Fister & Chrch – Split

La Crown and Throne Ltd pubblica questo notevole split album a tutto sludge, che vede quali protagoniste due band statunitensi, i Fister ed i Chrch.

La Crown and Throne Ltd, label di Denver, pubblica questo notevole split album a tutto sludge, che vede quali protagoniste due band statunitensi, i Fister ed i Chrch.

I Fister sono in circolazione già da diverso tempo ed hanno una discografia molto ricca con all’attivo tre full length ed almeno una decina di uscite più brevi; in questo brano intitolato The Ditch, il trio di St.Louis inizia senza fare sconti sparando un primo terzo piuttosto feroce ed ossessivo, per poi aprirsi leggermente e placarsi ulteriormente indulgendo in rarefatti arpeggi: la combinazione appare efficace, nonostante lo schema sia ripetuto nell’arco della durata della traccia (venti minuti) con una certa puntualità, in virtù di un’intensità che, specialmente nei momenti più robusti, appare in grado di fare la differenza.
I Chrch (non ci siamo dimenticati una u, ma è la band che ha deciso di eliminarla dal proprio monicker da un paio d’anni) arrivano da Sacramento e rispetto ai compagni di split sono decisamente meno prolifici ma anche autori di uno sludge che propende molto più verso il funeral, riuscendo a colpire in virtù di un sound maggiormente elaborato ed impattante emotivamente; i sedici minuti di un brano come Temples costituiscono una prova di forza notevole ed il suo incedere a tratti dolente, a volte colmo di cupa e rabbiosa disperazione, punteggiato da uno screaming femminile lacerante, ci offre la sensazione d’essere al cospetto di una realtà di livello potenzialmente superiore alla media e, a tale proposito, questo occasione si rivela un buon pretesto per recuperare quanto prima il full length Unanswered Hymns, uscito nel 2015.
Lo split album in questione assolve alla perfezione al proprio compito, quello di portare alla luce gruppi di sicuro spessore ma che, a causa dell’affollamento che ormai è comune ad ogni genere, anche quelli dai connotati maggiormente underground, faticano a mettersi in evidenza al di fuori di delle aree geografiche d’appartenenza.

Tracklist:
1. Chrch – Temples
2. Fister – The Ditch

Line-up:
Fister
Kirk Gatterer – Drums
Marcus Newstead – Vocals (additional), Guitars
Kenny Snarzyk – Vocals (lead), Bass

Chrch
Ben – Bass
Shann – Guitars
Chris – Guitars, Vocals (backing)
Eva – Vocals
Adam – Drums

FISTER – Facebook

CHRCH – Facebook

Spirit Adrift – Curse Of Conception

Non mancano buoni spunti che fanno dell’album un ascolto da consigliare agli amanti del doom metal tradizionale, che verranno ipnotizzati dal piglio evocativo della voce, un classico nel genere.

Nati due anni fa come one man band del polistrumentista Nate Garret, poi raggiunto da altri tre musicisti (Jeff Owens, Chase Mason, Marcus Bryant), gli statunitensi Spirit Adrift licenziano il loro secondo lavoro sulla lunga distanza e completano una discografia che vedono la band protagonista anche di un ep ed uno split in appena due anni.

Tanta carne al fuoco non inficia una sufficiente qualità e Curse Of Conception si rivela un altro album di doom metal tradizionale ispirato in parti uguali agli anni settanta come ai sacerdoti metallici emersi nei successivi decenni.
Quindi, oltre ad un’aura a tratti epica, troverete ottimi solos heavy, ritmiche grasse e un andamento mai troppo lento, pesante ma regolato su mid tempo alla Cathedral di Carnival Bizarre.
I Black Sabbath sono assolutamente la fonte di ispirazione del sound del gruppo, così come appunto la band di Lee Dorrian e quelle americane con a capo il duo Pentagram/Trouble, questo in poche parole è quello che ci offre il polistrumentista di Phoenix.
Piuttosto derivativo, dunque, anche se non mancano buoni spunti che fanno dell’album un ascolto da consigliare agli amanti del doom metal tradizionale, che verranno ipnotizzati dal piglio evocativo della voce, un classico nel genere.
L’opener Earthbound e la title track sono le tracce rappresentative di questo album che, con il passare del tempo, perde un po’ d’interesse per una certa ripetitività, forse il difetto più grande che si porta dietro.
Un album di genere per gli amanti del genere niente di più, niente di meno.

Tracklist
1. Earthbound
2. Curse Of Conception
3. To Fly On Broken Wings
4. Starless Age (Enshrined)
5. Graveside Invocation
6. Spectral Savior
7. Wakien
8. Onward, Inward

Line-up
Nate Garrett
Jeff Owens
Chase Mason
Marcus Bryant

SPIRIT ADRIFT – Facebook

Deinonychus – Ode To Acts Of Murder, Dystopia And Suicide

Il black doom dalle forti venature depressive dei Deinonychus torna ad inquietarci, sempre sotto l’egida della My Kingdom Music.

Dopo dieci anni di silenzio ritornano i Deinonychus , band che è di fatto il progetto solista del musicista olandese Marco Kehren, giunto con Ode To Acts Of Murder, Dystopia And Suicide all’ottavo full length in un quarto di secolo di attività.

