Amarok – Devoured

Mastodontica opera prima del quartetto californiano capace di unire in un epico viaggio desolazione,pesantezza e personalità.

Bisogna armarsi di tempo e pazienza per avventurarsi nelle mastodontiche quattro track che compongono l’opera prima degli statunitensi Amarok, giunti dopo otto anni al fatidico esordio sulla lunga distanza, dopo aver affilato le armi in vari split con Hell, Pyramido (doom sludge targato USA) e gli Enkh (funeral polacco).

Il quartetto californiano di Chico incorpora nel proprio sound elementi doom, sludge, funeral e black con una fluidità notevole; non ci sono forzature ma un ininterrotto flusso di note, che dipinge paesaggi desolati e disperati, marcati da una buona ispirazione e tensione narrativa. La melodia circolare punteggiata da note di piano dell’opener Sorceress, si carica di tensione e potenza con il passare dei minuti, mentre la ritmica dal passo marziale e le vocals in scream screziato di growl si caricano di una disperazione tangibile, soffocante e claustrofobica. Le due chitarre aprono colossali universi di distorsione mantenendo comunque il suono fluido e ricco di sfumature; gli ingredienti sono sempre gli stessi e la differenza in questo tipo di musica la fa sempre la capacità dei singoli musicisti di saper mantener alta la tensione, apportando anche solo minime variazioni al suono. Gli Amarok sono assolutamente credibili e in più hanno anche una capacità di scrittura varia anche in un genere monolitico come questo; le distorsioni finali e le laceranti urla alla fine di Sorceress inscenano paesaggi terrifici. Settanta minuti di questo suono non disturbano certo chi è avvezzo a frequentare questi paludosi lidi, capaci di creare sensazioni ed emozioni molto particolari; i ventitre minuti di Rat Tower ci trasportano in un viaggio epico e dolente rimembrante alcune belle pagine del funeral doom dell’est europeo, dove le band hanno la maestria di creare “soundscapes” infiniti e dal forte impatto emotivo. Di sicuro una band da seguire ma per i cultori del doom non è neanche il caso di dirlo!

Tracklist
1. VI Sorceress
2. VII Rat Tower
3. VIII Skeleton
4. IX Devoured

Line-up
Brandon Squyres – Bass, Vocals
Kenny Ruggles – Guitars, Vocals
Colby Byrne – Drums
Nathan collins – Guitars

Not My Master – Disobey

Violenti, paranoici, e pericolosissimi i Not My Master esordiscono con un concentrato di musica pesante e schizzata, che in mezzora costruisce un muro sonoro invalicabile.

Nelle province americane non scherzano, quando si parla di estremizzare la materia metallica.

Sarà il disagio , il caldo soffocante o i morsi dei crotali, ma i Not My Master sono l’esempio di come (in questo caso in Texas) prendano sul serio l’estremismo sonoro, amalgamando in un unico sound sludge, southern e metalcore con tanto di quel disagio da bastare per dieci generazioni.
Violenti, paranoici, e pericolosissimi i Not My Master esordiscono con un concentrato di musica pesante e schizzata, che in mezzora costruisce un muro sonoro invalicabile.
L’opener Acadence è l’inizio di un urlo brutale e rabbioso che si sviluppa su sei brani più la cover di How The Gods Kill di Danzig, uno spaccato della provincia americana tra crocifissi, predicatori e famiglie impegnate nell’omicidio seriale stile Non Aprite Quella Porta, deliri di vite travolte da droghe, alcool e follia.
E Disobey è la perfetta colonna sonora di queste nefandezze e molto altro, un album disturbante già dalla copertina con quattro cadaveri che penzolano da un patibolo, in una foto in bianco e nero che mette i brividi più che centinaia di innocui demoni death/black.
Mixato e masterizzato da Chris Collier (Korn, Prong, Fear Factory), l’album risulta un debutto di tutto rispetto nel panorama sludge metal, quindi cercatelo assolutamente se il genere è nelle vostre corde.

Tracklist
1. Acadence
2. Revenge
3. Where’s God Now
4. Morning Star
5. Lies
6. How The Gods Kill
7. Consume

Line-up
Chris Kidwell – Vocals
Chelo Styes – Guitar
Rudy Barajas – Bass
Charlie Gonzalez – Drums

NOT MY MASTER – Facebook

https://youtu.be/NhOoqKUcRN8

Lurk – Fringe

Fringe è un’opera di devastante potenza, nel corso della quale il quartetto esibisce un doom che, alla preponderante componente sludge, aggiunge anche elementi black e death, andando a formare un quadro davvero intrigante per tutti gli appassionati di sonorità oscure

Quella denominata Lurk è l’ennesima mostruosa creatura che avanza strisciante, questa volta non in fangose paludi americane bensì tra le nevi ed i ghiacci dei mille laghi finlandesi.

