PLATEAU SIGMA + (ECHO) – Imperia 2/4/2016

Nel piccolo ma accogliente locale dell’Arci Camalli di Imperia, situato nella zona portuale di Oneglia, sabato 2 aprile è andato in scena un concerto che ha visto all’opera due delle migliori realtà doom (anche se molto sui generis) italiane, i padroni di casa Plateau Sigma ed i bresciani (Echo).
In realtà alla serata avrebbero dovuto partecipare anche i romani Fish Taco, i quali all’ultimo momento hanno dovuto rinunciare; un peccato, ma non c’era alcun dubbio sul fatto che le due band citate sarebbero bastate ed avanzate per dar vita ad una serata di ottima musica.

Gli (Echo) sono giunti nell’estremo ponente ligure freschi dell’incisione del loro secondo full length Head First into Shadows, l’atteso successore del magnifico Devoid Of Ilusion, la cui pubblicazione è prevista il prossimo 23 maggio sotto l’egida della BadMoodMan (sub label della russa Solitude).
I ragazzi bresciani hanno colto l’occasione, pertanto, per presentare in anteprima quattro dei sei brani che andranno a comporre la tracklist del nuovo album; non posso negare che da parte mia c’era anche una certa curiosità per verificare come fosse stata assorbita la dipartita di Antonio Cantarin alla voce e devo dire, con soddisfazione, che il giovane Fabio Urietti non ha fatto rimpiangere affatto il suo predecessore rispetto al quale ha mostrato forse una minore propensione per le clean vocals, mentre screaming e growl sono apparsi di primissimo livello per cui, complessivamente, non si può che convenire su questa scelta.
Dopo aver inaugurato il set con Summoning the Crimson Soul, brano che di fatto apriva anche Devoid of Illusion, gli (Echo) sono passati alla presentazione delle nuove tracce; per quanto possa valere un primo ascolto, per di più live, si può ragionevolmente ritenere che il lavoro di prossima uscita sarà del tutto all’altezza delle aspettative: la particolare commistione tra doom e post metal, che aveva stupito per maturità nell’unico full length finora prodotto, pare ulteriormente destinata a consolidarsi, raggiungendo picchi già ragguardevoli al primo impatto in tracce come Gone (che su disco vedrà il contributo vocale di Jani Ala-Hukkala dei Callisto) e Order of the Nightshade (magnifica nella sua parte finale), ma non da meno sono apparse A New Maze e Beneath This Lake (qui invece troveremo a prestare la propria voce Daniel Droste degli Ahab).
La stupenda The Coldest Land ha chiuso teoricamente l’ottimo set prima dell’esecuzione, con la partecipazione di Francesco Genduso dei Plateau Sigma, della terremotante cover della sabbathiana Electric Funeral: dopo aver citato il nuovo vocalist è doveroso un plauso al resto della band, per la notevole prova fornita dalla coppia di chitarristi Simone Saccheri e Mauro Ragnoli e da quella ritmica composta da Agostino Bellini al basso e Paolo Copeta alla batteria.

Dopo una breve pausa la scena è stata presa dai Plateau Sigma, attesi alla presentazione dal vivo della loro ultima fatica Rituals, uno dei migliori album pubblicati in questo primo scorcio del 2016 per Avantgarde Music. Giocando in casa, come detto, i nostri hanno catturato l’attenzione di un pubblico competente che, quasi da prassi per qualsiasi concerto che abbia a che fare con il doom nella nostra penisola, non era purtroppo numeroso ma comunque sufficiente a riempire il locale, creando un’atmosfera di grande coinvolgimento.
L a band dell’imperiese, come detto in sede di recensione, con il proprio recente album ha travalicato il concetto di doom proponendo un sound fresco e personale, nel quale parti acustiche ed evocative, caratterizzate dalle clean vocals di Manuel Vicari, trovano il loro contraltare nelle brusche impennate di matrice estrema segnate dal profondo growl di Francesco Genduso. E’ proprio la costante alternanza tra i due cantanti/chitarristi, così diversi per timbrica vocale e per tocco, eppure così naturalmente complementari, la grande peculiarità ed il vero valore aggiunto dei Plateau Sigma, senza dimenticare ovviamente l’ottimo supporto della base ritmica fornita da Maurizio Avena al basso e dai Nino Zuppardo alla batteria.
Rituals è stato presentato nella sua interezza, partendo quindi dalla breve intro The Nymphs e passando per la splendida Palladion, la più robusta The Bridge and the Abyss, la rituale Cvltrvm (traccia che, più di altre, viene esaltata dal contesto live) per arrivare alle due parti della title track, mentre la chiusura è stata affidata alla riproposizione di Maira and the Archangel, tratta dall’Ep d’esordio White Wings of Nightmares. Proprio quest’ultimo e bellissimo brano è un ideale indicatore dello spessore artistico dei Plateau Sigma, capaci di evolversi nel corso degli anni senza snaturare la propria matrice doom, arricchendola di diverse sfumature e rifuggendo schemi compositivi rigidi senza precludersi alcun tipo di traiettoria musicale.

Tirando le somme, una serata perfetta sia dal punto di vista musicale, sia da quello prettamente personale, visto che ho avuto l’occasione di incontrare e fare la conoscenza di ottimi musicisti e soprattutto splendidi ragazzi, cosa che peraltro accade puntualmente in queste occasioni, con buona pace di chi considera chiunque graviti nell’ambiente del metal alla stregua di un’accozzaglia di barbari da confinare ai margini della civiltà …

platecho

Riccardo Storti / Fabio Zuffanti – Prog Rock: 101 dischi dal 1967 al 1980

Prog Rock è un libro che nasce dalla voglia di trasmettere senza alcuna reticenza un sapere che è frutto, anzitutto, di una grande passione per la musica.