Il black doom dalle forti venature depressive torna ad inquietarci, sempre sotto l’egida della My Kingdom: nell’occasione Kehren chiama a coadiuvarlo il batterista Steve Wolz (con il quale ha in comune la passata militanza nei Bethlehem) e Markus Stock che, oltre a contribuire con le proprie tastiere, ha curato anche la la registrazione dell’album.
Con la tavola apparecchiata per l’ottenimento di un risultato importante, Ode To Acts Of Murder, Dystopia And Suicide non delude le attese: le vocals disperate su stagliano su una forma di black ragionata, spesso caratterizzata da momenti più rarefatti ed evocativi nei quali lo screamjng di Kehren diviene quasi un recitato dai toni laceranti (Dead Horse).
La differenza tra l’essere impattante emotivamente e lo scadere nel grottesco sta tutta nella credibilità del nome Deinonychus e, conseguentemente, dei musicisti che hanno lavorato alla realizzazione dell’album; Ode To Acts Of Murder, Dystopia And Suicide non cala mai in intensità, piaccia o meno l’enfasi con la quale il malessere esistenziale viene veicolato, e francamente non resta nulla di diverso da chiedere a questo ritorno se non quello di rammentarci con forza quanto sia caduca la nostra vita e fragile la nostra psiche.
In copertina, la figura stilizzata in un’oscurità quasi totale cammina sui binari in attesa, forse, di un’inevitabile fine, ma può anche rappresentare una strada obbligata della quale non si conosce né la meta né il tempo necessario per raggiungerla.
Quest’ultimo lavoro segna il ritorno di un musicista ispirato e, se qualcuno dicesse nutrisse dei dubbi, ascolti con attenzione e predisposizione questi tre quarti d’ora di musica, sui quali si staglia il drammatico doom black di For This I Silence You, traccia che spinge ai massimi livelli il senso di alienazione dalla realtà e picco di una tracklist, comunque, complessivamente inattaccabile sotto ogni aspetto.

Tracklist:
1. Life Taker
2. For This I Silence You
3. The Weak Have Taken The Earth
4. Buried Under The Frangipanis
5. Dead Horse
6. Dusk
7. There Is No Eden
8. Silhouette

Line-up:
Marco Kehren – guitars, bass and vocals

Steve Wolz – drums
Markus Stock – keyboards

DEINONYCHUS – Facebook

Hooded Priest – The Hour Be None

Gli Hooded Priest fanno un suono che piacerà moltissimo agli amanti del doom più classico, underground e cavernoso, quelle persone che frequentano locali bui per vedere concerti dal volume altissimo.

Dal 2006 gli olandesi Hooded Priest fanno calare il suono della falce mortale sulle lande fiamminghe e ben oltre.

Dopo diversi cambi di formazione, tanti concerti e la scrittura di nuovo materiale ecco il nuovo disco per l’etichetta svedese I Hate: tra i migliori esponenti della scena del nord Europa e con alle spalle un’intensa attività live, gli Hooded Priest sono una delle band seminali per la scena doom olandese, in virtù di caratteristiche che li rendono unici. La prima peculiarità che si nota è il cantato molto teatrale di Luther Finlay Veldmark, e la sua presenza scenica che lo fa apparire come uno stregone sciamano che fa da medium fra noi ed un altro mondo, sicuramente più tremendo del nostro. La musica degli Hooded Priest è un doom classico con forti influenze heavy, molto simile ai primi Candlemass, ma con riff maggiormente veloci, inoltre troviamo notevoli intarsi di tastiera che rendono il tutto ancora più doom. La qualità del disco è alta, come tutte le produzioni di questo gruppo che cura molto la propria narrazione musicale: ascoltando The Hour Be None il tempo scorre in maniera diversa, e si allargano le pozze di sangue sotto le nostre ferite, si aprono lentamente i sarcofaghi ma i morti ci prendono velocemente. L’atmosfera è lenta ma il gruppo imprime al suo suono alcune notevoli accelerazioni di stampo heavy, sempre con
attitudine doom. Gli Hooded Priest fanno un suono che piacerà moltissimo agli amanti del doom più classico, underground e cavernoso, quelle persone che frequentano locali bui per vedere concerti dal volume altissimo, da Malta all’Irlanda, perché è una scena davvero internazionale e radicata, seppure non conti grandi numeri. Ascoltando questo disco capirete cosa è il doom underground, e se non vi interessa nessun problema, tanto tutti diventeremo cenere.

Tracklist
1.Dolen – Exiting the Real
2.Call for the Hearse
3.These Skies Must Break
4.Herod Again
5.Locust Reaper
6.Mother of Plagues

Line-up
Luther Finlay Veldmark – Vocals
Jeff von D – Guitar
Joe Mazurewicz – Bass
Quornelius Backus – Drums

HOODED PRIEST – Facebook

Bell Witch – Mirror Reaper

Opera magnifica intrisa di dolore, disperazione e desolazione.

La prova del terzo disco è sempre un esame difficile per molte band e gli statunitensi di Seattle, Bell Witch, vi giungono con l’animo colmo di disperazione e dolore dopo la dipartita del drummer e vocalist Adrian Guerra, avvenuta nel 2016.

