P.H.O.B.O.S. – Phlogiston Catharsis

Nonostante le sue tetragone sembianze, Phlogiston Catharsis è un album che desta notevole interesse, a patto d’essere già abbastanza in sintonia con le devianze metalliche proveniente dalla terra francese.

Il mio ultimo incontro con i P.H.O.B.O.S. risale a qualche anno fa in occasione dello split album con i connazionali Blut Aus Nord, ma in realtà il progetto di Frederic Sacri arriva abbastanza da lontano, avendo mosso i primi passi all’inizio del nuovo millennio.

Phlogiston Catharsis è il quarto full length che, indubbiamente, conferma questa entità come un qualcosa volto a non fare sconti all’ascoltatore, tramortito dal pervicace industrial che bandisce ogni ammiccamento ritmico per lasciare al doom e al black più sperimentale il compito di fungere da base stilistica.
Volendo esemplificare al massimo, ascoltare i P.H.O.B.O.S. potrebbe essere paragonabile a quello che accadrebbe se una band sludge decidesse di coverizzare i Godflesh, rallentandone così lo squadrato ed incessante incedere ed accentuando al massimo le tonalità ribassate, tanto da produrre una sorta di rombo sullo sfondo, volto ad accompagnare sporadiche note di lancinante chitarrismo ed uno screaming malignamente filtrato e distorto.
Nonostante le sue tetragone sembianze, Phlogiston Catharsis è un album che desta notevole interesse, a patto d’essere già abbastanza in sintonia con le devianze metalliche proveniente dalla terra francese; solo così brani temibili come Igneous Tephrapotheosis (forse quello più “orecchiabile” dell’intero lavoro, il che è tutto dire) o la rituale Aljannashid avranno una chance di indurre una certa frequenza d’ascolto .
Il risultato finale è alienante il giusto per intrigare gli ascoltatori più spericolati e indurre alla fuga tutti gli altri; a Sacri penso vada benissimo così, e non c’è alcun motivo perché debba cambiare il suo disturbante modus operandi.

Tracklist:
1. Biomorphorror
2. Igneous Tephrapotheosis
3. Zam Alien Canyons
4. Aurora Sulphura
5. Neurasthen Logorrh
6. Taqiyah Rhyzom
7. Aljannashid
8. Smothered In Scoria

Line-up:
Frederic Sacri – distortion / keys / pulse / vox
Mani Ann-Sitar, distortion / keys / vox
Magnus Larssen – subs / infras / lines / pulse

P,H.O.B.O.S. – Facebook

Felis Catus – Banquet On The Moon

Banquet On The Moon è un’opera che vi porterà lontano dandovi modo di sognare attraverso un reticolato musicale che si espande dentro e fuori di noi.

Felis Catus è l’affascinante progetto solista di Francesco Cucinotta, voce e chitarra dei catanesi Sinaoth.

In questo progetto solista cominciato nel 2010 Francesco si esprime liberamente e spazia in tantissimi generi, dando vita ad una delle cose più interessanti dell’underground italiano, uscendo per la Masked Dead Records di Brescia che ha un catalogo molto interessante. Il disco è visionario e usa diversi linguaggi musicali per dipanare una narrazione interessante ed assolutamente non convenzionale. Per idee e prolificità Francesco è una di quelle persone che vive di musica, ed è molto bravo a rendere al meglio atmosfere diverse. Ascoltando Banquet On The Moon, seppure non sia di lunga durata, ci sono innumerevoli sorprese, è come un palazzo con ampie stanze, ma anche passaggi segreti che scorrono a fianco delle cose visibili. Il suo approccio alla musica è totale, la sua ricerca musicale è immensa, in questo disco ci sono vere e proprie visioni musicali che denotano la sua voracità musicale. Qui dentro troviamo dal death metal all’ambient e tanto altro, ma soprattutto si incontra una coerenza nel raccontare una storia, come se Banquet On The Moon fosse la colonna sonora di un libro o di un film. Il filo conduttore del disco è la meraviglia, lo stupore dell’uomo di fronte a qualcosa di molto più grande e misterioso di lui, e Felis Catus mette in musica una grandissima gamma di emozioni, di vita, sogni e morte. Praticamente Cucinotta ha suonato da solo tutto il disco, come un magnifico direttore di orchestra, e il risultato assomiglia molto a vecchie colonne sonore di film italiani underground dimenticati ma ancora vivi. Il metal è solo un punto di partenza e c’è un forte gusto italiano in queste musiche, una sensazione che parte dagli anni sessanta ed arriva ai giorni nostri, un visionario filo che lega insieme molto dell’underground e di aspetti che attraversano varie discipline, senza terminare con il mero atto musicale o di scrittura. Banquet On The Moon è un’opera che vi porterà lontano dandovi modo di sognare attraverso un reticolato musicale che si espande dentro e fuori di noi.

Tracklist
1) Banquet On The Moon
2) Cydonia (Feat. Gray Ravenmoon)
3) Baron Munchausen
4) Eternity (The Nothigness) (Feat. Alessandro Riva)

Line-up
Francesco Cucinotta – All Instruments and voice

FELIS CATUS – Facebook

Pantheist – Seeking Infinity

Un grande ritorno: l’attesa non è stata vana e il leader Kostas ci riporta alle radici del suo personale funeral facendoci immergere in zone della nostra anima completamente prive di luce.

Sette lunghi anni ci separano dall’ultimo segnale mandato dalla creatura di Kostas Panagiotu, dall’ultimo controverso e forse non completamente a fuoco album omonimo del 2011.

