Heavy metal melodico e piacevolissimo, che scorre benissimo, fatto con molto entusiasmo, cantato in finlandese.
Quanto di voi hanno suonato il metal nella propria cameretta ? I più fortunati e bravi lo avranno fatto con uno strumento, ma tutti di voi avranno suonato migliaia di concerti immaginari nella vostra camera, davanti ad una folla che nemmeno a Wacken o Clisson.
I Rotör sono quelli che dalla cameretta sono usciti, ora suonano ma lo fanno ancora come se fossero nell’età della pubertà. Metal NWOBHM a velocità smodata e davvero tantissimo divertimento. Negli ultimi tempi escono tantissimi dischi metal, molto sono assai validi, ben suonati e ben composti, ma a volte davvero poco divertenti. Qui invece, come in un Stranger Things del metal, siamo riportati indietro negli anni ottanta, e i Rotör in quegli anni avrebbero spiccato su molti gruppi di quell’epoca. Questo disco è un piccolo miracolo, una di quelle cose che ancora a volte succedono in un mondo dove si aspetta l’uscita dell’ultima cavolata techno. Heavy metal melodico e piacevolissimo, che scorre benissimo, fatto con molto entusiasmo, cantato in finlandese, che calza a pennello, poiché ha una metrica talmente impossibile che col metal si accompagna benissimo. Prendete la NWOBHM e velocizzatela un po’, con un tocco quasi punk hardcore nella voce, e vi avvicinerete abbastanza anche se non molto a quello che ascolterete. Questo disco è entusiasmante, coinvolgente, proprio come quei dischi che sentivate in cameretta ondeggiando la testa, e dando spallate sui muri, e qui tornerete a fare quello, perché vi è mancato, ma non tutto è ancora perduto. Su questo gruppo finlandese non si conosce molto, ma non serve granché, visto la musica che fanno.
TRACKLIST
1. Avattu Hauta
2. Porttokirkko
3. Silmä
4. Uuden Maailman Asukas
5. Roottoripää
6. Valittu
7. Portti Helvettiin
8. Käärme
9. Loputon
Giunti alla fine si ha l’impressione di essere al cospetto di un lavoro notevole e che per molto tempo rimarrà posizionato nel lettore cd
La famiglia metallica (nel vero senso della parola) Ancillotti torna a far ruggire i propri strumenti due anni dopo il bellissimo esordio The Chain Goes On.
Bud Ancillotti, suo figlio Brian, il fratello Sandro, ed il fido Luciano Toscani, dopo aver incendiato i palchi hard & heavy per più di un anno e mezzo, si sono chiusi ai Tartini 5 di Parma insieme al produttore Fausto ‘Tino’ Tinello, per regalare un fratellino al primogenito, un album a tratti entusiasmante che ved tornare alla grande l’ex Strana Officina.
Il tempo passa in fretta e due anni sono volati, la famiglia Ancillotti si ripresenta ai fans con Strike Back, album che continua la strada intrapresa con il primo lavoro, licenziato come questo dalla Pure Steel, ed in seguito proposto sul tradizionale supporto in vinile dalla nostrana Jolly Roger.
Si nota subito nel sound la presenza maggiore dei tasti d’avorio, suonati sempre da Simone Manuli ed un’amalgama ormai consolidata (non solo per questioni di parentela) dal gruppo, che si conferma come uno dei vertici del metal tradizionale nato nel nostro paese e senza sfigurare affatto di fronte ai nomi internazionali, anche storici, dei quali la label tedesca si può avvalere.
Ne esce un album che nel suo essere classico risulta fresco, l’hard rock e l’heavy metal si alleano per continuare a generare musica dura, perfettamente bilanciata tra la tradizione europea e l’U.S. metal.
Le tastiere incorniciano, tra intro e strutture, molti dei brani, ma è la triade chitarra, basso e batteria che in Strike Backviene glorificata e valorizzata da una prestazione vocale di Bud Ancillotti, ruvida, sanguigna, da rocker, ma a tratti mai così melodica.
Ficcante, tagliente ed in stato di grazia la performance di Ciano Toscani alla sei corde, a mio parere l’arma che fa fare al nuovo lavoro un piccolo passo avanti rispetto al suo bellissimo predecessore, mentre la sezione ritmica composta da zio e nipote risulta una colata di cemento armato che sorregge questo grattacielo metallico.
E così, dopo l’intro, si prende l’ascensore verso il cielo, spaccato da tuoni e fulmini metallici, To Hell With You esplode con un gran lavoro di Brian alle pelli ed un riff serrato, un brano in your face perfetto per aprire un lavoro del genere.
Abbiamo detto del cantato di Bud che, ancora più che nel primo disco, alterna grinta e melodia in modo vario e sapiente, non lasciando mai all’ascoltatore il permesso di perdere l’attenzione, ed è già tempo di Immortal Idol e Fight, la prima più complessa, quasi progressiva nelle ritmiche, la seconda un pugno in faccia metallico che farà strage in sede live.
Bellissimo l’hard rock statunitense di Never To Late e When Night Calls, una bomba ritmica The Hunter, mentre Burn, Witch, Burn è un classico brano oscuro di metal statunitense dove l’atmosfera horror delle liriche incentrate sui processi alle streghe di Salem è accentuata da rintocchi di campana e risate diaboliche.
Giunti alla fine si ha l’impressione di essere al cospetto di un lavoro notevole e che per molto tempo rimarrà posizionato sul vostro lettore cd in attesa che la luce dell’amplificatore ritorni verde ed il tasto play nuovamente premuto: questo è hard & heavy da manuale, grandi Ancillotti.
TRACKLIST
1. Intro
2. To Hell With You
3. Immortal Idol
4. Fight
5. Firestarter
6. The Beast Is Rising
7. When Night Calls
8. Burn, Witch, Burn
9. Lonely Road
10. Life Is For Livin’
11. Never Too Late
12. The Hunter
Michael Sweet ritorna sul mercato alla sua settima prova come solista. Una delle voci più caratteristiche e instancabili del panorama hard ‘n’ Heavy mondiale.
Ritorna sul mercato alla sua settima prova come solista una delle voci più caratteristiche e instancabili del panorama Hard ‘n’ Heavy mondiale: Michael Sweet (Stryper, Sweet & Lynch) con una formazione che presenta il grande Joel Hoekstra (Whitesnake, ex Night Ranger) e Ethan Brosh (The Ethan Brosh Band, Angels Of Babylon) alla chitarra, il fantasioso bassista John O’Boyle e Will Hunt (Evanescence) dietro le pelli.
Apre Bizarre, con attacco alla Starbreaker -Racer X (!), con il dolce Michael subito sugli scudi. Gran bel pezzo tecnico e atletico, dove tutto è perfetto, dalle vocals al supporto speso dagli altri strumenti. A seguire One Sided War, altro pezzo roccioso e con melodie molto efficaci. Maggiormente heavy Can’t Take This Life e Radio, più scontate, con il loro incedere minaccioso, comunque ancora molto efficaci nel cantato e nelle parti soliste. Classici riff per Golden Age e Only You, quest’ultima davvero molto catchy. Who Am I è una sorta di power ballad coinvolgente, seguita dall’Heavy Blues ben cadenzato di You Make Me Wanna da cantare a pieni polmoni. Comfort Zone è un attacco a chiare tinte yellow and black, molto coinvolgente e trascinante. Pura energia con il Rock’n’Blues di One Way Up che non mancherà di scuotervi e incitarvi a urlare il fantastico e ossessivo ritornello. Chiude il disco un’altra versione (trascurabile) di Can Not Take This Life, con un duetto di Michael insieme alla giovanissima cantante Moriah Formica.
In One Sided War troverete riff Hard’n’Heavy tra i più classici , robusti, piacevoli e ottimamente eseguiti. Niente di nuovo sotto il sole, ma sono certo che apprezzerete tutto il valore di Michael Sweet sia come cantante e compositore, ma anche come ottimo produttore. One Sided War è un lavoro potente e pulito, che esalta il lavoro dei musicisti coinvolti e le azzeccatissime armonie profuse in tutti i 47 minuti.