La band, da sempre un duo, è attiva dal 2011 con l’omonimo demo e ha sempre proposto un personale e peculiare funeral doom molto intenso incentrato sul suono del basso suonato da Dylan Desmond, ora accompagnato da Jesse Shreibman alla batteria; chi ha seguito la loro carriera musicale avrà apprezzato le grandi capacità compositive e la grande inventiva riversata nei precedenti due dischi (Longing del 2012 e Four Phantoms del 2015), dove il suono del basso magistralmente suonato riempie totalmente gli spazi e crea lunghi brani molto affascinanti. Ora questo monumentale Mirror Reaper sposta il loro concetto di suono sondando ulteriori orizzonti; due brani, As Above e So Below per un totale di circa 84 minuti di musica, dall’alto contenuto emotivo, dove i temi trattati riguardano la vita e la morte, la desolazione e la disperazione. I paesaggi creati dai due musicisti rappresentano il dolore opprimente che pervade la loro anima lacerata dalla perdita del collega e amico. Non è un disco difficile, non ha nulla di sperimentale o avanguardistico, ma ha bisogno di tempo per entrare sottopelle, per invadere l’animo con la sua essenza spirituale. Il suono si dipana lento, introspettivo, meditativo con il basso che disegna poche note angosciose e opprimenti, con un’alternanza di pieni e vuoti sapientemente condotta. La prima parte dell’opera As Above si sviluppa come un ricordo di note che si alternano e si spengono una dietro l’altra in mezzo a una nebbia plumbea, dove non esiste una meta certa perché’ tutto si è interrotto in mezzo a dolenti lamenti; la tristezza è tangibile, si aprono varchi in altre dimensioni spirituali come specchi riflettenti un io diverso. Suoni di organo in sottofondo (novità per la band) diffondono strati di sofferenza e vuoto incolmabile caricando il viaggio di tensione e passione. Qui si evidenzia l’essenza del puro suono doom dove tutto si muove ma nel contempo appare immoto, dove tutto procede lentamente ma rimane carico di tensione; l’alternanza di growl e clean vocals, molto presenti nella seconda parte So Below, la presenza di alcuni chorus mantengono alta la tensione rendendo tutto oltremodo interessante, gli arabeschi del basso che germoglia poche lunghe note suonate col cuore, sviluppano una esperienza unica nel funeral doom. Il duo può ricordare a tratti gli Skeptcism o gli Shape of Despair per la capacità di aprire nella mente scenari e paesaggi di enorme desolazione ma la capacità di riuscire a farlo con una cosi parca strumentazione è unica. In definitiva un’ opera magnifica impreziosita da una mirabile e suggestiva cover dell’artista polacco Mariusz Lewandowski.

Tracklist
1.Mirror Reaper (As Above)
2.Mirror Reaper (So Below)

Line-up
Dylan Desmond Bass, Vocals
Jesse Shreibman Drums, Vocals, Organ

BELL WITCH – Facebook

Shrine Of The Serpent / Black Urn – Shrine Of The Serpent / Black Urn

Lo split album favorisce la scoperta di una band di notevole solidità come gli Shrine Of The Serpent, perché i quasi venti minuti di musica inedita offerti lasciano davvero un ottima impressione, mentre per i Black Urn, aldilà della cover degli AIC, si può comunque intuire un potenziale ugualmente interessante.

Altro giro, altro regalo, altro split album.

La label polacca Godz Ov War Productions ha immesso sul mercato la versione in CD di questo lavoro che vede all’opera con due brani ciascuno le band statunitensi Shrine Of The Serpent e Black Urn; per amore di precisione va aggiunto che il lavoro è stato contemporaneamente edito in formato musicassetta dalla Caligari Records.
Gli Shrine Of The Serpent provengono da Portland e questa è la loro seconda uscita dopo l’ep omonimo del 2015: la band evidentemente si sta prendendo tutto il tempo necessario prima di fare il passo del full length, ma la strada intrapresa, benché lenta come la loro musica, pare rivelarsi quella giusta visto che il doom death catacombale esibito nelle monolitiche Desicrated Tomb e Catacombs of Flesh è molto vicino, per indole ed approccio, a quello di un album seminale per il genere come Foresto Of Equlibrium dei Cathedral, il tutto rivisto scremato dalla componente psichedelica. Ciò che viene offerto è un sound dal grande impatto e di altrettanta qualità, inclusa una produzione del tutto all’altezza della situazione.
I Black Urn arrivano invece da Philadelphia, hanno una storia non dissimile da quelle dei compagni di split sia per anzianità di servizio che di fatturato discografico, ed appaiono fin dalle prime note di Catacombs of Flesh propensi ad uno stile più vario, con un’alternanza ritmica marcata a fronte di un’incisività appena inferiore; il colpaccio però questi ragazzi lo piazzano con una micidiale cover di Junkhead, brano degli immensi Alice In Chains che si presta in maniera naturale ad una “doomizzazione” aspra ma che ne mantiene intatte le principali caratteristiche (a parte lo screming furioso che, rimpiazzando la magia vocale di Layne Staley, inevitabilmente può risultare spiazzante).
A livello di consuntivo resta sicuramente la scoperta di una band di notevole solidità come gli Shrine Of The Serpent, perché i quasi venti minuti di musica inedita offerti lasciano davvero un ottima impressione, mentre per i Black Urn, aldilà della citata cover, si può comunque intuire un potenziale ugualmente interessante.

Tracklist:
Side A
1. Shrine of the Serpent – Desicrated Tomb
2. Shrine of the Serpent – Catacombs of Flesh
Side B
3. Black Urn – My Strength Is Within Heavenless Plains
4. Black Urn – Junkhead

Line-up:
Shrine Of The Serpent
Todd Janeczek – Guitars, Vocals
Chuck Watkins – Drums
Adam DePrez – Guitars, Bass

Black Urn
Alex Onderdonk – Bass
Tim Lewis – Drums
Jordan Pierce – Guitars
Ryan Manley – Guitars, Vocals
John Jones – Vocals

SHRINE OF THE SERPENT – Facebook

BLACK URN – Facebook

Luna – Swallow Me Leaden Sky

Swallow Me Leaden Sky regala quasi tre quarti d’ora di buon funeral death doom atmosferico, che ben difficilmente non farà breccia negli estimatori del genere.