Fringe è un’opera di devastante potenza, nel corso della quale il quartetto esibisce un doom che, alla preponderante componente sludge, aggiunge anche elementi black e death, andando a formare un quadro davvero intrigante per tutti gli appassionati di sonorità oscure.
Abbiamo così un sound che, nella sua monolicità di fondo, a tratti può richiamare i primissimi Cathedral, come nell’opener Ostrakismos, oppure srotolarsi nel mid tempo black di Reclaim; lo sludge viene offerto nella sua forma più esasperata nella notevole Elan, mentre un più movimentato death doom prende forma in Furrow.
Proteus Syndrome chiude al meglio il lavoro, racchiudendo in sé buona parte delle caratteristiche sopra accennate, a suggello di un operato che lascia ben poco spazio alla melodia ma che offre più di uno spunto capace di agganciare l’ascoltatore, al netto dello snodarsi di un sound sulfureo e pachidermico.
I Lurk sono l’ennesima band che viene portata all’attenzione grazie al meritorio lavoro della Transcending Obscurity, label indiana specializzata nello scavare in profondità nell’undergroung fino al reperimento di grezzi diamanti sonori come questo Fringe.

Tracklist:
1. Ostrakismos
2. Tale Blade
3. Reclaim
4. Elan
5. Offshoot
6. Furrow
7. Nether
8. Proteus Syndrome

Line-Up:
Kimmo Koskinen – Vocals
Kalle Nurmi – Drums
Arttu Pulkkinen – Guitar
Eetu Nurmi – Bass

Guest vocals by Aleksi Laakso on Elan
Alto saxophone by Aino Heikkonen on Ostrakismos

LURK – Facebook

Vor – Depravador

Un lavoro a dir poco urticante il cui solo scopo e quello di scuotere e mettere a disagio l’ascoltatore: zero fronzoli, cosi come totale è l’assenza di una qualsiasi parvenza melodica.

Credo che uno dei momenti in cui si realizza pienamente quanto la musica rivesta un ruolo fondamentale nella propria vita, sia quando si riescono ad apprezzare pienamente forme espressive lontanissime tra loro.

Tutto questo rende possibile godere di strutture complesse e potenti come quelle del progressive, così come quelle essenziali e scarnificate di certo sludge doom.
Proprio a quest’ultima categoria appartiene Depravador, album d’esordio dei Vor, duo spagnolo che con il solo apporto di batteria, basso ed una voce strepitante riesce a produrre molto più baccano di quanto non facciano molte band con tripla chitarra, tastiere e quant’altro.
Quanto scritto come premessa sta a significare che non c’è una forma predefinita per catturare in maniera efficace l’attenzione dell’ascoltatore, ma che, in realtà, se non si demanda il tutto alla melodia e alla tecnica devono essere l’intensità e l’urgenza espressiva a fare la differenza.
Queste ultime sono le caratteristiche fondanti di Depravador, un lavoro a dir poco urticante il cui solo scopo e quello di scuotere e mettere a disagio l’ascoltatore: zero fronzoli, cosi come totale è l’assenza di una qualsiasi parvenza melodica.
Ciò avviene dalla prima nota della title track fino all’ultima di Dark Fraga (sia pure in tal caso con un più ragionato break centrale) per un ascolto che, alla fine si rivela ostico ma, alla lunga coinvolgente nel suo rabbioso ed ostile incedere.

Tracklist:
1. Depravador
2. Black Goat
3. Why
4. Cudgel
5. Blood… Fear… Knife… Sin.
6. Daga
7. Dark Fraga

Line-up:
Iván: bass, noise & shrieks
Edu: drums & noise
Anxela (Bala): guest vocals in “Dark Fraga”

The Red Coil – Himalayan Demons

Un continuo groove sludge stoner metal, con intarsi desert, intensità mostruosa e su tutto una potenza distorta che porta via.

Un continuo groove sludge stoner metal, con intarsi desert, intensità mostruosa e su tutto una potenza distorta che porta via.

Non è mai facile descrivere un disco che fa pensare a molte cose, e non soggettive ma oggettive. I milanesi The Red Coil faranno la gioia di chi ama la musica pesante nelle sue accezioni più disparate, e qui ce n’è per tutti i gusti. Il gruppo suona uno sludge stoner di rara potenza che non fa prigionieri e che costringe e sentirlo disparate volte. Lla band lombarda esordisce nel 2009 con l’ep Slough Off che riceve una buona accoglienza sia dal pubblico che dalla critica. Nel 2013 i nostri escono con il primo disco su lunga distanza, intitolato Lam, che procura loro  diversi concerti in giro per il nord Italia, soprattutto. Ed eccoci infine arrivati al presente Himalayan Demons, un disco gigantesco. La voce graffia ed è un mirino preciso che indirizza le bordate che arrivano dal resto del gruppo. Prendete i migliori Pantera e date loro un respiro sludge stoner e vi avvicinerete un minimo a cosa sia questo disco. Quando l’atmosfera è incendiata dalla loro musica, arrivano aperture melodiche ottime e totalmente inaspettate. Forte è anche l’influenza dello stile southern metal, che qui è presente in maniera diabolica. I The Red Coil sono un autentico godimento, riescono a trovare sempre la soluzione sonora giusta e rendono rovente il vostro impianto stereo, i loro inediti sono fantastici, ma rende bene e velocemente l’idea di cosa siano l’ultima traccia del disco, la cover di When The Leeve Breaks dei Led Zeppelin, fatta in maniera sublime e con la loro fortissima impronta. Un disco pesantemente fantastico.