Entrando in qualsiasi libreria, ci si trova spesso di fronte a volumi, talvolta ponderosi, intitolati i “100 migliori dischi del ….” dove, al posto dei puntini, si può inserire un genere musicale a piacere.

Parliamo, quindi, di un tipo di operazione che sovente si rivela piuttosto arida, trasformandosi in una sequela di recensioni postume raggruppate in un volume, per di più con la pretesa nemmeno troppo velata, da parte dell’autore, di attribuire un valore assoluto alle proprie scelte.
Ci si potrebbe legittimamente chiedere, allora, perché possa valere la pena di acquistare questo Prog Rock – 101 dischi dal 1967 al 1980: ebbene, a parte la scelta bizzarra di non voler fare cifra tonda, la differenza sostanzialmente sta soprattutto in chi lo ha scritto e nelle modalità di selezione dei dischi prescelti.
Gli autori di quest’opera sono infatti i genovesi Fabio Zuffanti, uno dei musicisti contemporanei dediti al progressive tra i più noti ed attivi nella scena italiana, e Riccardo Storti, grande esperto della materia e suo compagno d’avventura nella trasmissione televisiva Astrolabio, in onda su Teleliguria, in collaborazione con il Centro Studi per il Progressive Italiano.
In questo caso i due autori riescono a completarsi alla perfezione, per cui alla competenza tecnica del musicista si aggiunge la conoscenza enciclopedica del saggista/appassionato, dando vita ad un lavoro che, pur non avendo l’ambizione d’essere esaustivo, rappresenta uno spaccato fondamentale di un movimento musicale che, volenti o nolenti, in quegli anni non ha solo cambiato il corso della musica, ma ha costituito una vera e propria espressione culturale a sé stante, trovando un terreno particolarmente fertile nel nostro paese.
Il libro è stato inizialmente ideato dal solo Zuffanti (che, per chi lo ignorasse, è il fondatore di band come Finisterre, Höstsonaten, La Maschera di Cera e, oggi, è attivo con il progetto che porta il suo nome), il quale, scelti i 101 dischi, è ricorso al fondamentale aiuto dell’amico per completare un lavoro mastodontico che ha richiesto diversi anni di lavoro, non essendo stato lasciato nulla al caso nella descrizione di ogni album, fin nei suoi più reconditi dettagli.
Come sottolineato argutamente da qualcuno, in occasione della presentazione del libro avvenuta presso la Libreria Feltrinelli nel capoluogo ligure, di fatto le scelte effettuate da Zuffanti sono inattaccabili in quanto dichiaratamente soggettive, prive quindi dell’ambizione di trasformare un elenco di preferenze in una vera e propria classifica da imporre al lettore.
Nonostante tutto, nel fare questo, i nostri sono ricorsi ad un stratagemma, ovvero quello di non citare più di un album accreditato ad ogni singola band (o musicista): in tal modo si è evitato di saturare il libro con le intere discografie dei gruppi maggiori (King Crimson su tutti, come affermato esplicitamente parlando di In The Wake Of Poseidon), optando piuttosto per una disamina della singola opera, integrata da una panoramica su tutti i restanti lavori.
Un altro criterio utilizzato, che potrebbe far storcere il naso a qualcuno tra gli appassionati più integralisti, è stato quello ampliare lo spettro delle scelte a tutta la musica definibile progressiva in senso lato, intendendo come tale quella che all’epoca sfuggiva alle regole del pop ed alla codificata alternanza strofa-ritornello: questo ha fatto sì che il primo disco ad essere preso in esame sia stato niente meno che Sgt.Pepper dei Beatles, mentre in chiusura è stato collocato Symphonye Celtique del bardo Alan Stivell.
E’ evidente quanto questi due nomi siano d’istinto difficilmente collocabili all’interno del genere così come lo abbiamo sempre inteso, con la logica del negozio di dischi che ha la necessità di incasellare cd o vinili in un settore piuttosto che in un altro, ma è anche grazie a questo che molti, magari, scopriranno che quell’Alan Sorrenti dai più ricordato come la pop star bianco vestita che cantava Figli delle Stelle, è lo stesso autore di Aria, uno dei dischi fondamentali per l’intero movimento.
E ancora, se tra gli artisti italiani troveremo figure “insospettabili” come Battisti, Branduardi, Fortis, Lolli o, un po’ meno a sorpresa, Battiato, non mancano tutti i nomi storici più ordinariamente associabili al genere (inutile citarli), italiani e non, oltre che aperture verso il cosiddetto kraut rock, rappresentato dai dischi di Tangerine Dream, Popol Vuh e Klaus Schulze.
Il libro si occupa, quindi, per lo più di nomi noti ma senza ignorare realtà misconosciute, come diversi gruppi operanti al di là di quella che, a quel tempo, veniva definita “cortina di ferro”; anche per questo il lavoro di ricerca effettuato da Storti e Zuffanti acquisisce ulteriore valore, alla luce delle innumerevoli notizie che accompagnano anche la descrizione di album che non riscossero successo neppure all’epoca.
Per assurdo, proprio la dovizia di particolari talvolta appesantisce la lettura, specie quando si vivisezionano singoli brani spaccando il minuto ed i secondi, oppure quando l’analisi della tecnica musicale si trasforma in terreno per iniziati, risultando non sempre di facile comprensione per chi non sa tenere in mano uno strumento.
Un eccesso di zelo del tutto perdonabile, derivante da una voglia di trasmettere senza alcuna reticenza un sapere che è frutto, anzitutto, di una grande passione per la musica: Prog Rock è un libro che andrebbe letto e riletto dai più giovani, i quali avrebbero così la possibilità di scoprire che le sonorità amate dai loro genitori sono ancora più che mai attuali, nonostante i parametri odierni di misurazione del tempo sembrino farli risalire ad epoche ancor più remote.
Nel contempo, dai più attempati miei coetanei auspicherei una maggiore apertura verso quanto viene prodotto ai giorni nostri, perché il “pericolo” derivante dalla lettura un libro come questo, per gli appassionati di prog che hanno superato gli ‘anta, è proprio quello di farli ripiegare ancor più su un momento della storia musicale a suo modo irripetibile, spingendoli a trascurare per partito preso chi cerca di promulgarne la tradizione rielaborandola con un sentire più moderno.
In sintesi, la mia esortazione è: andiamo pure a goderci i concerti delle band storiche ancora attive o delle stesse tribute band, che ripropongono con rigore quasi filologico le gesta dei grandi del passato, ma non dimentichiamo mai di supportare anche chi propone musica originale, per favore …