Ora Kostas, che è stato impegnato in molteplici progetti nel frattempo (Toward Atlantis Light, Aphonic Threnody e Clouds tra gli altri), forte dell’appoggio di nuovi musicisti, tra cui Daniel Neagoe (Eye of Solitude, Clouds e mille altri) “on drums”, ci dona un’ora di musica dal forte e antico fascino. Cover estremamente suggestiva cosi come il titolo, Seeking Infinity l’opera ci riporta alle radici del loro funeral doom incorporando al meglio le derive atmosferiche e progressive presenti nei due precedenti lavori del 2008 (Journey through the lands unknown) e del 2011 (Pantheist). Già nel 2016 Kostas aveva iniziato a lavorare sulla attuale opera, pubblicando un EP di futuristic space doom, Chapters (ora sold out), per autofinanziarsi e scrivendo un racconto, Events, che rappresenta il concept del nuovo album: il professore Losaline viaggia nel tempo cercando di capire come mai l’umanità corra verso l’autodistruzione e trovando, come unica risposta, la totale irresponsabilità del genere umano che non trae mai insegnamento dai propri errori. L’opera è assolutamente ispirata, con un interplay tra pianoforte, tastiere e chitarre che raggiunge livelli notevoli, ricordandoci l’unicità del suono della band, nata in Belgio ma ora londinese; brani lunghi, ricchi di suggestioni e atmosfere dilanianti fin dall’opener Control & fire, dove un intenso suono di basso ci accompagna lungo undici minuti incantevoli. Per 500 B.C to 30 A.D- The Enlightened Ones esiste anche un video assolutamente consigliato, per immergervi in un funeral dal sapore antico e misterioso; il piano cesella le melodie, mentre l’atmosfera si appesantisce, portandoci in spazi doom vigorosi e tesi  e ricordandoci che ”you can run but you can’t hide from the quiet flow of time and the dark tentacles of fate push you towards your destiny“. Storia a sé stante sono i sei abbondanti minuti di 1453: An Empire Crumbles in cui la narrazione della caduta di Costantinopoli, ultimo baluardo dell’ Impero Romano d’ Oriente, è condotta su un base d’organo creata ad hoc per celebrare un antico rituale; un brano che, pur usando ingredienti diversi, raggiunge livelli atmosferici superbi. Le ultime due tracce, per un totale di circa ventisette minuti, nella loro maestosità doom sublimano un’opera nella quale l’ incessante dialogo tra piano e chitarre ci conduce in luoghi dove si distilla la forma più pura di funeral doom e la solitudine e la disperazione accompagnano le gesta di ogni uomo. Un grande ritorno, la lunga attesa non è stata vana.

Tracklist
1. Eye of the Universe
2. Control and Fire
3. 500 B.C. to 30 A.D. – The Enlightened Ones
4. 1453: An Empire Crumbles
5. Emergence
6. Seeking Infinity, Reaching Eternity

Line-up
Kostas Panagiotou – Vocals, Keyboards
Aleksej Obradović – Bass
Frank Allain – Guitars
Daniel Neagoe – Drums

PANTHEIST – Facebook

Esoteric – The Pernicious Enigma [re-issue]

The Pernicious Enigma è uno dei migliori album funeral doom mai pubblicati e, nello specifico, quello che poco più di vent’anni fa collocò d’imperio gli Esoteric ai vertici del movimento.

Prosegue la meritoria opera di ristampa delle opere degli Esoteric da parte della Aesthetic Death.

Se l’anno scorso avevamo potuto riapprezzare Esoteric Emotions – The Death of Ignorance, il demo d’esordio della creatura di Greg Chandler, con The Pernicious Enigma si fa un ulteriore passo avanti.
Il perché è presto spiegato e non deriva solo dalla rilevanza del lavoro in questione, ma anche dal fatto che il tutto è stato oggetto di un restyling sonoro da parte dello stesso Chandler, del quale è universalmente riconosciuta la maestria anche dietro al mixer.
Chiaramente tutto risulta più facile quando l’oggetto dell’operazione è uno dei migliori album funeral doom mai pubblicati e, nello specifico, quello che poco più di vent’anni fa collocò d’imperio la band inglese ai vertici del movimento.
Chi conosce già i contenuti di The Pernicious Enigma ma non ne possedesse la copia originale, con questa re-issue può prendere i classici due piccioni con un fava, mentre se, invece, qualche appassionato se ne fosse perso fino ad oggi i contenuti, si sappia che l’interpretazione chandleriana del genere è a suo modo unica, collocandosi in maniera equilibrata tra le asprezze estremiste in stile Disembowelment e l’approccio più melodico atmosferico di gran parte della scuola scandinava.
Dopo l’ascolto di due brani capolavoro come Creation e Dominion of Slaves è trascorsa già mezz’ora ma resta ancora da goderne tre volte tanto; questo doppio album, infatti, oltre a tracce opprimenti e dolenti offerte con la solita maestria, esibisce anche la vis sperimentale di NOXBC9701040 e la repentina sfuriata death di At War with the Race, prima di chiudere con lo struggente finale di Passing Through Matter.
La riedizione di The Pernicious Enigma non può che essere accolta con entusiasmo da parte dei numerosi estimatori degli Esoteric ma, d’altra parte, rischia di acuire ancor più il senso di attesa per nuovo materiale inedito che si protrae ormai dalla fine del 2011, quando Greg Chandler regalò agli appassionati di funeral l’ultimo full length Paragon Of Dissonance.

Tracklist:
Disc 1
1. Creation (Through Destruction)
2. Dominion of Slaves
3. Allegiance
4. NOXBC9701040
Disc 2
1. Sinistrous
2. At War with the Race
3. A Worthless Dream
4. Stygian Narcosis
5. Passing Through Matter

Line-up:
Gordon Bicknell – Guitars, Keyboards, Samples
Greg Chandler – Vocals, Keyboards
Bryan Beck – Bass
Simon Phillips – Guitars, Samples
Steve Peters – Guitars

Anthony Brewer – Drums (tracks 1-3, 7, 9)

ESOTERIC – Facebook

Eyze – Lost In Emptiness

Al di là di qualche piccolo difetto, Lost In Emptiness è un’opera decisamente apprezzabile per il suo genuino e dolente incedere, quindi va senz’altro un plauso al quartetto portoghese per questa sua prima uscita.