TRACKLIST
1.Bizarre
2.One Sided War
3.Can’t Take This Life
4.Radio
5.Golden Age
6.Only You
7.I Am
8.Who Am I
9.You Make Me Wanna
10.Comfort Zone
11.One Way Up
12.Can’t Take This Life (feat. Moriah Formica)
LINE-UP
Michael Sweet – Vocals, Guitars
Joel Hoekstra – Guitars
Ethan Brosh – Guitars
John O’Boyle – Bass
Will Hunt – Drums
L’album si sviluppa in cinquanta minuti di metallo incendiario, tra sonorità puramente heavy e la carica portentosa del power metal teutonico
I Divine Weep sono una band heavy/power proveniente dalla Polonia, attiva dalla metà degli anni novanta anche se le sonorità degli esordi erano orientate al più estremo black metal.
Nel 2010, dopo un lungo stop, il gruppo capitanato da Bartek Kosacki (chitarra) e Darek Karpiesiuk (batteria) decide di dare una svolta decisa al proprio sound e i Divine Weep si trasformano in una belligerante macchina da guerra heavy/power. Tears Of The Ages è il secondo full length dopo la rinascita stilistica, successore del primo lavoro uscito tre anni fa (Age of the Immortal).
L’album si sviluppa lungo cinquanta minuti di metallo incendiario, tra sonorità puramente heavy e la carica portentosa del power metal teutonico; la produzione al passo coi tempi, permette di apprezzare in toto il lavoro dei musicisti che non risparmiano melodie dall’ottima presa, chorus, cavalcate epiche ed arrangiamenti moderni.
Un album di metal classico targato 2016, Tears Of The Ages è tutto qui, il songwriting rimane di ottima qualità per tutta la durata non facendo mancare al fan refrain dall’alto potenziale melodico, riff scolpiti sulle tavole della legge metalliche e un ottimo singer che imprime di personalità la sua performance.
Valorizzato dall’ospite Wojciech Hoffmann, axeman degli storici connazionali Turbo, che presta la sua chitarra su un brano, Tears Of The Ages è un ottimo esempio di cosa possa dare il genere nel nuovo millennio, specialmente se la cura dei particolari e l’attenzione nel lavoro in sala porta e questi risultati; le tracce esplodono in un fragore metallico, gli strumenti si inseguono correndo verso la gloria, i chorus non mancano di gasare e la noia fa le valigie per soggiornare in altri lidi.
L’opener Fading Glow attacca al muro con un riff in stile Hammerfall, l’heavy classico ed il power si scambiano il comando; la band svedese, i Primal Fear, e poi Gamma Ray e Judas Priest, sono i richiami più limpidi ad una stagione metallica neanche troppo lontana, anche se di acqua sotto i ponti ne è passata e le spade piantate sul campo di battaglia rischiano di arrugginirsi.
Ma gruppi come i Divine Weep tornano a far risplendere il drappo dei true defenders e The Mentor, ImperiousBlade e la title track sono inni metallici da cantare orgogliosamente sotto il palco di qualche festival in giro per la vecchia Europa.
Purtroppo, in concomitanza con l’uscita del disco, l’ottimo singer Igor Tarasewicz ha lasciato la band, rimpiazzato a quanto pare da Kamil Budziński al quale auguriamo di ricalcarne le orme.
TRACKLIST
1.Fading Glow
2.The Mentor
3.Day Of Revenge
4.Last Breath
5.Petrified Soul
6.Imperious Blade
7.Never Ending Path
8.Tears Of The Ages
9.Age Of The Immortal (bonus track)
10.Lzy Wiekow (bonus track)
LINE-UP
Daro – Drums
Janusz Grabowski – Bass
Dariusz Moroz – Guitars
Bart – Guitars
Igor Tarasewicz – Vocals
Transcendence suona imponente e vasto e, malgrado la spinta interiore verso il sovrumano, Devin permane dentro un ambito fondamentale: l’heavy metal.
Trascendenza: in filosofia, la condizione o la proprietà di essere trascendente, di esistere al di fuori o al di sopra di un’altra realtà.
Devin Really Hevy Townsend, (Steve Vai, Strapping Young Lad, The Devin Townsend Band, Ziltoid The Omniscient, Casualties of Cool) poliedrico musicista canadese, ha sperimentato fusioni di più generi, elevando e modernizzando il concetto di heavy metal. Per il sottoscritto rappresenta un esempio lampante di chi ha ricevuto l’immenso dono della creatività, perciò consacrato all’arte e al cambiamento. Uscire dalla zona di comfort, sperimentare i contrari, esprimere tutto ciò nelle sue composizioni, rappresenta evidentemente tutti aspetti della sua individualità.
In Transcendence(bellissima la copertina ad opera di Anthony Clarkson) c’è probabilmente un nuovo approccio alla vita, in parte anche alla musica, perché Mr. Townsend non è poi così estraneo alla realtà sensibile che lo circonda. Tutto nell’album è amplificato, maestoso, sinfonico, come proveniente dall’Universo, da una dimensione ultraterrena, sconfinata. Un’opera che scandisce il tempo di una colossale colonna sonora. Si avverte immediatamente una disposizione d’animo più positiva che in passato, l’amalgama è molto densa, le emozioni che scaturiscono durante l’ascolto sembrano voler legare l’essere umano al Tutto. Volutamente evito la recensione track by track perché ci troviamo alle prese con un flusso di sensazioni tutte in stretta relazione, durante le quali si alternano vette appassionanti a parti più monotone, ma che per nostra fortuna si risollevano con energia e originalità. Su tutte cito solo Failure, le bellissime Higher e Stars e la coda di From The Heart. Si chiude con l’apprezzabile cover Transdermal Celebration dell’alternative rock band Ween.
Se avete già apprezzato i precedenti lavori, amerete questo tipo di sonorità spaziali. Viaggerete tra le stelle accompagnati da cori celestiali, suoni pomposi, piccoli sprazzi djent, cori femminili (ancora a carico di Anneke Van Giersbergen) e ritmiche alternate. Le (poche) parti di chitarra solista sono squisite, ma le sonorità sviluppate dal genio di Vancouver negli ultimi anni sono state aggiornate e potenziate da un approccio fresco e moderno.
Registrato al Armoury Studios, prodotto e mixato dallo stesso Townsend e da Adam ‘Nolly’ Getgood (Periferie, Animals As Leaders), Transcendencesuona imponente e vasto e, malgrado la spinta interiore verso il sovrumano, Devin permane dentro un ambito fondamentale: l’heavy metal. E a noi sta molto bene così.
TRACKLIST
1. Truth
2. Stormbending
3. Failure
4. Secret Sciences
5. Higher
6. Stars
7. Transcendence
8. Offer Your Light
9. From The Heart
10. Transdermal Celebration
LINE-UP
Devin Townsend – Vocals, Guitars, Bass, Keyboards, Programming
Dave Young – Keyboards, Guitars
Mike St-Jean – Keyboards
Brian Waddell – Bass
Ryan Van Poederooyen – Drums
Una band che continua dal vivo a divertire non poco, ma come molte altre dalla lunga carriera, in leggero affanno quando si tratta di creare nuova musica.
Trittico di nuove uscite in casa Steamhammer che vedono coinvolte tre band storiche del metal, quali Sodom, Vicious Rumors e Running Wild, la banda di pirati capitanata dal mai domo Rolf Kasparek, in arte Rock ‘n’ Rolf.
Lo storico gruppo tedesco dal concept piratesco che, negli anni ottanta, conquistò anime metalliche come galeoni a spasso per il Mar dei Sargassi, di fatto è ormai da considerarsi un duo, con Rock’n’Rolf accompagnato dal fido Peter Jordan e raggiunto in sede live dall’accoppiata ritmica Ole Hempelmann al basso e Michael Wolpers alle pelli.