P.S.: Non riuscendo a resistere alla tentazione di individuare un album mancante in Prog Rock (sempre in ossequio a quella soggettività nelle scelte che sta alla base dell’opera, sia chiaro), un giochino che coinvolgerà fatalmente chiunque lo avrà tra le mani, indico Before And After Science di Brian Eno, datato 1977: neppure questo si può definire un lavoro ortodossamente progressive ma, con i criteri di inserimento adottati, non avrebbe affatto sfigurato.

pagine 409
€25.00

FABIO ZUFFANTI – Bandcamp

RICCARDO STORTI – Facebook

FABIO ZUFFANTI – Facebook

Dario Cattaneo – Dietro il Sipario: l’Epopea dei Savatage

Dietro Il Siparo è, di fatto, una sorta di bibbia per ogni fan dei Savatage degno di questo appellativo.

Ma dietro le tende, il palco, anche se vuoto, c’è ancora. E qualcuno ha lasciato lì un vecchio pianoforte nero e una chitarra bianca avvolta di rose, entrambi apparentemente pronti per essere riutilizzati.

Si conclude così, di fatto, questo bellissimo racconto, un’avventura nel mondo delle sette note, un omaggio ad una delle più grandi e fondamentali band di cui il nostro genere preferito può vantarsi.
Me lo chiedevo da un bel po’: possibile che nessuno fosse interessato a scrivere un libro sui Savatage? Eppure la band fondata dai fratelli Oliva, ha scritto quanto di meglio il metal abbia potuto offrire, in termini di qualità, al mondo della musica, partendo dal classico power metal made in U.S.A. per trasformarsi strada facendo in una spettacolare orchestra capace di convogliando i suoni ruvidi del metal, la musica classica e il prog senza lasciare, nella sua storia, niente in quanto ad eccessi e tragedie.
Ci ha pensato fortunatamente Dario Cattaneo, una vita nel mondo metal, redattore per Metalitalia e collaboratore di Metal Maniac, nonché grande fan del gruppo floridiano.
Aiutato da Andrea Mariani, batterista della tribute band ufficiale, gli Strange Wings, nonchè roadcrew dei Jon Oliva’s Pain, lo scrittore ha finalmente reso giustizia ad un gruppo unico ed inimitabile, ponendo l’accento su quello che sono sempre stati i Savatage: una famiglia, un unico nucleo di musicisti, gravitanti intorno ai fratelli Oliva prima, e poi, dopo la tragica scomparsa dell’inimitabile axeman Criss, al duo di compositori formato da Paul O’Neill ed il Mountain King, Jon Oliva.
Una scrittura fluida e scorrevole fa in modo che la storia prenda forma come in una pellicola cinematografica, dalle prime esibizioni dei due fratelli, alla parentesi Avatar, un attimo prima che la leggenda prenda il volo, il giorno prima della messa in stampa dello storico Sirens e del cambio di monicker in Savatage.
Di qui in poi si entra dalla porta principale nell’universo dei fratelli Oliva: i vari album sono descritti perfettamente ma senza annoiare, come talvolta accade invece nelle biografie musicali.
I primi successi e gli eccessi del Mountain King, il flop del famigerato Fight For The Rock, le incomprensioni con la Atlantic, fino ad Hall Of The Mountain King ed all’incontro con Paul O’Neill.
Chris Caffery, Al Pitrelli, Jeff Plate, Jack Frost, Zachary Stevens, Alex Skolnick sono solo alcuni dei musicisti della Savalandia che si unirono al gruppo nel corso degli anni, sostituendo o collaborando con la formazione originale: l’autore racconta dei  vari avvicendamenti in formazione con un tocco romanzato che affascina e tiene il lettore incollato alle pagine; la morte di Criss Oliva in un incidente stradale, la decisione di Paul e Jon di continuare, lasciando ad una formazione inusuale lo stupendo Handful Of Rain, e l’inizio della fase orchestrale, affidata a capolavori come Dead Winter Dead, The Wake Of Magellan e Poets And Madmen, ma di fatto già in embrione con l’altrettanto, bellissimo, Streets, sono descritti in modo molto professionale e corredati da schede in cui vengono raccontate le varie storie che formano questi concept, ormai passati alla storia.
Ma il mondo dei Savatage non finisce con il lungo silenzio della band: Cattaneo, nel finale, ci regala un’ulteriore panoramica su tutti i figli musicali della band madre, dai Doctor Butcher ai Jon Oliva’s Pain, dai Circle II Circle alla carriera solista di Chris Caffery, fino all’immensa Trans Siberian Orchestra, quella che, a detta dallo stesso Mountain King, è la nuova incarnazione dei Savatage.
Una band che ti entra dentro l’anima e non ti lascia più, l’unica che può vantare un innumerevole via vai di musicisti senza perdere un grammo della sua identità, troppo presto privata del grande talento di Criss Oliva, ma valorizzata dall’altrettanto mostruoso musicista e compositore che è il fratello Jon.
Il libro si conclude con la descrizione dell’evento al Wacken Open Air dello scorso anno, che vedeva la reunion dei Savatage con la formazione di The Wake Of Magellan suonare a fianco della Trans Siberian Orchestra, e la dettagliata discografia del gruppo compresi i vari progetti di cui abbiamo parlato.
Licenziato dalla Tsunami Edizioni, ormai punto di riferimento per la musica scritta, Dietro Il Siparo è, di fatto, una sorta di bibbia per ogni fan dei Savatage degno di questo appellativo, ed essendo io stesso un adoratore della musica del maestro Oliva, non mi rimane che ringraziare l’autore per questa suo esauriente omaggio … Still The Orchestra Plays!