Passo d’esordio per i portoghesi Eyze, autori di un interessante lavoro all’interno del quale viene esibita un’interpretazione decisamente valida del death doom atmosferico.

Prendendo spunto concettualmente dai rituali di iniziazione degli indiani Algonchini, il gruppo lusitano si disimpegna con buon gusto melodico e discreta personalità nei meandri del genere, pagando leggermente dazio a causa di una produzione un po’ ruvida, in particolare per quanto riguarda il comparto vocale e le percussioni, nulla che comunque vada ad inficiare più di tanto il lavoro ne suo insieme.
Funzionano senz’altro meglio i brani dal taglio più evocativo, come Strayed from the Light, Corrosion of the Soul e la conclusiva e più lunga del lotto Haze of Doom, mentre in generale si fa sentire l’assenza di una tastiera in grado di riempire al meglio qualche spazio di troppo.
Al di là di qualche piccolo difetto, Lost In Emptiness è un’opera decisamente apprezzabile per il suo genuino e dolente incedere, quindi va senz’altro un plauso al quartetto di Pombal per questa sua prima uscita, con la quale vengono poste basi già sufficientemente solide per sorreggere il peso di un lavoro su lunga distanza, anche se va detto che, in effetti, i quasi tre quarti d’ora di durata dell’opera rappresentano un fatturato già oltremodo probante

Tracklist:
1. Agnvs Rising
2. Strayed from the Light
3. Darkhlaa
4. Corrosion of the Soul
5. Gurvan Zuun Jaran (360)
6. Haze of Doom

Line-up:
Aion – Guitars/Vocals
Goldstein – Guitars/Vocals
Shello – Bass/Vocals
Jinn – Drums/Vocals

EYZE – Facebook

Thou – Magus

E’ un’esperienza rigenerante abbandonarsi al suono devastante dei Thou, un’incendiaria miscela di sludge, doom, drone e black creata da musicisti di alto livello.

Emersi dalle pericolose paludi della Louisiana, gli statunitensi Thou, in poco più di dieci anni di carriera, hanno inondato la scena di molteplici uscite discografiche, circa 40, tra full length, ep, split e compilation, mantenendo un alto profilo artistico votato alla disgregazione delle nostre fibre nervose, con il loro potente e sempre ispirato blend di sludge, doom, black e drone sempre perfettamente calibrato, per scuotere nel profondo i nostri sensi.

Originario di Baton Rouge, il quintetto nel 2018 ha fatto sentire pesantemente la sua presenza, proponendo a cadenza regolari tre succulenti EP nei quali hanno lasciato fluire la loro inventiva, a partire da House Primordial, molto noise-drone, passando per Inconsolable, dal flavour dark folk, fino a Rhea Silvia, omaggio agli Alice In Chains e al grunge in generale; eclettici e votati alla sperimentazione sonora e testuale, i Thou hanno spesso collaborato con altri act mutanti dell’underground a stelle e strisce (Body, Barghest, Great Falls tra gli altri), fornendo sempre prove convincenti e varie. Non amano essere catalogati e tanto meno identificati come sludge band, preferendo richiamarsi più alla scena punk e grunge, e citano tra i loro gusti Nirvana e Fiona Apple mentre suonano live cover di Duran Duran. Una creatura sfuggente, ma decisamente originale e potente plasmata da oltre 600 concerti e cinque full length, compreso il nuovo Magus, che conclude la trilogia iniziata nel 2010 con Summit, più black oriented, e proseguita nel 2014 con Heathen, dalle sfumature invece più doom; l’ultimo lavoro bilancia al meglio le due anime black e sludge, investendoci con settantacinque minuti di devastazione, con brani lunghi, lavorati dal suono delle due chitarre che macinano riff e atmosfere opprimenti senza sosta, mentre le vocals straziate, sguaiate di Bryan Funck sovrastano il suono, miscelando scream e growl in modo personale. Non lascia indifferenti l’approccio con la loro musica, perché è sfiancante, estenuante, ti prende alla gola e non ti fa respirare (da vedere il video di The Changeling Prince dove la partecipazione del pubblico sembra seguire un antico rituale); siamo vicini alle derive proposte da Khanate e Burning Witch con la malevolenza dei Goatwhore: tutto scorre melmoso, denso, pericoloso, non dando tregua neanche con i testi che parlano di degrado sociale e culturale. Magus è un disco da assimilare in toto, con tutti i brani di alto livello, a patto di porre la giusta attenzione e ascoltarli nel mood ideale; la proposta dei Thou è stimolante, non è alla portata di tutti ma è in grado di produrre effetti catartici e rigeneranti.

Tracklist
1. Inward
2. My Brother Caliban
3. Transcending Dualities
4. The Changeling Prince
5. Sovereign Self
6. Divine Will
7. In the Kingdom of Meaning
8. Greater Invocation of Disgust
9. Elimination Rhetoric
10. The Law Which Compels
11. Supremacy

Line-up
Mitch Wells – Bass
Andy Gibbs – Guitars
Matthew Thudium – Guitars
Bryan Funck – Vocals
Josh Nee – Drums

Faustcoven – In the Shadow of Doom

Il rantolo vocale non fa altro che acuire la sensazione d’essere al cospetto di un reiterato quanto necessario rituale che non lascia spazio a gesti pietosi o vane esitazioni: le tenebre sono lì, incombenti e pronte ad inghiottirci, e opporre resistenza serve a poco, tanto vale approdarvi assecondando i ritmi letali dei Faustcoven.

Nuovo full length per il progetto solista del norvegese Gunnar Hansen, Faustcoven, nome che ha raccolto un certo consenso tra gli appassionati di sonorità oscure a cavallo tra il doom ed il black, fin dalle sue prime apparizioni all’inizio del millennio.