Poco male, l’anima dei Running Wild è ben salda tra le mani del leader, che continua imperterrito a portare il proprio vascello all’arrembaggio con il classico sound che prende dal power tedesco e dall’hard rock , per trasformarsi nel solito assalto sonoro.
Come ormai da un po’ di anni l’aspetto melodico è diventato preponderante nella musica del combo, ed anche in questo ultimo lavoro Rolf ha puntato molto sulle atmosfere e sui solos, addomesticando la belva power, con ritmiche più controllate e meno impatto diretto come nelle produzioni ’80/’90.
Prodotto dallo stesso Kasparek con l’aiuto del tecnico del suono Niki Nowy e presentato da una copertina che rispecchia il mood piratesco del gruppo, Rapid Foray torna dopo tre anni dall’ultimo lavoro (Resilient), album che sicuramente non aveva fatto gridare al miracolo ma si era assestato sul livello del classico compitino che, se pur svolto bene, non andava oltre un giudizio discreto.
Quest’ultimo lavoro non cambia di molto la situazione anche se, dove il gruppo rischia qualcosa in più sotto l’aspetto del songwriting, escono brani molto melodici e sostenuti da portentose cavalcate, come le due tracce che risultano il cuore pulsante dell’album: la strumentale The Depth Of The Sea – Nautilus e l’ottima power hard rock oriented Black Bart che, con la conclusiva e maideniana Last Of The Mohicans, sono ciò di meglio ha da offrire il gruppo nell’anno di grazia 2016.
Con tutto questo, Rapid Foray rimane un prodotto godibile e ben confezionato; il mood eroico e battagliero con cui la ciurma di Amburgo ha costruito la sua discografia è ben presente, risultando per i fans un lavoro degno della loro reputazione, anche se (è bene precisarlo) siamo ormai lontani dalle gloriose gesta piratesche di classici come Under Jolly Roger, Port Royal e quel gran bel disco che fu Masquerade, sicuramente un lavoro da rivalutare nella discografia immensa dei Running Wild.
Una band che continua dal vivo a divertire non poco, specialmente quando i riff dei classici riprendono vita dalle chitarre ma, come molte altre dalla lunga carriera, in leggero affanno quando si tratta di creare nuova musica: d’altronde gli anni passano per tutti, anche per gli eroi della Tortuga.
TRACKLIST
1. Black Skies, Red Flag
2. Warmongers
3. Stick To Your Guns
4. Rapid Foray
5. By The Blood In Your Heart
6. The Depth Of The Sea – Nautilus (instr.)
7. Black Bart
8. Hellestrified
9. Blood Moon Rising
10. Into The West
11. Last Of The Mohicans
LINE-UP
Rock N’ Rolf – vocals, guitars
Peter Jordan – guitars
Live:
Ole Hempelmann – bass
Michael Wolpers – drums
Il passaggio su Frontiers non ha alterato la proposta DGM. La band ha compiuto ancora un ulteriore passo in avanti verso la magnificenza.
Dopo il magnifico “Momentum” del 2013, mi giunge come graditissima sorpresa per il mio secondo contributo su Metal Eyes la proposta del Cavanna di recensire l’ultimo lavoro dei DGM.
L’attuale formazione è stabile da quasi un decennio e, per nostra gioia, ha composto grande musica. Quale fan dei Symphony X, mi sento molto vicino a quanto finora proposto dalla band italiana, e questi ultimi non hanno mai peraltro dissimulato l’influenza dei giganti americani.
Mi immergo perciò in questi 60 minuti con voluttà e le ampie aspettative (le ho ancora, malgrado la veneranda età) vengono rispettate fin dall’opener The Secret (Part I), 8 minuti buoni di eccellente power prog nei quali potenza, tecnica e feeling non lasciano spazio ai pensieri, tant’è la forza espressiva dei nostri. La mini suite si estende in The Secret (Part II), le atmosfere distese e l’andatura più riflessiva, caratterizzata da aperture melodiche di chitarra e tastiere ora brillanti, ora elegiache nel finale. Animal è diretta abilmente dalla chitarra di Simone Mularoni, ottimo compositore e sorgente inesauribile di riff coinvolgenti e fraseggi mai banali. Ghosts Of Insanity (con la partecipazione di Tom Englund degli Evergrey) mostra muscoli e perizia compositiva con un riff iniziale al fulmicotone, possente, vera màcina che sfocia in un ritornello delizioso, fino all’assolo di chitarra scintillante con un finale finale martellante e cupo.
Attacca Fallen e picchia al cuore alternando riff di matrice thrash a refrain ariosi da cantare a pieni polmoni. La title track mette i brividi con un riff iniziale tostissimo e geniale, una composizione entusiasmante che rallenta fino al sublime dialogo tra chitarra/tastiera e dal finale improvviso. La dolce Disguise per piano e voce introduce l’infuocata Portrait, dove tutti gli attributi dei talentuosi power metallers romani vengono esibiti senza inibizioni. La successiva Daydreamer allenta la presa ed è forse la traccia meno entusiasmante, ma Dogma ci inocula nuova adrenalina sempre alternando parti plasmate nell’acciaio ad altre di più ampio (e breve) respiro dove Mark Basile esprime potenza e melodia con linee vocali sempre ispirate, supportate egregiamente da tutti gli altri componenti, compreso l’ospite eccellente a nome Michael “SX” Romeo. La conclusiva In Sorrow ci culla e sfuma nel silenzio rimarcando l’eco di questo magnifico album che ha il solo vizio di essere ancora deliziosamente “dipendente” dalla Symphonia metallica del New Jersey.
TRACKLIST
01. The Secret (Part I)
02. The Secret (Part II)
03. Animal
04. Ghosts Of Insanity
05. Fallen
06. The Passage
07. Disguise
08. Portrait
09. Daydreamer
10. Dogma
11. In Sorrow
Non mancano brani che ricordano il passato glorioso del gruppo statunitense ed il songwriting si attesta su di una media medio alta per tutto lo scorrere del lavoro.
Geoff Thorpe non molla la presa e, a distanza di tre anni da Electric Punishment, torna con un nuovo album (il dodicesimo) dei suoi Vicious Rumors, heavy power metal band made in U.S.A., amata da chiunque si professi un amante dei suoni metallici fin dall’anno di grazia 1988, da quando cioè uscì il loro capolavoro Digital Dictators.
Una carriera quella del gruppo californiano tra alti e bassi, con un periodo che li vide affrontare suoni dal mood più moderno e cool, una sfilza di vocalist che si sono avvicendati dietro al microfono ed il ritorno alle sonorità heavy power con le ultimissime uscite. Concussion Protocol, prodotto dal chitarrista e Juan Urteaga ai Trident Studio, famosi per aver già ospitato artisti come Testament, Heathen, Machine Head ed Exodus, e con la partecipazione di due ospiti d’eccezione come Brad Gillis (Night Ranger) e Steve Smyth (Nevermore, Testament, Forbidden), vede due nuovi entrati nella line up del gruppo rispetto al suo predecessore: l’ottimo singer Nick Holleman vero animale metallico, ed il bassista Tilen Hudrap.
Valorizzato come sempre dal sontuoso lavoro di Thorpe alla sei corde e aiutato dall’ascia di Thaen Rasmussen, l’album si sviluppa su un concept catastrofico riguardante la caduta di un asteroide sulla terra ed il conseguente armageddon a cui va incontro il genere umano; il gruppo viaggia a mille all’ora tra power metal e ritmiche thrash risultando devastante e melodico, ruggente e molto heavy.
L’heavy metal classico ha appunto un ruolo fondamentale in questo lavoro, la voce di Holleman spazza via ogni tentazione moderna regalandoci una prova da singer di razza, nato e cresciuto nella più pura tradizione metallica e le songs ci guadagnano in impatto ed appeal melodico.
Non mancano brani che ricordano il passato glorioso del gruppo statunitense (Digital Dictators, Vicious Rumors e Welcome to the Ball, album fondamentali per il movimento metallico d’oltroceano) ed il songwriting si attesta su di una media medio alta per tutto lo scorrere del lavoro.