“Killed By Death”

Non è nell’indole della nostra webzine pubblicare puntualmente articoli commemorativi quando viene a mancare un grande personaggio del mondo musicale ma, nel caso della morte di una delle ultime vere icone del rock/metal, quale è stato Lemmy Kilmister, non ci siamo potuti tirare indietro.

L’ultimo “coccodrillo” lo scrissi in occasione della tragica scomparsa di Francesco Di Giacomo, un uomo e un musicista che, istintivamente, è da considerarsi agli antipodi del leader dei Motörhead: eppure, a ben vedere, entrambi sono stati accomunati dall’aver vissuto fino alla fine dei loro giorni calcando i palchi senza diventare neppure per un attimo la caricatura di sé stessi, con la differenza che l’artista inglese è stato quasi “condannato” a farlo dalla sua stessa indole, avendo in qualche modo consacrato la sua intera esistenza alla vita on the road.
Ma è chiaro che la morte di Lemmy assomiglia molto alla dipartita di un amico che ci ha accompagnato nel corso della nostra esistenza, con le proprie canzoni semplici, essenziali ma dannatamente efficaci e capaci di veleggiare nel tempo senza perdere un oncia della loro carica eversiva. Dico tutto questo, ci tengo a precisarlo, senza essere neppure mai stato un fan incallito dei Motörhead: per chi come me è approdato al metal con un retaggio progressive, è naturale prediligere le forme più emozionali e strutturate del genere rispetto al lineare “palla lunga e pedalare” che solo Lemmy e soci, però, dall’alto della loro grandezza, potevano permettersi di perpetuare all’infinito senza che nessuno avesse alcunché da ridire.
Ma più che sul musicista è interessante fare una riflessione sull’uomo Lemmy Kilmister: nella vasta aneddotica che sta monopolizzando la rete in questi giorni successivi alla sua scomparsa, emerge in maniera unanime l’immagine di una persona semplice, diretta e sorprendentemente colta, caratteristiche che fanno abbastanza a pugni con l’iconografia della rockstar selvaggia dedita a sesso, droga e rock’n’roll, alla quale è sempre stato inevitabilmente abbinato.
E, in effetti, credo che Lemmy sia stato uno dei pochi miti delle sette note ad essere amato in maniera incondizionata un po’ da tutti (dagli stessi colleghi in primis) e in maniera trasversale, indipendentemente dal gradimento specifico nei confronti della sua musica, proprio per il suo essere stato sempre sé stesso, senza abusare del proprio invidiabile status ed evitando di ridursi, come accaduto invece a molti altri, ad un semplice pupazzo manovrato dallo show business ad uso e consumo dei fans.
Persino il cancro, un mostro di solito impietoso nello scegliere e perseguire i propri obiettivi, ha deciso di presentargli il conto molto più tardi di quanto il suo stile di vita avrebbe fatto presagire, e gli ha pure risparmiato la penosa trafila di cure vane e devastanti , avvinghiandolo nelle sue mortali spire pochi giorni dopo essere stato diagnosticato.
Ci mancheranno la sua particolare postura sul palco, con il microfono collocato ad altezze improbabili, e la sua voce cartavetrata dall’abuso cinquantennale di Jack Daniels e sigarette, ma la sua eredità resterà negli anni a venire, con un brano come Ace Of Spades che continuerà ed essere ascoltato e suonato finché ci sarà musica su questo pianeta.

SATURNUS + HELEVORN – 20/9/15 Collegno, Padiglione 14

Tre ore di musica magnifica; peccato per chi non c’era …

Nel raccontare una giornata di questo tipo la cosa più complessa è scegliere da che parte iniziare: quindi, seguendo un po’ l’istinto, un po’ le convenzioni, darò prima la notizia cattiva rispetto a quella buona.