In effetti non stupisce che il musicista di Trondheim sia riuscito a convogliare sulla sua creatura una certa aura di culto: il sound marchiato Faustcoven possiede un qualcosa di ancestrale, pur apparendo oggettivamente piuttosto peculiare, ed è la dimostrazione di quanto non servano produzioni leccate od elaborati tecnicismi per soddisfare la fame di buona musica di chi ascolta i due generi citati.
Hansen, che si avvale ormai stabilmente da oltre un decennio del prezioso aiuto alla batteria di Johnny Tombthrasher, possiede il grande pregio di andare al sodo senza troppi indugi, il che rende In the Shadow of Doom una prova aspra, urticante e convincente su tutti i fronti.
Nonostante queste caratteristiche di base, Faustcoven non è sinonimo di immobilismo stilistico: proprio il suo oscillare tra black e doom, con la bilancia che pende però sensibilmente da quest’ultima parte, consente frequenti cambi di ritmo, consentendo così di trovare brani ferocemente spediti come Sign of Satanic Victory oppure episodi asfissianti come Yet He Walks o Marching in the Shadow, per arrivare addirittura al pazzesco doom venato di un blues malato (con tanto di armonica nel finale) di As White As She Was Pale.
Il rantolo vocale non fa altro che acuire la sensazione d’essere al cospetto di un reiterato quanto necessario rituale che non lascia spazio a gesti pietosi o vane esitazioni: le tenebre sono lì, incombenti e pronte ad inghiottirci, e opporre resistenza serve a poco, tanto vale approdarvi assecondando i ritmi letali dei Faustcoven.

Tracklist:
1. The Wicked Dead
2. The Devil’s Share
3. Yet He Walks
4. Marching in the Shadow
5. Sign of Satanic Victory
6. Lair of Rats
7. As White As She Was Pale
8. Quis Est Iste Qui Venit

Line-up:
Gunnar Hansen – Vocals, Guitars, Bass
Johnny Tombthrasher – Drums

The Eternal – Waiting For The Endless Dawn

Sicuramente siamo di fronte alla prova più ambiziosa dei The Eternal, i quali non hanno lasciato nulla di intentato per mettere sul piatto quella che potrebbe essere la loro opera definitiva; ora tocca gli appassionati l’onere di fornire un riscontro adeguato a questa meritevole band australiana.

Premetto che, in quanto fan della prima ora dei My Dying Bride, mi ritengo orfano di quella grande band che furono i Cryptal Darkness, a mio avviso i più pregiati e credibili epigoni dei maestri di Halifax che ci sia stato modo di ascoltare.

Tutto questo ha a che fare con il nuovo album degli australiani The Eternal, non tanto per stile musicale (qui siamo in presenza di un gothic metal raffinato ed orecchiabile, ma insidiosamente malinconico in più momenti), ma in quanto il cantante e chitarrista Mark Kelson vi diede vita nel 2003 proprio dopo aver chiuso la storia dei Cryptal Darkness, i quali lasceranno ai posteri un capolavoro come They Whispered You Had Risen.
The Sombre Light of Isolation, full length d’esordio con il nuovo monicker, sgombrò subito il campo da equivoci, facendo intendere che le emozioni nei The Eternal si sarebbero dovute ricercare in una sapiente costruzione melodica, piuttosto che nelle struggenti litanie chitarristiche del più estremo gothic death doom.
I nostri, dopo una quindicina d’anni di attività, non hanno certo raggiunto quel successo commerciale che forse poteva essere plausibile con l’offerta di sonorità più morbide e alla portata di un maggior numero di ascoltatori, per cui immagino che Kelson, cinque anni dopo l’ultimo full length, abbia pensato che fosse il caso di badare meno al mercato lasciando fluire la propria ispirazione senza porsi particolari paletti: eccoci quindi alle prese con Waiting For The Endless Dawn, album ben poco ammiccante per un pubblico abituato all’usa e getta, con la sua ora e un quarto di durata ed i venti minuti della sola opener The Wound.
La cosa più importante, però, fatte tutte queste considerazioni, è che l’album si rivela una prova magnifica, che porta a scuola gran parte delle band che si cimentano con il genere, incluse anche alcune tra le più note.
Nell’operato dei The Eternal i riferimenti sono importanti, così non si può fare a meno di ritrovare in certi brani un sentore dei Swallow The Sun più orecchiabili e suadenti degli ultimi lavori (e infatti nella sesta traccia abbiamo la sempre gradita partecipazione di Mikko Kotamaki), oppure di ritrovare come ospite alle tastiere anche quel Martin Powell che con il suo violino rese unici non solo i My Dying Bride ma anche gli stessi Cryptal Darkness.
Nonostante la loro lunghezza, tutti i singoli brani per assurdo sarebbero delle potenziali hit, essendo dotati di chorus difficilmente removibili dalla memoria, ma i The Eternal paiono aver volutamente esagerato in tal senso, quasi a sfidare l’ascoltatore nel carpire la bellezza in una struttura molto meno scontata di quanto possa apparire a prima vista.
The Wound, A Cold Day to Face My Failure, la meravigliosa In the Lilac Dusk (il brano che vede la partecipazione di Kotamaki) sono le tre tracce che meglio impressionano (e che da sole formerebbero il minutaggio di un normale quanto splendido full length …) ma, in generale, Waiting For The Endless Dawn è un lavoro dal livello medio davvero elevato, al quale manca solo quel pizzico di sintesi che deriva appunto dalla durata che potrebbe spaventare chi non possiede la pazienza dell’ascoltatore medio del doom.
Come già accennato, l’album va adeguatamente lavorato nonostante una sua apparente levità stilistica, proprio perché dato il suo protrarsi diversi passaggi chiave potrebbero sfuggire nel corso dei primi ascolti: sicuramente siamo di fronte alla prova più ambiziosa dei The Eternal, i quali non hanno lasciato nulla di intentato per mettere sul piatto quella che potrebbe essere la loro opera definitiva; ora tocca gli appassionati l’onere di fornire un riscontro adeguato a questa meritevole band australiana.