Su quest’ultimo lavoro della one man band ucraina Luna avei potuto più o meno fare un copia incolla di quanto scritto nelle precedenti occasioni: DeMort, titolare del progetto, continua imperterrito a sfornare un buon funeral doom atmosferico interamente strumentale e che trae ispirazione in maniera piuttosto marcata dal sound degli Ea, anche se Swallow Me Leaden Sky mostra una progressione importante, se non dal punto di vista dall’originalità, sicuramente da quello prettamente qualitativo.

D’altronde, come già detto parlando di Ashes to Ashes e On the Other Side of Life, i due full length usciti rispettivamente nel 2014 e nel 2015, il rifarsi al sound tipico della misteriosa band americana non è certo da considerarsi deprecabile, specialmente se si apprezza in toto questa espressione musicale che qui viene riproposta con competenza e buona ispirazione.
Il permanere della struttura interamente strumentale resta pur sempre un limite, anche se forse in questo genere lo è meno che in altri; d’altro canto, però, in questo ultimo lavoro, non si può fare a meno di notare che alcuni degli elementi di discontinuità inseriti nel bellissimo ep There Is No Tomorrow Gone Beyond Sorrow Under a Sheltering Mask, uscito a cavallo tra i primi due full length, vengono ripresi dal musicista ucraino riuscendo cosi a conferire al tutto un’aura più drammatica e solenne, specialmente nella seconda delle due lunghe tracce, la title track. E’ proprio qui che il sound acquista parecchi punti in personalità e profondità rispetto al pur buono brano iniziale Everything Becomes Dust, con l’aggiunta di una sorta di vocalizzo campionato che si fa gradevolmente ossessivo nella seconda metà della traccia: la chitarra diviene finalmente protagonista soppiantando le tastiere nel ruolo preponderante assunto fino ad allora, spostando il tutto su un piano più cosmico affine a quello dei Monolithe, altra importante fonte di ispirazione per la musica marchiata Luna.
Grazie a questo l’operato di DeMort acquista quello spessore che era mancato talvolta nei lavori precedenti, assurgendo ad una forma decisamente compiuta e ben diversa da quella di buon surrogato del già esistente, definizione che sembrava essere fino ad oggi quella più calzante per la one man band di Kiev.
Swallow Me Leaden Sky regala così quasi tre quarti d’ora di buon funeral death doom atmosferico, che ben difficilmente non farà breccia negli estimatori del genere.

Tracklist:
1.Everything Becomes Dust
2.Swallow Me Leaden Sky

Line-up
DeMort

Black Capricorn – Omega

Un ottimo lavoro tutto italiano per un ascolto doom che vale la pena di fare. Sporco quanto basta, estroverso ma controllato, il disco è un salutare tuffo in immaginari non scontati.

Pronti? Anche qualora non lo foste, i Black Capricorn hanno le idee più chiare che mai sul loro intento in questo nuovo disco, Omega.

La band sarda ha già degli ottimi trascorsi alle spalle, e non si lascia intimidire dalla sperimentazione, essendo cosciente dei propri mezzi.
È un doom sempre di ottimo livello il loro, e con questo ultimo album decidono di guardare verso una direzione più rituale e mistica rispetto, per esempio, ad un disco molto deciso e dirompente come Cult of Black Friars (2014).
C’è un sentore di solennità già dalle prime note, ovvero l’intro, che ci accompagna dentro il loro mondo inesplorato con tanta curiosità ma anche con un leggero timore. Il cantato risulta sempre evocativo e pregnante con il contesto per tutta la durata dell’ascolto, e su questo certamente non avevamo dubbi da parte di una band con parecchia esperienza e consapevolezza.
La loro scelta stilistica per questo album non abbandona però le classiche e immancabili schitarrate senza pietà che caratterizzano questo supremo genere. I Black Capricorn cercano un equilibrio tra queste due componenti, forse tenendo ben presente in testa l’immagine dei colossi Candlemass. Il brano Antartide, il più lungo di tutto l’album, intrappola un minaccioso torpore tra due estremi, all’inizio e alla fine della canzone, in cui invece sembra venirci concessa una pausa di riflessione, la quale, ovviamente, non si realizza mai del tutto.
Questa band italiana fa esattamente il proprio dovere, il che forse è uno dei limiti di questo disco, dal sound molto diretto anche se non molto elaborato. Se questo è un ottimo pregio è anche vero che, a tratti, l’impatto sonoro sembra accontentarsi e adagiarsi su alcuni standard musicali.
Tuttavia questa band conferma tutta la sua esperienza, competenza e conoscenza dei propri mezzi. Non c’è alcun dubbio che ne vedremo ancora delle belle.

Tracklist
1. Alpha
2. Evil Horde of Lucifer
3. Accabadora
4. Flower of Revelation
5. Antartide
6. Black Capricorn’ seal
7. Devil and the Death
8. The man who dared
9. Stars of Orion
10. Quest for Agartha
11. Omega

Line-up
Virginia – Bass
Rakela – Drums
Kjxu – Guitars (rhythm), Vocals

BLACK CAPRIORN – Facebook

Black Hole – Evil In The Dark

Evil In The Dark è un album che va lavorato non poco per apprezzarne il sound fuori dai consueti schemi: un’opera di un’originalità unica, oscura e a tratti opprimente, destinata a lasciare il segno.

I veronesi Black Hole fanno parte di quella eletta schiera di band provenienti dagli anni ottanta che si possono sicuramente considerare di culto.

