Sognando la West Coast: in ricordo di John Cipollina

Il 29 maggio 1989 ci lasciava ad appena quarantasei anni il grande John Cipollina, uno dei maggiori musicisti e session-man californiani di sempre.

Il 29 maggio 1989 ci lasciava ad appena quarantasei anni il grande John Cipollina, uno dei maggiori musicisti e session-man californiani di sempre. Nato a Berkeley, fu uno dei grandi protagonisti della scena di San Francisco, dal 1966 in poi. Dotato di un sound unico ed inconfondibile, vero e proprio maestro nell’uso del tremolo, dotato di uno stile distintamente espressivo e assai melodico, il grande chitarrista statunitense è stato inserito, da Rolling Stone, nell’elenco dei cento migliori axemen, al n. 32 per l’esattezza, davanti a leggende della sei corde come Brian May, Robert Fripp e Frank Zappa.

Cipollina è conosciuto principalmente per il suo lavoro con i Quicksilver Messenger Service, band cardinale nella nascita ed affermazione dell’acid rock in California, nati tra il 1964 e il 1965. QMS, nel 1968, fu il primo atto di una carriera fulminante: prodotto da Nick Gravenites (Paul Butterfield Blues Band), il debutto dei Quicksilver metteva in mostra atmosfere epiche e luminosi strumentali, con sferzanti intrecci chitarristici tra Cipollina e Gary Duncan, ben supportati dalla sezione ritmica di David Freiberg (futuro Jefferson Starship) al basso e Greg Elmore alla batteria. Happy Trails, nel 1969 fu il primo capolavoro del gruppo: registrato in parte dal vivo, con solo tre lunghi brani tra cui Mona e Who Do You Love (ambedue di Bo Diddley), presentava travolgenti improvvisazioni, in cui l’estro e la fantasia di Cipollina risaltavano, in tutta la loro bellezza. Anche il sognante Shady Grove (1969) fu un disco eccezionale e stupendo, nuovamente ricco di brillanti tour de force strumentali.

Alle Hawaii, nel 1970, sotto la direzione di Dino Valenti, venne realizzato il nuovo Just For Love, contrassegnato da brani incantevoli e scelte timbriche straordinarie. Vertiginoso lo strumentale dal titolo Cobra, pezzo cucito su misura per i fraseggi di Cipollina. Ma il chitarrista americano dimostra anche di sapere dialogare splendidamente con le note melodiche del pianoforte. Sessions dell’album andarono a costituire, con altre tracce, il successivo disco dei Quicksilver (What About Me, 1971).
Nel 1972, Cipollina lasciò temporaneamente i Quicksilver e suonò in Rolling Thunder, disco solista di Mickey Hart, il batterista dei Grateful Dead. La connessione, storica e musicale, con il gruppo di Jerry Garcia rimane molto importante: materiale dei due di può oggi riascoltare anche sul secondo CD di Curiosities from the San Francisco Underground, apparso nel 2016 per la Shady Grove.
Nel 1973, Cipollina fondò i Copperhead, che debuttarono, in quello stesso anno, per la CBS, con un ottimo album omonimo, che faceva incontrare il retaggio west coast e l’heavy rock americano anni Settanta. Purtroppo il successo fu nullo, malgrado le aspettative, ed il gruppo si sciolse. Nel 1975, lo ritroviamo nei riformati Quicksilver, per il disco Solid Silver, esempio di valida reunion ed ultimo atto prima dello scioglimento definitivo. Realmente la fine di un’epoca gloriosa.

Sempre nel 1975, Cipollina suonò con i gallesi Man, campioni dello space rock britannico, nel loro live Maximum Darkness, pubblicato dalla United Artists: una serie di lunghe, magnifiche ed astrali escursioni cosmiche, con un talento improvvisativo senza pari negli assoli. Seguì quindi un ritiro di quattro anni, dopo un decennio costantemente sulla breccia ed impegnatissimo su più fronti. Unica eccezione, al solito, qualche concerto significativo.
Cipollina, quando ormai il momento magico del rock psichedelico californiano era passato, ritornò comunque in pista, alla fine dei Seventies, quando imperavano (anche negli USA) post-punk e new wave. La sua rimase così una musica senza tempo, fluida e sognante, lontana dalla commercialità ed incurante delle mode. Nel 1979 suonò nell’esordio di Terry and the Pirates (Too Close For Comfort) e l’anno dopo si accasò, in Germania, presso la Line Records, impegnata in operazioni nostalgiche ma di notevole spessore e qualità artistica. Videro in tale maniera la luce il disco omonimo del suo nuovo gruppo – i Raven, nel 1980 – e il secondo di Terry and the Pirates (The Doubtful Handshake, con una cover che ricordava volutamente Happy Trails: un autentico sguardo rivolto al passato).

Tra il 1981 ed il 1982, stavolta per la piccola Rag Baby, furono pubblicati altri due album di Terry and the Pirates, Wild Dancer e Rising of the Moon. Li si apprezza meglio nel live (postumo, 2007) intitolato Return to Silverado, stampato dalla Acadia. Al 1982, sempre accompagnato dalla band di Terry Dolan, risale inoltre anche la storica e magistrale performance di Cipollina, alla Rockpalast di Dortmund, fortunatamente riedita su compact dalla tedesca Mig, nel quinto volume della serie West Coast Legends. La conferma che quella live era la vera dimensione per il chitarrista americano.
Nel 1984, Cipollina collaborò con Robert Hunter. Tra il 1985 e il 1986 fu invece a fianco di Merrell Fankhauser. La voglia di rock era comunque più forte: Cipollina costituì infatti gli Zero (Here Goes Nothin’, 1987) e soprattutto gli eccellenti Dinosaurs (1988). Di lui abbiamo oggi anche vari bootleg semi-ufficiali, sia con i Quicksilver, sia da solo. Questi ultimi comprendono anche il periodo 1976-1978 (quando cioè Cipollina non effettuò registrazioni di studio) ed il 1983. Detto altrimenti: non ci manca niente davvero per tornare a ricordare, ascoltare ed apprezzare uno dei più grandi chitarristi di tutta la storia del rock.

Trent’anni dopo: ricordando Vincent Crane e gli Atomic Rooster

Il giorno di San Valentino del 1989, moriva suicida, a Londra, dopo una vita di problemi, disturbi e dipendenze, il grande Vincent Crane. Quanto da lui realizzato con gli Atomic Rooster, al principio degli anni Settanta, rimane nella storia. Ma la sua è una vita da raccontare, viste anche le moltissime e interessanti collaborazioni musicali. Per ricordare adeguatamente, a tre decenni dalla scomparsa, il grande keyboards-player, tra coloro che hanno avuto il fondamentale ed indiscusso merito di avere portato le tastiere nel mondo dell’hard rock.

Nel 1969, Vincent Crane (tastiere) e Carl Palmer (batteria) si incontrano, nella capitale inglese, alla corte del funambolico e teatrale Arthur Crown, istrionico campione del free rock più sperimentale e anti-conformista. Trovato il bassista e cantante in Nick Graham e rinunciando intenzionalmente alla chitarra, in favore di una formazione a tre tastiere-basso-batteria (un po’ come i coevi Quatermass), gli Atomic Rooster realizzano il loro esordio eponimo, un magnifico affresco di prog imperniato sul fantasioso e potente lavoro del tastierista, con tracce cucite, su misura, per lui. Lo stile ricordava, a tratti, quello di Brian Auger e dei suoi Oblivion e tendeva a saturare il suono. Friday the 13th fu e rimase un brano simbolo, Before Tomorrow una incalzante progressione strumentale, Winter invece una melodica ballata di stampo folk per piano e flauto, lirica e commovente, Broken Wings una tesa e fosca rivisitazione di John Mayall. Il drumming di Palmer era ritmicamente martellante e sempre puntuale, la voce di Graham appropriata al sound. Una vera e pionieristica lezione di art rock, di cui ELP avrebbero tratto presto i frutti in termini più enfatici e magniloquenti, oltre che remunerativi e con una notorietà su scala via via più vasta.

Nonostante l’ottimo livello del debutto e i primi riscontri di critica, alla fine dell’anno Crane si vide costretto a reinventare la line-up: Palmer ha infatti raggiunto Emerson e Lake, per formare gli ELP, mentre Graham ha scelto di unirsi ai connazionali Skin Alley, con i quali realizzerà il classico di jazz rock To Pagham and Beyond (CBS, 1970), sulla scia dei danesi Burning Red Ivanhoe. Crane quindi recluta (rinunciando al bassista, in favore di un suono più hard) il chitarrista John Du Cann (il quale aveva fatto meraviglie con Attack, Five Day Week Straw People e, soprattutto, Andromeda) e Paul Hammond, alla batteria. Alla fine del 1970, esce così il capolavoro Death Walks Behind You, vertice dell’hard prog, intarsiato di atmosfere gotiche e dark, a partire dalla copertina raffigurante il celebre Nabuccodonosor di William Blake (1757-1827). Il disco, che sfiora la top ten britannica, riesce nel tentativo di fare incontrare l’hard dei Deep Purple e il prog tastieristico di ELP: una autentica pietra angolare dell’hard prog albionico più tetro ed evocativo, suggestivo e oscuro. Le sonorità sono oggi ancora inquietanti e sepolcrali, sinistre e misticheggianti, spettrali e malinconiche. Tomorrow Night salì sino al numero undici delle charts in Inghilterra, ma di pari livello sono la mini suite Streets, la ballad pianistica Nobody Else e il grintoso pomp rock ante litteram VUG.

Tra il 1970 ed il 1971, gli Atomic Rooster suonano spessissimo da vivo. Il compact Live and Raw, oggi, documenta degnamente quelle infuocate esibizioni. Nel 1971, Crane suona anche il piano nel bellissimo e intenso disco d’esordio omonimo dell’ex-Taste Rory Gallagher. In quel medesimo anno, esce anche il terzo disco degli Atomic Rooster, intitolato In Hearing of, con la copertina di Roger Dean. Si tratta di un lavoro più classicamente legato agli stilemi dell’hard inglese, allora all’apogeo, che vede in grande spolvero la voce del nuovo cantante Peter French (dai leggendari Leaf Hound di Growers of Mushroom, uscito per la Decca, nel 1970) e non lesina momenti melodici ed intimistici, come in Decision / Indecision, accanto ai frangenti più duri e sferzanti di Head in the Sky. Un terzo grande classico, anche riascoltandolo ora.
Il 1972 vede altri concerti dei galletti atomici – documentati, in seguito, su CD, dalle sessions alla BBC Live in Concert e dal mini Little Red Rooster – ma soprattutto una svolta in direzione funky e soul (Crane, che ha introdotto il sintetizzatore, se ne dichiara in quel periodo grande appassionato), nonché un parziale ricupero della tradizione rimontante al British Blues anni Sessanta. Il risultato è la pubblicazione, con il grande Chris Farlowe alla voce, di Made in England, con Steve Bolton alla chitarra e una stupenda veste grafica. Crane, con questo LP, cerca altresì di ricuperare qualcosa della vecchia ispirazione di impronta dark, sia pure solo a livello lirico e testuale. Un album comunque da rivalutare, insieme al successivo Nice and Greasy (Dawn, 1973), che vede il nuovo chitarrista John Goodsall – accreditato come Johnny Mandala (ormai gli avvicendamenti nella formazione degli AR sono una costante) – e tracce assai valide, tra le quali l’epica Voodoo in You e lo strumentale per solo piano Moods. Un altro vinile ingiustamente sottostimato.

Nel 1974, gli Atomic Rooster pubblicano il singolo Tell Your Story / OD e nel 1975 si imbarcano in una disastrosa tournée italiana. Crane, sempre più scontroso e imprevedibile, segnato da problemi di natura psichica e dall’abuso di stupefacenti, fugge, in quella circostanza, con gli incassi, sciogliendo di fatto il suo gruppo, con questo gesto sconcertante e senza ritorno. Il talentuoso Goodsall si orienta verso la fusion progressiva, prima con i Brand X e poi con i notevoli e purtroppo misconosciuti Fire Merchants.
Nel 1977, con materiale tratto dai primi tre dischi, la Mooncrest ricorda gli Atomic Rooster e Crane pubblicando la raccolta Home to Roost. In quello stesso anno, Crane ritrova il vecchio amico Arthur Brown e partecipa al suo Chisholm in My Boson (1977). I due, firmandolo con il nome di entrambi, danno altresì alle stampe nel 1979 l’interessante Faster Than the Speed of Light, a mezza strada tra prog sinfonico inglese e pomp rock americano, con belle parti orchestrali e grande uso del Moog. I due artisti collaborano anche, sempre nel 1979, al primo capitolo del progetto Richard Wahnfried: il disco Time Actor si muove in maniera notevolissima fra kraut rock ed elettronica tedesca. Una vera all-star band, composta – oltre che da Crane e Brown – anche dall’ex Santana Micheal Shrieve e dal mitico Klaus Schulze (Brown e Schulze collaborarono quello stesso anno anche a Dune, del primo): è evidente che, passati i suoi guai, Crane ha ritrovato la stabilità e la vena. Appare giunto quindi il momento, complice anche la montante NWOBHM, di dimenticare il passato e riformare gli Atomic Rooster. Nel 1980 – dopo che per poche settimane, prima di unirsi agli Hawkwind di Levitation, ha transitato nella rinata band anche Ginger Baker – vede la luce Atomic Rooster, aggiornamento in una chiave più metal delle sonorità di Death Walks Behind You. Sempre nel 1980, i galletti si presentano al Marquee di Londra in piena forma: con Crane ci sono i fedeli Du Cann e Hammond. Performance che uscirà tempo dopo anche su compact disc. Il successo di inizio carriera però non arriva. Crane – che è molto curioso verso il nuovo rock inglese e non teme mai confronti – vira pertanto col nuovo disco degli Atomic Rooster, Headline News (1983), verso un bel mix di prog rock elettronico e new wave inglese. Il disco è riuscito, ma in tempo di purismo imperante scontenta tutti. A nulla vale una serie di concerti tedeschi, sul finire di quel medesimo 1983, editi poi come Live in Germany. Per gli Atomic Rooster è nuovamente la fine, questa volta definitiva e non senza rammarichi.

Crane, comunque, resta molto attivo e volenteroso. Suona con i Katmandu, dell’ex Fleetwood Mac Peter Green (A Case for the Blues, 1984), con i folk-rockers Dexys Midnight Runners (Don’t Stand Me Down, 1985) e sogna nuovi progetti, tutti però infranti il 14 febbraio del 1989. L’ex-moglie Jean – la sola che, fra le tante avventure che Crane ebbe nella sua non lunga vita, davvero lo amò più di ogni altra – contribuì a scegliere i pezzi che andarono a comporre le due antologie, pubblicate alla fine del 1989, per celebrare gli anni di Vincent con gli Atomic Rooster: Lose Your Mind e The Devil Hits Back contengono, oltre ai classici in studio, anche brani dal vivo, nonché versioni alternative o con un titolo leggermente differente rispetto a quelli noti. I collezionisti sono pertanto avvisati.
Chi desidera oggi approfondire l’operato di Crane con gli Atomic Rooster può rifarsi al cofanetto in quattro CD, edito dalla Esoteric, con il titolo Sleeping For Years, che racchiude tutte le registrazioni del gruppo dal 1970 al 1974, oppure al doppio A Classic History (uscito a maggio del 2018), oppure ancora ai due volumi (specie il primo) di The First 10 Explosive Years (apparso nel 1999, per mano della Angel Air). Quanto alla serie completa degli incisioni radiofoniche, realizzate dai galletti, alla BBC con John Peel, tra il 1970 e il 1981, sono state pubblicate nel 1998 con il titolo Devil’s Answer, in omaggio a quella che resta forse la canzone più famosa di Crane e compagni. Un discorso a parte merita invece Homework, compilation di demo risalenti al triennio 1979-1981, incisi, senza Crane, da Du Cann (chitarra e voce) e Hammond (drum machine). Malgrado si tratti soltanto di nastri non rifiniti, rimane interessante questo singolare e particolarissimo esperimento di hard rock sintetico e vagamente futuristico. Sempre a proposito di Du Cann, rammentiamo infine che, uscito dagli AR, aveva suonato con Daemon (1970-1971), Bullet (1972), Hard Stuff (1973) e Thin Lizzy (1974). Per una panoramica su di lui si può ricorrere a Many Sides of John Du Cann, utile antologia della Angel Air, che ha finalmente ristampato anche tutto quanto fatto (all’epoca non uscì nulla) dai Bullet (nel caso dei Daemon una operazione analoga è stata intrapresa, diverso tempo fa, dalla estinta Kissing Spell). Un grande chitarrista, che, insieme ad un grande tastierista, ha scritto pagine immortali del rock inglese anni Settanta.