Tracklist:
1. The Wound
2. Rise from Agony
3. A Cold Day to Face My Failure
4. I Lie In Wait
5. Don’t Believe Anymore
6. In the Lilac Dusk
7. Waiting for the Endless Dawn

Line up:
Richie Poate – Guitars, Songwriting (tracks 1-4, 6)
Mark Kelson – Guitars, Vocals, Mandolin, Lap steel, Songwriting (tracks 1-4, 6, 7), Lyrics (tracks 1-4, 6, 7)
Marty O’Shea – Drums, Songwriting (track 1)
Dave Langlands – Bass, Songwriting (track 1)

Guests
Martin Powell – Keyboards
Mikko Kotamäki – Vocals (track 6)
Emily Saaen – Vocals (additional)
Erica Kennedy – Violin

THE ETERNAL – Facebook

Woebegone Obscured – The Forestroamer

Abili cesellatori di incandescenti e allo stesso tempo eleganti atmosfere funeral doom, i danesi Woebegone Obscured ci donano un’opera di non facile assimilazione ma ricca di suggestioni e fascino.

Abili cesellatori di incandescenti e allo stesso tempo eleganti atmosfere funeral doom, i danesi Woebegone Obscured ci fanno riassaporare la loro arte, cinque anni dopo Marrow of Dreams, con il nuovo e terzo full length The Forestroamer.

La prima cosa che balza all’occhio è il ritorno a un minutaggio più contenuto rispetto ai settanta minuti del precedente. Qui tutto si condensa in poco più di quaranta minuti dove, però, ogni nota dipinge un grande affresco nel quale paesaggi death doom scivolano con naturalezza in atmosfere funeral intense, avvolgenti e decisamente affascinanti. La capacità di scrittura è veramente notevole, i musicisti conoscono questa arte e sanno come toccare le corde giuste dell’ascoltatore proponendo trame delicate, cangianti che si accendono e lentamente si acquietano aprendo ad atmosfere ora suggestive, ora oscure, tristi e di gran gusto: i dieci minuti dell’opener The Memory and the Thought trascorrono in un attimo con il loro alternarsi atmosferico, retto da un grande drumming sempre vario e ispirato. La splendida Drommefald, con il suo incedere brumoso, ci aiuta a calarci completamente nelle visioni di non existence invocate dalla band; il growl carico si intarsia perfettamente con l’interplay delle chitarre che non disdegnano derive black e, per caricare di ulteriore tensione, la trama e il finale in crescendo ci ammalia per la sua cristallina bellezza. La grande capacità di variare i suoni e la tensione all’ interno di ogni brano si dimostrano punti di forza importanti, donando ai tre lunghi brani un andamento progressivo da sempre presente nel tessuto sonoro del trio. Il breve strumentale Crimson Echoes, a mio parere, avrebbe dato vita a un grande brano, se il suo aroma psichedelico fosse stato sviluppato oltre i due minuti di durata. La maestosa title track, immersa in un personale flavour funeral, è intarsiata da delicate armonie mentre un potente growl la sovrasta; i giochi strumentali sono di prim’ordine, i musicisti non si risparmiano, le tastiere donano potenza e suggestioni oscure e i cambi di atmosfera sono molteplici, spaziando da momenti furiosi e carichi ad altri dotati di grande lirismo e melodia, con la parte finale letteralmente intrisa di abbacinante bellezza. Opera non di immediata assimilazione, ma capace di fornire sensazioni e cibo per la mente e il cuore di alta qualità.

Tracklist
1. The Memory and the Thought
2. Drømmefald
3. Crimson Echoes
4. The Forestroamer
5. Dormant in the Black Woods

Line-up
Quentin Nicollet – Guitars, Bass, Keyboards (track 5)
Martin Jacobsen – Guitars
Danny Woe – Vocals, Drums, Keyboards (track 3)

WOEBEGONE OBSCURED – Facebook

YYYY – Fenómeno entóptico del campo azul

Fenómeno entóptico del campo azul si rivela un lavoro sicuramente non trascurabile, capace di portare all’attenzione degli appassionati di metal anche il piccolo Guatemala.

Una band stoner doom guatemalteca mancava senz’altro all’appello, nel virtuale giro del mondo alla ricerca di interessanti novità musicali da proporre all’interno della nostra webzine.

Il fatto, poi, che questo trio centroamericano venga proposto sul mercato da un’etichetta ucraina (la Loneravn), credo che sia la migliore risposta a chi continua a barricarsi all’interno di confini rafforzati da muri e fili spinati, talvolta fisici ma soprattutto mentali.
Venendo all’aspetto musicale Zike, Denise e Daniel, suonano il genere come da copione, in maniera ruvida e dal buon impatto lisergico, senza troppa preoccupazione per quella che può essere la perfezione sonora (del resto il lavoro è stato registrato in studio dal vivo).
Le parti vocali ci sono, ma rivestono un ruolo piuttosto marginale, mentre al contrario il batti e ribatti tra la chitarra di Daniel e la batteria di Zike costituisce la base fondante del sound degli YYYY, tra passaggi più viscosi ed altri in cui la componente psichedelica si fa più marcata.
Al riguardo, fra i tre brani proposti spicca, anche per sintesi, il più breve II, anche se di fatto non si riscontra poi tutta questa grande differenza tra l’una e l’altra traccia.
Sostanzialmente la mezzora abbondante di stoner offerta dagli YYYY è senz’altro valida e allo stesso tempo gradevole, anche se gli spazi per emergere all’interno della scena sono piuttosto risicati, specialmente se si risiede in una nazione che se ne trova ai margini.
Detto ciò, Fenómeno entóptico del campo azul si rivela un lavoro sicuramente non trascurabile, capace di portare all’attenzione degli appassionati di metal anche il piccolo Guatemala.

Tracklist:
1. I
2. II
3. III – IV

Line-Up:
Zike – Drums
Denise Mendizabal – Acustic guitar
Daniel U. – Guitar and vocals

Void Rot – Consumed To Oblivion

Tre brani, benché brevi per le abitudini consolidate del genere, rivelano la maestria compositiva con la quale i Void Rot manipolano la materia rendendola avvincente per l’appassionato dal primo all’ultimo minuto.