La cattiva notizia è che organizzare concerti doom in Italia si sta rivelando un cimento per temerari (rappresentati nello specifico da Alex e Simone della House Of Ashes) che antepongono la passione al mero interesse economico, e se la cosa può valere in senso lato per molti di coloro che ci provano con buona parte del metal underground, lo è a maggior ragione con un genere che, in particolare dalle nostre parti, riscuote l’interesse di un numero davvero limitato di persone.
Josep Brunet, vocalist degli splendidi Helevorn, nonché ennesima bella persona che ho avuto la ventura di conoscere tra coloro che calcano i palchi metal, mi confidava d’essere più stupito che amareggiato non tanto per la propria band quanto per il fatto che ad assistere ad un concerto dei Saturnus (cosa che per chi ama il doom dovrebbe costituire un appuntamento imperdibile) ci fossero circa 30 persone, che erano ancora meno durante l’esibizione della band maiorchina.
Non è un dogma assoluto, sia chiaro, ma il fatto che per ascoltare doom, specialmente quello più estremo pur se dai connotati melodici, sia necessario possedere una buona dose di sensibilità, mi porta a pensare, alla luce delle scarse presenze (peraltro confermate in qualche modo nella precedente data bresciana), che la deriva del nostro paese verso un protervo ed edonista menefreghismo sia del tutto inarrestabile.
Del resto, in una nazione in cui nessuno pare abbia voglia di muovere il proprio culo per andare ai concerti e, anzi, da più parti si invoca persino la chiusura degli spazi all’aperto dedicati alla musica rock e metal (successo a Genova quest’estate), folle oceaniche si spostano solo quando il tutto viene insignito del marchio dell’evento epocale, al quale non si può mancare pena l’oblio eterno sui social network, che pare essere la peggiore delle condanne; aggiungiamo poi che, per organizzare l’ultimo di questi (il campovolo ligabuesco), pare addirittura che un intero quartiere di Reggio Emilia sia stato di fatto messo sotto sequestro, impedendo ai residenti di uscire o ancor peggio di entrare a casa propria: cosa dobbiamo pensare od aspettarci ancora ? Non lo so, fatto sta che, al netto di queste tristi ma dovute considerazioni, la serata al Padiglione 14 di Collegno (ecco la notizia positiva) resterà a lungo impressa nella mia memoria.
Diciamoci la verità, se da una parte constatare la sordità della maggior parte delle persone fa rabbia, dall’altra, egoisticamente, si trasforma in un vantaggio non da poco potersi godere una delle proprie band preferite (i Saturnus) ed un’altra che è sulla buonissima strada per diventarla (gli Helevorn) come se si fosse nel salotto di casa propria, a stretto contatto con i musicisti e con quelle altre poche anime unite dalla comune passione per sonorità inimitabili sotto l’aspetto evocativo.
Tre ore di musica magnifica, quindi, resa tale anche da suoni tarati ottimamente, che i pochi ma buoni della famiglia doom (come ha simpaticamente detto Josep all’inizio dell’esibizione degli Helevorn di fronte allo sparuto gruppo di spettatori) si sono goduti alla faccia di chi, nel contempo, altrove stava partecipando ad un rituale di massa con il solo scopo di poter dire “io c’ero …”, probabilmente osservando il proprio intoccabile idolo a centinaia di metri di distanza.
Gli Helevorn provenivano da un album entusiasmante come Compassion Forlorn e sul palco hanno confermato ampiamente il loro valore come musicisti e performer: Josep Brunet ha padroneggiato con disinvoltura le clean vocals che forniscono un tocco decisamente più gothic al sound degli spagnoli, mantenendo peraltro inalterato il proprio eccellente growl, Samuel Morales ha offerto una fondamentale impronta melodica con la chitarra solista, il tutto sopra il tappeto atmosferico creato dalle tastiere di Enrique Sierra; non da meno sono stati il simpaticissimo Sandro Vizcaino alla chitarra ritmica, Xavi Gil alla batteria e Guillem Calderon al basso.
I nostri hanno proposto, in un set purtroppo breve ma intenso, alcune delle perle tratte dall’ultimo album (su tutte il singolo Burden Me ed il capolavoro Delusive Eyes) oltre alla ben nota From Our Glorious Days, uno dei picchi assoluti della loro precedente discografia.
Dopo una breve pausa, l’incipit di Litany Of Rain ha annunciato la salita sul palco dei Saturnus, band per la quale ho già sprecato in passato tutti gli elogi e gli aggettivi a disposizione del mio limitato vocabolario. Posso solo aggiungere che poter ascoltare dal vivo brani capaci già di indurre alle lacrime quando si sta comodamente seduti sul divano di casa, può avere un impatto emotivo davvero devastante, ovviamente in senso positivo.
Credo che l’assunzione di nessuna droga al mondo possa esser capace di farmi provare lo stesso livello di estasi raggiunta quando i Saturnus, a circa 5 metri da me, hanno suonato quello che è il brano più bello mai composto, il cui titolo, inutile dirlo, è I Long
Devo trovare un difetto ai grandi danesi ? Eccolo: I Long meriterebbe il posizionamento come ultimo brano in scaletta, magari come bis, perché il climax che si raggiunge al termine di quelle note non può più essere ricreato successivamente dagli altri brani, per quanto ugualmente magnifici.
Altro da aggiungere ? Thomas Jensen aveva la solita aria di chi è capitato lì per caso, poi quando si è palesato il suo growl dal timbro unico si è capito che, invece, è stato lì collocato per qualche disegno superiore, e lo stesso è accaduto con i passaggi in recitato (come nella coinvolgente All Alone); i lungocriniti Gert Lund (chitarra ritmica) e Brian Hansen (basso), oltre al preciso contributo musicale hanno fornito anche una notevole presenza scenica, Henrik Glass ha picchiato il giusto senza esagerare, come il genere richiede, ed il giovane Mika Filborne si è rivelato il tastierista che fino a qualche anno fa mancava on stage ai Saturnus.
Ma il protagonista, non me ne vogliano gli altri, è stato come sempre Rune Stiassny, chitarrista che senza tecnicismi circensi, sa far parlare al cuore il proprio strumento (“You make me cry too much” gli ho confidato scherzando, ma non troppo, al termine del concerto): le linee melodiche del musicista nordico sono realmente indimenticabili, dal vivo come su disco, e sono capaci di far sprofondare la mente in un pozzo di malinconia dal quale, solo al termine, se ne verrà fuori depurati finalmente dalle brutture di un’attualità allarmante e dalle nequizie di un’umanità dai tratti ripugnanti.
Litany Of Rain, Wind Torn, I Love Thee, Christ Goodbye, ovviamente I Long e il gradito bis A Father’s Providence, sono state solo alcune delle gemme che i Saturnus hanno regalato ai pochi ma davvero fortunati presenti.
Uno degli aspetti che più mi ha colpito, anche se non è certo una novità in simili occasioni, è la convinzione ed il piacere di suonare che ogni musicista ha dimostrato, nonostante un’audience così risicata: non uso volutamente il termine “professionali” perché preferisco associarlo a persone che svolgono con impegno un compito loro malgrado: nulla a che vedere con volti che apparivano rapiti dalla loro stessa musica, un atteggiamento che ha accomunato Helevorn e Saturnus con la trentina di appassionati che, immagino, mai come questa volta abbiano avuto la percezione di sentirsi un tutt’uno con chi si trovava sul palco.
A proposito di professionalità, un’avvertenza: quando parlo dei Saturnus la mia obiettività è uguale a zero, ma se chi legge queste righe ama come me tali sonorità non faticherà a ritenermi del tutto attendibile ….