I cinque californiani picchiano che è un piacere, le chitarre fumano sotto le dita degli axeman e le ritmiche sono tempeste sulla costa, le ottime Chemical Slaves, Victims of a Digital World, dal mood hard rock, ed il massacro sonoro ad opera di 1000 Years sono solluchero per i padiglioni auricolari metallizati dal sound old school che il gruppo, almeno questa volta, riesce ad imprimere in questa raccolta di canzoni che non mancherà di soddisfare gli amanti della musica di Thorpe.
Un buon ritorno, il tempo è passato troppo in fretta ma la voglia di suonare metallo è tornata quella di una volta.
TRACKLIST
1. Concussion Protocol
2. Chemical Slaves
3. Victims Of A Digital World
4. Chasing The Priest
5. Last Of Our Kind
6. 1000 Years
7. Circle Of Secrets
8. Take It Or Leave It
9. Bastards
10.Every Blessing Is A Curse
11. Life For A Life
Esordio solista per il frontman dei Zandelle, George Tsalikis, con un concept incentrato su una storia di vampiri, dalle buone idee poco valorizzate da una produzione deficitaria.
George Tsalikis è il frontman dei power metallers americani Zandelle, nonchè ex Gothic Knights, e torna sulle nostre pagine un anno dopo l’uscita dell’ottimo Perseverance, che vedeva il ritorno sul mercato del gruppo newyorkese dopo sei anni dall’ultimo lavoro.
Il frontman debutta con il primo lavoro solista, autoprodotto ma distribuito dalla label tedesca Pure Steeel, con un’opera ambiziosa dal concept vampiresco.
Una storia di vampiri dunque, moderna magari ma pur sempre di “succhiasangue” si tratta, un argomento abusato in tutte le forme d’arte dal cinema alla musica e tornato in auge negli ultimi anni.
Il singer si contorna di un manipolo di musicisti della scena metal statunitense e da vita ad un album di U.S. metal old school nella sostanza così come nella forma, senza grossi picchi qualitativi ma che non mancherà di piacere, specialmente a chi apprezza l’heavy metal americano, oscuro ed in gran parte strutturato su ritmi cadenzati su cui Tsalikis ed i vari ospiti narrano le vicende delle creature della notte.
Il nostro si destreggia tra chitarre, basso, piano e tastiere, le pelli sono lasciate al drummer Mike Paradine, mentre molti dei solos sono ad appannaggio del chitarrista Richie Blackwood e le vocals che fanno la loro apparizione lungo il corso della storia sono di Alanna Dachille, Ryan Taylor, Caitlin Rose Scarpa, Don Manzo e Kristen Keim.
Heavy metal robusto ma alquanto melodico, pregno di atmosfere oscure, vissuto tra i vicoli di una New York alle prese con romantici vampirelli, strade bagnate da pioggia sporcata dallo smog della grande mela, un via vai di canzoni che vivono su cavalcate vecchia scuola, valorizzate da buoni interventi chitarristici ma poco esplosive, complice una produzione appena sufficiente che non imprime la giusta forza alle canzoni.
L’idea non è male, qualche canzone riesce ad uscire dall’anonimato, ma la batteria è poco incisiva e le performance dei vari cantanti lasciano pochi ricordi, appiattendosi sul compitino e nulla più.
Peccato, perché il metallo classico di cui si fregia il sound di The Sacrifice è di quello d.o.c., puntando sulle buie trame degli storici Metal Church, le ritmiche robuste degli Zandelle e l’atmosfera da opera metal che però, purtroppo, si respira solo a tratti tra i solchi di Declaration e Inner Struggle.
Un album che con un opportuno lavoro di rimasterizzazione potrebbe acquisire quel tanto che basta per valorizzare il sound, mentre per ora è circoscritto al mondo degli appassionati del genere.
TRACKLIST
1. Chapter 1: World of Darkness
2. Chapter 2: Of My Dreams
3. Chapter 3: The Vixen
4. Chapter 4: The Vampire’s Promise
5. Chapter 5: Taken
6. Chapter 6: Declaration
7. Chapter 7: The Confrontation
8. Chapter 8 (part 1): Inner Struggle
9. Chapter 8 (part 2): With Friends Like These
10. Chapter 9: Victimized
11. Chapter 10: The Hero’s Lamen
LINE-UP
George Tsalikis – lead vocals, rhythm guitar, accoustic guitar, bass, keyboards, piano
special guests:
Mike Paradine – drums
Richie Blackwood – lead guitars
Alanna Dachille – vocals
Ryan Taylor – vocals
Caitlin Rose Scarpa – vocals
Don Manzo – vocals
Kristen Keim – vocals
Beyond The Veil paga dazio alla sua prolissità: un’ora e tredici minuti di musica sfiancano, se non sono supportate per intero da ottime idee in fase di songwriting
Quarto lavoro sulla lunga distanza per i britannici Dark Forest, da una dozzina d’anni in pista con il loro heavy metal classico ispirato ad ambientazioni folk e medievali.
Lo scorso album The Awakening uscito un paio di anni fa aveva visto l’entrata in line up del singer Josh Winnard al posto di Will Lowry-Scott, un cambio che aveva portato i suoi frutti, confermati dal nuovo Beyond The Veil.
Copertina non a caso affidata a Duncan Storr, artista che ha creato opere grafiche anche per gli Skyclad e proposta che sicuramente si discosta dai primi lavori per sposare definitivamente la causa dell’heavy metal dalle tinte folk.
Diciamo che a livello di sound gli Skyclad sono messi nell’ombra da una forte componente maideniana o comunque riconducibile alla new wave of british heavy metal, mentre concettualmente il gruppo per qualche atmosfera e le tematiche narrate si avvicina al metal di ispirazione folk.
Attenzione, non si parla del folk metal di uso e consumo in questi anni, perché l’elemento progressivo del sound permette alla band di inserire melodie, specialmente nei solos, che richiamano sfumature epic ma sempre inserite in un contesto metallico old school.
Ottimo il lavoro delle due asce che si scambiano il palcoscenico con intrecci chitarristici di scuola ottantiana, buona la prova del singer, abbastanza personale per donare alle canzoni un minimo di interpretazione, gradevoli le cavalcate dal taglio epic così come qualche intervento acustico che ci scaraventa tra i boschi e le foreste delle lande britanniche (Lunantishee).
L’album si potrebbe riassumere nella conclusiva The Lore Of The Land, traccia di tredici minuti, dove il buon Winnard si appropria del timbro dickinsoniano, ed il gruppo parte per una cavalcata in crescendo di buona fattura.
Per il resto siamo nella piena sufficienza, ma nulla più: Beyond The Veil paga dazio alla sua prolissità: un’ora e tredici minuti di musica sfiancano, se non sono supportate per intero da ottime idee in fase di songwriting, ed infatti una mezz’ora in meno avrebbe sicuramente giovato all’ascolto di un album che, alla fine, racchiude il meglio proprio nell’ultimo ottimo brano.
Lavoro assolutamente riservato agli amanti del metal classico di ispirazione old school, Beyond The Veilmantiene la band ben salda nell’underground e nel mondo delle realtà appannaggio dei fan più accaniti del genere.
TRACKLIST
1. On the Edge of Twilight
2. Where the Arrow Falls
3. Autumn’s Crown
4. Blackthorn
5. Lunantishee
6. The Wild Hunt
7. Earthbound
8. The Undying Flame
9. Mên-an-Tol
10. Beyond the Veil
11. Ellylldan
12. The Lore of the Land
LINE-UP
Josh Winnard – Vocals
Christian Horton – Guitar
Pat Jenkins – Guitar
Paul Thompson – Bass
Adam Sidaway – Drums
Let’s Raise Hell è un ottimo album, inutile dire che è un ascolto obbligato per i fans dei Maiden, ma il consiglio si estende anche a tutti gli amanti del metal più classico.