Tracklist
1. Withdrawal Syndrome Wall
2. Godforsaken
3.Oriental Lodge
4. Opium Smokers Room
5. The Shroud
6. Moksha
7. The Eyes Of Kathmandu
8. When The Levee Breaks

Line-up
Marco Marinoni – voice
Luca Colombo – guitar
Daniele Parini – guitar
Gelindo – bass
Bull – drum

URL Facebook
https://www.facebook.com/theredcoil/

Moanhand – Fawn

L’inizio dell’avventura nel mondo della musica estrema underground è iniziato e per i Moanhand le premesse per fare bene ci sono tutte.

Esordio per questa one man band russa chiamata Moanhand, creatura doom/sludge, black, hardcore metal del giovane musicista e compositore Roman Filatov.

Fawn è un ep di quattro brani che si nutrono di questa manciata di generi estremi creando un particolare sound, un’altalena infernale che oscilla tra lo sludge /doom dell’opener Mark The Plaguehand, con una buona ed evocativa voce pulita, e le sferzate black metal della potentissima Jeweled Claws, brano che continua la ricerca di Filatov della chiave che unisce sludge e black metal.
Con Raptured i toni si fanno ancora più estremi: una devastante sferzata black metal, che ricorda gli act scandinavi, mentre lo strumentale conclusivo Tower Of Dirt solca strade progressive e post hardcore.
Il coraggio non manca di sicuro al musicista russo, Fawn convince anche per la buona produzione che permette di ascoltare perfettamente le varie ispirazioni che Filatov ha assemblato nel sound creato.
L’inizio dell’avventura nel mondo della musica estrema underground è iniziato e le premesse per fare bene ci sono tutte: sicuramente ascoltare un solo brano del lavoro non permette d’avere un quadro preciso del credo musicale dei Moanhand, quindi il consiglio è di ascoltare Fawn in tutta la sua interezza.

Tracklist
1. Mark The Plaguehand
2. Jeweled Claws
3. Raptured
4. Tower Of Dirt (instrumental)

Line-up
Roman Filatov – vocals, guitars, bass

Konstantin Sigua – additional guitars
Nikolay Kirutin – drums on “Tower Of Dirt”

MOANHAND – Facebook

Witchkiss – The Austere Curtains Of Your Eyes

L’atmosfera è la cosa più importante, e gli Witchkiss con il loro suono e la voce femminile riescono a creare una sorta di sospensione spazio temporale che fa stare bene l’ascoltatore, nonostante si viaggi nelle tenebre.

I Witchkiss vengono da Beacon nella valle dell’Hudson, stato di New York, e sono fra le sorprese sonore di questi ultimi tempi.

Il trio propone uno sludge doom lento e possente, come un incedere di demoni che non lasciano scampo alla loro preda. Questo debutto ha impiegato molto tempo per vedere la luce, ma ne è valsa totalmente la pena. Il disco ha una profondità ed una fisicità davvero eccezionali. Si passa da un lenta e devastante pesantezza, a momenti acustici vicini al neofolk, sempre tenendo fede al verbo metallico. I Witchkiss riescono a creare un insieme sonoro davvero profondo e adatto a quel pubblico musicale che chiede molto alla musica che ascolta. Il gruppo è stato fondato da Scott Prater e dalla sua compagna nella vita e qui batterista Amber Burns, ai quali si è aggiunto al basso Anthony Di Blasi, con l’intento di fare qualcosa di pesante ed importante, riuscendoci perfettamente. Il disco ha diversi livelli di ascolto, dato che si snoda su piani differenti. L’atmosfera è la cosa più importante, con il loro suono e la voce femminile riescono a creare una sorta di sospensione spazio temporale che fa stare bene l’ascoltatore, nonostante si viaggi nelle tenebre. Potrebbe sembrare un qualcosa come gli Yob meno statici ma al contempo maggiormente doom. Sicuramente questo disco non è un prodotto comune ma riesce ad arrivare dove pochi arrivano, e garantisce una moltitudine di ascolti. I Witchkiss pubblicano un debutto  notevole, a cui prestare molta attenzione ma soprattutto da ascoltare.

Tracklist
1.A Crippling Wind
2.Blind Faith
3.Death Knell
4.Spirits of the Dirt
5.Seer
6.A Harrowing Solace

Line-up
Amber Burns
Scott Prater
Anthony DiBlasi

WITCHKISS – Facebook

Tons – Filthy Flowers Of Doom

Se volete un disco fragoroso, potente e con una psichedelia pesante e davvero imponente, allora questo Filthy Flowers Of Doom dei torinesi Tons fa per voi.

Se volete un disco fragoroso, potente e con una psichedelia pesante davvero imponente, allora questo Filthy Flowers Of Doom dei torinesi Tons fa per voi.