Il leggendario primo album, uscito nel 1985, è ancora oggi considerato uno dei lavori più oscuri mai usciti, non solo nella nostra penisola, così come un’aura misteriosa ha sempre accompagnato il leader Robert Measles, polistrumentista, personaggio schivo e fuori dai consueti circuiti che accomunano gran parte dei musicisti.
Il loro ultimo lavoro targato 2000 non era altro che una raccolta di registrazioni datate 1988/89, poi ancora silenzio prima che l’Andromeda Relix arrivasse a licenziare Evil In The Dark, opera che raccoglie vecchie sessioni dei primi anni novanta e nuove tracce.
Detto che la formazione dei Black Hole comprende Robert Measles, alle prese con voce, tastiere e drum machine, il chitarrista Michael Sinnicus ed il batterista Robin Hell, che compare su tre tracce, ci inoltriamo tra le trame occulte ed esoteriche di questa mastodontica opera oscura intitolata Evil In The Dark e nella sua alternanza di parti doom metal, dark e new wave anni ottanta, unite a sprazzi di progressive dark rock.
Un album di difficile catalogazione, un ascolto assolutamente affascinante ma dannatamente ostico, almeno per i canoni odierni; la musica dei Black Hole, infatti, è fortemente legata ad un concetto apocalittico, a tratti da colonna sonora, in altri momenti legata da un filo di spine alla musica elettronica e alla dark wave meno commerciale, cosa che si evince specialmente nelle due parti di X Files, cuore di questo lungo viaggio in quello che è, nella sua interezza, un peregrinare tra la parte più oscura di questo drammatico nuovo millennio.
Non fatevi ingannare dall’artwork : il cimitero sconsacrato, le croci rovesciate sulle tombe, i tre loschi figuri incappucciati con le asce sporche di sangue e l’oscura fortezza sul retro non vi porteranno tra facili storielle fantasy, ma toccherete con mano la terribile paura dell’occulto e della morte, del mistero e di un futuro incerto con le fredde tastiere dal suono che si insinuerà nella vostra testa come un diabolico serpente.
Evil In The Dark è un album che va lavorato non poco per apprezzarne il sound fuori dai consueti schemi: un’opera di un’originalità unica, oscura e a tratti opprimente, destinata a lasciare il segno.

Tracklist
1.Evil in the Dark
2.Alien Woman
3.Holy Grail
4.Octopus Tenebricus
5.The Way of Unwitting
6.Astral World
7.X Files
8.X Files Part II
9.Inferi Domine
10.Dangerous Beings
11.Nightmare
12.The Final death

Line-up
Robert Measles – All instruments
Michael Sinnicus – Guitars
Robin Hell – Drums

BLACK HOLE – Facebook

Purple Hill Witch – Celestial Cemetery

Il sound proposto dal gruppo è un doom metal classico, spogliato su questo lavoro dai pochi elementi stoner presenti sul precedente e più orientato alla psichedelia, tra Black Sabbath, Pentagram e Hawkwind.

I Purple Hill Witch sono un trio norvegese attivo dal 2010 e Celestial Cemetery è il loro secondo full length, licenziato dalla The Church Within Records e successore del debutto omonimo di tre anni fa.

Il sound proposto dal gruppo è un doom metal classico, spogliato su questo lavoro dai pochi elementi stoner presenti sul precedente e più orientato alla psichedelia, tra Black Sabbath, Pentagram e Hawkwind.
Una quarantina di minuti viaggiando dentro ad allucinanti storie di streghe, sinistri paesaggi medievali e terre oscure, un lento inoltrarsi in riti secolari con il tempo battuto da un basso pulsante, mentre la sei corde vola tra nuvoloni tempestosi, cieli oscurati dal terrore, mentre la liturgia metallica impartisce sfumature retrò, mistiche ed occulte.
Ghouls In Leather apre le danze, monumentali riff si scontrano con le atmosfere psycho rock di cui il sound dei Purple Hill Witch è pregno, mentre la title track è strutturata su un andamento più classicamente sabbathiano, con la voce che mantiene il tono evocativo classico del genere.
Around The Universe e la conclusiva Burnt Offerings confermano la devozione del trio per il sound dei gruppi citati in precedenza, non smuovendosi di un centimetro dal muro sonoro dei primi brani ed arrivando al termine senza grossi cedimenti ma neppure sorprese.

Tracklist
1. Ghouls in Leather
2. Harbinger of Death
3. Celestial Cemetery
4. Around the Universe
5. Menticide
6. The First Encounter
7. Burnt Offering

Line-up
Kristian – Guitar & Vocals
Andreas – Bass
Øyvind – Drums

PURPLE HILL WITCH – Facebook

Руины вечности – Будни войны

l’operato del gruppo siberiano si colloca ben al di sopra della sufficienza ma si rivela la classica messa in scena dei dettami di base di un genere, con l’inserimento di tutti gli ingredienti necessari senza che appaiano mai davvero coesi tra loro.

In un scena death doom russa davvero fiorente, il full length d’esordio di questa band di Krasnoyarsk chiamata Руины вечности (Ruins Of Eternity), corre il serio rischio di finire in secondo piano.