Costruendo il sepolcro: il Doom prima del Doom

Sul fatto che i Black Sabbath siano stati i creatori del doom nessuno può avanzare dubbi. Anche sul fatto che il genere si sia sempre più imposto, specie nei paesi anglofoni ed in Svezia, a partire dagli anni Ottanta – complice anche la NWOBHM (Legend, Ritual, Witchfinder General) – in pochissimi potranno avanzare riserve.

Il doom – oggi coltivato specialmente nei paesi nordici, nel Maryland, nell’Oregon e nella Columbia britannica – ha dato origine a generi e filoni importanti ed amatissimi, come Drone, Funeral, Gothic Metal, Black Doom, Ambient Doom e Avantgarde Doom, ovviamente senza dimenticare lo Stoner della scena di Palm Desert e lo Sludge della Louisiana. Dagli anni ’90, sino ad oggi, rilevanza estrema e meritata ha avuto il Death Doom, inventato dal cosiddetto trittico inglese, ossia Paradise Lost, Anathema e My Dying Bride (a cui va aggiunta – lo si faccia, una volta tanto – la luminosa meteora Enchantment).
Tuttavia, esiste anche una preistoria del genere, quando ancora non si chiamava così. Prima, infatti, che si incominciasse a parlare di doom metal, l’hard rock e il blues già avevano iniziato ad edificare muri sonori con rallentamenti, tempi cadenzati e solenni, arcane malinconie e ancestrale maestosità, distorsioni e dissonanze, scale minori e squarci epico-ossianici, giochi di riverberi e colti riferimenti di natura esoterico-letteraria ed occultistica.
Se vi riflettiamo, scopriamo che già i Blue Cheer – in particolare quelli di Vincebus Eruptum, vale a dire con alla chitarra Leigh Stephens (poi nei durissimi Silver Metre) – avevano aperto le porte a un nuovo genere musicale ed alla sua codificazione artistico-culturale. In tale senso, il proto-doom può essere cercato e felicemente rintracciato, tra la fine degli anni Sessanta e i primissimi Settanta, negli inglesi Leaf Hound (una costola degli Atomic Rooster), nei gallesi Budgie, negli americani Sir Lord Baltimore (gli iniziatori, tra il 1970 ed il 1972, della scena di Washington DC), nei primi album dei tedeschi Lucifer’s Friend, negli australiani Buffalo, nella giapponese Flower Travellin’ Band (Satori, il loro capolavoro targato 1971, che tanto anticipa i Rush delle suite).

I seminali Pentagram, anche sotto il nome di Bedemon, nacquero e furono attivi in Virginia a partire dal lontano 1971. I britannici Pagan Altar incisero il loro disco d’esordio – pubblicato, poi, solo nel 1984 – già nel 1978. Altre entità solo a torto (ed ingiustamente) etichettabili come ‘minori’, sia pure senza mai pubblicare in vita le loro registrazioni, hanno dato un forte e significativo contributo alla causa. Si pensi solo (riscoperti oltre vent’anni fa, dalla purtroppo defunta Kissing Spell) ai britannici Wicked Lady, Ice, Stone Angel, Daemon, Irmin’s Way, Dark ed in parte Dragon Milk, tutti attivi a metà circa degli anni ’70. Musiche bellissime, senza tempo.
Né vanno certo dimenticati, ai fini della nostra ricostruzione storica e del discorso che andiamo qui svolgendo, i Night Angel (poi evolutisi nella EF Band, nel 1979), gli scozzesi Iron Claw (attivi tra il 1969 e il 1974, senza purtroppo mai arrivare al traguardo del debutto su vinile), gli Egor del singolo Street (1971), gli Stallion inglesi (vissuti tra il 1974 e il 1976 e responsabili d’un entusiasmante hard prog, con Moog), gli eterei e cupi Wooden Lion (nero space prog hawkwindiano, durati dal 1973 al 1976). Una menzione particolare merita quindi la Flying Hat Band, fondata a Birmingham nel 1971 dal chitarrista Glenn Tipton, in seguito una delle due asce (insieme a KK Downing) dei Judas Priest (autori di un classico del doom settantiano, con lo storico ed imprescindibile Sad Wings of Destiny, uscito per la Gull nel 1976).
I gruppi di cui in questa sede stiamo trattando non erano ovviamente di puro doom (non aspettatevi i Candlemass, dunque), ma al genere di fatto arrivavano mescolando sapientemente hard rock, prog, blues, folk anglo-britannico alla Stackridge e dark di matrice Black Widow (la band di Leicester era in pista dal 1969: autentici modelli e prime-movers).

Occulti e cosmici furono acts di proto-doom come gli Zior. Il loro primo album omonimo apparve, nel 1971, per la piccola Nepentha. Univa hard progressive ed atmosfere gothic dark plumbee, molto ossessive e tetre, in anticipo sullo shock rock di Alice Cooper e Ozzy Osbourne. Vera demonologia in musica, con richiami alla magia e un’ottima reputazione concertistica. Gli Zior combinavano nel modo migliore effetti elettronici, ricerca sperimentale e gusto per la distorsione, con una voce molto alla Arthur Brown, quindi enfatica e teatrale. Prodotti da Larry Page dei Kinks, realizzarono, giusto due anni dopo, un secondo lavoro, rimasto inedito all’epoca e ristampato su CD assieme al primo. Il rock blues stravolto dei Blue Cheer veniva, in questo secondo capitolo, da loro appesantito ancor di più, reso travolgente, ma altresì capace di lasciare spazio a ballate dark e pagine trasognate. Un altro gioiello, dal punto di vista sia timbrico sia iconografico.
Altra pietra miliare del proto-doom rimane l’unico album omonimo degli Horse. Hendrixiani, con in cabina di regia l’ingegnere del suono di Led Zeppelin e Hawkwind, gli Horse debuttarono nel 1970, per la RCA. Influenzati dai Black Widow nella costruzione dei brani (e dagli Yes in certe armonie vocali), allo scioglimento si trasformarono in Saturnalia (un solo rarissimo LP, di tarda psichedelia, forse più bello per la veste grafica che per le composizioni), mentre il drummer Rick Parnell entrò negli Atomic Rooster del quarto e quinto disco (periodo pertanto 1972-1973).
Gli Horse, a tutti gli effetti, osarono molto, preceduti soltanto dai connazionali Harsh Reality (1969, interessante e pionieristico hard prog dalle tinte fosche) e Plus (il masterpiece Seven Deadly Sins, anch’esso del 1969, combinava in maniera straordinaria nascente rock sinfonico e proto-doom). Nel 1971, sempre in Inghilterra, uscì per la Vertigo Three Parts of My Soul, dei misteriosi e assai lugubri Dr. Z: un eccellente rock progressivo, dominato dalle tastiere di Keith Keyes, con ritmiche spartane e originali suggestioni misticheggianti, dalla multiforme vena interpretativa, fra disperazione e ansie pessimistiche. Quattro anni dopo vide la luce Green Eyed God (Penny Farthing, 1975) dei londinesi Steel Mill, quintetto influenzato da Black Widow e Van der Graaf (per l’uso dei fiati) e naturalmente dai Black Sabbath per le sezioni chitarristiche. Hard prog, folk celtico e rimandi floydiani possiamo rinvenire in questa perla rara dell’underground britannico, pubblicata inizialmente solo in Germania Ovest dalla Bellaphon (nel 1972) e ancora una volta prodotta da Larry Page degli Zior.

Un validissimo gruppo britannico, che non giunse però mai a pubblicare il proprio disco, fu quello dei Three-Headed Dog. Ispirati dalla figura mitologica di Cerbero, appunto il cane a tre teste scelto come monicker, i Three-Headed Dog registrarono sei brani nel 1972 e altri cinque l’anno seguente: tutti e undici sono stati finalmente pubblicati, solo moltissimo tempo dopo, nel 2006, dalla volitiva e benemerita Audio Archives (specializzata in questo tipo di operazioni di recupero musicale, si pensi al secondo disco dei Fantasy). Una edizione laser che ci permette, ora, di apprezzare tutta l’arte della band, antesignana di un hard-doom primordiale ed oltremodo evocativo.

E veniamo finalmente a un gruppo di illustri sconosciuti: gli Iron Maiden. No, non è uno scherzo ai danni del lettore. Quelli ai quali ci riferiamo adesso sono gli Iron Maiden di Bolton, nati nel 1968 ed attivissimi dal vivo, tra il 1970 e il 1975, pure di spalla a UFO, Procol Harum e Thin Lizzy. Nulla ci rimane del loro mix dalle mille sfumature di proto-doom e hard prog metallizzato, se non i nastri di Maiden Flight, pubblicati postumi dalla Perfect Pitch, nel 2005. Paradossalmente e incredibilmente, ancora più prossimi al doom furono gli Iron Maiden di Basildon nell’Essex – no, neanche loro sono quelli famosi di Paul Di Anno e Bruce Dickinson – autori nel 1969 del 45 giri God of Darkness, con sul Lato B Ballad of Martha Kent. La sfortunata band, che firmò anche per la Gemini senza arrivare tuttavia a nulla, meritava davvero altra sorte. A renderle in parte giustizia, pure in questo caso grazie alla Audio Archives, la stampa postuma del 1998, dal titolo Maiden Voyage, con ottimi riff e lunghe composizioni, dai sette minuti di media. Piccola postilla per i curiosi: questi Iron Maiden aprirono, a volte, anche per i loro idoli Black Sabbath. Alcuni di loro, successivamente, suonarono con Spirit of John Morgan (un mito dell’underground UK), Zior, Poco, Venom, Nik Turner ed Hawkwind. Senza dubbio, un curriculum di tutto rispetto.
Un altro nome di culto, quello dei Warlord, può far pensare ai grandi colleghi statunitensi.

Tuttavia, questi Warlord sono inglesi, nati a Londra nel 1974, particolarmente attivi tra il 1976 e il 1977, con un tastierista ospite. Il loro unico disco, un bel concentrato di hard rock tradizionale e proto-doom, è apparso infine omonimo, solo nel 2002, nuovamente per la Audio Archive. Li si può ascoltare anche sulla compilation Necrocopia – Original UK Doom in memoriam, altro CD della Audio Archive che copre tutto il periodo 1968-1977, nel Regno Unito, con pezzi di Night Angel, Horse, Wooden Lion, Iron Claw, Three-Headed Dog, Zior, Iron Maiden (quelli di cui sopra), Stallion, Necromandus, Egor e Flying Hat Band. Un prodotto assolutamente essenziale e irrinunciabile: un pezzo di storia, e non solo per collezionisti ed amanti di rarità storiche sepolte tra la polvere del passato.
Quest’ultima ha finito per avvolgere anche altre band, da riscoprire. Ad esempio, non si possono né devono fare passare sotto silenzio gli Electric Funeral. Svizzeri – come Cardeilhac, Country Lane e Spot – gli Electric Funeral proponevano un heavy sabbathiano ed oscuro, ruvido e selvaggio. Erano di Neuchatel e le loro incisioni di distorto proto-doom, risalenti ad un nastro del 1970-71, sono state rese pubbliche con il titolo The Wild Performance solamente nel 1991, per mano della Vandisk. La band aveva doti tecniche e qualità di scrittura superiori alla media e avrebbe meritato certo migliore destino. Tuttavia, come si è visto e si sta vedendo, pochi del gruppi esaminati qui hanno potuto poi dare alle stampe un album. Se lo avessero fatto, con buona probabilità, oggi si direbbe, apertamente, che la nascita effettiva del doom metal va collocata nei Seventies e non nella decade successiva.
Non raggiunsero l’altrimenti meritato traguardo dell’album neanche i Sudden Death, oscura band di Los Angeles, sorta nel 1970. Un gruppo di valore, come confermarono a quell’epoca i concerti con i Blue Cheer, i Seeds e le prime Runaways. Nel 1972, i Sudden Death registrarono un demo live, fra proto-doom e complesse trame hard. La Rockadelic lo ha pubblicato infine nel 1995, intitolandolo per l’occasione Suddenly. Un bel coacervo di rimpianti e storia infranta.

I Warpig erano, invece, canadesi e riuscirono nell’impresa di pubblicare il loro (unico) LP, registrato nel 1970 e stampato nel 1972 dalla Fonthill. Il quartetto dell’Ontario poteva contare su un axeman di eccezione, l’insegnante di chitarra Rick Donmoyer. Purtroppo, il debut dei Warpig, sabbathiano fin dal nome scelto, non ebbe quasi riscontro, malgrado gli aiuti e l’amicizia di Terry Brown, dei Rush: un vero peccato, dato che il proto Doom Metal dei quattro era a dire poco straordinario, con echi di Uriah Heep e Deep Purple, ed eccellenti parti di tastiera. Si sciolsero nell’indifferenza generale, nel 1975. La ristampa della Relapse ce li ha, se non altro, restituiti in tutto il loro incandescente e tetro splendore.
Parliamo ora di tre band che riuscirono, per quanto privatamente, a pubblicare i loro dischi, ma che restano, oggi, rarissime chimere per collezionisti, dato che una riedizione su compact – né ufficiale, né in formato bootleg – non è mai stata approntata. Si tratta di tre gruppi tutti americani. I Sorcery, rispettivamente nel 1978 e nel 1980, pubblicarono il debutto Sinister Soldier e il doppio Till Death Do We Part: fantastici esempi di hard-doom sabbathiano e astrale, che affonda le radici nel sound di marca Seventies. Molto belli anche i Lodestone (un album omonimo nel 1982): tra doom e nascente US metal, coi sintetizzatori che spingono le sonorità di ascendenza Black Sabbath in una direzione talora quasi futuristica e vagamente fantascientifico-siderale. La strada percorsa poi dallo stoner, in America e non soltanto. Infine, segnaliamo i leggendari – davvero, l’aggettivo calza qui a pennello – Laudanum: due LP per la Byron Records – di proprietà del leader, e così denominata in omaggio al grande poeta del Romanticismo inglese – a spasso tra Black Sabbath, ELP, Atomic Rooster, Mozart, con aperture che spaziavano dal proto-doom settantiamo (che ormai abbiamo imparato a conoscere) a porzioni tanto massicce quanto barocche e spaziali, epiche e sinfoniche. Il cantante era innamorato perso della musica e della cultura del Settecento, del resto. Il che è molto in carattere.
Chiudiamo con i Necromandus, che incisero anche loro un disco mai stampato all’epoca. Registrato nel 1973, da un quartetto amico nientemeno che di Tony Iommi, Orexis of Death fu pubblicato solo nel 1991, su vinile (dalla Reflection) e ancora più tardi su compact dalla Rise Above di Lee Dorrian: l’occasione imperdibile, finalmente, per apprezzare la musica dei Necromandus, un heavy prog dalle pieghe notevolmente doomeggianti e dagli stacchi a tratti quasi fusion. Membri del gruppo hanno in seguito suonato con ELO e Hammerhead.

Per Max

Bibliografia

– Alberto Bia, The Bible of the Devil. The Essential Obscure Hard Rock Encyclopedia (2015)
– Antonello Cresti, Come to the Sabbath. I suoni e le idee della Britannia esoterica (2011)
– Cesare Rizzi, Progressive & Underground (2003)

Un mito di Francia: i Massacra dal thrash al death

I transalpini Massacra, per quanto grandi e fondamentali, non vengono mai adeguatamente ricordati dalla storiografia metal. Eppure, si tratta di una band storica e di livello assoluto. Sono stati i primi in Francia e tra i primissimi in Europa a traghettare il thrash nella direzione del death metal, insieme ai più longevi connazionali Loudblast.

