist :
1. Phasing Currents
2. The Untroubled Kingdom of Reason
3. Tower of the Winds
4. Dance of Burning Beasts

Line-up :
Cinthya Rocha – Lead Guitars
Waldo Rocha – Rhythm Guitars, Programming
John Johnston – Vocals

Bretus – In Onirica

Quest’album possiede secondo me, tra gli altri pregi, quello di essere appetibile anche per un pubblico non di “settore”, intendendo con questo che, anche chi non fosse avvezzo alle tipiche sonorità del doom, potrà apprezzare compiutamente la grande musica racchiusa all’interno di “In Onirica”.

Giuntomi dopo un’audace quanto improbabile, fino a qualche anno fa, triangolazione Catanzaro – Donetsk – Genova, il cd dei Bretus si rivela di valore direttamente proporzionale al numero dei chilometri (reali e virtuali) percorsi.

L’esordio su lunga distanza della stoner band calabrese è l’ennesima gemma preziosa che si va ad aggiungere alla già cospicua collezione di cui si fa vanto la scena italiana in questo 2012 smentendo, almeno dal punto di vista strettamente musicale, chi da tempo ne recita il “de profundis”…
In Onirica inizia con una serie di ululati che introducono Insomnia, brano che nella sua alternanza tra doom classico e momenti più psichedelici delinea quello che sarà il tema che ci accompagnerà lungo l’intera durata dell’album: pezzi mediamente lunghi ma non prolissi, ritmi cadenzati ma non pachidermici, riff pesanti ma non monolitici, con tutti i musicisti sempre in bella evidenza e naturalmente predisposti a variazioni di tempo e di atmosfere perfettamente amalgamate al contesto.
The Dawn Breeds e Down in The Hollow si mantengono al livello qualitativo dell’opener, mentre Leaves Of Grass è un piacevole intermezzo psichedelico strumentale.
Il riffone che apre Escape ci ricorda prepotentemente che ci si muove comunque in territori doom, per quanto le sonorità care a Saint Vitus e Candlemass siano costantemente arricchite da venature psichedeliche e prog; Forest Of Pain è un ulteriore traccia di estremo valore, dall’incipit che sfiora il blues per poi dipanarsi in passaggi più rocciosi e di rara intensità.
Tutto questo basterebbe e avanzerebbe per definire In Onirica un album del tutto riuscito, ma l’autentico valore aggiunto arriva con il brano di chiusura, lo strumentale The Black Sleep, otto minuti di delirio dark-psichedelico, graziati dal prezioso contributo dell’hammond a cura dell’ospite Gabriel Gigliucci.
Un consiglio, forse superfluo, che mi sento di fornire, è quello di gustare l’album nella sua interezza, cosa tutt’altro che complessa visto che il quartetto ha contenuto la durata complessiva entro i quaranta minuti. Zagarus con la sua voce evocativa e perfetta per il genere, Ghenes e Faunus sempre incisivi alle quattro e sei corde, coadiuvati dal fondatore della band Neurot, qui in veste di ospite, e Sest con il suo efficace lavoro percussivo, compongono una squadra vincente nella quale il collettivo spicca molto più delle comunque notevoli doti dei singoli.
Quest’album possiede secondo me, tra gli altri pregi, quello di essere appetibile anche per un pubblico non di “settore”, intendendo con questo che, anche chi non fosse avvezzo alle tipiche sonorità del doom, potrà apprezzare compiutamente la grande musica racchiusa all’interno di In Onirica.

Tracklist:
1. Insomnia
2. The Dawn Bleeds
3. Down in the Hollow
4. Leaves of Grass
5. Escape
6. Forest of Pain
7. The Black Sleep

Line-up :
Zagarus – Vocals
Ghenes – Bass, Guitars
Faunus – Guitars
Sest – Drums

Krief De Soli – Munus Solitudinis

“Munus solitudinis” è un’esperienza sonora che respingerà senza alcuna misericordia chiunque vi si avvicini privo della necessaria “conoscenza” che il funeral impone, ma che, al contrario, attrarrà come una falena chi possiede la sensibilità per farsi avvolgere dalle spire di questo puro concentrato di angoscia esistenziale.