Dai sempre più preziosi scrigni della Everlasting Spew sbuca questa temibile creatura denominata Void Rot, dedita ad un death doom la cui oscurità risulta quasi impossibile da squarciare.

Consumed To Oblivion è stato appena pubblicato dall’etichetta italiana in sinergia con la Sentient Ruin Laboratories (che si occupa dell’uscita nel formato tape): si tratta di un ep che, sia pure con i suoi soli quindici minuti, colloca di diritto la band di Minneapolis tra le migliori realtà emergenti del genere.
Il death doom dei Void Rot prende le mosse dalla sempre fondamentale scuola finlandese, anche se tra le varie citazioni in sede biografica vengono menzionati anche i connazionali Spectral Voice, ed in effetti gli autori del magnifico Eroded Corridors of Unbeing paiono costituire un naturale punto di riferimento per i nostri.
I tre brani, oggettivamente brevi per le abitudini consolidate del genere, rivelano la maestria compositiva con la quale questi quattro ragazzi manipolano la materia rendendola avvincente per l’appassionato dal primo all’ultimo minuto. La title track è davvero un esempio di come i Void Rot interpretino il death doom: un suono rombante e ribassato, che non disdegna qualche accelerazione ritmica mantenendo sempre alta la tensione e l’attitudine morbosa.
Una prova magnifica per una band che ha già fin d’ora le carte in regola per lasciare il segno con un auspicabile prossimo full length.

Tracklist:
1.Ancient Seed
2.Consumed By Oblivion
3.Celestial Plague

Line-up:
Will Bell – Drums
John Hancock – Guitars, Vocals
Craig Clemons – Bass
Kent Sklarow – Guitars

VOID ROT – Facebook

Krypta – The Name / Omerta

Per i Krypta un inizio incoraggiante, ovviamente con tutte le riserve e le incognite derivanti da una proposta dal minutaggio così ridotto.

Primo passo discografico per questa band ucraina formata da ben sette elementi.

Il frutto di questo spiegamento di forze è un demo composto da due brani, intitolati The Name e Omerta.
Bisogna dire che il gusto melodico esibito dai nostri è davvero notevole e, pur senza inventare chissà che cosa, le due canzoni si fanno ascoltare piacevolmente, grazie anche al contrasto tra il growl sgraziato e la voce stentorea (anche troppo, specie in The Name), ma non stucchevolmente lirica della brava violinista Tetyana.
Il gothic doom dei Krypta si dimostra all’altezza della situazione in virtù di un songwriting che non dimentica il fine ultimo del genere, che è ovviamente il suo essere di grande impatto emotivo.
Le due tracce sono piuttosto omologhe, anche se The Name appare più sognante e meglio delineata a livello melodico, mentre Omerta è un po’ più ruvida ma non meno efficace, grazie al bel lavoro violinistico nella fase centrale.
Da rivedere il growl di Roma e la voce di Tetyana, perché entrambi, quando forzano in maniera eccessiva, rischiano di andare fuori giri, e la chitarra solista, non sempre impeccabile nel tessere le buone armonie messe in campo dalla band.
Per i Krypta un inizio incoraggiante, ovviamente con tutte le riserve e le incognite derivanti da una proposta dal minutaggio così ridotto.

Line-Up:
Eugene Balitsky – guitar
Alexander Melnikov – bass
Igor – drums
Tetyana Tugolikova – vocals / violin
Vlad Surnin – keys
Dmytro Omelechko – guitar
Roma Kostyuchenko – vocals

Lucifer – Lucifer II

Lucifer II, anche per i nomi coinvolti, non fa prigionieri: il carisma innato della Sadonis ed un songwriting di livello assoluto sono gli elementi che danno vita ad un album tra i migliori ascoltati quest’anno, almeno per quanto riguarda il genere proposto.

Johanna Sadonis tre anni fa si presentava sulle scena doom e occult rock in compagnia di Gaz Jennings, compagno di litanie doom del grande Lee Dorrian nei Cathedral e magica chitarra nel primo album targato Lucifer, licenziato proprio dalla Rise Above del mitico vocalist.

La firma con Century Media e la separazione con Jennings hanno portato a questo bellissimo secondo lavoro, semplicemente intitolato Lucifer II, nel quale la cantante berlinese, se ha perso un chitarrista dal curriculum importante, trova un altro elemento che non ha bisogno di presentazioni come Nicke Andersson (altra leggenda per i suoi trascorsi con Entombed e The Hellacopters) ad occuparsi di chitarra, basso e batteria, oltre al chitarrista Robin Tidebrink.
Lucifer II prende forma in un’atmosfera settantiana lasciando al primo album le sfumature occult rock, e regala nove brani di hard rock classico, a tratti ancora legato al doom, ma incentrato sulla parte rock’n’roll del genere.
L’interpretazione della Sadonis segue la scia del sound, meno evocativa rispetto al primo lavoro, mettendo sul piatto l’anima più melodica, mentre mette i panni della sacerdotessa doom solo nella splendida Dreamer, pezzo da novanta di questo nuovo album che trae linfa da Black Sabbath certo, ma anche dai Led Zeppelin con un prevedibile pizzico di The Heallacopters; il blues fa capolino e sposta gli equilibri del sound con le sfumature esoteriche che si diradano man mano che l’album entra nel vivo, regalando brani di rock vintage straordinari come Reaper On Your Heals e Before The Sun.
Rimane il dubbio che questa svolta possa in qualche modo essere stata causata dall’approdo ad una label importante, vero è però che Lucifer II, anche per i nomi coinvolti, non fa prigionieri: il carisma innato della Sadonis ed un songwriting di livello assoluto sono gli elementi che danno vita ad un album tra i migliori ascoltati quest’anno, almeno per quanto riguarda il genere proposto.