Nati a Torino nel 2009 dalle ceneri di tre gruppi hardcore dai quali mantengono una grande potenza, i Tons hanno fatto molti concerti ed affinato il loro suono. Non lasciatevi fuorviare dal titolo, perché qui c’è un massacro totale di musica pesante, con tanti sottogeneri presenti. I Tons possiedono un tiro micidiale, , producendo un suono dal groove pesantissimo ma con eccezionali aperture melodiche. Una delle loro caratteristiche è un’intensità spaventosa, con l’ascoltatore che viene letteralmente catturato in una spirale che non prende ostaggi. Questo loro secondo album per Heavy Psych Sounds li mette prepotentemente sulla mappa dei migliori gruppi italiani, e questo album sarà un qualcosa con il quale confrontarsi per tutte le band nostrane, e non solo. Venendo tutti e quattro da ottimi gruppi hardcore i Tons hanno mantenuto e sviluppato la componente aggressiva del loro suono, potenziando il tutto, e dandogli anche un tocco psych in alcuni passaggi. L’impalcatura sonora delle tracce colpisce duro, e in alcuni momenti ricorda i grandi nomi dello sludge più pesante, anche se qui il tutto appare molto velocizzato. La doppia cassa della batteria sottolinea nei momenti più topici il mostruoso incedere del gruppo, che farò oscillare molto le teste metalliche. I Tons sono un camion che vi investe e vi trascina per chilometri, ed è pure una morte molto piacevole. Il volume fisico di questo disco è davvero grande, e più lo si ascolta più si viene coinvolti in questa saturazione sonora della nostra testa.

Tracklist
01- Abbath’s Psychedelic Breakfast
02- 99 Weed Balloons
03- Those of the Unlighter
04- Girl Scout Cookie Monster
05- Sailin’ the Seas of Buddha Cheese

Line-up
Weed Mason
Steuso
Marco DiNocco
Paolo

TONS – Facebook

Dopethrone – Transcanadian Anger

Un trionfo in download gratuito di stoner sludge marcio e di inni alla droga e alla violenza, insomma un bellissimo inferno.

Un trionfo in download gratuito di stoner sludge marcio e di inni alla droga e alla violenza, insomma un bellissimo inferno.

Tornano i canadesi Dopethrone, un gruppo che ha sempre regalato gioie a chi ama un certo suono vizioso, che di solito si accompagna a vite altrettanto viziose. Abusi sonori e abusi di sostanze sono sempre andati a braccetto, ma raramente se ne parla con l’ironia che hanno i Dopethrone, come si può vedere anche nel bellissimo video di Killdozer, rilasciato prima del disco contribuendo ad alzarne di molto l’attesa. Transcanadian Anger è musicalmente un disco dei Dopethrone al cento per cento, i nostri sono in formissima e migliorano quanto ci hanno sempre proposto. Il suono è sempre distorto con le chitarre che grattano, la voce è quella di un tossico al suo ultimo delirio, a metà tra growl e raschio, la batteria ed il basso incidono la nostra pelle con suoni inauditi. Una delle maggiori peculiarità della band canadese è quella di riuscire a costruire un groove mostruoso portando l’ascoltatore al centro di una palude che non lascia scampo. Ascoltando appunto Killdozer, che fa parte della loro scuderia di pezzi veloci, non si può non venire catturati da questo incessante giro di chitarre basso e batterie, che si muove senza mai fermarsi. Inoltre i Dopethrone hanno un timbro musicale molto personale e ben riconoscibile anche all’interno di un genere che comprende un numero elevato di band. Questo ultimo disco, distribuito in download libero, ma anche disponibile in formato fisico su cd e vinile della Totem Cat Records, non sposta di una virgola un discorso musicale intrapreso da anni e portato avanti con grande coerenza, ma lo migliora e lo porta ad un livello ulteriore. Nel bandcamp del gruppo potrete trovare tutti i dischi in download gratuito, e questa è una scelta importante per una realtà della portata dei Dopethrone, perché hanno capito l’evolversi dell’industria musicale mettendo la musica al centro, e guadagnando grazie a chi va ai loro grandi concerti, con una proposta sempre  di ottima qualità. Un disco marcio, pesante e divertente come sanno fare solo questi canadesi.

1. Planet Meth
2. Wrong Sabbath
3. Killdozer
4. Scuzzgasm
5. Tweak Jabber
6. Snort Dagger
7. Kingbilly Kush
8. Miserabilist

Line-up
Drums : Shawn
Guit -Vox : Vince
Bass : Vyk

DOPETHRONE – Facebook

Chrch – Light Will Consume Us All

Tre brani immersi in un suono doom e sludge personale e condotto su un interplay chitarristico di alto livello sempre ispirato e carico di tensione.

Liquide e visionarie note ci introducono al secondo full length dei californiani Chrch, quintetto che, dopo un ottimo Unanswered Hymns del 2015, approda alla Neurot Recordings proponendoci tre brani immersi in un suono doom e sludge personale e condotto su un interplay chitarristico di alto livello sempre ispirato e carico di tensione.