Questo non deriva del tutto dal valore di un album come Будни войны (The Whispers of Forgotten Hills), tutt’altro che riprovevole, bensì dal fatto che la concorrenza, anche interna, è forte e qualificata; l’operato del gruppo siberiano si colloca ben al di sopra della sufficienza ma si rivela la classica messa in scena dei dettami di base di un genere, con l’inserimento di tutti gli ingredienti necessari senza che appaiano mai davvero coesi tra loro.
Così succede che il violino, elemento sempre peculiare benché non siano affatto poche le band che utilizzano questo strumento, sembra scontrarsi più che amalgamarsi con i riff chitarristici, la base ritmica ed il growl del vocalist; per essere sulla carta un death doom melodico, l’album offre con il contagocce momenti capaci di creare un adeguato flusso emotivo, puntando più su un impatto robusto e che, molto spesso, devia verso una sorta di avanguardismo, convincendo molto di più nei momenti in cui il sound sembra avvicinarsi maggiormente alle sfumature sinfonico orchestrali dei nostri Dark Lunacy.
Quando sembra che la melodia possa finalmente assumere una forma compiuta e prendere il sopravvento, come per esempio in Эхо, viene sempre meno quel momento chiave capace di dar seguito a tali intuizioni, sia per scelta da parte della band sia per una produzione che restituisce il sound in una maniera a mio avviso troppo secca, con le tastiere che non svolgono quel ruolo di raccordo che competerebbe loro in una formazione strutturata in questa maniera.
Detto ciò, l’ascolto di Будни войны è tutt’altro che superfluo, ma il confronto con Shallow Rivers o Откровения Дождя, per esempio, vede i pur bravi Руины вечности ancora diversi gradini sotto il livello raggiunto dalle band viciniori collocabili nello stesso segmento stilistico.

Tracklist:
01. Будни войны
02. Брест
03. Кто будет первым?!
04. Танк
05. Победа для мёртвых
06. Для тех, кто потерялся на этой войне
07. Эхо
08. Наследие

Line-up:
Andrei Nasekailov – guitar
Pavel Golovnin – bass
Konstantin Terentiev – drums
Pavel Maiboroda – vocals
Eugenia Antsyferova – violin, keys
Aleksander Gasenko – guitar
Roman Nasibov – backing vocals, keys

Kroh – Pyres

Sempre fortemente legato al doom classico ma valorizzato da una componente psichedelica che lo accomuna a quello dei gruppi vintage usciti negli ultimi anni, il sound proposto dai Kroh ha una sua forte personalità, ovviamente circoscritta al genere.

Tornano a pochi mesi di distanza dal secondo full length Altars (recensito si queste pagine) i doomsters britannici Kroh, con un nuovo lavoro in formato ep intitolato Pyres.

Niente di nuovo nelle catacombe di Birmingham dove si aggirano la sacerdotessa Oliwia Sobieszek ed i suoi fedeli adepti, anche questi nuovi brani seguono le liturgiche atmosfere sabbathiane già presenti nel precedente lavoro.
Ancora più atmosfericamente sacrale di Altairs, il nuovo album emana un acre odore di morte, mentre le litanie sabbatiche accompagnano riti occulti tra serpi velenose e lame luccicanti in un’atmosfera che si fa a tratti ipnotizzante.
La Sobieszek, da musa affascinate quale è, si aggira tra gli astanti, persi nelle lunghe marce dettate dal lento battere del tempo, quasi fermo, mentre potenti esplosioni metalliche (Rigor Mortis) violentano le ipnotiche danze sacrali che i musicisti del gruppo hanno creato per far danzare la ipnotica singer.
Il basso che pulsa tra le note di Nemertean Girl, il vorticoso incedere della vulcanica Moriah e la potenza stonerizzata della conclusiva Despair Resolve, imprimono al lavoro una forza sorprendente, mentre il gruppo alterna con buona personalità esplosioni metalliche e rituali atmosferici dove tutto si compie.
Sempre fortemente legato al doom classico, ma valorizzato da una componente psichedelica che li accomuna ai gruppi vintage usciti negli ultimi anni, il sound proposto dai Kroh ha una sua forte personalità, ovviamente circoscritto al genere.
Una band che, piano piano, troverà il suo spazio tra i gruppi di culto nel panorama del doom classico odierno.

Tracklist
1.Triumph of Death
2.Rigor Mortis
3.Nemertean Girl
4.Moriah
5.Despair/Resolve

Line-up
Rich Stanton – Drums
Paul Harrington – Guitars
Paul Kenney – Guitars
Oliwia Sobieszek – Vocals
Darren Donovan – Bass

KROH – Facebook

Painted Black – Raging Light

I Painted Black dimostrano d’aver raggiunto quella maturità necessaria per mettersi nella nobile scia dei maestri del gothic metal lusitano ed europeo chiamati Moonspell, facendolo però con una buona personalità e soprattutto cercando con successo di sottrarsi ad imbarazzanti paragoni con la band di Ribeiro.

Quando si pubblica un secondo full legth a sette anni di distanza da quello d’esordio è normale attendersi dei cambiamenti, in certi casi anche piuttosto sensibili.