Tracklist
1. California Son
2. Dreamer
3. Phoenix
4. Dancing with Mr. D (The Rolling Stones cover)
5. Reaper on Your Heels
6. Eyes in the Sky
7. Before the Sun
8. Aton
9. Faux Pharaoh

Line-up
Johanna Sadonis – Vocals
Robin Tidebrink – Guitars
Nicke Andersson – Guitars, Bass Drums
Alexander Mayr – Live Bass
Martin Nordin – Live Guitar

LUCIFER – Facebook

The Evil – The Evil

Il sound è apocalittico, a tratti al limite dello sludge ma classicamente doom , le atmosfere di lirica evocazione rimanda ai nostri Goblin, mentre il lento scendere nei meandri più bui alterna impatto old school a più moderne soluzioni estreme.

La voce del destino, evocativa e drammatica, sarcastica e maligna, ci racconta di un mondo in febbrile discesa verso un’apocalisse sempre più vicina.

Le piaghe sociali e politiche, un’umanità travolta dai suoi stessi vizi scende lentamente verso l’inferno, accompagnata dalla musica dei The Evil, quartetto brasiliano formato da componenti di diversi gruppi della scena, ed arrivato oggi al primo parto discografico, una covata malefica di sette brani più intro, a rappresentare il male.
Doom metal pesantissimo, epico ed evocativo, liturgico e monolitico, con la voce della sacerdotessa Miss Aileen che ci dona brividi di terrore lungo la schiena con un’interpretazione teatrale e liricamente personalissima.
Il sound è apocalittico, a tratti al limite dello sludge ma classicamente doom , le atmosfere di lirica evocazione rimanda ai nostri Goblin, mentre il lento scendere nei meandri più bui alterna impatto old school a più moderne soluzioni estreme.
La presentazione dell’album da parte della Osmose parla di definitivo suono dell’apocalisse: ci sono molte maniere di immaginare una colonna sonora adatta alla fine del mondo, ma quella scelta dai The Evil risulta davvero credibile.
Siamo molto vicini ad entrare nella manciata di dischi dell’anno per quanto riguarda il genere: The Evil non ha un momento che non sia splendidamente angosciante, con i dieci minuti di Sacrifice To The Evil One picco di una raccolta di brani magnifici per l’intensità con la quale il male sgorga dalle ferite aperte dal gruppo brasiliano, a colpi di doom metal devastante.
L’uso delle tastiere di marca horror accentuano le atmosfere di pesantissimo e morboso metallo, spuntato dall’abisso per risucchiare in una caduta senza tempo tutto il mondo conosciuto ed i suoi abitanti.
Per gli amanti del genere i The Evil risultano una realtà da venerare e l’album un gioiello di arte nera imperdibile.

Tracklist
1. Voices From the Deep (Intro)
2. About None Guilty
3 . Screams
4. Sacrifice To The Evil One
5 . Satan II
6. Silver Razor
7. The Ancients

Line-up
MISS AILEEN – All Voices, Screams and Whispers
IOSSIF – Distortions and Screech Noises
THEOPHYLACTUS – Bass Fuzz
SAENGER– Drums and Percussions

THE EVIL – Facebook

Runemagick – Evoked From Abysmal Sleep

Evoked From Abysmal Sleep è il classico album che riempie un vuoto senza rivelarsi necessariamente epocale: essenziale, ruvido, autentico, questo sì, ed è tutto quanto serve a chi ama crogiolarsi con queste oscure sonorità.

Evoked From Abysmal Sleep segna il ritorno al un lavoro su lunga distanza degli storici Runemagick, dopo Dawn Of The End risalente al 2007.

La band svedese, fondata all’inizio degli anni ‘90 da un allora giovanissimo Nicklas Rudolfsson, ha poi pubblicato ben undici full length tra il 1998 ed il 2007, spostandosi dal tradizionale death degli esordi ad un più mortifero death doom.
Negli utimi dieci anni Rudolfsson, assieme al fido drummer Daniel Moilanen, si è dedicato principalmente agli Heavydeath, facendo pensare ai più che questo avrebbe potuto significare di fatto la fine della storia dei Runemagick ma, come abbiamo visto, fortunatamente non è stato così.
Richiamata la coppia ritmica all’opera nei dischi del nuovo millennio (assieme a Moilanen troviamo al basso la moglie di Rudolfsson, Emma), il musicista di Goteborg ripropone il proprio death doom d’annata, ritmato, rotolante e competente al 100%, in grado di mettere d’accordo anche ascoltatori provenienti dalle due opposte sponde, tale è l’equilibrio tra le componenti.
La mancanza di spunti innovativi è ampiamente compensata da sonorità rombanti, dall’accordatura ultra-ribassata sulla quale si staglia il ringhio di un Rudolfsson in piena forma: Tomb to Womb spicca quale brano manifesto di un lavoro che riporta piacevolmente alla luce (fioca) il “dark death metal” dei Runemagick.
Evoked From Abysmal Sleep è il classico album che riempie un vuoto senza rivelarsi necessariamente epocale: essenziale, ruvido, autentico, questo sì, ed è tutto quanto serve a chi ama crogiolarsi con queste oscure sonorità.

Tracklist:
1. After the End They Rise Again
2. Evoked from Abysmal Sleep
3. Runes of the Undead
4. A Rising Fume of Returning Death
5. Wisdom Keepers Resurrected
6. An Anthem of Olden Magic
7. Tomb to Womb
8. A Shining Spirit from Beyond

Line-Up:
Nicklas Rudolfsson – Guitars/Vocals
Emma Rudolfsson – Bass
Daniel Moilanen – Drums/Percussion

RUNEMAGICK – Facebook

Vanhävd – Låt köttet dö

I Vanhavd mettono in mostra un sound decisamente personale, all’interno del quale trovano spazio in misura equilibrata melodia e robustezza del riffing, rallentamenti asfissianti e intriganti accelerazioni ritmiche, per un risultato oggettivamente esaltante per chi ama il genere.

Låt köttet dö (lascia morire la carne) è l’ep d’esordio per questo impressionante gruppo svedese denominato Vanhävd (scomparso).