I Krief De Soli tornano sulle scene con il secondo disco che segue, a due anni di distanza, l’interessante “Procul Este, Profani…” ; la one-man band canadese (Quebec), creatura del misterioso Egregoire De Sang, continua sulla strada già tracciata proponendo un funeral doom che estremizza in senso claustrofobico quanto già concepito in passato dai capiscuola del genere.

Per meglio chiarire le sonorità presenti in Munus Solitudinis, si potrebbe dire che questo lavoro, come già il suo predecessore, si pone come un’ideale evoluzione di quel monumento alla mestizia quale fu “Tides Of Awakening”, rimasto l’unico parto su lunga distanza dei Tyranny.
Evidentemente, pur non essendo il funeral certamente musica per tutti, questa sua particolare espressione si rivela, se possibile, ancora più ostica e di tormentata assimilazione; in gran parte dei suoi quasi settanta minuti, il disco si presenta come un inaccessibile monolite sonoro che, alla stregua di una processione di dannati, procede con lentezza esasperante verso una fine che pare non giungere mai.
Il growl di Egregoire è una sorta di rantolo che ben si addice alle atmosfere presenti nel lavoro, come si evince dalla prima traccia, che chiarisce subito gli intenti del nostro sia per il suo titolo, Nascentes Morimur, che per la sua durata superiore ai venti minuti.
Vita Memoriae – Exordium Sanctus è un breve (se rapportato al resto del disco) strumentale che rappresenta una pausa all’interno dell’ineluttabile cammino verso il nulla.
Ma è con Vita Memoriae – Apogaeus Rerum Vitae che il musicista canadese raggiunge il suo apice compositivo: partendo dalle medesime atmosfere della traccia iniziale, il brano si apre progressivamente verso un barlume di luce, un’illusoria speranza descritta con uno stile meno apocalittico e molto vicino al malinconico incedere dei magnifici Ea; la chitarra tratteggia pochi ma toccanti accordi e il senso di soffocamento lascia finalmente spazio alla commozione per ciò che non è stato e, sopratutto, per ciò che mai sarà …
Deo Volente… Caelo Tegi riporta il disco alle atmosfere soffocanti che tornano così a raffigurare quelli che potrebbero essere gli estremi ansiti di vita (ammesso che una vita ci sia mai stata), mentre Sanguis Et Umbra Sumus è dolore puro portato a livelli parossistici tanto che, quando si giunge all’ultima nota, non si capisce se si tratti di una liberazione o se questa sorta di catarsi purificatrice, per compiersi, debba continuare all’infinito.
Munus Solitudinis è un’esperienza sonora che respingerà senza alcuna misericordia chiunque vi si avvicini privo della necessaria “conoscenza” che il funeral impone, ma che, al contrario, attrarrà come una falena chi possiede la sensibilità per farsi avvolgere dalle spire di questo puro concentrato di angoscia esistenziale.

Tracklist :
1. Nascentes Morimur
2. Vita Memoriae – Exordium Sanctus
3. Vita Memoriae – Apogaeus Rerum Vitae
4. Deo Volente… Caelo Tegi
5. Sanguis Et Umbra Sumus

Line-up :
Egregoir de Sang

Process Of Guilt – Fæmin

Paradossalmente l’unico autentico problema dei Process Of Guilt è che, dopo un album di questa levatura, riuscire a fare meglio sarà pressoché impossibile : un cruccio che molte band vorrebbero avere …

Avevamo lasciato nel 2009 i Process Of Guilt alle prese con “Erosion”, lavoro nel quale erano state gettate le basi per una trasformazione del sound in qualcosa di diverso dal pur valido death-doom degli esordi.