Gli abbondanti venti minuti di Infinite Return si spandono placidi, reiterati nei primi cinque minuti con le due chitarre che costruiscono senza fretta l’atmosfera per poi esplodere in furia devastatrice, accompagnate dall’inquietante growl di Eva Rose che strazia le viscere; il lungo intermezzo di quiete che interrompe la furia coinvolge con la sua spiritualità e la sua aura nostalgica, mentre le chitarre tessono trame delicate e le sussurrate vocals di Eva massaggiano dolcemente i nostri padiglioni auricolari suggerendo lunghi viaggi verso una luce trascendente che si suggella in un finale profondo, dove la chitarra solista si erge a protagonista assoluta con un assolo armonioso e disperato. Un brano di altissimo livello che potrebbe marchiare a fuoco la carriera della band che non lesina idee e personalità anche nei due restanti brani: i quindici minuti di Portals hanno un approccio più diretto nel loro lento andamento doom, lacerati sempre dalle litaniche vocals di Eva che si dimostra interprete versatile e capace di variare tonalità ed espressività. Ritmi marziali e ipnotici sono la struttura portante e aromi black ammorbano l’atmosfera spalancando “portali” dove le chitarre esplorano abissi acidi e visionari, mentre vocals inquietanti cercano di riportare un po’ di “light”. La capacità dei musicisti di creare suoni e atmosfera è veramente rimarchevole: nonostante siano attivi solo dal 2015 i Chrch appaiono già molto maturi e consapevoli della loro ispirazione. La tensione rimane sempre alta e i brani, per quanto lunghi, sono profondi e vari nel loro progressivo sviluppo, pur all’interno di un genere come il doom e lo sludge dai canoni ben definiti. Il terzo brano Aether, con il suo andamento solenne ed epico, suggella un gran bel disco offerto da parte di artisti ispirati.

Tracklist
1. Infinite Return
2. Portals
3. Aether

Line-up
Ben Cathcart – Bass
Chris Lemos – Guitars, Vocals (backing)
Eva Rose – Vocals (lead)
Adam Jennings – Drums
Karl – Cordtz Guitars

CHRCH – Facebook

Mammoth Weed Wizard Bastard/Slomatics- Totems

Un’uscita che riunisce due tra le migliori realtà sludge doom provenienti dal Regno Unito.

Ad avvalorare la teoria secondo la quale gli split album sono sovente molto di più rispetto ad una semplice operazione discografica volta a mettere assieme due o più band, talvolta estranee l’una dall’altra per stile o status, al fine di ottimizzare tempi e spazi, eccoci a contemplare questa uscita che accoppia due tra le migliori realtà sludge doom provenienti dal Regno Uunito.

Certo, neppure Mammoth Weed Wizard Bastard e Slomatics possono definirsi band del tutto simili, visto il diverso approccio alla materia, ma sicuramente qui non vengono meno contiguità stilistica e comunione d’intenti.
I gallesi Mammoth Weed Wizard Bastard sono di formazione più recente e il loro doom psichedelico è fortemente caratterizzato dalla voce di Jessica Ball, la quale dona un tocco a tratti liturgico al sound della band. I due lunghi brani sono decisamente esaustivi rispetto alle caratteristiche di un’interpretazione davvero peculiare, con The Master and His Emissary che possiede un intrigante incipit elettronico volto ad introdurre, dopo alcuni minuti, le sonorità relativamente più canoniche del doom.
Si cambia facciata e con gli Slomatics in teoria il tutto si normalizza, anche se uno sludge doom come quello offerto dal trio nord irlandese non può essere certo considerato ordinario; qui però, fin da Ancient Architects, si capisce che il sound si appoggia meno sulle suggestioni vocali per volgersi in maniera più decisa all’impatto provocato da riff di enorme presa e potenza, mentre la voce del drummer Marty nella seconda traccia assume sembianze più consone ad una psichedelia che emerge insidiosa dalla spessa fanghiglia sonora.
In entrambi i casi, le interpretazioni delle band evidenziano come tali sonorità, quando vengono maneggiate da band britanniche, assumono toni ben diversi rispetto a ciò che avviene oltreoceano, alla luce di soluzioni relativamente più ricercate e un po’ meno truci.
Totems è, in definitiva, uno split album di una qualità non comune, tale da spingermi a consigliare agli appassionati del genere di non farselo sfuggire per alcun motivo.

Tracklist:
A
1. (Mammoth Weed Wizard Bastard) The Master and His Emissary
2: (Mammoth Weed Wizard Bastard) Eagduru

B
1: (Slomatics) Ancient Architects
2: (Slomatics) Silver Ships Into The Future
3: (Slomatics) Master’s Descent

Line-up:
Mammoth Weed Wizard Bastard
Jessica Ball – Bass, Vocals
James ‘Carrat’ Carrington – Drums
Wez Leon – Guitars, Effects
Paul Michael ‘Dave’ Davies – Guitars, Effects

Slomatics
Chris – Guitars
David – Guitars
Marty – Drums, Vocals

MAMMOTH WEED WIZARD BASTARD – Facebook

SLOMATICS – Facebook

+Mrome+ – Noetic Collision On The Roof Of Hell

Il duo polacco mette in scena un album che sembra un sorta di bignami di gran parte del metal estremo e non, ricco com’è di brani dalle sfumature differenti ma, magicamente, tutti assolutamente coerenti e funzionali alla resa finale del lavoro.

Benchè sia il loro full length d’esordio, si capisce fin dalla prima nota di questo Noetic Collision On The Roof Of Hell che gli +Mrome+ sono musicisti in possesso di solide basi che provengono da un attività iniziata addirittura alla fine del secolo corso (infatti, l’unica uscita precedente con questo monicker raccoglie tracce demo edite tra il ’97 ed il ’99).