P.S. Un ringraziamento speciale ai “temerari” della House Of Ashes, ai miei compagni di viaggio e a chi ha ripreso con mano ferma le immagini che potete vedere sotto.

ECNEPHIAS

Gli Ecnephias, con il loro disco autointitolato di recente pubblicazione, stanno ottenendo unanimi riscontri non solo all’interno dei nostri confini, a conferma dell’innegabile livello qualitativo raggiunto in quest’ultima occasione, ed inevitabilmente sono stati molti gli aspetti ed i retroscena sviscerati nel corso di quest’intervista.
Il nostro interlocutore però, contrariamente al solito, non è stato Mancan bensì il tastierista Sicarius, altra figura chiave nell’economia del combo lucano, in virtù del suo ormai lungo sodalizio con il leader e fondatore di questa magnifica realtà del metal tricolore.
Non per questo la lunga chiacchierata è stata meno interessante, anzi, si è rivelata una ghiotta opportunità per osservare il pianeta  Ecnephias da un’angolazione diversa dal solito …

ecnephias1

ME Il nuovo disco è arrivato in tempi relativamente brevi rispetto a quello precedente.
Forse “Necrogod” non vi aveva del tutto soddisfatti oppure state vivendo una fase creativa molto prolifica?

Siamo molto soddisfatti di “Necrogod”, è stato un album importante, direi di passaggio in un certo senso, perché ci ha dato ulteriore conferma del fatto che la strada intrapresa con il sound di “Inferno” era quella giusta.
In seguito abbiamo deciso di lasciarci andare ed osare ancora di più, di abbandonarci totalmente alla nostra ispirazione ed assecondare quel naturale istinto di evoluzione musicale alla base delle nostre personalità; ci siamo ritrovati, quindi, a scrivere ed arrangiare tanto materiale in poco tempo con grande naturalezza, e non ti nego che sono rimasti fuori dall’album almeno tre o quattro brani che non si amalgamavano del tutto con gli altri, questo a prova del fatto che abbiamo cercato di comporre senza forzare o programmare niente.

ME La scelta di autointitolare l’album ha un significato preciso?

“Ecnephias” è sicuramente il nostro album più maturo, più lungo di durata, più vario, un album in cui abbiamo cercato di fondere tutti gli elementi caratterizzanti dei nostri lavori precedenti con qualcosa di nuovo, soprattutto per quanto riguarda i suoni e gli arrangiamenti; con questo titolo abbiamo voluto marchiare il nostro cammino fino ad ora, come per dire: “questi sono gli Ecnephias, una band in continua evoluzione, dalla quale potete aspettarvi tutto e il contrario di tutto”.
Il titolo omonimo ci sembrava perfetto anche per chiudere nel modo più giusto un capitolo importante della nostra storia, rappresentato dagli ultimi tre album (“Inferno”, “Necrogod” ed “Ecnephias”, ndr) che costituiscono liricamente e musicalmente quella che noi chiamiamo “Trilogia di Thelema”.

ME C’è, quindi, un filo conduttore a livello lirico nel nuovo disco, così come accadeva in “Necrogod”?

Il filo conduttore a livello lirico è una nostra caratteristica fin dai tempi di “Ways of Descention”.
L’argomento cardine è sempre l’occultismo: “Ways of Descention” era un concept più che altro narrativo, per certi aspetti quasi cinematografico, ispirato ad una vicenda storica; “Inferno” era invece un concept poetico sul demoniaco, inteso sia in senso letterale che simbolico; “Necrogod” possiamo definirlo un concept descrittivo, per certi versi anche geografico, sugli elementi oscuri degli antichi culti pagani.
Il nuovo album è un concept psicologico, un percorso filosofico e onirico sulla Via della Mano Sinistra, che a tratti può ricordare alcune atmosfere Lynchiane.

ME Come e quando è nata la decisione di smorzare le asperità presenti in “Necrogod” per approdare ad una forma espressiva più elegante ma altrettanto convincente?

Come ti dicevo non credo si possa parlare di una decisione vera e propria, è stata un’evoluzione del tutto naturale, dettata dall’ispirazione del momento.

ME In sede di recensione ho scritto che “Ecnephias” volge più lo sguardo ai Moonspell che non ai Rotting Christ, band che costituiscono senza dubbio due tra i vostri maggiori punti di riferimento.
Personalmente vedo in quest’album un parallelismo con la svolta che fecero all’epoca i Moonspell pubblicando “Darkness and Hope”, disco che a me piacque molto anche se diversi lo ritengono un lavoro minore: sei d’accordo?

Con questa domanda sfondi una porta aperta, perché personalmente adoro quell’album ed è forse quello dei Moonspell al quale sono più legato in assoluto, in quanto mi ricorda un periodo molto particolare della mia vita.
Credo che il parallelismo da te notato sia giusto, nel senso che in entrambi i casi la svolta è scaturita da un’attitudine, come dire, più “rockeggiante”; le atmosfere più sinistre del Black-Death delle origini si sono tramutate in sonorità più malinconiche, per molti aspetti ancora oscure (anche per via delle liriche), ma molto più vicine al Gothic Rock, alla Darkwave e al Metal classico: proprio per questo motivo la definizione più adatta per la nostra musica attualmente è “Dark Metal”.

ME La matrice mediterranea è sempre ben presente nel vostro sound, questa volta però avete “esagerato” inserendo un brano cantato in dialetto e dagli evidenti influssi folk.
Detto che “Nia Nia Nia” è un esperimento riuscitissimo, ci racconti la genesi di questa canzone?