Di fronte a un certo immobilismo stilistico, sia pure tutt’altro che sgradito, da parte della maggioranza delle band dedite al genere, l’evoluzione costante del gruppo portoghese appare ancora più strabiliante, alla luce del risultato che scaturisce da questo disco.
In Fæmin, infatti, la malinconia e la rassegnazione, che erano il tratto distintivo delle produzioni precedenti, sono accantonate per lasciare spazio alla rabbia e all’aggressività rappresentate da sonorità che, riportando al post-metal dei Neurosis, all’industrial claustrofobico dei Godflesh, ma anche ai primi lavori dei sottovalutati Disbelief, vengono esibite con una personalità sorprendente, pur senza abiurare l’attitudine monolitica del doom.
Il disagio esistenziale e il rifiuto di una realtà sempre più alienante, si manifestano tramite brani pachidermici, paragonabili a schiacciasassi che con il loro lento incedere travolgono tutto ciò che incontrano sul loro percorso, in maniera inarrestabile.
La voce di Hugo, parallelamente al sound della band, ha abbandonato il growl profondo che conoscevamo e si è trasfigurata in un ringhio, un urlo carico d’odio proveniente dagli abissi più reconditi della psiche umana; la piattaforma sonora su cui poggia è costituita da riff plumbei e ossessivi e da una base ritmica che martella in maniera pressoché incessante.
I brani presenti sono cinque, ma il fatto che siano collegati tra di loro rende, di fatto, Fæmin un corpo unico, un incubo sonoro che, per le nostre convenzioni spazio-temporali, dura solo quaranta minuti, ma che in realtà sembra non doversi arrestare mai; un’esperienza sonora che annichilisce per la sua intensità e che, per quanto ci si possa provare, le parole non riescono a descrivere in maniera esaustiva.
Paradossalmente l’unico autentico problema dei Process Of Guilt è che, dopo un album di questa levatura, riuscire a fare meglio sarà pressoché impossibile : un cruccio che molte band vorrebbero avere …

Tracklist :
1. Empire
2. Blindfold
3. Harvest
4. Cleanse
5. Fæmin

Line-up:
Custódio Rato – Bass
Gonçalo Correia – Drums
Nuno David – Guitars
Hugo Santos – Vocals, Guitars

PROCESS OF GUILT – Facebook

SaturninE – SaturninE

Le SaturninE hanno deciso di esplorare il lato oscuro dell’universo musicale e l’hanno fatto con la giusta attitudine unita a una certa dose di talento

Le SaturninE sono cinque ragazze italiane che, invece di inseguire improbabili sogni di fama e ricchezza in campo musicale mettendo in gioco la propria dignità nella melensaggine dei talent-show, hanno deciso, per fortuna, di sfogare la loro creatività formando una band sludge-doom; dico “per fortuna”, anche perché ciò che ne scaturisce è un lavoro davvero sorprendente per pathos e intensità, il tutto considerando inoltre che ci troviamo di fronte ad una autoproduzione.

Il sound prodotto è una miscela esplosiva di dark e doom metal e, pur attingendo ovviamente ai grandi nomi del passato, mostra costantemente una freschezza invidiabile riuscendo nell’impresa di non apparire eccessivamente derivativo.
Le chitarre erigono un roccioso muro sonoro senza disdegnare efficaci passaggi solistici, il supporto ritmico è puntuale, mentre la voce di Laura è il classico growl femminile, più abrasivo che profondo, forse perfettibile (come del resto l’intera resa strumentale) con l’ausilio di una migliore produzione, ma efficace in ogni passaggio.
Nella mezz’ora di musica proposta, i brani vivono spesso dell’alternanza tra parti rallentate e violente accelerazioni, aspetto che non fa mai venire meno la tensione emotiva all’interno di un lavoro nel quale spicca prepotentemente una traccia come Orgy Of Blood, che regala sette minuti abbondanti di cupe emozioni; degno di nota anche l’omaggio ai Bathory con la riuscita cover di Call From The Grave.
Le SaturninE hanno deciso di esplorare il lato oscuro dell’universo musicale e l’hanno fatto con la giusta attitudine unita a una certa dose di talento; possiamo solo augurare loro di trovare un’etichetta lungimirante che abbia voglia di puntare su una band dotata di un simile potenziale.