Tornano in pista gli Attick Demons, band portoghese che ripercorre con il proprio sound le gesta della vergine di ferro da ormai vent’anni, pur non avendo una numerosa discografia alle spalle.
Infatti il gruppo, sotto l’ala della label tedesca Pure Steel, è solo al secondo lavoro sulla lunga distanza, le sue uscite si limitano ad un ep omonimo uscito nel 2000, un demo, ed il primo album intitolato Atlantis ed uscito cinque anni fa.
Tre chitarre come i Maiden da Brave New World, disco che vedeva il ritorno di Adrian Smith tra le fila della band del despota Steve Harris, ed un cantante che lascia di stucco da quanto la sua voce sia perfettamente uguale a quella di Bruce Dickinson.
Semplici cloni? Assolutamente no, Let’s Raise Hell è un bellissimo lavoro di heavy metal classico dove le somiglianze con la più famosa metal band del pianeta sono palesi, ma non inficiano un risultato ottimo sotto tutti i punti di vista.
Il songwriting regala perle metalliche dure come l’acciaio, a tratti travolgenti, ma che sanno regalare qualche spunto progressivo, meno prolissi degli ultimi lavori della vergine di ferro e più in linea proprio con l’album uscito nel 2000 e che tornava a far risplendere la maschera di Eddie sui palchi di tutto il mondo. Let’s Raise Hell vs Brave New World, da questo fantasioso scontro la band portoghese ne esce alla grande, grazie ad una produzione che esalta la potenza vocale del singer e rende i suoni dei brani puliti e cristallini, mentre la bravura dei musicisti contribuisce ad esaltare l’ascoltatore, travolto dai solos che si intrecciano come serpenti in amore, ed una sezione ritmica che esce potente e pesante come un carro armato.
I brani che sparano nobile metallo maideniano sono all’altezza della situazione, Adamastor colma di accelerazioni e cambi di ritmo da infarto, Glory To Gawain dove la voce di Artur Almeida tocca vette altissime, The Endless Game (la Ghost Of The Navigator di Let’s Raise Hell), mentre la palma di migliore song dell’album va all’oscura Dark Angel, aperta da atmosfere arabeggianti, chitarre lusitane e che si trasforma in un midtempo dove il cantante duetta con una voce femminile da brividi.
Il finale è riservato ad un tris di brani dall’alto potenziale esplosivo: Ghost, Nightmare e Ritual tornano a duellare sul campo con lo storico sestetto britannico, in un quanto mai sanguinario corpo a corpo, dove con la song conclusiva valorizzata da una serie di riff straordinari, riescono a fuggire e a rimandare alla prossima uscita il singolar tenzone. Let’s Raise Hellè un ottimo album, inutile dire che è un ascolto obbligato per i fans dei Maiden, ma il consiglio si estende anche a tutti gli amanti del metal più classico.
TRACKLIST
1. The Circle Of Light
2. Adamastor
3. Glory to Gawain
4. Dark Angel
5. The Endless Game
6. Let’s Raise Hell
7. Ghost
8. Nightmares
9. Ritual
LINE-UP
Artur Almeida – vocals
Luis Figueira – guitars
Nuno Martins – guitars
Hugo Monteiro – guitars
João Clemente – bass
Ricardo Allonzo – drums
Vocals che riconducono agli ormai storici anni ottanta, tasti d’avorio purpleiani e cavalcate chitarristiche di scuola britannica (NWOBHM) fanno parte del background del gruppo finlandese, una cult band per alcuni, davvero troppo datata per altri.
Heavy metal old school, un sound che racchiude la filosofia metallica di stampo classico in tutte le sue componenti e un’attitudine che rispecchia in toto la tradizione, queste sono le caratteristiche dei Mausoleum Gate, band finlandese attiva dal 2009, presentataci dalla Cruz De Sur Music con questo singolo di due brani.
Metal And The Might, song che da il titolo all’opera, più i sei minuti della vintage Demon Soul compongono questo singolo che va a rimpolpare una discografia che vede il quintetto di Kuopio alle prese con una manciata di lavori minori ed un unico full length omonimo uscito un paio di anni fa.
A prescindere dall’operazione criticabile nel genere proposto, questo singolo presenta quanto meno il gruppo a chi,dei suoni nostalgici dalle sfumature 70’/80, fa il suo credo, devoto ai suoni tradizionali in toto, compresa una produzione deficitaria e che non rende giustizia al songwriting dei Mausoleum Gate.
Vocals che riconducono agli ormai storici anni ottanta, tasti d’avorio purpleiani e cavalcate chitarristiche di scuola britannica (NWOBHM) fanno parte del background del gruppo finlandese, una cult band per alcuni, davvero troppo datata per altri.
La verità come sempre sta nel mezzo, ed i Mausoleum Gate risulterebbero un ottimo gruppo se non fosse per le scelte in fase di produzione che, purtroppo in questi anni, trovano terreno fertile solo nei fans del rock, affondato nelle sabbie mobili di un passato che molti gruppi glorificano con album che amalgamano tradizione e modernità, ma che risulta obsoleto quando, per scelta o per difetto, i mezzi usati risultano deficitari.
Immaginatevi la vergine di ferro sprofondata in un profondo porpora ed ammaliata da un sabba nero ed avrete un’idea della proposta del gruppo finlandese, peccato solo che il tutto non venga valorizzato al meglio; speriamo che ciò accada alla prossima occasione.
TRACKLIST
Side A – Metal and the Might
Side B- Demon Soul
LINE-UP
V-P. Varpula – Vocals
Count L.F. – Electric and Acoustic Guitars
Nino Karjalainen – bass
Kasperi Puranen – Electric Guitars
Wicked Ischianus – Hammond C3 Organ, Mellotron M400 and MiniMoog
Oscar Razanez – Drums, Percussions and Gongs
Carved in Stone lascia che la passione di questi tre alfieri del metal classico traspaia da ogni nota che compone l’album
Attivo dall’alba del nuovo millennio, il trio proveniente dal North Carolina torna con un nuovo lavoro a cinque anni dal precedente Life’s Blood.
Siamo giunti al quinto capitolo della storia degli Widow e la band continua il suo percorso tra le sonorità power metal classicamente americane, iniziata nel 2003 anno di uscita del primo album Midnight Strikes, seguito da On Fire nel 2005 e Nightlife del 2007.
Niente di nuovo sotto il sole del North Carolina, il gruppo ci propone l’ennesima opera di U.S. metal dai tratti power, lineare e senza grossi picchi compositivi ma di buon livello, un album che si lascia ascoltare ed apprezzare per le cavalcate old school di cui è pregno, buone linee melodiche che si accompagnano al cantato maschio ma molto melodico del bassista John E. Wooten ed i solos di gustosa maniera ad appannaggio del buon Chris Bennett .
Dodici brani che ci accompagnano nell’heavy metal, tra accelerazioni power, mid tempo heavy e la classica atmosfera oscura dei gruppi statunitensi, anche se gli Widow non mancano di strizzare l’occhio alle band europee, Maiden in primis.
Ne esce un buon lavoro, Carved in Stone lascia che la passione di questi tre alfieri del metal classico traspaia da ogni nota che compone l’album, un lavoro composto da tre metallari per metallari, niente di più, niente di meno.
Ne sono esempio brani dal taglio tradizionale come l’opener Burning Star, la title track, ed il mid tempo maideniano And We Are One, che si assestano su buone coordinate interpretative ed un buon piglio metallico.
Certo, mancano almeno un paio di brani trascinanti ed il tutto si mantiene su di un livello discreto, ma Carved In Stone è senza dubbio un ascolto gradito per ogni metal fans che si rispetti, specialmente quelli legati alla scuola classica.
TRACKLIST
1. Burning Star
2. Carved In Stone
3. Another Time and Place
4. Wisdom
5. Time on Your Side
6. Borrowed Time
7. And We Are One
8. Anomaly
9. Live By The Flame
10. Of The Blood, We Bind
11. Nighttime Turn
12. Let It Burn
LINE-UP
John E. Wooten IV – lead vocals, bass
Chris Bennett – lead guitars, bass
Robbie Mercer – drums
I The Embodied si candidano come una delle sorprese dell’anno nel genere
In materia metallica i paesi scandinavi sono ancora i maestri indiscussi e lo dimostrano ad ogni uscita, con ogni band che si affaccia nel panorama hard & heavy.