E’ venuta fuori da un’idea di Mancan; l’intenzione originaria credo fosse quella di una ninna nanna sinistra, malsana: il risultato è un brano “sperimentale”, per via del contrasto tra le atmosfere folk della strofa e quelle black del refrain.
Ti racconto un simpatico aneddoto su questo pezzo: una notte, molto tardi, sono andato a trovare Mancan in sala prove, ero abbastanza ubriaco e lui, che non lo era meno di me, stava appunto lavorando a questo pezzo.
Quando l’ho ascoltato ho subito pensato che sarebbe stato uno dei migliori brani dell’album; abbiamo continuato a lavorarci insieme per un paio d’ore bevendo e fumando, e siccome non avevo con me il synth, ho provato a cazzeggiare una possibile melodia con la voce, una melodia che si incastrasse con le chitarre e il growl del refrain.
Il risultato ci ha convinti a tal punto che in seguito mi sono limitato semplicemente a riregistrare quella stessa melodia con il mio strumento; tipico esempio di arrangiamento di un brano degli Ecnephias.

ME A livello vocale, secondo me, Mancan ha raggiunto il picco della sua carriera.
Ormai il suo timbro vocale è un marchio di fabbrica pari a quello di Fernando Ribeiro e Peter Steele.
Non avete mai pensato, però, alla luce della struttura più melodica del nuovo album, di rinunciare all’utilizzo del growl?

Ci abbiamo pensato qualche volta, però devi sapere che, essendo noi molto eclettici, nel nostro futuro potrebbe succedere di tutto; potremmo mantenerci su questo equilibrio attuale (cosa molto probabile), oppure fare un album tutto cantato, molto soft, o magari uno ultra-tirato, tutto in growl.

ME Quale è, invece, il vostro orientamento per il futuro riguardo all’uso o meno della lingua italiana all’interno dei vostri lavori? 

Credo che continueremo sempre ad utilizzare l’italiano, essendo ormai la mescolanza d’idiomi uno dei nostri marchi di fabbrica.

ME I vostri ultimi album hanno goduto complessivamente di una buona accoglienza da parte degli addetti i lavori.
Come sono andate invece le cose a livello di riscontri di vendita?

Considerando i tempi veramente neri per l’industria musicale, a causa della pirateria dilagante negli ultimi dieci anni, non possiamo certo lamentarci, abbiamo degli ottimi riscontri; non ti nego però che se tutti i downloads dei nostri album (più di 10.000 per “Inferno”, ad esempio) fossero stati acquisti legali, avremmo potuto avere il giusto e meritato riscontro anche economico per il nostro lavoro.
A questo proposito mi permetto di lanciare un messaggio a tutte le persone per le quali “scaricare” è routine: con le vostre manine sulla tastiera del pc, sempre pronte a scaricare intere discografie al giorno, state uccidendo la musica (e tutte le persone che lavorano nell’industria musicale) e porterete prima o poi ad un mondo totalmente privo di quell’atmosfera magica dei decenni passati (quella dei vinili, delle musicassette e dei cd); comprate i dischi, respiratene l’odore, comprateli esattamente come comprate il pane, l’acqua o la birra.

ME Sono solo io a pensare che “Nyctophilia” sia un brano eccezionale, che potrebbe fare sfracelli se adeguatamente promosso (in un paese normale, purtroppo)?

Ti preannuncio che sarà il prossimo brano ad essere diffuso sul web ufficialmente, proprio perché lo riteniamo uno dei pezzi migliori dell’album; speriamo che trascini ulteriormente la promozione, soprattutto per quanto riguarda le vendite, che ad oggi stanno andando già abbastanza bene.

ME La vostra attività live, al di là degli impegni professionali di ciascuno di voi, probabilmente è meno intensa di quanto vorreste.
Quanto pesa questo aspetto secondo te nella crescita di una band a livello di mera popolarità?

L’attività live è fondamentale, perché una band dimostra la sua validità soprattutto lasciando il segno dal vivo; certo è che oggi, tra promoters mafiosetti e “tangenti” richieste all’ordine del giorno, non è affatto facile avere un’attività live dignitosa.
Noi in questi anni abbiamo avuto la fortuna di suonare, almeno in Italia, un po’ dappertutto, spesso in contesti prestigiosi e quasi sempre come headliner o co-headliner.
Ora ce la stiamo mettendo tutta per intraprendere al più presto un tour europeo, con lo scopo di farci conoscere ulteriormente oltre i confini italiani.

sicarius

ME Riallacciandomi al contenuto lirico di “Necrogod” e di diversi brani all’interno della vostra discografia, non posso fare a meno di chiederti quale sia il tuo rapporto con la religione e con il soprannaturale in genere.

Personalmente mi definisco un agnostico, con dei momenti di ateismo e altri di spiritualità.
Vivo molto male il mio agnosticismo, nel senso che sono tormentato dal dubbio e non riesco a credere né nella mera materialità dell’esistenza, né nella presenza di un piano sovrannaturale.
Tralasciando i miei dubbi esistenziali, c’è solo una cosa di cui sono veramente certo: la mia estrema opposizione ideologica verso tutte le religioni organizzate.
Sono però profondamente affascinato da tutto ciò che riguarda il mondo dell’occulto, sia artisticamente che filosoficamente.

ME Ormai il tuo sodalizio con Mancan dura da diversi anni, assieme avete visto gli Ecnephias crescere fino a diventare una delle realtà più importanti del metal italiano: com’è lavorare con un musicista dalla personalità decisamente spiccata come la sua?