Tracklist :
1. Intro
2. Abyss
3. Death Reaper
4. Orgy Of Blood
5. Stench Of Decay
6. Call From The Grave
7. Outro

Line-up :
Jex – Bass
Angelica – Drums
Silvia – Guitars
Giulia – Guitars
Laura – Vocals

Valkiria – Here The Day Comes

Una piacevole scoperta per chi non conosceva i Valkiria e una conferma dello stato di salute di una scena come quella nostrana che, pur tra ogni genere di avversità, appare in grado di sfornare con buona continuità lavori di livello assoluto come “Here The Day Comes”

Gli ultimi mesi ci stanno regalando diverse uscite davvero magnifiche provenienti dal versante più oscuro del metal; un piacere che aumenta in maniera esponenziale e che ci rende (finalmente) orgogliosi visto che alcune di queste sono ad opera di band italiane.

Infatti, dopo gli imperdibili lavori degli Ecnephias di Mancan (che in passato ha collaborato proprio con i Valkiria) e dei The Foreshadowing, tocca ora alla creatura di Valkus dare alle stampe un’autentica perla che riporta in vita il gothic-death doom nella sua essenza più pura, quando album come “The Silent Enigma”, “Dance Of December Souls” e “Turn Loose The Swans” dettavano i canoni stilistici di un genere capace di regalare emozioni come pochi altri.
Here The Day Comes è un concept, che, come si può evincere dal titolo dei brani, è incentrato sul racconto dei diversi momenti della giornata, visti come metafora dell’intera esistenza; il disco, che si avvale della preziosa collaborazione di Giuseppe Orlando alla batteria, si rivela fin dall’iniziale Dawn un commovente compendio di arte tetra e malinconica; Sunrise (da vedere lo splendido video) e Morning trasportano l’ascoltatore attraverso le loro atmosfere cupe e decadenti mentre, da Sunset in poi, il mood si fa ancor più fosco e opprimente in ossequio al calare delle tenebre.
Questa è la tipica opera che richiede un ascolto integrale per favorire una migliore assimilazione e la lunghezza non eccessiva aiuta molto in questo senso; dal canto loro, i Valkiria sfuggono al rischio di risultare una copia sbiadita dei campioni del passato grazie alla sensibilità compositiva e all’imponente impatto emotivo infuso in Here The Day Comes nella sua interezza.
Difficile trovare qualcosa che non funzioni nella proposta di Valkus e Mike: volendo cercare il classico pelo nell’uovo, forse sarebbe stato preferibile l’utilizzo del growl in vece dello screaming che, personalmente, reputo più adatto al black metal, ma anche così non viene mai meno il senso di fatale rassegnazione che aleggia nel disco al cospetto dell’ineluttabile scorrere del tempo.
Una piacevole scoperta per chi non conosceva i Valkiria e una conferma dello stato di salute di una scena come quella nostrana che, pur tra ogni genere di avversità, appare in grado di sfornare con buona continuità lavori di livello assoluto come Here The Day Comes.

Tracklist :
1. Dawn
2. Sunrise
3. Morning
4. Afternoon
5. Sunset
6. Evening
7. Night

Line-up :
Valkus Valkiria – Vocals, All Instruments
Mike – Guitars
Giuseppe Orlando – Drums

Dead Summer Society – Visions From A Thousand Lives

Il grande pregio dell’album risiede nella sua apparente semplicità, espressa attraverso un sound lineare e privo di inutili barocchismi che lascia fluire, ascolto dopo ascolto, tutte le emozioni che questo genere musicale riesce a evocare.

Dead Summer Society è il progetto solista di Mist (al secolo Emiliano Santoro), conosciuto nell’ambiente per la sua militanza nella gothic-doom band How Like A Winter, autrice nell’ormai lontano 2003 dell’ottimo “…Beyond My Grey Wake”.