Passata l’ondata che devastò le rive mondiali con il death metal melodico e confermandosi come paradiso dei suoni hard rock, il nord Europa continua a regalare grande musica grazie anche a gruppi meno noti ma dal grande talento come questi The Embodied.
Nato una decina di anni fa in quel di Jönköping (Svezia) il quintetto licenzia, tramite la Pure Legend Records, Ravengod,bellissimo secondo album dopo il debutto omonimo uscito nel 2011.
Già The Embodied aveva fatto drizzare le orecchie a più di un addetto ai lavori, ma Ravengodsupera di gran lunga le aspettative, confermando il gruppo svedese come una delle rivelazioni di questo 2016 con un album di heavy metal fresco, prodotto alla grande e che non disdegna qualche salto nel metal più estremo ma irresistibilmente melodico come da tradizione.
E qui chiaramente sta il bello, la band suona heavy metal, moderno ma ispirato chiaramente a quello classico, irrobustendolo in una miscela esplosiva con mitragliate estreme che si rifanno al death metal melodico, quello vero e che ha dato al genere capolavori epocali firmati In Flames e compagnia vichinga.
Ne esce un lavoro splendido formato da un lotto di brani che alternano furia estrema e metal melodico in egual misura, valorizzato da un singer sontuoso (Marcus Thorell), una coppia d’asce che risulta una macchina di solos melodici da infarto (Chris Melin e Jon Mortensen) ed una sezione oliata come il motore di una formula uno (Agust Ahlberg al basso e Axel Janossy alle pelli). Bleed dà il via alle danze e davvero rimane difficile rimanere impassibili all’alto tasso qualitativo di questo brano, con chorus che si cominciano a canticchiare al primo ascolto, mentre il mood del disco cambia registro e il death melodico prende le redini del sound di Vengeance.
Ed è cosi che si passa da un brano più bello dell’altro, tra richiami illustri e tanta voglia di headbanging fino alla folk ballad Land of the Midnight Sun, non prima di passare dalla stupenda The Exorcist.
Immaginatevi una pazzesca jam tra In Flames, Iron Maiden, Soilwork e Masterplan ed avrete un’idea di cosa suonano questi cinque svedesi, così che Ravengodnon scende da un livello ottimo per tutta la sua durata, impreziosito da brani esaltanti come I Suffocate of Anger, Battle of the Mind e la velocissima Death by Fire.
Gran colpo per la label tedesca, Ravengodrisulta un album quasi perfetto e i The Embodied si candidano come una delle sorprese dell’anno nel genere, non perdeteli per nessun motivo.
TRACKLIST
1. Bleed
2. Vengeance
3. Praetor Sorrow
4. Ravengod
5. The Exorcist
6. Land of the Midnight Sun
7. Awaiting the End
8. I Suffocate of Anger
9. Art of Hunting
10. Battle of the Mind
11. Death by Fire
12. Vallfaerd till Asgaard
LINE-UP
Marcus Thorell – Vocals
Chris Melin – Guitars
Jon Mortensen – Guitars
Agust Ahlberg – Basguitar
Axel Janossy – Drums
Riedizione che unisce in un solo formato le due parti di The House Of Atreus, l’ultima opera di livello assoluto tra quelle pubblicate dai Virgin Steele.
Steamhammer / SPV ha pubblicato a fine maggio la riedizione di The House Of Atreus, la barbaric-romantic epic metal-opera dei Virgin Steele, uscita originariamente in due parti distinte (nel 1999 la prima e nel 2000 la seconda), racchiudendola in un elegante digipack contenente i tre cd.
Al di là dell’opportunità di possedere l’opera condensata in un unico formato, scelta senz’altro consigliabile a chi non avesse già le versioni originali, viene fornita l’occasione per parlare, a diversi anni di distanza, di questo mastodontico lavoro che, in qualche modo, ha creato una sorta di spartiacque nella carriera della band guidata da David DeFeis. The House Of Atreus, infatti, considerato nella sua interezza, mostrava dei Virgin Steele ancora ispirati, allo stesso livello del precedente Invictus, soprattutto nell’Act 1 e nel primo cd dell’Act 2, mentre nel secondo cominciava ad venire meno quella brillantezza compositiva che andrà purtroppo smarrita nei successivi album.
Se nelle prime due ore si susseguivano brani magnifici come Through the Ring of Fire, Flames of the Black Star, Great Sword of Flame, Gate of Kings, Wings of Vengeance,Fire of Ecstasy e The Wine of Violence, alternati a frequenti inserti strumentali che, più di una volta, richiamavano il tema portante dei due Marriage Of Heaven And Hell, il cd conclusivo si snodava senza particolari sussulti (salvo proprio l’iniziale Flames of Thy Power), esibendo tracce belle ma non così incisive come sarebbe stato lecito attendersi da un compositore sopraffino come DeFeis, e mostrando così i prodromi di quanto sarebbe emerso dai dischi pubblicati nel nuovo millennio.
Sempre rispetto ai Marriage (due capolavori in senso assoluto, è bene ribadirlo) ed ad Invictus, un altro aspetto a non convincere del tutto erano dei suoni di tastiera meno efficaci, quasi plastificati rispetto al calore e alla solennità emanata nelle opere citate in precedenza: una pecca non da poco, questa, in quanto faceva perdere molto di quell’afflato epico che De Feis intendeva trasmettere.
Da queste mie righe penso si intuisca quanto io abbia amato questa magnifica band e, di conseguenza, come sia stata mal digerita la “normalità” di album come Visions of Eden, The Black Light Bacchanalia e Nocturnes of Hellfire & Damnation.
Vale la pena, quindi, di soffermarsi su questa riedizione (benché i contenuti “bonus” non siano qualcosa di irrinunciabile) che ci mostra dei Virgin Steele in grado di esaltare con il loro peculiare barbaric romantic metal, grazie un DeFeis ancora capace di alternare al microfono il proprio caratteristico ringhio ad acuti formidabili e ad un Pursino sempre in grado di tessere trame chitarristiche di gran pregio.
Anche se ritengo improbabile che la magnificenza delle opere pubblicate negli anni ’90 possa essere riavvicinata, la speranza è che DeFeis possa ritrovare almeno in parte quella magica ispirazione che non può essere andata del tutto smarrita con il passare degli anni.
Tracklist:
Disc 1
1. Kingdom of the Fearless (The Destruction of Troy)
2. Blaze of Victory (The Watchman’s Song)
3. Through the Ring of Fire
4. Prelude in A minor (The Voyage Home)
5. Death Darkly Closed Their Eyes (The Messenger’s Song)
6. In Triumph or Tragedy
7. Return of the King
8. Flames of the Black Star (The Arrows of Herakles)
9. Narcissus
10. And Hecate Smiled
11. A Song of Prophecy
12. Child of Desolation
13. G Minor Invention (Descent into Death’s Twilight Kingdom)
14. Day of Wrath
15. Great Sword of Flame
16. The Gift of Tantalos
17. Iphigenia in Hades
18. The Fire God
19. Garden of Lamentation
20. Agony and Shame
21. Gate of Kings
22. Via Sacra
Disc 2
1. Wings of Vengeance
2. Hymn to the Gods of Night
3. Fire of Ecstasy
4. The Oracle of Apollo
5. The Voice as Weapon
6. Moira
7. Nemesis
8. The Wine of Violence
9. A Token of My Hatred
10. Summoning the Powers
Disc 3
1. Flames of Thy Power (From Blood They Rise)
2. Arms of Mercury
3. By the Gods
4. Areopagos
5. The Judgment of the Son
6. Hammer the Winds
7. Guilt or Innocence
8. The Fields of Asphodel
9. When the Legends Die
10. Anemone (Withered Hopes… Forsaken)
11. The Waters of Acheron
12. Fantasy and Fugue in D minor (The Death of Orestes)
13. Resurrection Day (The Finale)
14. Gate of Kings (Acoustic Version)
15. Agamennon’s Last Hour
16. Great Sword of Flame (Alternate Version)
17. Prometheus The Fallen One (Re-mix)
18. Flames of Thy Power (From Blood They Rise) (Alternate Mix)
19. Wings of Vengeance (Alternate Mix)
Line-up:
David DeFeis – Vocals, Keyboards, Orchestration, Bass and Guitar Keyboard, Swords, Effects
Edward Pursino – Guitars, Bass
Frank Gilchriest – Drums
Otto brani micidiali e perfettamente bilanciati tra metal, hard rock ed una forte attitudine rock’n’roll.