Il gruppo si costituì nel 1986 a Franconville, nell’Ile-de-France, attorno al leader Fred Duval (voce e chitarra, dopo un inizio come batterista), con Pascal Jorgensen (basso), Jean-Marc Tristani (chitarra) e Chris Palengat (batteria), tutti appassionatissimi di heavy classico e di speed metal. Tra il 1987 e il 1989, i Massacra registrarono tre demo tapes e nel 1990, per la tedesca Shark, apparve finalmente il disco di debutto, lo straordinario e pionieristico Final Holocaust, dal titolo del loro secondo nastro, inciso nel 1988. Fu un esordio davvero fenomenale, che rileggeva in termini personali e originali la lezione europea di Protector, Kreator, Coroner, Pestilence, Merciless, Cancer e Messiah, guardando anche a quanto giungeva allora dagli USA (Possessed, Sadus, Morbid Angel, Master, Morbid Saint) e dal Sud America (Sepultura).
La fanfara annuncia Apocalyptic Warriors un brano essenziale (tratto dal demo culto Nearer from Death), che racchiude nei suoi cinque minuti di puro orgasmo sonoro, quanto di meglio abbia potuto offrire – in quegli anni – il combo francese. Un Death Metal veloce, impreziosito dai classici mid-tempo thrash che, nei primi anni novanta, rappresentavano il core di un qualsiasi brano death. Si arrivava dal thrash ottantiano, e nessuno poteva (e riusciva, anche volendo) esimersi dal reinterpretare il genere di Destruction, Kreator, e Sodom, qualora avesse voluto approcciarsi all’emergente Death Metal (almeno per quanto riguarda l’Europa). Accelerazioni improvvise (ma mai casuali) calate in una caldaia di thrash ribollente, in una fusione perfetta, tra due generi simili per tanti versi, in un connubio matrimoniale quasi perfetto. Suoni sporchi di fango e grezzi come il marmo ancora da scolpire si, come nel secondo brano Researchers of Tortures, fondamento di tale amalgama, ma lindi e candidi nella loro purezza primeva . Certo, la corsa perdifiato di Sentenced For Life (anch’esso dal demo del 1989), faceva già desumere che i Massacra fossero più propensi a ritmi veloci ed accelerazioni , in una ricerca della velocità più tipica dei un Death Metal emergente, che del consolidato thrash europeo – siamo nel 1990 – già allora realtà imprescindibile. Ma lo spedito drumming di Chris Palengat non è mai violenza fine a se stessa; come in War Of Attrition (uno dei brani più famosi del combo francese), che risulta essere un meraviglioso ed ordinato cagliostrico miscuglio di mid-tempo thrash e scale Death. La sapiente bravura del drummer emerge in tutto il suo splendore nel brano successivo – Trained to Kill – vera ovazione per i tedeschi Kreator (ad onor del vero il compianto Fred “Death” Duval canta proprio “alla Petrozza” impreziosendo ulteriormente il brano).
Rivista ma non troppo, la famosa title track del citato “cult” del 1989. Nearer from death è un’ulteriore conferma di quanto i Nostri sapessero il fatto loro. Un capolavoro assoluto che ha ispirato centinaia di band dal 1990 ad oggi. Insegnare si sa, diventa facile solo quando si è imparato bene. E i Massacra hanno saputo trarre dall’esperienza di band primeve tutto l’essenziale, per trasmettere il loro sound originale (per quegli anni) e soprattutto sono riusciti a debuttare con un album che non conosce down ma solo up; mai cadute, in un’iperbole di favolosi brani, come nei successivi – meno famosi ma non per questo meno affascinanti – Final Holocaust ed Eternal Hate, che insieme alla finale The Day Of Massacra (auto celebrazione ed elogio a violenza e distruzione) ci accompagnano alla fine di un album che era già storia nel 1991, e che ora è oramai leggenda.

Lungi dal cullarsi sugli allori e incuranti della crisi che iniziava ad innescarsi nel movimento thrash, i Massacra proseguirono lungo la propria strada, continuando a perfezionare il loro perfetto mix di thrash e di death primevo, con i successivi Enjoy the Violence (1991) e Signs of the Decline (1992), altri due dischi stupendi, creativi e violenti, tecnici ed ottimamente suonati, sorretti da una scrittura musicale sempre più matura, con testi solo in apparenza banali e capacità non comuni.
Ripetere il successo di un debutto/capolavoro è per pochi – se non per quasi pochissimi – ed in effetti, Enjoy The Violence – uscito l’anno successivo di Final Holocaust, nel 1991 – è un album che perde un po’ del primitivo pathos che il combo aveva trasmesso alle moltitudini, donandoci però in cambio un album maturo, adulto, completo sotto ogni punto di vista. Una struttura studiata nei minimi dettagli, senza mai sbavature o eccessive cadute, che consacra i francesi a veri Prime Mover del genere, elargendo sapienti “consigli” a cui hanno attinto centinaia di band, nel mondo di allora, sino ai giorni nostri. E così Enjoy The Violence scivola via gradevole (grazie anche ad una produzione di gran lunga superiore a quella del debutto) come sabbia tra le dita, ma non senza lasciarci granelli di erudita musica, da cui raccogliere l’essenziale. Brani come la title-track o Gods of Hate e ancora Atrocious Crime ci colpiscono come un pugno nello sterno, facendoci barcollare, ma non arretrare, coraggiosamente spavaldi, “petto in fuori”, pronti ad accogliere nuove percosse. L’incontro con l’Obituariana Full Of Hatred, rinnova la nostra consapevolezza della capacità dei Massacra, di sapere attingere dal passato, rieditare e rinnovare, interpretando soggettivamente quanto il “mercato” di allora proponeva. Brano splendido, lento quanto basta, dopo tanta furia sonora, che però non tarda ad arrivare, nella cortissima Seas Of Blood, semplice nella sua struttura di alternanze mid and up, che sciorina, in soli due minuti (!) una serie impressionante di cambi, in un lasco di tempo davvero breve, mostrando bravura e capacità uniche, come nell’ultima Agonizing World, il loro pezzo più floridiano (pare uscito da un album dei Morbid Angel di allora).
Anche nei brani un po’ più minimalisti ed essenziali dell’album quali Near Death Experience e Sublime Extermination, i Massacra sono capaci di trasmettere all’ascoltatore un’energia unica, che ci assorbe totalmente, proiettandoci con la mente ai primi novanta quando, ciò che oggi appare semplice e scontato, allora era novità, coraggiosa sperimentazione e – soprattutto – difficile creazione, poiché, quando sei un Prime Mover, non puoi certo copiare, quello che nessuno, prima di te, ha mai realizzato.

Signs Of The Decline, forse è stato solo un album sfortunato, o forse (visto il titolo) si è un po’ portato sfortuna da solo. Fatto sta che nel 1992, i Massacra avevano – purtroppo – già perso l’appeal degli esordi; molto più di quanto ci si aspettasse.
Intendiamoci, l’album è il risultato di finimenti artistici, dovuti principalmente all’improvement degli strumentisti. Qui, il frontman Tristani da il meglio di se stesso con riff sapienti, potenti e curati. Il nuovo drummer Limmer è una vera macchina da guerra e le parti vocali di Jorgensen – oramai totalmente growl – sono impressionanti. Il Death oramai la fa padrone, dimenticando quasi totalmente le fasi thrash, che tanto hanno caratterizzato gli esordi. Brani come Evidence of Abominations o Mortify Their Flesh sono veri calci in bocca, traumatici nella potenza e scioccanti nella velocità; ma quando ti accorgi che Excruciating Commands risulta molto simile alla precedente Traumatic Paralyzed Mind, forse realizzi che qualcosa è cambiato. Quando hai la consapevolezza che stai ascoltando qualcosa di bello ma di già sentito, alla fine, un ottimo album – quale è Signs Of The Decline – lascia un po’ di amaro in bocca; e non basta l’ultima (perfetta) track – Full Frontal Assault – a farti cambiare opinione. Un brano Morbid Angel style, direttamente (forse troppo) da Blessed Are The Sick, ma strutturata nel corpo del mid-tempo centrale, come un brano dei Pantera, anzi, forse, troppo Pantera, quasi un preludio al definitivo (e triste) cambiamento del 1994.

Dopo tre album, purtroppo, l’etichetta non rinnovò loro il contratto e i Massacra approdarono così in casa Vertigo, distribuita dalla Phonogram. Quando, dopo un anno di pausa, nel 1994, uscì il nuovo disco in studio, intitolato Sick, si intuì subito che molta magia si era persa: di fronte a nuove mode e tendenze musicali, con il nuovo batterista Matthias Limmer, i Massacra provarono senza successo a cercare rinnovate ed ulteriori direzioni sonore, guardando da un lato ai Metallica ed ai Demolition Hammer, dall’altro al nascente groove metal. Intendiamoci: Sick non era certo spregevole, anzi, però non era sincero nel suo cambiamento e in molti, tra fans e critici, provarono nostalgia per i primi tre capolavori del combo francese. La nuova strada intrapresa dai Massacra fu tuttavia confermata, nel 1995, da Humanize Human, pubblicato dall’inglese Rough Trade con un nuovo avvicendamento alle percussioni (ora dietro le pelli sedeva Bjorn Crugger) ed una tendenza al groove ancor più marcata e insistita. Il riscontro, peraltro, fu minimo. Intanto Fred Duval iniziò a avere gravi problemi di salute e, quando un brutto male se lo portò via – il 6 giugno 1997, all’età di soli ventinove anni –, il gruppo si sciolse. Alcuni membri dei Massacra confluirono nel progetto industrial metal Zero Tolerance, i quali realizzarono per la Active Records un disco, passato sotto silenzio. In poco più di dieci anni – come una candela che brucia da ambo le parti – tutto era finito ed uno dei più grandi gruppi francesi di sempre si era infine consegnato alla storia. Postume sono apparse, in seguito, le due compilation Apocalyptic Warriors Part 1 (2002) e Day of the Massacra (2013). I primi tre indimenticabili dischi della band, nel 2014, sono stati finalmente ristampati dalla Century Media ed ancora risplendono in tutta la loro luce. Vi è non poca nostalgia nelle parole di chi scrive, anche per l’irripetibile stagione di cui i Massacra sono stati alfieri e protagonisti di assoluto primo piano a livello internazionale.

(a cura di Dazagthot e Michele Massari)

Australia: alla scoperta musicale di un’isola

Il rock australiano è stato e rimane un caso a sé stante nel quadro musicale internazionale.

Se da una parte è nato, anche e soprattutto, importando quanto si andava facendo nel mondo anglofono, per un altro verso, ciò ha messo capo molto spesso ad una attenta e personale opera di rielaborazione e di trasformazione artistica di codici e veicoli espressivi, nati altrove e rimodellati in maniera creativa e originale.
Va altresì detto che numerosi solisti o gruppi aussie hanno dovuto prima o poi, per potere emergere e farsi strada, attraverso platee più vaste, emigrare, per ovvie ragioni principalmente nella Gran Bretagna (qualcuno pure in America). A Canterbury, sul finire degli anni Sessanta, finì Daevid Allen, fondatore come noto dei Gong, solo per fare qui un probante ed illustre esempio.

Quando si parla di Australia, giustamente, i primi nomi a venire in mente sono quelli dei Bee Gees e degli AC/DC. Tuttavia, anche di altri si deve parlare. Gli anni Settanta hanno visto nascere i Jet (fra glam rock e AOR), gli hard-doomsters Buffalo (i Black Sabbath australiani), i Rose Tattoo (emuli di Angus Young e compagni, attivi anche in Inghilterra, all’inizio con il nome di Tatts), la Little River Band (che nell’arco della sua sterminata discografia – ben 28 titoli! – ha saputo passare dal pop-soft rock più di maniera ad un ottimo AOR pomp sulla scia di Styx, Yes e Foreigner), i Cold Chisel (con nove album di r ‘n’ b in carniere tra il 1974 e il 1989, da Adelaide).
In realtà, fin dagli anni Sessanta, il rock è stato presente in Australia. Il beat è stato importato dagli Easybeats e dai Master’s Apprentices. Grande prog è quindi venuto, nella decade successiva, con i romantici Aleph (1977: tra Yes e Starcastle, con belle melodie, americaneggianti), fusion-progsters quali Sebastian Hardie e Windchase (tre grandi dischi, tra il 1975 e il 1979, fra Camel e Santana), gli Spectrum (passati dal singolare country psichedelico-avanguardistico degli esordi al progressive con Moog della maturità), i Galadriel (un solo e raro vinile, nel 1971, di psych-blues leggero), gli Headband (anche loro del 1971 ed analoghi a tanti gruppi West Coast), i Rainbow Theatre (molto ridondanti, quasi musical, per via degli eccessi di archi e fiati), i Bakery (1971: jazz rock, difficile da reperire), i Chetarca (più orientati sul rock & roll, con momenti anche alla Tom Jones), l’unico long playing del polistrumentista Chris Neal (1974: un bel prog classicheggiante e tastieristico, alla Mike Oldfield, con drum machine), i Mackenzie Theory (due interessanti lavori di jazz rock molto sinfonico tra il 1973 e il 1974, entrambi per la Mushroom, con una viola elettrica impegnata a citare John Cale dei Velvet Underground) ed i Kahvas Jute del grande Bob Daisley – destinato alla fama con Ozzy Osbourne, Gary Moore, Uriah Heep e Rainbow – sospesi tra l’eredità dei Black Sabbath e quella degli Atomic Rooster, riscritta in una chiave più underground: per loro un solo album, Wide Open, uscito per la Infinity nel 1971, con intriganti frangenti hard-blues e proto-fusion.
Fondamentale, in Australia, anche la scena elettronica. Gruppo di punta sono stati i Cybotron, nati nel 1975, per iniziativa di Steve Maxwell Von Braund. I primi due album erano ancora acerbi, nella loro un po’ ingenua e derivativa psichedelia (Cybotron del 1976 e Colossus del 1978). Dopo il live Saturday Night (1979), il gruppo realizzò il proprio capolavoro con il penultimo disco, Implosion, letteralmente dominato da un coinvolgente space rock elettronico, in cui gli echi cosmici di matrice teutonico-kraut rock si combinavano con l’amore per i paesaggi sonori delineati da Klaus Schulze, primi Ash Ra Tempel e Tangerine Dream. Ancora un disco, il sintetico e new wave oriented Abbey Moor (1981) e quindi un immeritato scioglimento. L’eredità dei Cybotron è stata raccolta, in tempi a noi più recenti, dai Brainstorm (da non confondersi con quelli tedeschi degli anni Settanta): gruppo di space rock elettronico innamorato dell’astronomia e della sua storia (Keplero in particolare). Tra i loro non pochi lavori, il migliore resta forse il terzo Tales of the Future (1997). I Brainstorm inoltre hanno contribuito al tributo collettivo agli Hawkwind di Daze of the Underground (2003).
Tuttavia, il più celebre ed importante gruppo di prog rock australiano rimangono gli Aragon, i quali incisero per la piccola Ugum – volenterosa e piccola label inglese, responsabile anche di ristampe dei Twelfth Night – il loro capolavoro, nel 1988: Don’t Bring the Rain, intarsiato di belle atmosfere marillioniane. Più moderno e neo-prog il sound dei tre lavori successivi, pubblicati dalla purtroppo disciolta olandese SI Music – Rocking Horse (1990), il mini Mouse (1991) e The Meeting (1992) – e il malinconico epitaffio The Angel’s Tear, registrato anch’esso nel 1990 ed edito, in seguito, per la Labra d’Or.