Dopo l’esordio nel 2010 con il demo “The Heart Of Autumnsphere”, interamente strumentale, il musicista molisano, con Visions From A Thousand Lives, introduce una novità sostanziale scegliendo di utilizzare anche le vocals, sia maschili che femminili; pur mantenendo l’impostazione della one-man band, sicuramente questa innovazione fornisce a Mist un ulteriore elemento sul quale impostare la struttura dei brani.
Diciamo subito che l’operazione riesce in maniera più che soddisfacente, sia pure con qualche riserva sull’uso della voce femminile, che a mio avviso si addice più a un gothic-doom dal carattere commerciale piuttosto che all’ambito oscuro e decadente che caratterizza quest’album, dove al contrario spicca l’ottimo growl dell’ospite Trismegisto.
Poco male, se la maggioranza della musica proposta è di altissimo livello, capace di emozionare sia attraverso i toccanti fraseggi pianistici sia quando le chitarre prendono il sopravvento mantenendo sempre e comunque vivo il senso di malinconia che pervade il lavoro.
La bravura di Mist risiede nella capacità di proporsi in un genere ormai dai confini ben definiti, senza aderire in maniera banale ai consueti modelli, cosicché il disco mostra una sufficiente varietà stilistica passando da brani contraddistinti da una vena più intimista (I Met You In Heaven And Hell, The Way) ad altri dalle sonorità prossime al death-doom più atmosferico, come la splendida Army Of Winter, nuova versione del brano incluso nel demo del 2010 e posta in chiusura dell’album.
In altre occasioni le due anime riescono a convivere in armonia senza che il risultato finale appaia simile a una convivenza forzata (Shadow I Bear, con un inquietante passaggio recitato in italiano, The King’s Alone, Down On You).
Il giudizio nei confronti di Visions From A Thousand Lives è assolutamente positivo e, chi è alla costante ricerca di atmosfere cupe e malinconiche, troverà pieno appagamento; probabilmente la decisione presa da Mist, di rinunciare a una proposta integralmente strumentale, ha fornito nuovi sbocchi al suo metodo compositivo, riuscendo del tutto ad annullare quel senso di frammentarietà che è il difetto comune alla maggior parte delle one-man band.
Il grande pregio dell’album risiede nella sua apparente semplicità, espressa attraverso un sound lineare e privo di inutili barocchismi che lascia fluire, ascolto dopo ascolto, tutte le emozioni che questo genere musicale riesce a evocare.
Dead Summer Society è un progetto che, certamente, in un prossimo futuro ci fornirà ulteriori grandi soddisfazioni; inoltre, questo lavoro acquisisce ulteriore valore se pensiamo che è stato pubblicato senza il supporto di un’etichetta, lacuna che ci auguriamo possa essere colmata al più presto.

Tracklist :
1. Explicit
2. I Met You in Heaven and Hell
3. Shadow I Bear
4. The King’s Alone
5. Down on You
6. Her White Body, From the Coldest Winter
7. Last Winter I Died
8. The Way
9. Within Your Scars
10. Unreal
11. I Fade
12. Army of Winter (March of the Thousand Voices)

Line-up :
Mist – All Instuments

Guests :
Trismegisto – Vocals
Federica Fazio – Vocals

Wedding In Hades – Misbehaviour

I Wedding In Hades confermano le buone impressioni destate con il precedente “Elements Of Disorder” approdando a un gothic-doom raffinato e perfettamente inserito nel solco della tradizione del genere

I francesi Wedding In Hades giungono alla seconda prova su lunga distanza sotto l’egida della BadMoodMan, label affiliata alla Solitude e, quindi, sinonimo di qualità assoluta.