Il duo polacco mette in scena un album che sembra un sorta di bignami di gran parte del metal estremo e non, ricco com’è di brani dalle sfumature differenti ma, magicamente, tutti assolutamente coerenti e funzionali alla resa finale del lavoro.
Death, thrash, black, a tratti anche sludge, vanno a confluire in una tracklist che convince proprio perché, nonostante la sensibile differenza di fondo che si può riscontrare tra un brano e l’altro, utilizza un collante formidabile come la capacità di scrittura e una tecnica solida e al servizio di una forma canzone sempre ben delineata.
Infatti, Noetic Collision On The Roof Of Hell non è il classico lavoro sperimentale con il quale musicisti estrosi saltabeccano senza preavviso da una genere all’altro spiazzando anche l’ascoltatore più scafato: le varie pulsioni stilistiche confluiscono normalmente all’interno dei singoli brani senza che questo vada a frammentare il risultato d’insieme, così le sfuriate thrash hardcore di Locust Follows Words hanno lo stesso diritto di cittadinanza dello sludge di Piss & Laugh o del death di Colors, e convivono al meglio con la cover di How the Gods Kill di Danzig.
Ecco, una delle cartine di tornasole della creatività di una band è il metodo utilizzato per coverizzare brani altrui: la maggior parte esegue una versione piuttosto aderente all’originale accelerandola o rallentandola, indurendola o conferendo comunque un qualcosa attinente allo stile musicale praticato; i +Mrome+, invece, stravolgono una delle brani simbolo del nerboruto statunitense facendolo diventare una traccia completamente nuova e differente, mantenendo di fatto il solo testo e, sia pure sufficientemente deviato, il riff che segue il chorus.
Credo che tutto questo basti per incuriosire il giusto chi ha voglia di scoprire nuovi nomi, e il passo successivo è quello di fare una capatina sulla pagina bandcamp dei +Mrome+ per farsi un’idea della loro proposta, che risulta sufficientemente originale pur senza ricorrere a sperimentalismi cervellotici.

Tracklist:
1.Colors
2.Crush the Moon
3.Migration Cult
4.How the Gods Kill (Danzig cover)
5.Trust
6.Generation Anthem
7.Piss & Laugh
8.Locust Follows Word
9.Magister Figurae Morte
10.The Arsonist

Line-up:
Key V – vocals, guitars
P – drums

Grave Lines – Fed into the Nihilist Engine

Quando la produzione è in mano al mastermind degli Esoteric, Greg Chandler, bisogna prestare parecchia attenzione e non lasciarsi sfuggire l’arte che ne deriva.Un’ora di suoni doom, sludge, darkwave plumbei, oscuri e meritevoli di entrare nella nostra carne e nel nostro cervello.

Quando la produzione è in mano al mastermind degli Esoteric, Greg Chandler, bisogna prestare parecchia attenzione e non lasciarsi sfuggire l’arte che ne deriva.

Anche in questo caso è cosi perché i Grave Lines, quartetto londinese di recente costituzione che nel 2016 ha esordito con Welcome To Nothing, meravigliano con un’opera possente, intensa, abbastanza personale e decisamente pesante. I quattro musicisti provengono tutti da realtà underground britanniche (alcune come Dead Witches, Centurion’s Ghost, Throne) e per l’etichetta New Heavy Sounds, che ci ha fatto conoscere i meravigliosi Mammoth Weed Wizard Bastard, ci regalano un’ora di suoni doom, sludge, darkwave plumbei, oscuri meritevoli della nostra massima attenzione. L’idea di alternare brani lunghi con brani più brevi non è chiaramente la più originale ma crea un’atmosfera intossicante, tesissima e indomabile. L’opener Failed Skin (14 minuti) inquadra il loro suono su coordinate lente, scandite dalla voce decisa di Jake Harding che, per certi toni, può rammentare Michael Gira (Loss/Betrayal), mentre le chitarre lentamente creano il brano che sale, cresce, imponente, maestoso, epico intrecciando tempeste sonore aggrovigliate su tormenti interiori in cerca di uno spiraglio di luce. Siamo solo all’inizio ma le sensazioni sono quelle giuste, la band sembra già matura e conscia del proprio potenziale; i musicisti esplorano la negatività insita nelle nostre relazioni personali e ogni nota è carica di tensione spasmodica come in Silent Salt, dove l’effetto ipnotico indotto dalla reiterazione chitarristica mostra il lento cammino di un io rabbioso incatenato ma voglioso di ribellarsi. Gli artisti riescono, anche all’interno di un genere monolitico, a variare le atmosfere aggrappandosi ad aromi darkwave molto pronunciati, le linee di synth di Loathe/Displace (mi ricordano, ma probabilmente non è voluto, alcune linee di Eyeless in Gaza) disegnano atmosfere stranianti particolari, suggestive, mentre le vocals sono disturbanti nella loro tersa esposizione. La ritmica tribale di The Greae aggiunge altra “darkness” e introspezione, condotta su note di basso insistenti che introducono lentamente le distorte melodie chitarristiche, mentre, dopo la breve parentesi di Guilt/Regret, il tutto si suggella con gli undici minuti di The Nihilist Engin, dove la devozione a certi suoni di matrice Neurosis viene fuori in tutta la sua imponenza, conducendoci per mano verso abissali territori heavy progressive. Una grande sorpresa, grande musica e grandi sensazioni.