Dal 1974 al 1978 furono attivi a Sidney gli storici Radio Birdman, gli Stooges d’Australia: due LP per la Sire e poi sporadiche riformazioni da parte di questo gruppo seminale, che ha lasciato segni e profondi e indelebili nel punk australiano (gli X e i Saints, anche se questi secondi si trasferirono in Inghilterra e punk lo furono davvero per poco) e nel post-punk. Autentici maestri in questo secondo filone furono, sorti dalle ceneri dei Boys Next Door, i Birthday Party di Nick Cave. Trasferitosi in Gran Bretagna anche lui, il cantautore australiano ha in seguito avviato, si sa, una notevole carriera mainstream, prima di fondare pochi anni fa i Grinderman, esponenti del rock alternativo di marca aussie sulla scorta dei connazionali Died Pretty e Go Betweens. Indimenticabili, citati anche nella enciclopedia di Dennis Meyer, gli storici Midnight Oil, vero e proprio trait-d’union fra UK punk e US hard. Una band longeva ed importante, da riascoltare con la dovuta attenzione.
Fenomenali, in linea con i Birthday Party, sono stati poi i Crime and the City Solution, formidabili nel proporre un post-punk sperimentale ed intriso di dark, dissonante e debitore tanto verso Captain Beefheart quanto nei riguardi dei Père Ubu. Più morbide, ammalianti e dai risvolti talvolta cosmici, le atmosfere sognanti di grandi band della Australia anni ’80, come Church, Stems e Scientist. Nel caso di questi ultimi troviamo ancora una volta l’eredità dell’Iggy Pop meno addomesticato. Quanto ai Church, rispetto ai primi lavori risulta forse preferibile il più maturo e completo Forget Yourself (2003), quasi progressivo nei suoi rimandi a Robert Fripp, Adrian Belew, U2 e Eno, disco di space-dark atmosferico e moderatamente sintetico, con fascinosi pad ambientali.
Se Hoodoo Gurus ed Hard Ons sono stati in quel decennio l’equivalente del Paisley Underground, ancora meglio hanno fatto i Dead Can Dance, di Lisa Gerrard e Brendan Perry, tra gothic dark stile prima Siouxie-Cocteau Twins e tastiere ambient, dai tocchi medievaleggianti e rinascimentali, non senza opportune ed azzeccatissime incursioni in territori afro (prima di perdersi nella world music, il cui successo ha veramente inghiottito fior fiore di artisti altrimenti preparati).

Molto popolari nel corso degli anni Ottanta sono stati in Australia gli INXS (nel periodo 1980-1984 synth-rock alla Ultravox, successivamente hard pop di spessore), i gradevolissimi Icehouse e Flash and the Pan (ambedue padrini del techno-pop nell’emisfero australe), i Men at Work (in bilico tra new wave e AOR alla Cristopher Cross) e i Real Life dell’indimenticato singolo Send Me an Angel, con uno dei giri di sintetizzatore più belli e famosi della storia.
Oggi, la scena metal e rock australiana è più viva che mai, in linea con la sua grande tradizione. In ambito sleazy-street, abbiamo i Dead Daisies (che in Australia fanno base), i Wolfmother (alfieri del ritorno al più grintoso e sanguigno hard settantiano), i meravigliosi Night Terrors (tra i migliori esponenti odierni dello space rock hawkwindiano: futuristici, siderali ed oscuri), Red Shore e Thy Art Is Murder (campioni del death-core), i Tame Impala (in vero alquanto sopravvalutati ed assai commerciali nel settore del pop neo-psichedelico, di Perth), i grandiosi Vanishing Point (tra AOR e prog metal sinfonico), i Mournful Congregation (signori del funeral doom), i Foetus (i Nine Inch Nails australiani, sorti nel lontano 1981), i Dirty Three (post rock strumentale, da Melbourne) ed i Pirate, realmente entusiasmanti, nel loro inimitabile mix di Rush e Voivod, King Crimson e primi Pink Floyd.
Particolarissimo il caso dei validi Mortification, una band cristiana, che si muove abilmente fra le scuole thrash e death statunitensi, il groove metal dei Pantera e il grindcore dei Napalm Death. Sono nati nel 1987, vicino a Victoria, e tuttora attivi. Altri nomi storici nel dominio del thrash – e a livelli di statura mondiale – sono stati i pionieristici Armoured Angel, Mortal Sin ed Hobbs Angels of Death. A loro deve molto l’ottima scena thrash australiana di oggi: i fenomenali (anche sul piano del songwriting) e tecnicissimi Meshiaak, gli speed-metallers Harlott ed il trittico di band scoperte da Punishment 18 Records, ossia Envenomed, In Malice’s Wake e Hidden Intent, testimonianza di una grande e promettente vitalità espressiva. Si sono purtroppo sciolti – ma hanno fatto la storia – i fantastici The Berzerker, in assoluto tra gli inventori del cyber-grind e dello speed-core industriale, mentre restano sulla breccia invece i Destroyer 666, perfetti nella loro capacità di sapere incrociare il black con il thrash, i Sodom con gli Aura Noir, i Destruction con gli Slayer. Grande black, invece, con gli estremamente prolifici Drowning the Light: occulti, lovecraftiani e vampireschi, certo non distanti dalle atmosfere dei connazionali Striborg e degli americani Xasthur. Membri dei Drowning the Light hanno inoltre operato pure sotto altre single, tra cui quella dei Black Funeral.

Rock e Africa: storia e protagonisti di un incontro

Quando si pensa all’incontro fra la tradizione occidentale della musica rock e la cultura africana, la mente va, non a torto, a dischi come Graceland (1986) di Paul Simon, oppure al successo avuto dal giamaicano Linton Kwesi Johnson. Altri ancora, scavando più indietro nel tempo, fanno magari il nome degli Osibisa, che nella prima metà degli anni Settanta proposero un blando mix di atmosfere progressive anglosassoni e melodie subsahariane, in svariati e leggeri dischi, in taluni casi anche di un certo successo. Un certo riscontro commerciale ha avuto pure la serie Realworld inaugurata negli anni Ottanta da Peter Gabriel, che ha lanciato la moda etnica della world music. Ma il vero nocciolo della questione riposa altrove. Proviamo a indagare e a vedere la cosa più in dettaglio.

Il primo, serio e felice tentativo di fare incontrare rock anglo-americano e ritmi africani venne fatto dal grande Dr. John. Nel suo terzo album, Remedies (1970), l’intera seconda facciata era occupata da Angola, una suite di venti minuti che costituiva un interessante e meraviglioso ponte fra il blues e le ritmiche di matrice afro. Una composizione davvero pionieristica, destinata a far registrare con il tempo notevoli sviluppi a più latitudini.
In quello stesso, anno uscì anche lo stupendo e coraggioso LP di debutto di Peter Green. Il grande chitarrista aveva appena lasciato i Fleetwood Mac, dopo cinque storici lavori di British Blues. Prima di scomparire dalle scene, per quasi un decennio – sarebbe ritornato a calcare i palchi della musica, grazie all’aiuto di Peter Bardens (tastierista dei primi Camel), solo nel 1979, con il santaniano In the Skies – pubblicò nel 1970 l’opera magna End of the Game: un album difficile e complesso, all’epoca poco capito, in ragione appunto della sua estrema innovatività, ma divenuto con il tempo un vero e proprio cult-album. Molto sperimentale ed allora con poche pietre di paragone, End of the Game – con, in copertina, la famosa tigre della savana – metteva in scena uno riuscito, eterogeneo connubio di retaggio hard-blues inglese (comunque, a quell’epoca, neonato) e di costruzioni musicali dalla ascendenza africana.
Altro personaggio di gran spicco per il nostro discorso fu Ginger Baker. L’ex-batterista dei Cream – che aveva suonato, anche, con i Blues Incorporated di Alexis Korner (1962), gli Organisation di Graham Bond (1963-1966) ed i Blind Fate di Eric Clapton e Steve Winwood (1969) – già con i suoi Airforce – due album nel 1970, entrambi doppi: dal vivo il primo ed in studio il secondo – unì jazz-rock e sonorità afro. Non certo casualmente, pure lui veniva dal blues, che fu il trait-d’union per la convergenza di rock europeo ed Africa. La matrice storica e culturale era, del resto, la medesima. Il 1971 vide Baker trasferirsi in Nigeria, dove comprò un appezzamento di terra a Akeja. Vi inaugurò, nel gennaio di solo due anni dopo, uno studio di registrazione, pensato per farvi registrare musicisti locali, valorizzandone e creatività e messaggio, e si interessò, sempre di più, alla musica africana, specie sul piano delle ricerche ritmiche.

Quello di Ginger Baker, beninteso, non fu un amore estemporaneo e fuggevole. Nel 1971, pubblicò, con il nigeriano Fela Kuti, un famoso Live e, nel 1972, uscì il suo Stratavarius, lavoro percussivo, impregnato di aromi africani, scambiato dalla critica di allora per un mero esercizio di stile. Ancora nel 1978, il grande batterista britannico tenne un celebre concerto a Berlino con gli African Friends, uscito poi pochi anni fa, per la Voiceprint. Baker portò altresì con sé tracce di questo background in occasione di Album, il capolavoro dei Public Image Limited di John Lydon, che apparve – trainato dal singolo Rise – nel 1986, per la Virgin: nel disco – oltre a Steve Vai alla chitarra, Tony Williams alla seconda batteria, Sakamoto alle tastiere e Bill Laswell al basso – erano presenti inoltre Malachi Favours dell’Art Ensemble of Chicago alle percussioni e Ravi Shankar, al violino. Nel 1987, quindi solo un anno dopo, Baker si esibì in tournée con i suoi African Force, che portarono ancora avanti il discorso legato all’afro-rock, calandolo nel contesto musicale della nuova decade.

Quando Ginger Baker si esibiva con i suoi colleghi africani, erano già apparsi dischi come Ambient 3: Day of Radiance di Laraaji (1981) – caratterizzato in prevalenza da pattern ritmici di dulcimer e zither, con un’impronta fortemente new age – My Life in the Bush of Ghosts (1981) di David Byrne, entrambi prodotti dal vulcanico Brian Eno, di fatto l’invenzione della world music. In questi lavori, tutto sommato, poca Africa: o meglio, un’Africa che perdeva la sua orgogliosa identità – predicata, già durante gli anni Sessanta, da tanti grandi del free jazz, a partire da John Coltrane – proprio nel suo incontro con le altre tradizioni musicali, provenienti da ogni parte del mondo. Stesso discorso si può fare pure per i diversi lavori realizzati da Jon Hassell, trombettista peraltro geniale, ancora con Eno in cabina di regia. Quest’ultimo produsse anche gli artisti ghanesi Edifanko, facendoli in tale maniera conoscere in Occidente. Un’opportunità non indifferente.

Nel 1982, vide la luce il capolavoro IV quarto capitolo della carriera solista di Peter Gabriel, dopo l’uscita dai Genesis, nel 1975. Un disco epocale e strepitoso, registrato interamente in digitale, con un massiccio uso di campionamenti (grazie al famoso sintetizzatore Fairlight CMI). La canzone The Rhythm of the Heat venne costruita attraverso le più moderne tecnologie elettroniche, sulla base dell’esperienza di Carl Gustav Jung, mentre osservava un gruppo di percussionisti africani. Eccolo, dunque, l’incontro cruciale di rock (in questo caso freddo e tagliente) e ritmiche afro (calde, rituali, evocative e dense di suggestione ipnotica). La combinazione gabrieliana di freddezza digitale, data dai synth, ed aromi percussivi avvolgenti fece letteralmente sensazione. In Italia, pure scuola: Ivano Fossati ne trasse gran frutto per l’incipit della sua indimenticabile Una notte in Italia, dal gioiello I 700 giorni (CBS, 1986).

Altro grande musicista inglese che si innamorò, musicalmente e non solo, dell’Africa fu l’ex Police – e Curved Air, almeno una volta lo si rammenti – Stewart Copeland. Intanto, egli vi visse – per la precisione in medio-oriente, a Beirut – al seguito della famiglia (per esigenze di lavoro del padre), studiandovi e suonando jazz. Dopo lo scioglimento dei Police, Copeland compose la colonna sonora di Rusty il selvaggio (1983, per Francis Ford Coppola), collaborò quindi con Stan Ridgway dei Wall of Voodoo e con Stanley Clarke, ma soprattutto incise nel 1985 The Rhythmatist, perfetto punto di incrocio fra la strada aperta da Peter Green e Ginger Baker nei primissimi ’70 e gli apporti forniti da Gabriel nel decennio successivo. Un disco formidabile e innovativo, che riscriveva e trasformava in chiave rock la tradizione musicale di area africana: un vero punto di approdo, a quindici anni dalle prime ricerche compiute negli Stati Uniti da Dr. John.
A metà degli anni ’80, rock e Africa dialogano ormai in maniera pressoché regolare. Nel film OC & Stiggs di Robert Altman (1985, da noi Non giocate con il cactus), divertente e grottesco come nello stile del regista, viene filmato un concerto eseguito allora negli USA da King Sunny Ade: piacevole intrusione di ritmiche africane nell’altrimenti monotona vita americana di provincia.

Per Alice

La New Wave of Finnish Heavy Metal

Dalla nostra retrospettiva sulla storia culturale e musicale della Finlandia moderna, volta per lo più a presentare una scena notevole ed importante, sono rimasti intenzionalmente fuori alcuni gruppi, di valore, lasciati da parte solo e appunto per trattarli in una sede apposita e appropriata: la presente.

Nel corso degli ultimi cinque lustri, rock ed in particolare metal hanno visto nascere in Finlandia un eccellente numero di nuove band, tutte o quasi dotate di una buona originalità, quindi in linea con il percorso storico nazionale, che ha visto, quasi sempre, gli artisti dell’antica Lapponia muoversi alla ricerca di un’identità personale, non direttamente assimilabile a modelli svedesi o danesi (e lo stesso discorso può farsi ovviamente per la grande scuola norvegese, non solo in ambito black). La cosa si nota, specialmente, quando si parla di estremo, più di rado nel dominio dell’heavy: ad esempio, vi è molto poco da apprezzare nei ruffiani e ripetitivi Battle Beast, che pure vengono spacciati come la new sensation del power mondiale. Il nostro sguardo deve invece rivolgersi altrove.
Nel campo del doom sono assolutamente da annoverare gli Shape of Despair (da pochi anni tornati a calcare le scene su Season of Mist, dopo un periodo d’inattività seguito al mitico debutto), i grandi Swallow the Sun (magicamente sospesi fra il melodic death, il funeral doom ed il folk nordico), i Minotauri (più legati alla grande tradizione dark-doom dei Seventies e, non a caso, pubblicati dalla nostra Black Widow) ed i Profetus.