È questo il caso dei portoghesi Painted Black, i quali dopo un album come Cold Comfort, riconducibile al filone gothic death doom, sono approdati ad una forma di rock/metal oscuro che non rinnega affatto le origini ma che sposta decisamente la barra verso lidi più melodici e liquidi; un’evoluzione per certi versi naturale e che trova i suoi potenziali prodromi nell’album d’esordio del progetto Sleeping Pulse, che vedeva all’opera Luís Fazendeiro, chitarrista e compositore principale della band lusitana, avvalersi della voce di Mick Moss per raggiungere vette di lirismo prossime, appunto, a quelle degli Antimatter.
Non stupisce più di tanto, quindi, ritrovare in Raging Light riferimenti a quell’area stilistica che parte dai Katatonia ed arriva fino agli ultimi Anathema, con la band svedese che aleggia sicuramente nei passaggi leggermente più robusti e meno atmosferici e quella inglese, invece, che emerge dai brani più melodici e suadenti, tutto questo senza dimenticare del tutto le radici metal che di tanto in tanto riemergono restando un elemento importante ma non preponderante nell’economia del lavoro.
Il sound dei Painted Black è decisamente elegante, sempre controllato e modellato con sapienza da Fazendeiro e compagni, con Daniel Lucas capace di fornire una buona prestazione vocale sia con voce pulita che in growl.
L’album parte ottimamente con due brani davvero belli come The Raging Light, oscillante tra un’indole intimista e l’antico retaggio gothic doom, e Dead Time, dallo sviluppo simile ma contenente una più decisa accelerazione nella fase centrale, il tutto sempre caratterizzato da un notevole lavoro chitarristico a tessere le opportune trame.
Il resto del lavoro si muove costantemente attraverso queste oscillazioni, mantenendo un’aura malinconica per la quale il colore più indicato nel monicker sarebbe il grigio piuttosto che il nero.
La chiusura è affidata ad una traccia molto lunga come Almagest, vera e propria summa dell’idea musicale dei Painted Black, i quali dimostrano d’aver raggiunto quella maturità necessaria per mettersi nella nobile scia dei maestri del gothic metal lusitano ed europeo chiamati Moonspell, facendolo però con una buona personalità e soprattutto cercando con successo di sottrarsi ad imbarazzanti paragoni con la band di Ribeiro.
Raging Light non rappresenta ancora l’album perfetto per i Painted Black, perché a mio avviso l’emotività che dovrebbe trasmettere un’opera di questo tipo arriva ancora in maniera discontinua, ma per certi versi questo è un bene, in quanto significa che la band portoghese ha nelle proprie corde un potenziale ancora superiore a quello già importante esibito in quest’occasione

Tracklist:
1 – The Raging Light
2 – Dead Time
3 – The Living Receiver
4 – Absolution Denied
5 – Chamber
6 – In The Heart Of The Sun
7 – I Am Providence
8 – Almagest

Line-up:
Daniel Lucas – Vocals
Luís Fazendeiro – Rhythm & Lead Guitars, Clean Guitars, Piano & Synths, Bass on tracks 1,3,5 and 8
Gonçalo Sousa – Lead & Rhythm Guitars

Guests:
Marcelo Aires – Drums
Pedro Mendes – Bass on tracks 2,4,6 and 7
Mick Moss – spoken words on track 3
Amber Moss – spoken words on track 3
Jenny O’Connor – spoken words on track 3

PAINTED BLACK – Facebook

Wolfshead – Leaden

I quattro energumeni al comando del sound non concedono tregua, si spostano tra lente marce doom, come se la musica avanzasse con la neve alle ginocchia in mezzo alla tempesta, ed irrequiete frustate hard & heavy.

La Rockshots Records allunga le sue molte braccia e come una piovra stringe tra i suoi tentacoli realtà da molti paesi e di vari generi di cui si compone il mondo metallico.

I Wolfshead li incontriamo tra i mille laghi della natia Finlandia, la storia vuole la nascita del combo ad un concerto dei Pentagram nel 2011 e da quel giorno il quartetto ha prodotto un demo e due ep, per poi arrivare alla firma con la Rockshots e all’uscita di questo pesantissimo pezzo di granito heavy/doom dal titolo Leaden.
Heavy metal old school, appesantita da iniezioni di doom classico alla Pentagram/Candlemass e tante influenze che svariano tra Motorhead e Saint Vitus, Venom e Black Sabbath, incastonate in un sound selvaggio, sporco, cattivo e dannatamente coinvolgente.
Leaden è uno schiacciasassi metallico, un potente e pesantissimo asteroide in caduta libera sulla terra, una rompighiaccio che inesorabile avanza nel Mare del Nord, al suono di liturgie metalliche tra heavy metal e doom.
I quattro energumeni al comando del sound non concedono tregua, si spostano tra lente marce doom, come se la musica avanzasse con la neve alle ginocchia in mezzo alla tempesta, ed irrequiete frustate hard & heavy: ecco allora macigni evocativi ispirati dalla tradizione classica o lentissime agonie prima di cadere nel sonno prima del congelamento e l’inesorabile morte.
When the Stars Are Right risulta il picco compositivo di Leaden, una brano doom monumentale come la bellissima e conclusiva The Hangman, il resto viaggia su mid tempo heavy doom molto ispirati come l’opener Vukodlak e Purifier.
L’anima di Leaden è un sound old school, derivativo quanto si vuole ma tremendamente coinvolgente, almeno per chi ama il doom classico ed i suoni hard & heavy di matrice ottantiana.

Tracklist
1.Vukodlak
2.Children Shouldn’t Play with Dead Things
3.Purifier
4.When the Stars Are Right
5.Division of the Damned
6.Haruspex
7.Winds Over Potter’s Field
8.The Hangman

Line-up
Tero Laine – vocals
Ari Rajaniemi – guitar
Vesa Karppinen – bass
Jussi Risto – drums

WOLFSHEAD – Facebook

The Obsessed – The Obsessed

Grandiosa ristampa rimasterizzata del primo disco omonimo dei The Obesessed, uno dei gruppi più influenti nel campo del doom metal e non solo.

Grandiosa ristampa rimasterizzata del primo disco omonimo dei The Obsessed, uno dei gruppi più influenti nel campo del doom metal e non solo.