La traduzione del monicker e del titolo dell’album, ovviamente, ci portano su territori in cui il dolore che si fa musica è di casa, ed infatti i nostri ci offrono circa venticinque minuti di magistrale death doom.
Influenzato concettualmente dal pensiero del filosofo antinatalista norvegese Peter Wessel Zapffe, il gruppo mette in mostra un sound decisamente personale, all’interno del quale trovano spazio in misura equiblirata melodia e robustezza del riffing, rallentamenti asfissianti e intriganti accelerazioni ritmiche, per un risultato oggettivamente esaltante per chi ama il genere.
La title track dice molto sulle potenzialità della band scandinava, con il suo incipit drammatico e l’inquietante melodia chitarristica screziata dal canto feroce di Adam Skog, e non è da meno Om den vulgära farsens nonsense, inaugurata da un sempre poco rassicurante suono di carillon che prelude ad una splendida e struggente armonia creata dal tremolo chitarristico, mentre la conclusiva Drömmaren offre una fase centrale all’insegna di un disperato black doom.
Oltre alla qualità sorprendente della musica offerta, propedeutico ad un possibile futuro capolavoro su lunga distanza, è un grande merito quelli dei Vanhävd l’aver di fatto divulgato il pensiero di Zappfe, sbrigativamente liquidato come un manifesto di pessimismo quando, invece, sarebbe molto più onesto definirlo crudo realismo: mai come di questi tempi le sue parole acquistano ancor più peso specifico.
Niente esiste senza di lui (l’uomo) , tutte linee convergono verso di lui, il mondo non è altro che uno spettrale eco della sua voce. Salta in piedi urlando a squarciagola, vorrebbe vomitare se stesso sulla terra insieme al suo impuro pasto; sente incombere la pazzia e vorrebbe darsi la morte prima di perderne la capacità.
Ma mentre soppesa l’imminente morte, ne afferra anche la natura e le cosmiche implicazioni. La sua immaginazione creativa costruisce nuove spaventose prospettive dietro la cortina della morte e vede che anche lì non c’è salvezza.
Adesso può discernere i contorni dei propri termini biologico – cosmici: egli è il prigioniero senza speranza dell’universo, destinato a prospettive ignote
Da quel momento è in uno stato di panico senza fine.”

Tracklist:
1. Låt köttet dö
2. Om den vulgära farsens nonsens
3. Drömmaren

Line-Up:
Emil Hlmgren – Bass
Michael Lofgren – Drums
Emil Ahlström – Guitars (lead)
Kristian Larsson – Guitars (rhythm)
Jonas Karlsson – Synthesizers
Alexander Kassberg – Synthesizers
Adam Skog – Vocals

VANHAVD – Facebook

In Oblivion – Memories Engraved in Stone

La competenza c’è, l’attitudine pure: la presenza questi due elementi fa pensare che nel giro di poco tempo gli In Oblivion potrebbero regalarci qualcosa di davvero importante; per ora, comunque, bene così.

Delle tre uscite offerte dalla Endless Winter in questa parte del 2018, quella degli In Oblivion è la più canonicamente vicina al funeral doom, anche se quello dei texani presenta diverse digressioni come le accelerazioni di stampo black che deturpano l’opener Wreathed in Gloom.

Memories Engraved in Stone è il full length d’esordio, che segue l’ep autointitolato del 2015 dal quale vengono riprese sia la già citata Wreathed in Gloom che la title track: il quintetto di Austin prova con discreto successo ad ammantare di un velo cupo ed impenetrabile il proprio sound, ed è fuor di dubbio che le cose vadano senz’altro meglio quando il tutto diviene più rarefatto ed atmosferico.
L’opener è un ottimo brano che, anche se forse ancora un po’ acerbo, presenta notevoli spunti ma è in An Eve in Mourning che i nostri puntano al bersaglio grosso, rischiando anche qualcosa di loro con la ripresa delle ben note sonorità della Marcia Funebre; la pacchianeria infatti incombe sempre su operazioni di questo tipo, mai gli In Oblivion vi sfuggono abilmente abbandonando dopo circa due minuti gli schemi chopiniani (che verranno nuovamente richiamati nel finale) per elaborare, di fatto, sonorità proprie e dotate di un tasso drammatico ed evocativo non indifferente.
E’ proprio qui che il rantolo terrificante di Justin Buller si sposa a meraviglia con il lento dipanarsi melodico del brano, a dimostrazione della disinvoltura nel trattare la materia da parte della band statunitense.
La title track è ancora più cupa, a tratti solenne, con qualche richiamo alla scuola russa (Comatose Vigil, Abstract Spirit) nel lavoro tastieristico, mentre nella conclusiva e piu lunga traccia del lotto, In Perfect Misery, gli In Oblivion si concedono diversi minuti di respiro prima di infierire nuovamente e in maniera definitiva sui nervi scossi dell’ascoltatore.
Chiedere ad una band che suona funeral una maggiore sintesi potrebbe sembrare bizzarro, ma in effetti agli In Oblivion, per ora, manca la dote innata di trovare il giusto sbocco emozionale alle diverse buone intuizioni messe in mostra (il finale di In Perfect Misery è emblematico in tal senso, e ci si chiede perché uno spunto melodico così bello non sia stato sfruttato in maniera più generosa).
La competenza c’è, l’attitudine pure: la presenza questi due elementi fa pensare che nel giro di poco tempo gli In Oblivion potrebbero regalarci qualcosa di davvero importante; per ora, comunque, bene così.

Tracklist:
1. Wreathed in Gloom
2. An Eve in Mourning
3. Memories Engraved in Stone
4. In Perfect Misery

Line-up:
Jake Holmes – Bass
Ciaran McCloskey – Guitars (lead)
Justin Buller – Guitars (electric and acoustic), Vocals
Ryoko Minowa – Keyboards
Shane Elwell – Drums, Percussion

IN OBLIVION – Facebook