Il doom atmosferico, con o senza tocchi ambient, è un genere che va, oggi, molto di moda – persino troppo – ma pochi rammentano che a contribuire a crearlo sono stati anche due gruppi finlandesi dal talento indiscutibile. I primi sono stati i Nattvindens Grat: nel 1995 il loro epico e misterioso debut A Bard’s Tale fu un autentico lampo di melodie ancestrali ed arcane, ritmi cadenzati, suoni cristallini quanto potenti, atmosfere medievali e porzioni più (classicamente) rock, sulla scia degli Amorphis più suggestivi. Un capolavoro irripetibile. Buono, anche se più accattivante, fu il successivo Chaos Without Theory, anche a livello lirico meno giostrato rispetto all’esordio su tematiche rinascimentali di magia naturale nordeuropea. Altro progetto imprescindibile per la nascita e la affermazione di ciò che oggi chiamiamo atmospheric doom fu quello dei Legenda fondati nel 1996 da Kimmo Luttinen (batterista e chitarrista degli Impaled Nazarene): un vero e proprio masterpiece il loro Autumnal, fin dal titolo e dalla malinconica copertina. Il disco, con tocchi gotici in stile primi Paradise Lost, vide la luce nel 1997, bissato l’anno dopo dal suo seguito Eclipse.
Passando al death metal, sono da segnalare gli Omnium Gatherum, con diversi lavori in carniere e non privi di gusto melodico, i pionieri e avanguardistici Demilich (una vera meteora), nonché tutte quelle band, di area totalmente underground, rimaste nell’oscurità, con accordature basse e sonorità tra il cupo e l’ipnotico: Demigod, Abhorrence, Xysma, Disgrace e Convulse. Fantastici e assai più conosciuti i Wolfheart (il cui nome viene dal classico dei Moonspell): death melodico, con aperture black, ogni volta a livelli molto alti, come in occasione dell’ultimo, Constellation of the Black Light (2018). Maggiormente spostati su territori BM, invece, i grandissimi Horna, quindi Musta Surma, Sargeist, Nattfof ed i fenomenali Satanic Warmaster, questi ultimi con aperture in taluni passaggi al più oscuro folk nordico. Da avere, di black metal finnico, pure Verge, Wyrd, Desolate Shrine e Witsaus, tra gli altri, nonché – tra black e doom – i seminali quattro lavori degli Unholy, magistrali ed attivi nella prima metà dei Nineties, incredibilmente evocativi.
Molti gruppi si sono poi mossi, ieri come oggi, sul confine (mobile) tra black death, groove death e death doom. Ricordiamo in proposito, tra meteore del passato e nuove leve odierne, i Depravity, Anguish, Messiah, Putrid, Funebre, Adramelech, Lubrificant, Cartilage, Vomituritium, God Forsaken, Paratroops, Mordicus, Chaosbreed, Purtenance, Corporal Punishment, Hateform, Phlegethon, Necropsy, Obfuscation, Mythos, Protected Illusion, Goretorture, Belial, Nomicon, Sotajumala, Immortal Souls, Infera, Cadaveric Incubator e Deathbound. Grandiosi poi, nella scena death-core, sono i Carnifex.
Una realtà a sé stante sono stati i Beherit, nati addirittura nel 1989, molto legati alle scienze occulte ed alla demonologia siriaca. Sino al 1993, hanno suonato un black-death decisamente underground: quattro demo tape, due mini, uno split e due album, davvero neri e glaciali, che – insieme ai carioca Sarcofago – hanno di fatto fondato il war metal, influenzando acts come Impiety, Grave Desecrator, Revenge, i connazionali Archgoat e naturalmente Blasphemy e Marduk. Tra il 1994 ed il 1995, si è verificata, nel sound e nell’approccio stilistico dei Beherit, la svolta in direzione del dark ambient di matrice elettronica.
Un altro immenso gruppo finnico che è partito dal black per approdare a sonorità sperimentali sono gli Oranssi Pazuzu, il cui nome deriva dalla mitologia babilonese. Nati a Tampere, nel 2007, hanno in discografia quattro album, un EP ed uno split (con i Candy Cane).
Il loro è un eccelso BM, ricco di atmosfere progressive e spaziali, a tutti gli effetti fantascientifiche, siderali e futuristiche.

Alcuni degli Oranssi Pazuzu, inoltre, collaborano anche con gli sludge-doomsters Dark Buddha Rising, di fatto i Neurosis della Finlandia, viste le complesse architetture di drone metal occulto che sanno con abilità manipolare.

Chiudiamo con i Circle, lo straordinario gruppo che, non senza orgoglio, è il simbolo stesso della NWOFHM. Nati nel 1991, i finlandesi vantano oggi una discografia a dir poco sterminata, tra mini, dischi, live, partecipazioni a compilation e tributi. Nel loro particolarissimo metal trovano posto tra le altre istanze space e kraut, ambient e prog, math-core e grind. I Circle sono impareggiabili, nella loro disinvolta (e matura) capacità di mescolare le carte, passando dall’hard zeppeliniano ai bagliori cosmici dei primissimi Pink Floyd, dal rumorismo tedesco di Faust/Neu/Can alle oscure dissonanze dei King Crimson (periodo 1973-74). Sono la perfetta sintesi di passato e presente, di art rock e di metal. Attrazione dell’olandese Roadburn Festival, si sono aperti al post rock ed hanno sperimentato con i sintetizzatori come pochi altri, in questi ultimi vent’anni.

I membri dei Circle, inoltre, suonano o hanno suonato anche in altri gruppi o progetti paralleli, di ragguardevole interesse, dedicati a tutti o quasi i generi musicali, che coprono la gamma storica dell’hard & heavy: si va infatti dagli stoners Pharaoh Overlord agli AOR Falcon di Frontier (il miglior disco nel settore in Finlandia, dai tempi degli Heartplay, che uscirono per la tedesca MTM), dai feroci Steel Mammoth agli altrettanto duri Krypt Axeripper (entrambi i gruppi a cavallo tra speed metal, crust punk e black-grind), dagli Iron Magazine agli Extroverde, dai Plain Ride Almosta ai Lusiferiinin, per citare, qui, soltanto alcune delle sigle sotto le quali i Circle hanno operato ed operano tuttora. Qual è il significato di tutto ciò? Dimostrare semplicemente la vitalità del metal finnico e più nella fattispecie illustrare la bellezza di tutti i generi che albergano all’interno di esso, dagli scenari più solari e melodici, sino a quelli dark e sperimentali. Versatili al pari di pochissimi altri, i Circle amano pertanto tutta la musica. Una vera e propria lezione, per coloro che ascoltano, solo in base ai propri gusti soggettivi, unicamente alcuni generi. Oltre al metal – in ogni sua forma e declinazione, come si è detto – i Circle amano alla follia il kraut rock spaziale della Germania anni ’70, su tutti i leggendari Faust. Non casualmente, il rinato gruppo di Wumme ha inciso per la loro etichetta, la Ektro, il live Kleine Welt, registrato nel 2006-07 e prodotto dai Circle nel 2008.
Segnalare in questa sede i migliori dischi dei Circle non è certamente un’impresa facile, alla luce di qualità e quantità delle loro infinite produzioni. Senz’altro, occorre procurarsi senza indugi Rautatie (2010), Hollywood (edito dalla Viva Hate di Berlino), Tulikoira e Forest (forse i loro dischi più dark metal), Telescope (inciso in concerto, al Cairo di Wurzburg, nel 2003), Raunio (naturalistico e quasi folk), Taantumus e Prospekt (orientati sullo sludge-drone), Soundcheck (registrato dal vivo, il 31 di ottobre 2009, nella loro terra) ed i più recenti Sunrise (um omaggio alla West Coast degli anni d’oro) e Terminal (apparso per la Southern Lord nel 2017). Una band veramente formidabile, che sa fare la storia in questo delirante terzo millennio.

Dazagthot
(in collaborazione con Michele Massari e Massimo Pagliaro)

Le molte anime della NWOBHM

L’importanza storica irrinunciabile della New Wave of British Heavy Metal è da tempo ampiamente riconosciuta senza riserve. Sull’argomento, presenza fissa in tutte le enciclopedie di rock e hard and heavy, sono stati scritti numerosi libri e articoli (fondamentali e veramente dettagliatissimi quelli di Gianni Della Cioppa). L’intenzione di questo articolo non è pertanto quella di scrivere una ennesima storia di classici, più o meno famosi – riscoperti anche grazie alle tantissime ristampe, pure recenti – quanto semmai quello di illustrare le molte anime musicali del fenomeno.

La NWOBHM non fu, infatti, un genere, né tanto meno un approccio stilistico: al suo interno del resto erano presenti gruppi diversissimi tra loro – basti solo pensare ai più celebri: Iron Maiden, Def Leppard e Saxon – quanto piuttosto una corrente artistica, entro la quale trovavano posto, poi, band stilisticamente anche assai differenti l’una dall’altra.
Molte band della NWOBHM venivano (ed era cosa del tutto naturale, in termini di evoluzione) dal più classico hard rock anni Settanta. E’ il caso dei mitici Samson di Bruce Dickinson, degli Urchin, dei White Spirit. Questi ultimi incisero nel 1981 il loro primo e unico disco: un capolavoro di hard sinfonico, che aggiornava e trasportava nel nuovo decennio la lezione di Deep Purple e Uriah Heep, con la chitarra della futura Vergine di Ferro Janick Gers. Hard rock di alta classe, con retaggi blues di ascendenza Led Zeppelin, porzioni epiche e testi tra l’esoterico e il misticheggiante (con rimandi alla storia ecclesiastica anglo-britannica) per gli indimenticabili Diamond Head. Di formazione HR anche i Rage (1981-1983), formati da membri dei Nutz (1974-1977). Dal canto loro i Def Leppard di Sheffield, con il mini del 1978 e lo storico debutto On Through the Night del 1980, portarono nel Regno Unito le sonorità spaziali dei Rush, prima di svoltare in direzione AC/DC, con High and Dry (1981), e di scrivere quindi – con la triade Pyromania (1983) – Hysteria (1987) – Adrenalize (1992) – pagine immortali di hard tecnologico e melodico, baciate da meritatissimo successo.
Della NWOBHM hanno fatto parte inoltre, rammentiamolo, anche band street (Battle Axe, Heavy Pettin’, Black Rose) e glam (Soldier, Girl, i fantastici Wrathchild). Altri ancora hanno guardato e con sommo frutto al punk ed agli insegnamenti dei Motorhead, come nel caso dei Warfare di Evo e dei Plasmatics (formidabile il loro Coup d’Etat) della compianta Wendy ‘O’ Williams. Più boogie, invece, gli Starfighters e i Vardis, questi ultimi riediti su compact di recente.

Talvolta, anche se nessuno ama ricordarlo, e quasi sempre per partito preso, dalla NWOBHM sono arrivati anche gioielli di hard melodico ed AOR: non tanto gli Aragorn, quanto i seminali Praying Mantis (ancora sulla breccia, e con bellissimi lavori), i Tygers of Pan Tang del sottovalutato The Cage (MCA, 1982), gli stessi Saxon di Destiny (1988) ed in certe ballate pure i Tytan (1982-1985); ad un certo punto, da alcuni, anche i grandiosi Magnum di Birmingham (nati in realtà molto prima, tra il 1972 ed il 1976) sono stati inseriti, un po’ forzatamente, nel filone della NWOBHM, in virtù di talune trame sonore tra primi Black Sabbath e Rainbow di Rising che andavano ad infittire stupende tessiture pomp rock, di matrice talvolta emersoniana. Un discorso simile può farsi per i Nightwing, meno noti, ma comunque di valore, così come per i Tobruk e per i Grand Prix (tre LP alla Uriah Heep in carniere, ristampati dalla Lemon).
Dal pomp al progressive il passo, si sa, è breve e numerosi acts inglesi della NWOBHM flirtarono e non poco con la tradizione del prog. Tra questi i Gaskin (capaci di riecheggiare le lunghe escursioni armoniche dei Wishbone Ash di Argus), i fenomenali e da riscoprire Marquis de Sade e Triarchy (i cui filamentosi riff di tastiere e synth erano a dire poco essenziali nell’economia sonora dei brani), i Demon (passati dalle atmosfere gotiche dei primi due album a più liquidi paesaggi pinkfloydiani), i misteriosi e notevoli Dark Star (1981), la EF Band (responsabile di un oscuro heavy prog, condito di flauto, alla Jethro Tull), i Limelight (il cui esordio omonimo uscito per la Metal Heart nel 1980 si muoveva tra ELP, King Crimson e Status Quo), gli Shiva (Fire Dance, recentemente ristampato, è un gioiellino di Hi-Tech hard prog alla Rush) e gli entusiasmanti Saracen (che, con due dischi, tra il 1981 e il 1984, furono il vero anello di congiunzione fra NWOBHM e new prog alla Marillion).

In ambito traditional doom, vanno qui assolutamente segnalati i sabbathiani Legend (con tastiere), i Ritual (con tematiche legate all’occultismo), i Desolation Angels ed i più tardi Tyrant. Antesignani e padrini del black metal – sin dal 1982, ma venuti fuori con la NWOBHM – ovviamente i Venom da Newcastle.
Spesso confuso con il doom, il dark metal è in realtà una forma di heavy tradizionale che tratta nelle liriche ed a livello iconografico temi legati alla magia, all’esoterismo e alle scienze occulte. Durante la NWOBHM il dark metal, non senza richiami ai Judas Priest, nacque proprio in Inghilterra, grazie a gruppi basilari come Quartz (attivi sin dal 1977), Angel Witch (dal 1979), Satan, Cloven Hoof e Satanic Rites. Oggi il genere, sempre erroneamente confuso con il doom (e quasi mai nominato), è rinato in forma più moderna, grazie a ottime band come Evergrey, Epysode e i riformati Stormwitch (tra Europa settentrionale e Germania).
La NWOBHM ci ha dato anche gruppi epic metal (gli Overdrive), power (Dark Heart) e speed (i capostipiti Raven e gli Holocaust, adorati dai Metallica). Oggi, come si accennava, grazie alle tante riedizioni laser (alla rinfusa possiamo menzionare ad esempio Blietzkrieg, Elixir e Denigh, nonché gli irlandesi Sweet Savage, dell’immenso chitarrista Vivian Campbell, prima che entrasse nei Dio), non è più un’impresa recuperare dunque il materiale originario d’una scena davvero aurea. Scena – non genere, si rammenti – che vede anche apposite tribute-band (i Roxxcalibur, con le copertine di Rodney Matthews, hanno omaggiato, alla grande, Jaguar, Tokyo Blade, Chateaux, More, Cryer, Savage, Grim Reaper, ed i doomsters Witchfynde e Witchfinder General), ristampe anche delle mitiche raccolte di quell’epoca (tra queste, la leggendaria Metal for Muthas II, con i Trespass, Easy Money, Xero, Horse Power, Chevy e Raid, tra gli altri) e di quei gruppi (come i Damascus), che registrarono all’epoca solo singoli. Pezzi di storia, veramente.

Prima del successo: note e appunti sull’alba della new wave britannica

Quando il purismo, non importa di quale segno, ha fatto solo danni. Potremmo iniziare così questa nostra inchiesta storico-musicale, volta a riconsiderare – e rivalutare, perché bisogna, ora, deporre i pregiudizi – dischi e gruppi, emersi al tempo della new wave, che, a causa della fama, hanno fatto (e tuttora fanno) storcere il naso a molti. Ingiustamente, però, dato che prima di svoltare verso suoni e soluzioni di tipo sfacciatamente commerciale, quegli artisti hanno fatto talvolta altro, e sovente con risultati tanto eccellenti quanto purtroppo dimenticati o misconosciuti.

L’anno-cardine, terminato il primo e più noto fermento punk (1976-78), fu il 1979. Nel giro di pochi mesi videro la luce dischi importanti ed iniziatori. Tra questi, sono assolutamente da segnalare il LP d’esordio di Adam and the Ants (Dirk Wears White Sox fu un formidabile incrocio di retaggio punk e dark sperimentale, ed il successo arrivò solo dopo) e Life in a Day, debutto degli scozzesi Simple Minds. Il gruppo di Jim Kerr e Charlie Burchill si spinse ancora più in là, con il successivo Real to Real Cacophony (1979, impregnato di umori alla Can di Tago Mago) e soprattutto con Empires and Dance (1980, permeato di oscura e obliqua ricerca elettronica). Suoni tedeschi, con membri dei Can in cabina di regia, anche per il primo Eurythmics (In the Garden, 1981), proprio due anni prima di Sweet Dreams. Ed entusiasmante new wave sintetica pure per gli australiani INXS degli anni 1980-84, prima che virassero verso un (peraltro brillante) hard pop da classifica.
Anche la fase 1978-80 degli Human League di Sheffield (formatisi sulle ceneri dei Future), prima cioè del successo mondiale di Dare (1981), produsse un EP (The Dignity of Labour) con marziali e incalzanti strumentali di sintetizzatore, nonché due dischi che mostravano apertamente il debito del nuovo pop-rock elettronico verso il varco aperto in Gran Bretagna dal post-punk, varco per il quale passarono pure gli avventurosi – e, almeno a inizio carriera, quasi rumoristici – Cabaret Voltaire. Il primo disco degli OMD di Liverpool, inciso nel 1979 e pubblicato nel 1980, mostrava anch’esso un taglio freddo e minimalista (Colonia e Dusseldorf restavano evidentemente due modelli, cui rifarsi e guardare). Ed anche Organisation, il disco (del 1980) che conteneva il fortunatissimo 45 giri Enola Gay, era un album completamente diverso dal suo singolo trainante, con scelte sonore malinconiche ed autunnali, poco appariscenti e quasi impalpabili nella loro colta orchestrazione di fondo. Occorre rimarcarlo e rifletterci sopra adeguatamente. Anche qui, scelte più facili furono compiute soltanto in seguito, dal pessimo Junk Culture (1984) in poi.