Misbehaviour non delude le attese, presentando un band in grado di tessere trame musicali costantemente in bilico tra death-doom e gothic, sulla scia di quanto fatto dai My Dying Bride, particolarmente nella prima parte della loro carriera.
Del resto, nel commentare le nuove uscite in questo campo, il nome della band di Aaron Stainthorpe viene spesso citato, ma non sempre a proposito; in questo caso, invece, un brano come Forsaken, che apre alla grande il disco, riporta subito alle atmosfere di “As The Flower Withers”, con tanto di “growl a cappella” simile a quello presente nella magnifica “Sear Me”.
Nella successiva traccia, Men To The Slaughter, emerge una vena melodica più affine ai Saturnus, mentre Sleeping Beauty richiama in maniera evidente i Type O Negative, anche per le clean vocals dall’impostazione simile a quella del compianto Peter Steele; questo dimostra che la band transalpina non si limita affatto a ricalcare pedissequamente un solo modello stilistico, cercando invece di rielaborare in maniera tutt’altro che scontata quanto prodotto in passato dai nomi più conosciuti della scena.
Operazione che riesce alla perfezione con Dust In A Stranger’s Eyes, brano a dir poco superlativo dalle atmosfere diluite e malinconiche e Regrets, con un bellissimo pianoforte a impreziosire una trama musicale gravata di mestizia.
The One To Blame appare come l’unico momento discutibile a causa delle sue brutali accelerazioni che stridono rispetto a quanto ascoltato nel resto dell’album; le cose tornano a posto con la sognante e delicata Almost Living e con la ripresa di Men To The Slaughter, che chiude degnamente un lavoro di pregevole qualità.
I Wedding In Hades confermano le buone impressioni destate con il precedente “Elements Of Disorder” approdando a un gothic-doom raffinato e perfettamente inserito nel solco della tradizione del genere; la prova strumentale del quartetto francese è impeccabile, così come la prestazione dietro il microfono di S.Toutain è convincente sia con il growl sia quando ci cimenta con le clean vocals, anche se in quest’ultimo caso la pronuncia inglese è rivedibile a causa del persistere di un forte accento francofono.
Nulla che possa inficiare, più di tanto, un album che merita di trovare un posto di riguardo nella collezione di chi è costantemente alla ricerca di emozioni in musica.

Tracklist :
1. Forsaken
2. Men to the Slaughter
3. Sleeping Beauty
4. Dust in a Stranger’s Eyes
5. Regrets
6. The One to Blame
7. Almost Living (But Not Dead Yet)
8. Men to the Slaughter (Reprise)

Line-up :
V. Lahaeye – Drums, Backing Vocals
D. Simon – Rhythm & Lead Guitars
O. Raoult – Keyboards
S. Toutain – Vocals, Bass, Acoustic & Nylon Stings Guitars

Obsidian Sea – Between Two Deserts

“Between Two Deserts” è un album che verrà sicuramente apprezzato per la sua ortodossia da chi ama il genere

Davvero interessante la proposta di questa band esordiente proveniente dalla Bulgaria.

Gli Obsidian Sea sono un duo, attivo dal 2009, le cui sonorità attingono alla tradizione doom delle band scandinave (Candlemass, Reverend Bizarre) e d’oltreoceano (Saint Vitus); se, ovviamente, questa premessa fa intuire che non ci si debbano attendere grandi variazioni sul tema, ciò che rende apprezzabile l’operato della band balcanica sono il gusto e l’abilità nel maneggiare la materia, facendo sì che l’influenza dei nomi citati si limiti a fornire un canovaccio da seguire, senza per questo scadere in una riproposizione scolastica degli stilemi del genere.
Between Two Deserts, si presenta così, come un bel monolite di doom classico, dominato dall’efficace voce di Anton e dai suoi riff pesanti ed efficaci, pur nella loro apparente semplicità; il disco scorre in maniera fluida fin dall’opener At the Temple Doors, mettendo subito sul piatto quelle che sono le caratteristiche peculiari del disco, mentre con The Seraph i ritmi si fanno leggermente più sostenuti per quella che si presenta come la traccia dai toni meno plumbei.
I brani possiedono tutti una notevole carica evocativa e, nonostante una certa uniformità di fondo, riescono sempre a mantenere desta l’attenzione dell’ascoltatore; operazione che va a buon fine anche quando gli Obsidian Sea decidono di collocare i due episodi più lunghi e pachidermici proprio alla fine del lavoro, rivelandosi sia Beneath, sia Flaming Sword, due efficaci dimostrazioni di sonorità rallentate e avvolgenti.
Between Two Deserts è un album che verrà sicuramente apprezzato per la sua ortodossia da chi ama il genere; le residue perplessità, che potrebbero derivare dall’assenza di elementi innovativi, vengono spazzate via dalla notevole qualità della proposta nel suo insieme; inoltre, considerando che si tratta pur sempre di un esordio e che i musicisti provengono da un’area geografica che non ha alle spalle una grande tradizione in ambito doom metal (ci vengono in mente i soli Darkflight e Solarfall, ma sul versante death/funeral), abbiamo la sensazione che la band di Sofia sia solo all’inizio di un percorso musicale che si prospetta ricco di soddisfazioni.