Il disco era fuori catalogo da vent’anni circa e la Relapse Records ne fa una ristampa di lusso in diversi formati, ma la vera chicca è la presenza del demo mai pubblicato Concrete Cancer, fondamentale per comprendere la genesi e gli sviluppi futuri del gruppo. Fondati dal dio del doom metal Scott Wino Wenirich nel 1975, gli Obsessed sono stati molto di più di un gruppo pionieristico del doom metal, poiché hanno aperto molte porte per diversi stili musicali, che poi in fondo sono una diversa declinazione del rock pesante e del blues, e lo si può capire ascoltando questo fondamentale disco. Gli Obsessed proseguono un discorso iniziato dai Black Sabbath e lo portano ad un altro livello, fondendo la tradizione americana con un suono pesante e lugubre che più tardi prenderà il nome di doom metal. Chitarre ribassate, riff potenti e sezione ritmica “ossessiva”, ma non è tutto così scontato, poiché il gruppo originario del Maryland ha molte frecce al suo arco e le tira fuori tutti. Ci sono accelerazioni improvvise, momenti nei quali la voce di Wino si erge al di sopra di tutto, e anche cavalcate impetuose, come pure momenti di glacialità assoluta, quasi un moto immoto. The Obsessed è un disco che mostra la strada per fare un metal diverso, certamente influenzato dai suoni dell’epoca, ma ci sono moltissimi elementi rock ed un sottobosco blues non indifferente. Il demo Concrete Cancer ci mostra la genesi di questo suono, è un documento preziosissimo testimoniando quanto questi ragazzi avessero le idee chiare fin dall’inizio. Questo disco farà impazzire chi ama un certo metal, in particolare il doom, mentre chi non conosce questo genere, qui troverà un tesoro da scoprire. Sentire questo capolavoro a distanza di anni rende ancora più manifesta la grandezza di un gruppo che ha aperto e asfaltato la strada per molte band che sarebbero venute dopo, pur mantenendo la continuità con la tradizione precedente. The Obsessed ha una forza incredibile, è come un sabba in una dimensione sconosciuta, è minimale, come sarà minimale l’altra creatura di Wino, i Saint Vitus, ma è ricchissimo ed è davvero una pietra miliare. Presente inoltre un Live At The Bayou molto valido e con una qualità audio al di sopra della media, per capire cosa fosse questa band in concerto.

Tracklist
1 Tombstone Highway
2 The Way She Fly
3 Forever Midnight
4 Ground Out
5 Fear Child
6 Freedom
7 Red Disaster
8 Inner Turmoil
9 River of Soul
10 Concrete Cancer (1984 unreleased Concrete Cancer demo cassette)
11 Feelingz (1984 unreleased Concrete Cancer demo cassette)
12 Mental Kingdom (1984 unreleased Concrete Cancer demo cassette)
13 Hiding Masque (1984 unreleased Concrete Cancer demo cassette)
14 Ground Out – Feelingz (live at The Bayou 4-15-1985)
15 Concrete Cancer (live at The Bayou 4-15-1985)
16 No Blame (live at The Bayou 4-15-1985)
17 Mental Kingdom (live at The Bayou 4-15-1985)
18 Tombstone Highway (live at The Bayou 4-15-1985)
19 Iron and Stone (live at The Bayou 4-15-1985)
20 Rivers of Soul (live at The Bayou 4-15-1985)
21 Sittin on a Grave (live at The Bayou 4-15-1985)
22 Freedom (live at The Bayou 4-15-1985)

Lineup:
Scott “Wino” Weinrich – Guitars, Vocals
Mark Laue – Bass
Ed Gulli – Drums

THE OBSESSED – Facebook

Satan’s Children – Spiritual Abuse

Spiritual Abuse è una prova breve ma apprezzabile, soprattutto se si è amanti del doom classico ammantato da una consistente vena lisergica: la perfezione formale e compositiva risiede altrove, ma la mezz’ora scarsa dedicata all’ascolto di questo disco è tutt’altro che sprecata.

Doom metal psichedelico per i canadesi Satan’s Children, con il loro terzo atto intitolato Spiritual Abuse.

Ovviamente il nome della band non lascia adito a dubbi sul tipo di approccio da parte di questi musicisti di Vancouver, i quali offrono un’interpretazione del genere quanto mai vintage e genuina, nonché dal potenziale effetto dopante, a partire dalla stessa copertina.
Una voce leggermente stridula di osbourniana memoria guida brani sufficientemente coinvolgenti nella loro lisergica sporcizia, anche se le cose vanno meglio, paradossalmente, quando i ritmi vengono leggermente incrementati come nell’opener Cozmika.
I quattro brani successivi sono sghembi ma efficaci esempi di doom a tratti minimale, con suoni, produzione ed approccio molto naif ma, a modo loro, coinvolgenti, anche se gran parte dei riff appaiono già abbondantemente sentiti (in Melancholy Walls fanno capolino anche i nostri Doomraiser).
Dopo una serie di canzoni piacevoli ma nella media, i Satans’ Children segnano il classico gol di tacco all’ultimo minuto inventandosi un brano perfetto come Devil’s Breed, nel quale imbroccano un magnifico tema conduttore che si alterna ad una robusta e micidiale accelerazione psichedelica.
Spiritual Abuse è una prova breve ma apprezzabile, soprattutto se si è amanti del doom classico ammantato da una consistente vena lisergica: la perfezione formale e compositiva risiede altrove, ma la mezz’ora scarsa dedicata all’ascolto di questo disco è tutt’altro che sprecata.

Tracklist:
01. Cozmika
02. Voodoo Warrior
03. Melancholy Walls
04. Coffin Fever
05. Witches Fury
06. Devils Bread