Questo adrenalinico gioiellino di heavy/hard rock è il debutto dei Snakewine, quartetto tedesco proveniente da Saalfeld che approda con un po’ di ritardo sulle pagine di Iyezine.
Fondato nel 2014, lo scorso anno il gruppo approda al debutto tramite Phonector con questi micidiali otto brani perfettamente bilanciati tra metal, hard rock ed una forte attitudine rock’n’roll.
Tanto groove nelle ritmiche, solos dinamitardi che fanno l’occhiolino tanto allo street metal ottantiano quanto all’hard rock classico ed una verve motorheadinana, che non manca di aggiungere pepe ad un lotto di brani divertentissimi e tremendamente live.
Ed è proprio on stage che il sound del gruppo da il meglio di sé, le songs risultano perfette per un ambito in cui il rock ritrova la sua vera natura, sguaiato, debordante ed irresistibile, aiutato non poco dall’appeal di brani estremamente inyourface.
Registrato, mixato e masterizzato da Niklas Wenzel, Serpent Kings deflagra letteralmente, carico di un forte impatto rock’n’roll, che la voce maschia e graffiante del singer Ronny Konietzko rende aggressivo e perfetto per i fans dell’hard & heavy.
Grande prova della sezione ritmica, un muro di cemento armato hard rock (Sebastian Welsch al basso e Buddha a picchiare come un forsennato sulle pelli del suo drumkit) ed esplosiva risulta la sei corde di Frank Vogel, sanguigna come nel southern blues di cui è rivestita Double Barreled, cattiva e tagliente nei molti assoli dall’impronta metallica.
Non ci sono ballad in Serpent Kings, se volete conquistare la vostra donzella dovrete rivolgervi altrove, qui si brucia di passione, niente romanticismi, accoppiatevi senza freni inibitori al ritmo di The Devil You Know, della Ac/Dc oriented Breathtaker o dalla potentissima Mean Machine.
Motorhead, Ac/Dc, un pizzico di street metal, tanto impatto alla Danko Jones ed il vino di serpente che scenderà nelle vostre gole, vi rendernno dipendenti e non potrete più farne a meno, consigliato senza riserve.
TRACKLIST
1.Breathtaker
2.Son Of a Gun
3.Brood Of Vipers
4.Mean Machine
5.Serpent Kings
6.Double Barreled
7.The Devil You Know
8.Swipwrecked
LINE-UP
Ronny Konietzko-Vocals
Frank Vogel-Guitars
Sebastian Welsch-Bass
Buddha-Drums
Axel Rudi Pell è un punto fermo della nostra musica preferita e Game Of Sins l’ultimo regalo a chi, imperterrito, lo segue dal lontano 1989
Cosa scrivere di un album targato Axel Rudi Pell che non sia già stato detto in occasione dell’uscita dei suoi ben sedici album, in ventisette anni di onorata carriera nel mondo dell’hard & heavy?
Niente di più di quello che poi ne è il reale valore, al netto delle critiche che si possono fare all’axeman tedesco, cioè di ripetere la stessa formula album dopo album, ma d’altronde cosa si può volere di più dal buon Pell se non un altro ennesimo tuffo nelle atmosfere classiche di reminiscenze Rainbow?
Il vero erede di Ritchie Blackmore torna in compagnia del sommo Johnny Gioeli, uno dei singer più sottovalutati dell’intera scena hard rock, ma straordinario interprete del sound epico e nobile del gruppo con il diciassettesimo lavoro, questo epico Game Of Sins.
Contornato da una formazione di super professionisti delle note metalliche come il mastino Bobby Rondinelli alle pelli, l’ex Rough Silk Ferdy Doernberg ai tasti d’avorio e Volker Krawczak al basso, il duo tedesco/statunitense fa spallucce ai detrattori e rifila una serie di brani che ancora una volta risultano un’apoteosi di suoni hard & heavy, ispirati all’arcobaleno più famoso della storia del rock e alla scena ottantiana, una goduria di atmosfere epiche che faranno la gioia dei rockers d’annata.
La sei corde di Pell ovviamente è la protagonista assoluta con riff rocciosi, solos iper melodici e quel taglio blackmoriano che, come detto ha fatto del chitarrista di Bochum il suo più illustre erede, fuori dal neoclassicismo debordante e molto spesso noioso di Malmsteen e funzionale al songwriting dei vari album che, con poche negative eccezioni, hanno contribuito alla storia del genere.
Non si può fare a meno di notare l’ottima prova di un Gioeli sempre più coinvolto nella musica del gruppo, interpretativo, melodico e sempre più a suo agio nel rinverdire i fasti di Ronnie James Dio, mentre la raccolta di brani che formano la track list di Games Of Sins non hanno cedimenti, almeno fino alla conclusiva cover di All Along The Watchtower, brano famoso dalle versioni di Hendrix, Bob Dylan ed U2, ma troppo lontano dalle corde della band tedesca.
Niente di male: l’epica title track, la metallica e debordante Fire, la ruvida Sons Of The Night e la stupenda The King Of Fools impreziosiscono questo ottimo lavoro, l’ennesima prova sopra le righe di un musicista che, se per molti pecca di originalità, lascia sul campo i cadaveri di molti giovani gruppi dediti all’hard & heavy vecchia scuola. Axel Rudi Pell è un punto fermo della nostra musica preferita e Game Of Sins l’ultimo regalo a chi, imperterrito, lo segue dal lontano 1989; per i vecchi fans un lavoro imperdibile, anche se lo consiglio pure ai giovani metallari dai gusti classici, magari accompagnandolo all’ascolto dei lavori precedenti.
TRACKLIST
01. Lenta Fortuna (Intro)
02. Fire
03. Sons In The Night
04. Game Of Sins
05. Falling Star
06. Lost In Love
07. The King Of Fools
08. Till The World Says Goodbye
09. Breaking The Rules
10. Forever Free
11. All Along The Watchtower (Bonus Track)*
LINE-UP
Axel Rudi Pell – Guitar
Johnny Gioeli – Vocals
Ferdy Doernberg – Keyboards
Volker Krawczak – Bass
Bobby Rondinelli – Drums
Vi consiglio di non lasciarvi sfuggire Non Serviam e cominciare a riempire il vostro salvadanaio, non potrete che rifarvi del tempo perduto e far vostra tutta la discografia di questi guerrieri dello speed metal.
Tornano gli storici speed metallers transalpini ADX con questa bomba metallica dal titolo Non Serviam mettendo in fila, nel genere, un gran numero di gruppi più famosi, almeno se guardiamo a questa prima metà dell’anno.
Una band arrivata al decimo lavoro sulla lunga distanza, attiva dai primi anni ottanta e con una reputazione che non ha conosciuto cedimenti, almeno a livello underground: considerato come una delle band leader della scena speed/power europea, il combo parigino non ha mai trovato il successo che meritava, forse l’uso della madre lingua, forse la componente fortuna che in questi casi è fondamentale, fatto sta che molti non conoscono questa entusiasmante realtà del metal classico europeo, da anni sul mercato senza sbagliare un colpo, vena confermata da questo spettacolare nuovo lavoro.