E che dire dei Visage? Si trattava, per riprendere la terminologia in voga tra fine anni ’60 e primi ’70 sulla carta stampata, di un super-gruppo, che comprendeva membri e collaboratori di Ultravox, Rich Kids e Gary Numan, con sugli scudi arrangiamenti sopraffini, recitati femminili, ottime capacità di scrittura ed esecutive (pensiamo solamente al grande violinista e tastierista Billy Currie, il Paganini della new wave inglese, senza voler esagerare). Altro fondamentale anello di congiunzione tra punk del 1978 e ‘nuova onda’ britannica fu l’ex Generation X Billy Idol, che da solista – come il massimo giornalista e storico del punk, Jon Savage, ha sottolineato, in England’s Dreaming – ha ottenuto il suo meritato successo. L’artista, nel prosieguo della sua carriera, si è confrontato anche con la fanta-scienza (in Cyberpunk, del 1993) ed è, di recente, tornato sulle scene, con Kings and Queens of the Underground, ottimo lavoro di AOR moderno e moderatamente tecnologico. A suonare le tastiere e i sintetizzatori sul disco è stato tra l’altro un maestro del pomp rock, Geoff Downes, l’ex leader (con alla voce Trevor Horn, poi con lui negli Yes e celeberrimo produttore) dei Buggles di Video Killed the Radio Stars, una delle canzoni simbolo del 1980 in tutta Europa.
Eccoci quindi a trattare – ebbene sì, è giunta l’ora di farlo – dei Duran Duran. Nati a Birmingham, nel 1978, con uno stile tra glam rock e post-punk, in principio con Stephen Duffy alla voce, i cinque debuttarono con l’ottimo e troppo sottovalutato esordio omonimo, nel 1981: un grande disco di new wave elettronica, con il fantastico strumentale Tel Aviv in chiusura, lavoro che ben poco poteva fare presagire del successo planetario di qualche anno dopo. Rio (1982) iniziò a sbancare i botteghini – è vero – però conteneva ancora un brano eccellente, The Chauffeur, scritto nel 1978 ed intriso di echi progressivi, che si dipanano nei sette minuti del pezzo soprattutto con il notevole lavoro tastieristico di Nick Rhodes. La svolta, totalmente e solo commerciale, giunse con il terzo disco, Seven and the Ragged Tiger (1983), insipido e banale. Le quotazioni del gruppo si risollevarono tuttavia subito col live Arena (1984, molto rock nelle esecuzioni). Dalla band di Birmingham derivarono a quel punto gli Arcadia (1985, David Gilmour fra i prestigiosi collaboratori) ed i techno-funkers Powerstation (con alla voce Robert Palmer, che aveva scoperto il synth-pop in Clues nel 1980). I Duran Duran si rimisero assieme solo nel 1986, per il debole Notorius, che sprecava il riferimento ad Hitchcock del titolo per una sciatta e commerciale mistura mal digerita di pop, dance, r ‘n’ b e smooth jazz. Meglio (almeno in parte) fece Big Thing, due anni più tardi. Quindi crisi, sbandamenti ed abbandoni, sino al ritorno, qualche anno fa, con una serie di CD discreti, che guarda il caso ritornano parzialmente alle origini. Risale al 1987, infine, l’esordio solista Thunder, di Andy Taylor, classico lavoro di hard rock inglese, inserito dagli specialisti d’oltremanica tra i 100 top album nella storia della chitarra. Forse troppo, comunque un disco di qualità e da riscoprire, edito un anno prima che Taylor producesse (e suonasse magistralmente, da vero e autentico professionista) in Out of Order di Rod Stewart (1988).

Discorso assai simile si può fare per i ‘cugini-rivali’ Spandau Ballet. Dal loro terzo disco, col quale svoltarono verso un soul-pop levigato, e baciato da enorme successo commerciale, nessun critico o giornalista li ha mai voluti considerare. Anche, mi permetto di dirlo, per pregiudizio o partito preso: chi e quando ha stabilito che chi ‘vende’ non vale nulla? Rammentiamo che, nella storia del rock, si sono trovati ai primi posti delle classifiche mondiali nomi storici ed imprescindibili, come Jefferson Airplane, Grateful Dead, Bob Dylan, Pink Floyd, Yes, Genesis, Jethro Tull, Elton John, Billy Joel, Supertramp, BJH, ELO, ELP, Asia, Journey, Foreigner, REO Speedwagon, Springsteen, U2, Guns ‘n Roses, Iron Maiden, Metallica, Marillion… E che in Germania, paese da sempre attento al valore e alla qualità della cultura musicale, ai primi posti delle charts abbiamo avuto, proprio in questi mesi, band metal, inossidabili ed incorruttibili, come i Powerwolf e gli Immortal. Ma lasciamo perdere: chi scrive non vuole di certo fare polemica, solo ricostruire verità di fatto, colpevolmente ignorate o volutamente fatte passare sotto silenzio a causa di preconcetti arbitrari.
Torniamo agli Spandau Ballet. Quando non erano ancora nessuno, i cinque inglesi realizzarono, nel 1981, il loro debutto, Journeys to Glory. Intanto, il disco era prodotto da Richard James Burgess, un vero mago della ricerca elettronica inglese. Inoltre, i pezzi del disco palesavano un approccio molto post-punk, con due chitarre affilate e taglienti, suoni squadrati e geometrici, atmosfere tese e spesso cupe, due sintetizzatori, dalle timbriche gelide ed algide, canzoni freddissime e molto ‘tedesche’: un rock elettronico e quasi futuristico, che flirtava sommamente con le nuove tecnologie di allora, non senza una produzione pazzesca e avveniristica. Un capolavoro, anche se nessuno osa ammetterlo. E si tratta di un grave errore, diciamolo chiaro. Con il secondo disco – rifiutando intelligentemente di ripetersi – il quintetto albionico continuò il suo lavoro con il geniale Burgess: sulla prima facciata, a parte lo stupendo singolo Instinction (che rimandava alle sonorità dell’esordio), gli altri tre pezzi si rivolgevano piuttosto a soluzioni ritmate ed accattivanti di marca funky rock; le tracce della seconda facciata, a cominciare da una sublime cavalcata, alla Ultravox, She Loved Like Diamond, tornavano al sound del primo album, con, in più, le suggestioni e misteriose e rarefatte di Pharaoh, e le scale orientali degli ultimi due brani, in grado di anticipare certi schemi cari, in seguito, al duo Sylvian-Sakamoto. Il resto è storia nota: dal 1983 gli Spandau Ballet furono, di fatto, un altro gruppo, che cambiò genere ed incontrò una fama crescente (con dischi comunque gradevoli, per quanto di puro easy listening).

Chiudiamo questa breve rassegna con la scuola definita, già a quel tempo e non senza toni alquanto dispregiativi, new romantic: molto facile e assai sbrigativo, allora come oggi, sottostimare gruppi in realtà interessantissimi, come i Classix Nouveaux, campioni di un decadentismo in musica capace di unire le morbide songs esotiche dei Japan con le progressioni sinfoniche degli Ultravox. E sono, ad ogni modo, tanti i gruppi poco o nulla considerati, perché ritenuti troppo easy (come se scrivere una bella canzone di successo fosse una colpa!): pensiamo agli Alarm (che solo distrattamente sono stati bollati come una ‘brutta copia’ degli U2), agli americani Animotion (che seppero portare negli USA, la tradizionale patria del rock più sanguigno, le melodie del synth-pop), i nostri indimenticati Krisma (passati da sperimentazioni alla Tangerine Dream negli anni Settanta ad un intelligente pop elettronico, durante la decade successiva), sempre in Italia al primo Garbo (che riecheggiava Eno e il Bowie berlinese del 1977-79), ai tedeschi DAF (nati con il kraut rock più astratto e sperimentale) e Alphaville (numeri 1 con Forever Young, ma anche collaboratori del grande Klaus Schulze), agli Art of Noise ed agli Yello (lo spessore delle cui sperimentazioni non può e non deve esser appiattito solo svalutando alcuni singoli di più facile presa), ai Talk Talk (capaci sempre di reinventarsi e di rimettersi in gioco), ai Level 42 (che non furono solo il gruppo della hit Lessons in Love, ma anche una grande band di jazz rock, come attestano il primo omonimo, il doppio live e il primo LP solista del tecnicissimo Mark King, uno dei più grandi bassisti degli ultimi quattro decenni). Né dobbiamo, poi, condannare senza diritto di replica Mission e Bolshoi, solo per avere reso più fruibile il gothic-dark di Leeds e di Londra.
Altro mito da sfatare è quello di una new wave che romperebbe i ponti con il passato (leggasi i ’70), quando, in realtà, è vero spessissimo il contrario: i grandiosi Magazine, di Manchester, ed i Fiction Factory (una splendida meteora del 1984) seppero riportare in auge ed aggiornare in una chiave più melodica la lezione dei Roxy Music di Brian Ferry. Questi ultimi influenzarono non poco anche gli A Flock of Seagulls, di Liverpool, tra i pochissimi artisti che introdussero nel synth-pop la chitarra, strumento che era stato, per un certo periodo, accantonato. Né vanno dimenticati gli All About Eve (che rilessero con gusto ed in una direzione tra ambient e dark-wave il prog lirico e neo-classico dei Renaissance), i comunque gradevolissimi New Musik, il geniale Thomas Dolby (che iniziò con il kraut elettronico tedesco, prima di diventare solista di pregio, produttore ricercatissimo ed autore di colonne sonore, tra le quali Gothic, il visionario e barocco film dedicato da Ken Russell a Shelley e Byron). Persino i norvegesi A-Ha, dopo il boom di Take on Me (1985), seppero maturare, donando, con Scoundrel Days (1986) e Stay on These Roads (1988), perle luminose di nordica intensità. Oggi come riascoltare i dischi ed i gruppi censiti in questa rassegna? Accantonando idiosincrasie, aprendo la mente, evitando letture pre-costituite, allontanando una volta per sempre rigidi quanto ideologici e vuoti schematismi. E soprattutto mettendo finalmente da parte la sciocca equazione successo=pop commerciale=musica senza valore.

Dopo il 1977 – Il punk inglese anni Ottanta

Che il ’77 sia stato un anno cardine, un crocevia temporale imprescindibile, nessuno lo discute più o lo ha mai discusso.

Fu realmente l’anno zero del rock, non solo nel Regno Unito, che fu e il luogo e il motore della svolta e della rivolta (non solo artistico-canora). Correttamente, i giornali e la stampa dedicati alla musica sono soliti affermare che la linfa vitale del punk britannico primevo si esaurì in circa due anni scarsi, dalla nascita dei Sex Pistols nel 1976 (anche se i seminali Stranglers erano nati addirittura nel 1974) sino alla morte di Nancy Spugen e Sid Vicious all’inizio del 1978. Vero. Si dice giustamente che presto – dal 1978-79 in poi, per l’esattezza – vennero il post punk (PIL, Pop Group, Killing Joke, ed altri nomi storici) e la new wave (ramificatasi in fretta in tre filoni fondamentali: il synth-pop elettronico, inaugurato dai Tubeway Army di Gary Numan e dagli Ultravox; il dark, sorto grazie ai Cure; la neo-psichedelia di Liverpool). Vero, di nuovo. Altrettanto vero è che chi dal primo punk inglese veniva e rimase in circolazione, cambiò spesso genere nel nuovo decennio. Al riguardo si può ripensare alla bella e brava Siouxie, oppure ai mitici Damned, che flirtarono, dapprima, con l’eredità dei Doors (nel Black Album, del 1980) e in seguito con sonorità gotico-elettroniche pregne di atmosfere prog e tastieristiche (lo stupendo Phantasmagoria, 1985: un vero spartiacque). Anche i Clash di Joe Strummer e Mick Jones cercarono nuovi orizzonti, dopo London Calling (1979). Tanto il reggae quanto il funk andarono infatti ad innervare le trame sonore del complesso Sandinista nel 1980. Alla asciutta ed abrasiva essenzialità del punk i Clash ritornarono poi nel 1982, con il classico Combat Rock (un titolo, una garanzia). Il loro ultimo lavoro, il discusso ma fantastico Cut the Crap (1985) uscì in una Gran Bretagna raggelata dalla Tatcher e fu, comunque, una fotografia dello stato della nazione, a partire dal magnifico singolo This Is England, forte di cori da stadio, drum machine e sperimentazioni con il sintetizzatore ai limiti del dub e del rap newyorkese di allora.

Tuttavia – e non si tratta certo di sopravvivenze marginali, come anche la pubblicistica di settore ha, seppure tardivamente, riconosciuto – il punk non morì, né scomparve. Vi fu, in Gran Bretagna, chi continuò a suonarlo e, soprattutto, a credere nei suoi principi, incarnando il nichilismo, la ribellione sociale e il pessimismo in nuove forme, tutte comunque fedeli ai modelli originali e da esso derivate attraverso una filiazione cronologica e valoriale diretta. Anche quella inglese degli anni ’80, in altre parole, fu una generazione del No Future. Ripensiamo al tatcherismo, alle periferie londinesi (e non solo), alle condizioni di vita dei minatori ed in generale ai problemi lavorativi della low class, allo stesso fenomeno degli Hooligans contiguo allo street punk nonché a certe frange dell’estrema destra britannica (la mente va qui agli scontri tra gli ultras del West Ham e quelli del Millwall, immortalati splendidamente dal film intitolato appunto Hooligans, diretto nel Lexi Alexander da 2005).

Tra i gruppi che portarono lo spirito del punk – eccola l’espressione giusta – negli Eighties vi furono in primis gli appartenenti al movimento Oi! e si tratta di grandi band, senza discussioni. Impossibile non ricordare in questa sede i Chelsea, i Lurkers, i Blood, i Vice Squad, i Last Resort (veri leader della corrente skinhead, insieme ai più famosi 4 Skins), i Menace, i capostipiti Sham 69, i Ruts (in seguito collaboratori dell’americano Henry Rollins post Black Flag). Né si può dimenticare qui, poi, la scena di Sunderland, legatissima alla squadra di calcio: i Wall di Personal Troubles and Public Issues, i Red Alert (che misero lo stemma dei loro beniamini sulla copertina di Wearside), gli stessi Red London, che si esibivano sul palco con la maglia dei Black Cats. Esponenti di spicco del filone Oi!, anche i grandi Cocksparrer, importante punto di riferimento pure per il thrash metal europeo: la loro We’re Coming Back è stata superbamente coverizzata dai tedeschi Tankard nel loro Beast of Bourbon (2004). Da molteplici punti di vista, anche se di rado membri ed esponenti hanno voluto ammetterlo, l’Oi! ha ripreso, aggiornato, radicalizzato ed indurito il messaggio dei Mods inglesi più disincantati di metà anni Sessanta: all’alba di tutto, ancora una volta, ritroviamo così My Generation degli Who, autentica pietra miliare e punto di partenza irrinunciabile, anche per il discorso che, qui, si sta svolgendo.

Molte volte, in relazione al movimento Oi!, si è parlato di stretti legami con la destra radicale. Altre volte, la cosa è stata invece smentita. Una vexata quaestio, si potrebbe dire, che si trascina dal 1981-82 almeno. La verità è probabilmente nel mezzo. Gruppi fondamentali come gli Angelic Upstarts, effettivamente, furono socialisti (come idee politiche) e nazionalisti (per animo patriottico: si ascolti la loro stupenda ed emblematica ballata England), ma non nazisti. In altri casi – gli Skrewdriver di Ian Stewart, successivamente leader del National Front – i rapporti con il cosmo dell’estrema destra vi furono e anche alquanto forti. Altre volte ancora, come nel caso degli scozzesi Skids, il discorso fu assai più sfumato: il loro capolavoro Days in Europa (1980), prodotto nel 1979 da Bill Nelson, dei glamsters Be-Bop Deluxe, attinse sin dalla copertina all’iconografia dei Giochi Olimpici di Berlino del 1936. Il disco conteneva almeno due pezzi-simbolo: Working for the Yankee Dollars (un’invettiva dura ed esplicita contro il capitalismo statunitense) e Dulce et decorum est pro patria mori (un grande inno in effetti ultranazionalista). Una considerazione da fare riguardo agli Skrewdriver di Stewart: al di là delle posizioni ideologiche (furono, in effetti e dichiaratamente, neo-fascisti), la loro fu grande musica, che in un’Inghilterra e in un Europa che soltanto a parole amano dirsi democratiche, liberali, tolleranti ed aperte, non ha mai visto una ristampa ufficiale su compact per mero pregiudizio, benpensante e bigotto. Un’indecenza. Senza contare, inoltre, che diverse punk band giudicate magari a torto neo-naziste erano in realtà anarchiche di destra. Punto.