Tracklist :
1. At the Temple Doors
2. Mountain Womb
3. The Seraph
4. Impure Days
5. Curse of the Watcher
6. Absence of Faith
7. Second Birth
8. Beneath
9. Flaming Sword

Line-up :
Anton – Vocals, Guitar, Bass
Bozhidar – Drums

The Foreshadowing – Second World

Continua inarrestabile l’ascesa dei The Foreshadowing che, con Second World, pubblicano il disco della definitiva consacrazione.

Continua inarrestabile l’ascesa dei The Foreshadowing che, con Second World, pubblicano il disco della definitiva consacrazione.

Già con l’esordio “Days Of Nothing” e con il successivo, splendido, “Oionos”, la band romana aveva gettato le basi per imporsi come uno dei nomi di punta della scena nostrana: chiunque avesse assistito a un loro concerto aveva potuto facilmente verificare le potenzialità di un gruppo al quale la dimensione underground stava decisamente stretta.
Questo lavoro, mixato e masterizzato da Dan Swanö agli Unisound Studios, riesce in maniera stupefacente a fondere le due anime che, nei dischi passati, talvolta lottavano per prendere il sopravvento l’una sull’altra: il cupo death-doom e il dark raffinato trovano il loro punto d’incontro in un gothic che prende il meglio da entrambe le matrici senza rinnegarle in alcun modo.
Marco Benevento rinuncia del tutto alle asprezze del passato, stabilizzandosi sulle sue tonalità calde e profonde, vicine a vocalist come Dave Gahan e Sven Friedrich (Dreadful Shadows, chi se li ricorda ascolti con attenzione Noli Timere), mentre anche il resto della band si esprime a livelli stellari grazie a un suono pulito ed energico allo stesso tempo.
Il disco, dal punto di vista lirico è un concept incentrato sulla ribellione della natura nei confronti dell’umanità, tematica magari non inedita ma trattata con la dovuta profondità, mentre sotto l’aspetto musicale, se nella prima metà sono racchiusi i brani più energici, la seconda parte viene riservata invece agli episodi dalle atmosfere più rarefatte senza perdere comunque un’oncia di intensità.
Le dieci tracce sono altrettante gemme incastonate all’interno di quest’opera, ma nonostante ciò alcune risultano ancora più brillanti: Outcast, un brano gothic-doom come non se ne sentivano da tempo, ovvero “quando gli allievi superano i maestri”, The Forsaken Son, dall’incedere drammatico e caratterizzata da un chorus di rara bellezza, Reverie Is A Tyrant, plumbea nei suoi ritmi rallentati e chiusa da un magnifico assolo di chitarra, e soprattutto Aftermaths, letteralmente indimenticabile per le melodie vocali e per la letale chiusura che fa presagire sfracelli quando sarà proposta dal vivo.
Second World è stato pubblicato quasi contemporaneamente a “Tragic Idol”, che viene surclassato, lo dico a malincuore visto l’amore sconfinato che nutro da sempre per i Paradise Lost, in virtù della freschezza compositiva e del livello di perfezione raggiunto dalla band romana, pur senza dimenticare che chiunque affronti questo genere non può prescindere da quanto composto in passato da Gregor Mackintosh e soci.
Ovviamente, proprio per questo, ci saranno sempre i soliti incontentabili che avranno da ridire sull’originalità della proposta: di fronte ad affermazioni di questo tenore l’unica replica possibile viene presa in prestito dal Sommo Poeta: “non ti curar di lor ma guarda e passa”.
A chi, molto più prosaicamente, si “accontenta” di ricercare emozioni nella musica che ascolta, i The Foreshadowing hanno regalato un autentico capolavoro …