Tracklist
1. Failed Skin
2. Shame/Retreat
3. Self Mutilation by Fire and Stone
4. Loss/Betrayal
5. Silent Salt
6. Loathe/Displace
7. The Greae
8. Guilt/Regret
9. The Nihilist Engine

Line-up
Julia Owen – drums,backing vocals,synth,keys
Stgr’n Matt – bass,backing vocals,acoustic guitar
Oliver Irongiant – guitars
Jake Harding – vocals,lyrics

GRAVE LINES – Facebook

Bodies On Everest – A National Day Of Mourning

un frutto sanguinolento ed ipnotizzante che respingerà al primo ascolto, non piacerà decisamente al secondo, lascerà perplessi al terzo, e che al quarto diverrà un qualcosa di cui non si potrà fare più a meno, simile ad un veleno mortalmente lento ed assuefacente.

Talvolta la musica cessa d’avere la forma che conosciamo e che in qualche modo ci rassicura, per quanto possa essere pesante in ambito metal, per assumere sembianze che difficilmente possono essere definibili o quanto meno descritte con dovizia di particolari.

Sono sempre più i dischi sottoposti alla nostra attenzione che sono collocabili nel calderone ambient, ma anche qui le differenze possono essere davvero sensibili perché si può trovare la raccolta di note delicate, atte a descrivere od auspicare una ritrovata armonia con l’universo e, in primis, con noi stessi, oppure, come in quest’opera dei Bodies On Everest, il rumore di fondo di ciò che accade su un pianeta che, probabilmente, ha esaurito la propria capacità di contenere un’umanità che ha pochissima voglia di condivisione.
Sono diverse miliardi di isole quelle che si muovono lungo i continenti e le nazioni, esseri che vivono in comunità ma soli come i corpi che periodicamente vengono restituiti dai ghiacci eterni sulle pendici della montagna più alta del mondo, come richiama il monicker di questa notevole band inglese.
A National Day Of Mourning è un’opera che riscrive ed espande i confini dello sludge, provando ad indurre terrore invece che anestetizzare con un andamento penoso e strascinato: l’operazione riesce al meglio perché , nonostante i Bodies On Everest non facciano nulla per risultare accessibili, l’opera tiene realmente avvinghiati facendoci sentire attori protagonisti di un thriller/horror all’interno del quale si viene sballottati tra scenari di violenza, ora fisica ora psicologica, ora individuale ora di massa, il tutto inserito all’interno di sonorità varie e distinguibili nonostante la loro forte propensione sperimentale.
Il giro di basso della seconda metà di Tally Of Sevens continua a pulsare nelle orecchia anche qualche ora dopo aver terminato l’ascolto, e questo è uno degli agganci per così dire normali in un lavoro che di normale ha quasi nulla: psichedelia, drone, sludge, ambient, elettronica, il tutto viene frullato assieme a qualche residua forma di vita, offrendo un frutto sanguinolento ed ipnotizzante che respingerà al primo ascolto, non piacerà decisamente al secondo, lascerà perplessi al terzo, e che al quarto diverrà un qualcosa di cui non si potrà fare più a meno, simile ad un veleno mortalmente lento ed assuefacente.

Tracklist:
1.unreleaseddeathvideo.flac
2.Tally Of Sevens
3.Gold Fangs In Enemy Territory
4.Shotgun Or Sidearm
5.Suspicious Canoe
6.Who Killed Yale Gracey?

Line-up:
Baynes – Bass, Electronics, Vocals
Wàrs – Bass, Electronics, Vocals
Gold – Drums, Electronics, Vocals

BODIES ON EVEREST – Facebook

Hundred Year Old Man – Breaching

Breaching non è un lavoro molto semplice da assimilare e la sua durata vicina all’ora rende il tutto ancor più impegnativo, ma anche gratificante per chi apprezza certe sonorità.

Dopo aver parlato nello scorso inverno dell’ep Black Fire, ritroviamo i britannici Hundred Year Old Man alle prese con il loro primo full length,

Da quel lavoro la band di Leeds mutua sia il brano omonimo sia Disconnect, presentando altre sei tracce inedite, tre delle quali sono pregevoli episodi di matrice ambient, mentre The ForestLong Wall e Ascension mettono in mostra quello sludge post metal disturbato da inserti dronici e ben poco propenso a lasciare spazio agli accenni melodici nei quali ci eravamo imbattuti qualche mese fa.
Va detto che proprio il brano conclusivo, però, al di là delle vocals straziate, si muove su tempi più ragionati andando a creare un’interessante dicotomia tra lo sviluppo del sound e, appunto, l’uso della voce.
Il risultato finale è un album che tiene fede alle aspettative, fornendo comunque buona continuità alla precedente produzione e andando a collocare gli Hundred Year Old Man tra le realtà di sicura prospettiva nella scena europea.
Breaching non è ovviamente un lavoro molto semplice da assimilare e la sua durata vicina all’ora rende il tutto ancor più impegnativo, ma anche gratificante per chi apprezza tali sonorità.