Non Serviam si compone di undici brani, da tradizione cantati alla grande dal bravissimo singer Phil Grelaud, un animale metallico dal carisma stratosferico e suonati con una compattezza strabiliante valorizzata da una produzione perfetta, anche se si tratta di metal old school.
Metal old school, infatti, non vuol dire produzione deficitaria a tutti i costi, come molto spesso capita di ascoltare su produzioni del genere anche licenziate da label importanti, e Non Serviam letteralmente esplode grazie ad un gran lavoro dietro la consolle che permette di gustare le tremende accelerazioni e gli intrecci chitarristici di cui si compongono queste undici mazzate speed/power che non mancano di regalare tanta melodia, perfettamente incastonata nel sound pieno e ridondante del gruppo francese.
Una macchina da guerra metallica, questi sono gli ADX del 2016, ancora dopo più di trent’anni in grado di esaltare con un’apoteosi di suoni metallici, dal taglio classico ma perfettamente inseriti nel genere in questi primi anni del nuovo millennio.
Ritmiche velocissime, solos che fulminano, un lavoro d’insieme che lascia a bocca aperta ed un songwriting al top fanno di questo lavoro un monumento al genere; impossibile resistere, il sound del gruppo vi travolgerà con ritmiche potentissime ma dall’appeal immenso, drammatico e a tratti epico fino al midollo, spingendo via in malo modo almeno una bella fetta dei lavori usciti negli ultimi tempi, specialmente quelli dei gruppi storici.
Non vi sto ad elencare i brani che più risaltano nel contesto dell’album perché la qualità è talmente alta da lasciare senza fiato per tutta la sua durata, vi consiglio solo di non lasciarvi sfuggire Non Serviame cominciare a riempire il vostro salvadanaio, non potrete che rifarvi del tempo perduto e far vostra tutta la discografia di questi guerrieri dello speed metal.
TRACKLIST
1. L’aube noire
2. La mort en face
3. La complainte du demeter
4. B-17 phantom
5. Non serviam
6. Les oubliés
7. L’irlandaise
8. L’egnime sacrée
9. Cosaques
10. La Furie
11. Theâtre de sang
Hammer Damage rimane un lavoro per i fans accaniti del gruppo, agli altri si consiglia sicuramente un ascolto delle opere ottantiane, punto di forza della discografia degli Omen.
La Pure Steel continua la sua missione incentrata sul recuperare molte delle realtà storiche del metal classico in giro per il mondo, alcune sconosciute se non si è stati fan accaniti dei suoni metallici degli anni ottanta, altre con un’aura di mito che le ha accompagnate nel nuovo millennio, conquistate con album che sono diventati classici per ogni amante del genere che si rispetti.
Mancavano gli storici power metallers statunitensi Omen all’appello e dopo varie vicissitudini e molti ritardi, il nuovo lavoro vede la luce per l’etichetta tedesca.
Un gruppo storico che con i primi lavori targati anni ottanta ha contribuito non poco alla causa dell’U.S. metal, specialmente con i primi tre album divenuti delle pietre miliari del genere come Battle Cry , esplosivo album di debutto del 1984, il successore Warning Of Danger del 1985 e The Curse uscito l’anno dopo.
Poi alti e bassi e molte compilation fino al 2003 ed al ritorno discografico con Eternal Back Down, seguito dopo tredici anni da questo Hammer Damage, un lavoro che accontenterà sufficientemente i fans del gruppo, ma che lascia anche qualche perplessità.
Tornato al fianco del leader Kenny Powell lo storico batterista Steve Wittig e confermati Kevin Goocher al microfono ed Andy Haas al basso, gli Omen licenziano un lavoro chiaramente improntato sul metal americano di matrice old school, dunque ogni cliché del genere fa bella mostra di sé: riff scolpiti nell’acciaio, ritmiche e mid tempo tra l’heavy ed il power e flavour oscuro ed epico come da tradizione, ma Hammer Damagedelude per una produzione troppo deficitaria e per qualche canzone non riuscita alla perfezione.
L’esplosivo sound che ha reso famoso il gruppo detona a tratti, l’epicità è ancora l’arma più letale del gruppo, mentre le tracce faticano a decollare, anche se le cavalcate metalliche non mancano ed il talento di Powell alla sei corde è ancora intatto.
La voce ruvida del vocalist accompagna con buona grinta il mood battagliero del disco, anche se manca il classico riff che rimane in testa, lasciando che Hammer Damage passi senza lasciare particolari tracce. Chaco Canyon (Sun Dagger), Caligula e la semiballad Eulogy For A Warrior risultano i brani più riusciti dell’album, mentre il resto viene poco valorizzato dalla produzione e da un songwriting appena sufficiente per un gruppo di tale livello. Hammer Damagerimane quindi un lavoro per i fans accaniti del gruppo, agli altri si consiglia sicuramente un ascolto delle opere ottantiane, punto di forza della discografia degli Omen.
TRACKLIST
1. Hammer Damage
2. Chaco Canyon (Sun Dagger)
3. Cry Havoc
4. Eulogy For A Warrior
5. Knights
6. Hellas
7. Caligula
8. Era Of Crisis
9. A.F.U.
LINE-UP
Kevin Goocher – vocals
Kenny Powell – guitar
Andy Haas – bass
Steve Wittig – drums
Dopo una vita passata a suonare heavy metal, massimo rispetto per gli Zarpa da tutti i veri fans di queste vecchie e gloriose sonorità, che rappresentano un buon motivo per ascoltare Dispuestos Para Atacar.
Per chi non si avventura nei meandri del metal underground , le band spagnole che suonano heavy metal classico si contano sulle dita di una mano, se poi si guarda ai gruppi che usano per i loro testi la lingua madre la lista si restringe a due o tre nomi, eppure anche la nazione iberica possiede una lunga tradizione metallica anch’essa proveniente dagli anni ottanta, se si parla di heavy metal, ma che arriva più che in salute se lo sguardo si rivolge ai suoni power ed al metal estremo.
Gli Zarpa sono una delle band storiche del panorama metallico spagnolo ed una delle più longeve, con una numerosa discografia che conta molti album anche nel nuovo millennio.
Nato sul finire degli anni settanta a Valencia, il gruppo arriva al diciassettesimo full length, senza contare i numerosi live, di cui almeno nove negli ultimi quattro anni.
Degli stakanovisti dell’heavy metal dunque questi quattro vecchietti, guerrieri indomabili e fieri portatori del verbo metallico da oltre trent’anni e che con il nuovo album confermano la loro incrollabile fede nella new wave of british heavy metal.
Old school, Dispuestos Para Atacar non si può che definire così, un heavy metal album che ripercorre le gesta degli Iron Maiden, gruppo a cui gli Zarpa sono facilmente accostabili.
L’album per i fans del metal classico può senz’altro rappresentare un ottimo ascolto, colmo di cavalcate in crescendo, grinta heavy e quel flavour epico ben incastonato nel sound del gruppo valenciano, valorizzato da una produzione che mantiene l’atmosfera old school senza perdere punti in qualità. Dispuestos Para Atacar affonda le sue radici nella fierezza della musica dura, le chitarre scintillano nella notte buia, la sezione ritmica granitica e le vocals pregne di epico orgoglio rendono l’ascolto un tuffo nel puro heavy metal ; il cantato in lingua madre non inficia il buon risultato di epici brani dal taglio maideniano come Tropas del bien y del mal, Corazón eléctrico, Vivir con honor e la conclusiva Ecos Del Fin.
Dopo una vita passata a suonare heavy metal, massimo rispetto per gli Zarpa da tutti i veri fans di queste vecchie e gloriose sonorità, che rappresentano un buon motivo per ascoltare Dispuestos Para Atacar.
TRACKLIST
1. Tropas del bien y del mal
2. Yo quiero más
3. Un peregrino soy
4. Corazón eléctrico
5. Buscando un nuevo mundo
6. Un perfecto plan
7. Soldados de la fe
8. Dispuesto para atacar
9. Vivir con honor
10. El reverendo Judas
11. Ecos del fin