Visto che abbiamo parlato di Scozia, impossibile fare passare sotto silenzio gli Exploited, assieme agli UK Subs di Diminished Responsibility (1981, nella Top Twenty britannica) ed ai Disorder di Distortion to Deafness i veri creatori del punk-metal. Il gruppo di Wattie, forse la voce più sgraziata di sempre, ha scritto la storia con il manifesto Punk’s Not Dead (1981) ed ha poi saputo reinventarsi con il più cupo e sinistro Horror Epics (1985), sino a fondare di fatto il metal-core nel 1987 (anche se definizioni ed etichette sono arrivate dopo) con lo storico e magnifico Death Before Dishonour. Il titolo del come-back in studio degli scozzesi, nel 2002, è stato non a caso Fuck the System, il segno che lo spirito dell’82 vive ancora incessantemente, puro ed incontaminato. Affini allo street punk – sia pure molto meno estremi, rispetto agli Exploited – e prossimi all’Oi!, abbiamo, inoltre, i Blitz, i Total Chaos, i giustamente celebri Anti-Nowhere League ed in anni più recenti i Tempars, ultimi epigoni di una scena davvero gloriosa.
Gli Exploited sono altresì il trait-d’union fra street punk e anarco-punk. Di quest’ultimo genere sono assolutamente da ascoltare Icons of Filth, Exit-stance, Instigators, Conflict, Xpozez, Zounds e i Kronstadt Uprising, che presero il nome dall’insurrezione anti-sovietica di marinai e soldati russi nel 1921. Quasi tutti i lavori di queste band sono stati ristampati su CD – all’epoca incisero singoli e demo tapes, split e mini soprattutto – e si possono dunque recuperare oggi con relativa facilità.

Per ragioni lirico-tematiche, oltre che stilistiche e di approccio, l’anarco-punk è sfociato, presto, nel crust punk (da cui, con i Napalm Death, è nato il grind). Padrini del crust punk sono stati gli storici Discharge, nati proprio nel 1977 e quindi al momento dell’origine di tutto, autentico e solido anello di congiunzione tra il primissimo punk inglese e i suoi itinerari ottantiani. Il crust punk del gruppo – un modello per moltissimi colleghi, a partire dai Metallica – è un hardcore minimalista e metallico, screziato di speed-thrash a tratti rumoristico. Veri pionieri i Discharge, ispiratori dei Charged GBH di Birmingham (memorabile il loro periodo su Clay Records 1981-1984). Poi Antisect – costituitisi, nel 1982, a Daventry, nel Northamptonshire – Extreme Noise Terror (fondati da membri dei Chaos UK) del masterpiece A Holocaust in Your Head (1988) ed Amebix del capolavoro Arise (1985) han definito in forma compiuta le coordinate del crust punk, ponendo le basi per gli sviluppi successivi, ad opera delle singole scuole nazionali: finlandese (Impaled Nazarene, in un contesto black e grind), svedese (Driller Killer, Skitsystem e Wolf Brigade), americana (Disrupt e Nux Vomica), brasiliana (i leggendari antesignani Ratos de Porao) e giapponese (i blacksters Gallhammer).

Il crust punk, nel Regno Unito di fine anni Ottanta, si è fuso – una naturale evoluzione – con l’allora neonato crossover thrash. In merito, le band basilari sono state Cerebral Fix, Hellbastard, English Dogs ed Unseen Terror tra gli altri. A loro volta, questi ultimi appartengono altresì alla prima storia del grind albionico, raccontata nel documentario (su VHS) Punk As Fuck, per la visione del quale sono debitore all’amico ‘helvetiano’ Michele Massari. In quel filmato, amatoriale e casalingo, come del resto l’etica spartana del punk impone, sono ripresi dal vivo, tra gli altri, artisti quali i Joyce McKinney Experience, i melodici HDQ, i laceranti proto-grinders Heresy e Ripcord (tutte band riedite dalla Boss Tuneage) e i Doom (ristampati dalla Peaceville), così come i Deviated Instinct, i quali traghettarono il crust punk in direzione death metal, con il sette pollici Welcome to the Orgy (1987) ed i due LP seguenti (Rock ‘n Roll Conformity e Guttural Breath, rispettivamente del 1988 e del 1989). Sulla medesima falsariga, segnaliamo anche Concrete Sox e Sore Throat.
Oggi, riattingere all’universo del punk inglese anni ’80 è facilissimo e assai comodo grazie alle tante ristampe, molto ben curate, anche sotto il profilo grafico ed informativo, della Cherry Red (sovente in cofanetto) e della Westworld (Anti-Pasti, Business, Chaotic Dischord, The Dark, Infa Riot, Chron Gen, Outcasts, Toy Dolls e 999, i formidabili One Way System e gli storici Broken Bones). Buona caccia. Perché quel mondo merita, e non poco. Tra le sue canzoni, vi si legge – controluce – anche la storia della Gran Bretagna, in una decade difficile e controversa. Ed i più giovani lo tengano bene a mente: il vero punk non sono Green Day, Lagwagon e company.

Tales From the Thousand Lakes: prog rock e metal in Finlandia

La Finlandia, terra dai mille laghi, ha avuto ed ha una storia, culturale e musicale, tutta sua, in linea, del resto, con l’orgoglio nazionale che da sempre contraddistingue i Lapponi.

La attuale Repubblica finlandese fece parte del vicino Regno di Svezia, dal XII secolo sino al 1809, quando si trasformò in un Granducato indipendente all’interno dell’Impero russo (il nemico di sempre ad Est) e diventò uno Stato a partire dal 1917, quando i conservatori di Helsinki sconfissero i rossi filo-bolscevichi.
Anche in Finlandia, vi fu il Rinascimento. Nel corso del secolo XVI, durante la Riforma luterana, si distinse al riguardo la grande figura del vescovo protestante e padre della lingua finlandese Michele Agricola. Nel XVIII secolo, l’Illuminismo trovò un appassionato sostenitore in Anders Chydenius (1729-1803), tra i più autorevoli esponenti nord-europei delle arti – difese e il valore e l’importanza delle nuove tecniche moderne, in linea con l’Enciclopedia dei philosophes francesi – e fu seguace di vaglia del liberalismo settecentesco. Matematico, naturalista, medico-chimico, docente universitario a Uppsala, Chydenius si batté in difesa della tolleranza e della libertà di stampa (caratteristici valori dei Lumi europei), contribuendo a diffondere in Finlandia il pensiero scientifico di Newton, e quello politico-economico moderato dello scozzese Adam Smith.
Il padre della musica – lasciando da parte il tradizionale folk medievale, tutt’oggi coltivato, in modo interessante e con spirito patriottico – fu in Finlandia il grande Sibelius, un eroe nazionale per il suo popolo, capace di raccontare in un poema sinfonico intitolato alla sua terra l’oppressiva aggressione da parte dei russi ai confini orientali.
Il sinfonismo di Sibelius ha lasciato, anche nel rock e nel metal finlandesi, un segno incancellabile e profondo, rimasto indelebile nel tempo, e tuttora presente. Echi dell’approccio di Sibelius anche nel prog lappone anni ’70, con gli Haikara (molto influenzati dalla musica classica, con archi e fiati, a tratti quasi cameristici) ed i Wigwam (il maggior gruppo di rock sinfonico finlandese, collaboratore anche di Mike Oldfield). L’immenso chitarrista Jukka Tolonen (ex Tasavallan Presidentti), solista innamorato di Hendrix e Coltrane, è sulla scena addirittura dal 1969, tra blues, free, hard e folk. Tra Caravan e Focus, vanno rammentati i Finnforest (li ristampò la americana Laser’s Edge, negli anni ’90), mentre i Fantasia (1975) e i Nova (1976) aderirono invece a schemi fusion. Tanta psichedelia nei dischi di Nimbus e Jukka Hauru (ieri), Moon Frog Prophet e Groovector (oggi). Se i Giant Hogweed Orchestra si rifacevano, sfacciatamente, sin dal nome, ai Genesis era-Gabriel, gli Hoyry Kone optarono per scelte più dissonanti e avanguardistiche. I Piirpauke (1975) incisero un solo LP, omonimo, per la Love Records: un prodotto all’insegna di una world music etnica e ante litteram. In ambito di prog acustico, sono da segnalare pure Scapa Flow, Tabula Rasa, Uzva, Viima e XL. Ma il più grande gruppo finlandese anni Settanta furono i Kalevala, che prendevano il nome dal titolo del poema epico nazionale. Per loro – in tre dischi, pubblicati tra il 1972 e il 1977 – un fantasioso e ottimamente eseguito ibrido di hard prog e folk rock. I Jethro Tull di Finlandia, veramente.

La Finlandia ha prodotto molte band, pregevoli, quando non fondamentali, negli ambiti del melodic death e del folk metal spesso con ispirazione volutamente weird. I grandiosi Amorphis, in tal senso, sono solo la punta di un iceberg, che ha saputo guardare con frutto particolare alle sonorità locali.

Si spiega anche così la specifica identità di rock e metal, in Finlandia. Lo stesso discorso vale poi per i Korpiklaani nel campo del folk metal. Quest’ultimo genere, si sa, è strettamente collegato al Viking che, nella terra dei mille laghi, ha visto esprimersi, ed al meglio, gli Ensiferum (prodotti dal grande Fleming Rasmussen), i Finntroll, i Moonsorrow e i Turisas.

Il death melodico vanta, in Lapponia, forse i suoi migliori epigoni: Manifacturer’s Pride (prossimi al groove metal in più punti) e Mors Principium Est, mentre gli ormai famosi Children of Bodom sono partiti dal power black neo-classico dell’esordio di oltre vent’anni fa per approdare a un ottimo death ‘n’ roll. Più classicamente death metal, sono gli interessanti Gorephilia, mentre nel settore del funeral doom vanno menzionati senz’altro Thergothon e Skepticism.

Qualcuno forse ricorderà i finnici Decoryah, attivi negli anni Novanta, ed autori di tre dischi, rimasti molto importanti: progressive doom il primo, più sperimentale e crimsoniano il secondo, elettronico e oscuro il terzo ed ultimo. Una grande band, purtroppo scioltasi ed ingiustamente dimenticata. Nel dominio del gothic metal più classico (e spesso sinfonico), segnaliamo qui almeno i Sentenced (nati con il death primevo), i Poisonblack, in parte i Lullacry (maggiormente legati all’heavy classico), i fantastici Sonata Arctica e Apocalyptica, senza scordare naturalmente i popolarissimi Nightwish e Stratovarius (i campioni del pomp metal orchestrale).

Tra atmosfere gotiche, metal melodico e dark wave elettronica, si collocano altri gruppi, contigui tra loro, tra cui gli ottimi To Die For e Entwine, con inflessioni alla Depeche Mode. Partono invece da lidi dark per arrivare prepotentemente all’horror metal, i Lordi, gli alfieri di uno shock rock memore di quanto fatto da Alice Cooper a partire dagli anni Settanta a Detroit.
Come d’altra parte in tutta la Scandinavia, anche in Finlandia possiamo oggi trovare tutta una scena di notevole qualità in ambito street e sleaze metal. Sovente con un occhio di riguardo rivolto all’hard rock del passato, questi ultimi anni hanno consacrato i Reckless Love (i nuovi eroi dell’hair metal) e i Santa Cruz. Il modello rimangono naturalmente gli storici Hanoi Rocks di Michael Monroe (poi anche con i Demolition 23), un mito dell’hard-glam e non certo solo finlandese degli anni Ottanta. I favolosi 69 Eyes sono stati da parte loro protagonisti di un significativo passaggio da sonorità street a schemi gothic-glam di classe. Alla ricerca di una vena ancora più melodica e malinconica, si sono mossi gli HIM, padrini del cosiddetto love metal (un incrocio di neo-glam gotico e dark pop). Assai più rock, comunque moderni e molto accattivanti nel sound, i noti Rasmus.

Se l’industrial metal ha riscontrato, in Finlandia, il grande successo dei Ruoska (a tutti gli effetti, i Rammstein nordici), il crust punk ha goduto e gode ancora oggi di una scena sotterranea vivissima e assai florida, in continua espansione. I Terveet Kadet di Lapin Helvetti ne sono solo un esempio. Il crust, mixato con grindcore, speed metal, death and roll, e soprattutto black, ha visto ed ancora oggi vede primeggiare gli inossidabili Impaled Nazarene. Ultra-nazionalista, il gruppo di Mika Luttinen ha manifestato tutto il proprio orgoglio patriottico in canzoni indimenticabili e rappresentative come Total War Winter War (dal capolavoro Suomi Finland Perkele), dedicata alla resistenza finlandese – nella Guerra di Inverno del 1939-40 – contro l’invasore sovietico, e con ferocia persino maggiore in una canzone come la cruda e durissima Healers of the Red Plague (dal bellissimo Rapture, uno dei loro migliori lavori in assoluto).

Chiudiamo con lo speed e il thrash metal. I due gruppi di punta della scena sono adesso certamente i sensazionali Home Style Surgery (tra Dark Angel e Anthrax) ed i Ranger (molto alla Exciter). Ma va altresì ricordata la fondamentale scena underground sviluppatasi in Finlandia tra il 1987 e il 1991 con band quali Stone, Defier, Statue, Waltari, Protected Illusion, Warmath, Airdash, Charged, Dirty Damage, Die, Skeptical Schizo, Dethrone, Prestige e Necromancer, tra gli altri. Chi vuole scoprirli si può tuffare nella compilation Real Delusions, edita dalla Svart. Una meteora del techno-thrash sono stati inoltre i fenomenali ARG, attivi tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta. Li stampò l’attenta Black Mark dei Bathory. Chiusura con la scena black metal. Qui troneggiano gli IC Rex e i Clandestine Blaze (legati al movimento del NSBM), ma i nomi da fare sarebbero davvero tantissimi. Appuntamento, magari, ad una prossima puntata.

Sperimentazioni newyorkesi: la storia dei Prong

Una delle band in assoluto più importanti e sottovalutate del post-metal, originali e innovativi, che senza rinunciare mai alle proprie radici ha saputo costruirsi in maniera coraggiosa un approccio a se stante nel panorama internazionale. Ancora oggi, a oramai oltre trent’anni dalla nascita, i Prong assomigliano solo a se stessi. Una cosa che oggi si può dire davvero di pochissimi artisti.

I newyorkesi Tommy Victor e Mike Kirkland, che lavorano ambedue al CBGB’s della Grande Mela, creano i Prong nel 1986 insieme al batterista Ted Parsons degli Swans. In quello stesso anno vede la luce il loro primo demo tape e nel 1987 pubblicano il mini Primitive Origins, un lavoro di hardcore-punk puro, che dice molto – anzi, moltissimo – circa le loro origini stilistiche e culturali.
Nel 1988, la Southern’s Studio licenzia il primo album dei Prong. Si tratta di Force Fed, che vede il retaggio hardcore del trio tingersi di sfumature avanguardistiche e sperimentali, con inserti massicci di crossover thrash (stile Anthrax, Corrosion of Conformity, Suicidal Tendencies, Cro-Mags e DRI), mentre i concerti europei del 1989 confermano la classe, non comune, dei tre musicisti. Sempre nel 1989, i Prong fanno uscire su singolo Third From the Sun, cover dello storico brano dei Chrome, la grande band californiana di space rock e post-punk elettronico, da loro sempre amatissima e fonte di ispirazione primaria.
Arriva finalmente la grande e meritata opportunità per una major. I Prong firmano infatti per la CBS e con l’ottima produzione di Mark Dodson (Metal Church, Ozzy Osbourne, tra gli altri) registrano il loro primo capolavoro, l’eccellente ed avventuoso Beg to Differ (1990). Si tratta di un disco, molto piacevole e sorprendente, che non perde un’oncia della carica propria del gruppo, rivelandosi, nello stesso tempo, assai ben costruito e ricco di cambi di tempo. Musicalmente, Beg to Differ si colloca fra techno-thrash e punk americano, con un lavoro sulle ritmiche che di fatto fonda il groove metal, con qualche anno di anticipo sulla nascita ‘ufficiale’ del genere. All’uscita del disco, accolto in modo positivo da critica e pubblica, segue una tournée europea di spalla ai Faith No More. Ritornati a NY subentra il nuovo bassista Troy Gregory, primo cambio di line-up nella storia della band.