Tracklist :
1. Havoc
2. Outcast
3. The Forsaken Son
4. Second World
5. Aftermaths
6. Ground Zero
7. Reverie Is a Tyrant
8. Colonies
9. Noli Timere
10. Friends of Pain

Line-up :
Jonah Padella Drums
Andrea Chiodetti Guitars
Alessandro Pace Guitars
Francesco Sosto Keyboards, Backing Vocals
Marco Benevento Vocals
Francesco Giulianelli Bass

Evadne – The Shortest Way

Un autentico gioiello che gli appassionati del genere non devono lasciarsi sfuggire per alcun motivo.

Il secondo album degli iberici Evadne trova nella Solitude un’etichetta in grado finalmente di valorizzarlo e distribuirlo come merita, dopo la sua iniziale uscita come autoproduzione alla fine dello scorso anno.

Per valutare i progressi della band di Valencia può rivelarsi utile fare un raffronto con il precedente “The 13th Condition”, risalente al 2007, lavoro che, pur denotando ottimi spunti e collocandosi ad un livello più che discreto, denotava diverse imperfezioni sul versante della produzione oltre ad un sound orientato al gothic più canonico con l’inflazionato ricorso a voce femminile, violino e tastiere
Quattro anni non sono trascorsi invano e The Shortest Way lo dimostra pienamente: intanto la resa sonora del disco è stata affidata alle cure di Dan Swanö, un nome che sotto quest’aspetto è sinonimo di qualità, mentre i cliché tipici del gothic sono pressoché scomparsi lasciando spazio ad un death-doom che coniuga, in maniera esemplare, il senso di ineluttabile rovina dei My Dying Bride con le meste armonie dei Swallow The Sun.
Ad integrare un aspetto musicale di primissima qualità vanno evidenziati anche i testi intrisi di drammaticità che rendono l’album, di fatto, un concept legato alla morte della persona amata e alla conseguente incapacità di sopravvivere alla perdita subita da parte di chi resta. Mai come in questo caso si può affermare che le tematiche trattate siano in perfetta sintonia con il monicker della band, ispirato ad un personaggio della mitologia greca: Evadne, infatti, successivamente all’uccisione del marito Capaneo per mano di Zeus, si gettò sulla sua pira funebre decidendo di morire con lui.
Questa dimostrazione d’amore tragica quanto estrema viene adeguatamente descritta sia a livello lirico che musicale: il growl di Albert, migliorato in maniera esponenziale in questi anni, si rivela efficace nell’ergersi sulle melodie cupe e pregne di disperazione dei suoi compagni d’avventura.
Si fatica a individuare un brano che si stagli sugli altri in questo splendido album : dovendo proprio fare una scelta citerei Dreams in Monochrome, per la magnifica linea di chitarra che rappresenta alla perfezione la sensazione di sconcerto e turbamento evocata nel testo e All I Will Leave Behind, brano davvero commovente e poetico, nel corso del quale la disperazione del protagonista raggiunge il suo culmine con la decisione, comunicata a familiari e amici, di togliersi la vita pur di raggiungere la persona amata; con quali esiti, lo lascio scoprire a voi, ma è facile intuire che non ci sarà un lieto fine …
Gli Evadne con questo lavoro confermano, assieme a Helevorn e In Loving Memory, la vitalità della scena spagnola, dimostrando, se ce ne fosse stato bisogno, che il death-doom non è prerogativa solo delle fredde lande nordiche, ma trova terreno fertile pure in corrispondenza delle assolate latitudini mediterranee.
Un autentico gioiello che gli appassionati del genere non devono lasciarsi sfuggire per alcun motivo.

Tracklist :
1. No Place For Hope
2. Dreams In Monochrome
3. This Complete Solitude
4. One Last Dress For One Last Journey
5. All I Will Leave Behind
6. The Wanderer
7. Further Away The Light
8. Gloomy Garden

Line-up :
Albert – vocals
Josan – guitars
Jose – bass
Ifrit – drums
Marc – guitars