Tracklist:
1 Breaching
2 Black Fire
3 The Forest
4 Clearing The Salients
5 Long Wall
6 Disconnect
7 Cease
8 Ascension

Line-up:
Aaron Bateman
Paul Broughton,
Steve Conway
Owen Pegg,
Dan Rochester-Argyle
Tom Wright

HUNDRED YEAR OLD MAN – Facebook

Coltsblood – Ascending Into Shimmering Darkness

Chi ama sia il doom, sia il sempreverde formato in vinile, non dovrebbe farsi sfuggire l’occasione di fare propria l’ultima opera di una band magari finora poco conosciuta ma davvero di notevole spessore, oltre che composta da musicisti dotati di grande sensibilità.

Ascending Into Shimmering Darkness è il secondo full length degli inglesi Coltsblood: l’album è stato pubblicato dalla Candlelight circa un anno fa, ma la riedizione in vinile in uscita in questi giorni a cura della Black Bow ci fornisce l’occasione di rinfrescare la memoria degli appassionati di doom.

Il trio di Liverpool offre uno sludge strettamente imparentato con il funeral che restituisce al meglio il sentimento di vuoto e di sgomento insito nel genere: cinquanta minuti per cinque brani sono la tariffa consueta che le band operanti in questo ambito spesso applicano, quasi sempre con ottimi risultati come accade in questo caso.
Ascending Into Shimmering Darkness è uno splendido lavoro, che ha per di più il pregio di procedere con un crescendo emotivo che vede una partenza più incline allo sludge con la title track (brano peraltro già edito nello split con Horse Latitudes e Ommadon del 2014), per poi giungere alla conclusiva The Final Winter, nella quale a predominare nettamente è una componente funeral esibita con grande intensità.
Il tutto avviene passando per tracce più aspre come Mortal Wound e The Legend of Abhartach e la relativamente più melodica Ever Decreasing Circles, specialmente per l’ottimo lavoro della chitarrista Jem; dal canto suo, il marito John affligge gli ascoltatori con il suo growl, componendo con con il batterista Jay una base ritmica che spicca maggiormente per dinamismo, come detto, nella prima parte del lavoro.
Vale davvero la pena, quindi, di compiere questa “ascesa verso una scintillante oscurità”, e chi ama sia il doom, sia il sempreverde formato in vinile, non dovrebbe farsi sfuggire l’occasione di fare propria l’ultima opera di una band magari finora poco conosciuta ma davvero di notevole spessore, oltre che composta da musicisti dotati di grande sensibilità.

Tracklist:
1. Ascending into Shimmering Darkness
2. Mortal Wound
3. The Legend of Abhartach
4. Ever Decreasing Circles
5. The Final Winter

Line-up:
John – Vocals, Bass
Jem – Guitars
Jay – Drums

COLTSBLOOD – Facebook

Fister – No Spirit Within

I Fister esibiscono quella che è l’essenza stessa dello sludge, una musica che è l’ideale punto d’incontro tra la rabbia del noise e dell’hardcore e l’immaginario cupo del doom.

I Fister sono esponenti dell’affollata scena sludge doom statunitense: attivi da una decina d’anni hanno già immesso sul mercato una miriade di ep e split album, oltre a quattro full length dei quali l’ultimo è questo No Spirit Within.

Il trio di Saint Louis aveva ulteriormente scaldato motori già sufficientemente rodati con la recente uscita in coppia con i Chrch e, con questo album, conferma ampiamente quanto abbiamo imparato a conoscere in questi anni: lo sludge doom dei Fister è ruvido, sporco e cattivo, ogni parvenza melodica viene bellamente disconosciuta lasciando semmai a sporadici e dissonanti assoli chitarristici il compito di delineare qualcosa che non sia solo un ottundente assalto sonoro.
I Fister sono decisamente meglio quando decidono di rallentare parzialmente i ritmi, facendo sì che i brani assumano una consistenza più densa e ben più minacciosa rispetto a quando viaggiano a velocità più sostenute: emblematico in tal senso è un brano come I Am Kuru, episodio di terrificante potenza che dal vivo immagino possa creare un’onda d’urto degna della deflagrazione di un ordigno.
Per finezze e ricami stilistici meglio rivolgersi altrove: i Fister esibiscono quella che è l’essenza stessa dello sludge, una musica che è l’ideale punto d’incontro tra la rabbia del noise e dell’hardcore e l’immaginario cupo del doom: quando il tutto si traduce in un album come No Spirit Within, per quella fascia di ascoltatori selezionata ma fedele la gratificazione è assicurata.

Tracklist:
1. Frozen Scythe
2. Disgraced Possession
3. Cazador
4. I Am Kuru
5. No Spirit Within
6. Heat Death
7. Star Swallower

Line-up:
Kirk Gatterer – Drums
Marcus Newstead – Vocals (additional), Guitars
Kenny Snarzyk – Vocals (lead), Bass

FISTER – Facebook