Tra me e Mancan c’è una grandissima affinità artistica, oltre che un’amicizia fraterna.
Questo credo sia il motivo principale per cui il nostro sodalizio ha varcato la soglia dei dieci anni.
Per me lavorare con lui è abbastanza semplice e piacevole, in quanto abbiamo lo stesso modo di vedere le cose, sia da un punto di vista compositivo che organizzativo.
Parliamo molto e ci confrontiamo dettagliatamente sulle rispettive idee, spesso litighiamo, ma litighiamo sempre nel rispetto reciproco e dai nostri litigi nascono i pezzi e le decisioni migliori.
Lui è molto lunatico, a volte sfiora la follia, e per questo motivo alcuni ex-componenti non sono riusciti a durare a lungo; non erano in sintonia con il suo carattere.
Per me è stato diverso, in quanto pur essendo meno lunatico, sono altrettanto folle.

ME Com’è distribuito il lavoro compositivo all’interno della band?

Il lavoro compositivo è distribuito ogni volta in maniera diversa, in base anche al livello d’ispirazione di ognuno di noi al momento della realizzazione di un album.
Gli ultimi due album, fatta eccezione per qualche cosa scritta da me e Nikko, sono stati composti interamente da Mancan, proprio perché negli ultimi due anni lui è stato particolarmente ispirato.
Io invece ultimamente ho vissuto un periodo di scarsissima ispirazione e ho cercato di dare un apporto significativo solo per quanto riguarda gli arrangiamenti e alcune soluzioni armoniche o strutturali.
In passato invece ho scritto diversi brani da solo ed altri a quattro mani con Mancan, sia per quanto riguarda le musiche che le liriche.
Molto importante è poi il lavoro in sala prove, dove ognuno cerca di dire la propria e si giunge all’arrangiamento definitivo di ogni brano prima di entrare in studio.

ME Non c’è dubbio che gran parte degli appassionati identifichino gli Ecnephias con la figura di Mancan.
Ci racconti qualcosa sugli altri vostri compagni d’avventura?

Posso dirti che Miguel è un campione olimpionico di bevute, che io e Nikko gli stiamo dietro alla grande e che Demil, essendo un po’ più responsabile, a volte si sacrifica ed è costretto a guidare.
Scherzi a parte, Demil, Nikko e Miguel sono tre grandi musicisti che, con il loro modo di suonare, hanno contribuito enormemente a delineare le coordinate stilistiche del nostro sound da “Inferno” in poi.

ME Dove affondano le tue radici musicali e quali sono i tastieristi che maggiormente ti hanno influenzato?

Il mio battesimo di fuoco con il mondo del Rock e del Metal è avvenuto quasi vent’anni fa con 5 nomi in particolare, ai quali poi ne sono seguiti tanti altri: Litfiba, Goblin, Iron Maiden, Black Sabbath e Ozzy Osbourne.
Sono invece due i tastieristi ad aver influito maggiormente sulla mia formazione musicale: Antonio Aiazzi dei Litfiba e Claudio Simonetti dei Goblin.

ME A mio avviso, oggi, la salute del metal italiano è inversamente proporzionale al degrado progressivo della nazione: a livello underground nascono ogni anno decine di band competitive, preparate e dai grandi margini di crescita.
Le beghe di cortile ed i provincialismi però impediscono di fare fronte comune per creare un movimento forte e coeso: tu come la pensi al riguardo?

Io credo che in Italia ci siano due grandi problemi: il primo è l’esterofilia del pubblico, unica spiegazione al fatto che band straniere, spesso neanche tanto valide, vendano molto di più di quelle italiane e raccolgano maggiori consensi anche in sede live.
Gli italiani (non tutti per fortuna) non sostengono le band italiane, anzi, se una di queste ha successo, sono i primi a criticarla, anche pesantemente; qui giungiamo al secondo grande problema, rappresentato appunto da queste critiche, che sono spesso causate da una grande invidia di fondo: quasi tutti gli ascoltatori di questo genere musicale hanno delle band, alcune sono valide, altre no, e i personaggi che suonano nelle band poco valide (e i loro amici), quando si accorgono che altre ottengono dei risultati mentre le loro restano nell’anonimato, iniziano a boicottarle, facendolo soprattutto in sede live o insultandole sul web.
Tutto ciò, moltiplicato per ogni città e ogni regione, porta a quelle beghe di cortile di cui parlavi.
C’è insomma un particolarismo regionale pressoché identico a quello del Medioevo: Nord contro Sud, isole contro terraferma, “guelfi e ghibellini” nella stessa città o regione.

ME Il 22 marzo si esibirà in quel di Romagnano Sesia, per l’unica data prevista in Italia, un’accoppiata storica come quella formata da Moonspell e Septic Flesh.
Quanto di grande hanno fatto in passato queste due band lo conosciamo tutti, ma cosa ne pensi del loro stato di salute attuale?

Le ritengo due band davvero grandiose, che ad oggi hanno ancora molto da dire.
I Moonspell in particolare sono uno dei miei gruppi preferiti da molti anni; della loro musica ho sempre apprezzato la sincerità, la capacità di stupire ad ogni lavoro: non hanno mai avuto paura di sperimentare e non si sono mai limitati a riprodurre semplicemente, di album in album, la stessa formula consolidata, come invece fanno da più di vent’anni altre band, spesso per non deludere le aspettative di un pubblico poco incline all’evoluzione.
Quest’attitudine dei Moonspell è molto simile alla nostra.

ME Per finire, dopo questi ultimi anni di intensa attività compositiva, cosa ci dobbiamo attendere dagli Ecnephias nel prossimo futuro?

Nel prossimo futuro ci sarà sicuramente un nuovo videoclip entro la tarda primavera, che scriverò e dirigerò personalmente come ho fatto in passato per “A Satana”; poi cercheremo di dare priorità all’attività live.
A tal fine stiamo valutando diverse proposte che, se tutto va per il verso giusto, dovrebbero permetterci di fare almeno due tour europei entro la fine dell’anno.
Inizieremo a pensare seriamente ad un nuovo album il prossimo anno, anche se nel frattempo ci stiamo portando avanti con il lavoro componendo già del nuovo materiale.