Il quarto album dei Prong è sempre prodotto da Dodson e si intitola Prove You Wrong (1991). Qui il retaggio hardcore punk muove in una direzione industrial, accentuando il groove ed impartendo una lezione di cui faranno tesoro i Ministry e i White Zombie. In successione giungono poi due mini-LP – Whose Fist Is This Anyway (1992) e Snap Your Fingers (1993), il secondo un EP di remix – i quali reagiscono alla crisi innescatasi oramai nel movimento thrash indicando la via che i Prong da questo momento in avanti percorreranno, in maniera lucida e personale, creativa e mai banale.
Nel 1994, appare Cleansing, un favoloso concentrato di groove metal, industrial e hardcore punk. Il disco viene prodotto da Terry Date (Soundgarden, Chastain, Dream Theater, Dark Angel, Incubus, Unearth, Limp Bizkit, Deftones, Dredg, Staind). Un gran beneficio viene dal contributo del nuovo bassista, il grande Paul Raven dei Killing Joke, che si occupa di tastiere e programmazione e spinge per un sound più elettronico e futuristico, con influenze gothic-dark mutuate dai Christian Death. Il risultato è un nuovo capolavoro nella storia dei Prong, che consolidano il loro status nei concerti in giro per il mondo di quel medesimo anno, in compagnia di Sepultura, Pantera e Life of Agony.

Nel 1995, il gruppo di New York partecipa con il pezzo Corpus Delicti alla compilation Tonnage e l’anno successivo esce il nuovo capitolo in studio, Rude Awakening. Di fatto, terzo capolavoro della band, l’album è realizzato con Charlie Clouster, dei Nine Inch Nails ai synth e presenta sonorità che, senza minimamente accantonare groove ed hardcore punk, reggono superbamente il confronto con il noise degli Helmet. Il lavoro è promosso quindi da un nuovo tour, questa volta insieme ai Type O Negative del compianto Peter Steele, un altro figlio illustre della NY anni ’80.

Nel 1997, i Prong tornano alle origini e partecipano, con London Dungeon, a Violent World, tributo ai Misfits. Il gruppo entra, di fatto, in stand-by: Victor comincia a lavorare con Danzig e Parsons si trasferisce in Inghilterra, dove entra nei Godflesh del geniale sperimentatore Justin Broadrick. Ma la parola fine per i Prong non è affatto detta. Dopo una lunga pausa, nel 2002, esce infatti 100% Live, realizzato dal solo Victor con nuovi collaboratori.
Finalmente, nel 2003, troviamo nei negozi il nuovo lavoro in studio dei Prong, dopo sette anni. Si tratta di Scorpio Rising, che conferma l’oramai consolidata diade groove metal-hardcore punk e che aggiunge porzioni industrial questa volta molto più new wave che in passato. In diversi momenti, in effetti, possono venire in mente gli inglesi Throbbing Gristle. I Prong sono di nuovo in pista – vivi più che mai – e partecipano con il bel rifacimento di Enter Sandman a Metallic Attack, compilation-tributo ai Metallica, nel 2004.
Arriva anche il momento della celebrazione dal vivo e la band fa le cose in grande. Esce, infatti, un DVD, dal titolo The Vault (2005) con tre magnifici concerti interi – un’attestazione dell’energia che i Prong sprigionano sul palco – registrati per l’occasione ad Amsterdam, in Svezia e Germania.

Dopo una pausa di due anni, nel 2007, è quindi la volta di Power of the Demager. Un grandissimo disco, che ritorna al thrash di fine anni Ottanta e ne rivede la formula, con opportune intromissioni di tipo nu metal: in pratica l’eredità della Bay Area e della New York che fu viene riscritta tenendo conto di quanto vanno facendo nuove leve quali Machine Head e Korn. L’uso sapiente della tecnologia, poi, rammenta la cura dei suoni caratteristica di Fudge Tunnel e Static X.
Nel 2009 esce, un po’ inatteso, ma sempre interessantissimo, Power of the Damn Mixxxer, album di remix, per realizzare il quale vengono appositamente chiamati dai Prong i Dillinger Escape Plan (tra gli altri), campioni del nuovo math-core. Nel 2010, una nuova tournée mondiale, assieme stavolta ai Fear Factory. Arriviamo così al 2012, anno in cui esce Carved Into Stone, solidissimo come-back in cui il gruppo statunitense ribadisce il proprio approccio al groove metal, diversissimo – si badi bene – da quello di quasi tutte le altre band che aderiscono al genere, con un riffing granitico eppure assai vario e cangiante. Come del resto tutta la musica dei Prong.
Nel 2014 i Prong danno alle stampe altri due ottimi lavori, il live Unleashed in the West, registrato a Berlino, durante una serie di esibizioni europee con gli Overkill, e Ruining Lives, un altro fantastico mix di fantasioso ed obliquo techno-thrash con inflessioni groove metal. Ai Prong preme comunque sempre riannodare le fila con il passato e ricordare, a tutti, le proprie origini musicali, non senza un giusto orgoglio. Ecco così spiegato Songs From the Black Hole (2015), un album fatto di sole cover (Discharge, Sisters of Mercy, Adolescents, Black Flag, Killing Joke, Husker Du, Fugazi, Bad Brains più il Neil Young dell’indimenticabile Cortez the Killer). Punk, post-punk, hardcore, dark: queste le radici – non solo musicali, anche culturali – dei Prong e della scena newyorkese da cui provengono, la cosa va tenuta a mente. Come molti altri colleghi illustri della Grande Mela – in ambito thrash, crossover, groove, industrial – al metal i Prong ci sono arrivati, non ne sono partiti. E la base, pure in America, è stato neanche a dirlo il 1977, con tutto quello che è ne derivato. Aspetto su cui si deve sempre riflettere. Solo in tale maniera, si possono realmente capire ed apprezzare i Prong – i Killing Joke del metal, a tutti gli effetti – e di tanti altri acts che hanno fatto la Storia della nostra musica.

Gli ultimi due episodi in studio dei Prong, X-No Absolutes (2016) e Zero Days (2017), anche se, a parere di alcuni, non aggiungono più moltissimo alla loro entusiasmante parabola (ma non avrebbe, davvero, senso alcuno chiederlo o pretenderlo), ci restituiscono nondimeno tutta la grande maestria di chi ha saputo ogni volta reinventarsi con intelligenza e spirito di ricerca sonora, senza mai cedere a compromessi di sorta o logiche commerciali. Questi sono i Prong da New York City: un gruppo da sempre ‘avanti’.

In Britain: i Napalm Death dal crust punk al death-grind

1. Un anno basilare il 1977. Il rock, come sempre voce del disagio giovanile, riesce ad oltrepassare i limiti di una lettura razionale ed a cogliere tutto il lato simbolico ed emotivo di questo disagio, trasformandolo in ribellione. Dall’Inghilterra, arriva l’urlo nichilistico dei Sex Pistols, No Future. In Italia i centri sociali lo amplificheranno in tutta la sua potenza anarcoide. Band come Clash, Carcass e gli oscuri Cure daranno vita ad una scena musicale capace di evolversi, in seguito, in altre forme più estreme (crust punk, hardcore, grind, thrash e death), come qui di seguito andremo a analizzare.

2. Dici Grindcore e pensi ai Napalm Death. Descrivere questo genere, senza citarne i veri padri fondatori, sarebbe come parlare del Futurismo dimenticandoci del Manifesto di Filippo Tommaso Marinetti. Quando un genere musicale nasce, notoriamente possiede più padri (ed un’unica madre, ossia la passione per la musica stessa). Pensiamo al thrash o al death e ci vengono in mente almeno dieci band genitoriali (e tre o quattro nazioni). Il caso del Grindcore è forse più unico che raro. Esso possiede un’identità ben definita, un’unica terra Natale (l’Inghilterra) e un solo ed unico padre. Per riprendere il paragone con il Manifesto del poeta, scrittore e drammaturgo italiano, non possiamo esimerci dal citare almeno i primi due punti essenziali del testo che paiono scritti ad emblema del messaggio che i Nostri, esattamente settantadue anni dopo, hanno voluto lasciare ai posteri: a) noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità; b) il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
Vogliamo parlare del coraggio, dell’amor del pericolo, dell’audacia e dell’abitudine all’energia, di questi ragazzacci di Birmingham, che agli albori degli anni ’80 (a quei tempi si facevano chiamare Civil Defence), si permisero di proporre un genere assolutamente in contro-tendenza con i canoni fondamentali della musica (almeno quella di allora)? Nel 1981, per estremo si intendeva al massimo Welcome to Hell dei Venom (Reign in Blood uscì solo nel 1986 e i Death, così come i Bathory, uscirono solo nel 1984, e comunque sempre uno step indietro – in termini di violenza sonora – da quanto proposto dal combo inglese). Certo, ai tempi di demo come Halloween e And, Like Sheep, We Have All Gone Astray (i primi due, usciti nel lontano 1982) c’era ancora tanto Punk e Hardcore. Comprensibile! D’altronde, l’allora terzetto di Birmingham (Nic Bullen alla voce, Miles Ratledge alla batteria e Daryll Fideski alle chitarre, poi divenuto quartetto con l’ingresso di Finbar Quinn al basso) arrivava direttamente dagli sconquassi social-musicali della stravolgente scena punk inglese. Ma già a quei tempi preistorici, si intravvedeva una ricerca di un’energia al di là di quanto espresso dalla scena di allora. Un’estenuante necessità di correre alla velocità della luce, quasi a fuggire dalle meschinità della società post anni ‘70 (almeno nella visione punk del periodo) o a corrergli contro, urlando il proprio disprezzo. E forse, ad un certo punto, si accorsero che il nome di Civil Defence fosse troppo ‘leggero’. Ci voleva qualcosa di potente e distruttivo, che ardesse tutto e tutti, e che emanasse forte odore di bruciato: Napalm Death, appunto! Ma, tutto ciò, non rappresentava che l’inizio; il progetto era ancora grezzo, indefinito; un diamante sì bello, ma ancora finemente da tagliare.
Nel 1985 – la leggenda racconta – in un negozio di dischi di Birmingham, Nic Bullen incontra un giovanissimo chitarrista – Justin Broadrick – che si unisce al gruppo. E’ un momento decisivo per la band (onestamente nella loro storia, di circostanze determinanti per i loro cambiamenti, ce ne sono state poi parecchie). Esce Hatred Surge, il demo tape che abbandona, quasi definitivamente, ogni collegamento col passato: non più anarcho-punk o crust punk, non più Amebix o Crass. Un suono nuovo, devastante, mai ascoltato prima di allora. Per inciso, la chiave del loro successo, probabilmente fu proprio la demo del 1985. E’ con questa uscita, infatti, che scandalizzati critici musicali iniziarono ad appioppare alla musica dei ND, il sostantivo di ‘rumore’; pensando di cucinare per bene questi “presunti musicisti da quattro soldi”, stroncandoli con piogge di critiche, spesso mai troppo benevole, finirono – a loro insaputa – per farne la loro fortuna.
Ma fu l’arrivo di Mick (Harris) a fa virare i Napalm Death verso lidi molto più caotici, assordanti, passando attraverso velocità mai sperimentate, prima di allora. Sostituendo Ratledge alle pelli (mentre Bullen divenne anche bassista, sostituendo Shaw, che a sua volta aveva sostituito il primo Quinn), rielaborò quasi tutti i pezzi sino ad allora composti, riducendone drasticamente le durate, ri-arrangiando il sound, rendendolo molto più brutale e più veloce. Con questi presupposti si arrivò all’incisione di due demo: From Ensalvement to Obliteration e Scum, poi divenuti i celeberrimi omonimi album (con alcune eccezioni, nelle rispettive track list), e fiori all’occhiello della storia musicale dei Nostri.
Ma è il 1987 che consacra il combo a vera icona dell’estremo. Oramai diciamo che si era già sparsa la voce e, grazie anche al tape-trading, i Napalm Death incominciavano a farsi conoscere, anche nella scena d’oltre oceano. Iniziarono a condividere idee e pensieri con band (allora nascenti) del calibro di Heresy , Unseen Terror, Extreme Noise Terror e Ripcord (tutti loro connazionali) e ancora Siege, Macabre, Cryptic Slaughter, Repulsion (USA). La fama giunse alle orecchie di un certo Digby Pearson, proprietario dell’allora minuscola etichetta Earache. Pearson ne vide le potenzialità (e sicuramente la possibilità di rendere famosa la propria etichetta) e li mise sotto contratto; uscì quindi Scum. Le novità rispetto alla precedente formazione furono: al basso un allora sconosciuto Jim Whitely (divenuto poi front-man di famosissime band, con diversi pseudonimi come ‘Jimbo’ e ‘Big Jim Grinder’, quali Extinction of Mankind, Prophecy of Doom, Filthkick, Doom e Ripcord), e alla chitarra un certo Bill Steer (Carcass) e uno sconosciutissimo Lee Dorrian (anche se molte track erano allora ancora cantate da Bullen).
Se Scum, lo possiamo affermare con certezza, rappresentò il primo vero album di Grindcore (l’album che sconvolse le masse, con accelerazioni spaventose, sonorità più affini ai rumorismi sperimentali di storiche band quali i Throbbing Gristle e gli Swans, vocalizzi più simili a schizoidi gorgoglii di un lavandino, tracce di una brevità sconcertante – You Suffer tocca l’apice, con il suoi eterni 00:01 secondi…), From Enslavement To Obliteration (uscito l’anno dopo) ne rappresentò il vero Manifesto Futurista. Qui troviamo una formazione che si consolida nella storia, e che rimarrà, negli anni a venire, nei cuori di tutti i ‘grinders’ più nostalgici e malinconici. Chi può affermare di non aver amato Lee Dorrian alla voce (cupissimi growls e schizoidi urli che hanno tracciato le linee guida del genere), Bill Steer alla chitarra (un favoloso chitarrista, divenuto, poi, un’icona con i suoi Carcass), Shane Embury al basso (anche lui un prime-mover, con i suoi Unseen Terror, poi successivamente leader incontrastato di Brujeria e Lock Up, per citarne qui solo alcuni), ed infine, ovviamente l’anima e core della band, Mr. Mick Harris alla batteria?
Il seguito, tra centinaia di concerti, alcuni split (tra cui quello famosissimo con i giapponesi S.O.B.) e una seconda edizione delle celebri Peel Sessions (la prima è datata 1987), ci porta ad un fatidico agosto del 1989, che vede l’uscita di un mini, non capito da molti fan, Mentally Murdered. Anzi, ad onore del vero, considerato da alcuni un vero e proprio tradimento. Un mini lp di 4 canzoni… della durata totale di 15 minuti e mezzo! Signori, il Grindcore – per come era stato inteso, sino a quel momento – venne considerato definitivamente defunto… o almeno defunta era la fase Grindcore dei Nostri. Sonorità estreme si, ma molta più ricerca e tecnica compositiva, sounds spesso accostabili al death (oramai divenuto l’estremo più ascoltato di quegli anni), cancellarono ogni parvenza musicale riconducibile al primo Grindcore, all’Hardcore, al Crust Punk.
Forse per questa ragione (e forse per svariate altre: Bill Steer lasciò, per esempio, la band solo per dedicarsi completamente ai suoi Carcass, che divenivano, ogni giorno di più, leader incontrastati del Goregrind), la formazione cambiò. Entrarono, alle chitarre, Mitch Harris (già leader dei grinders Righteous Pigs) e il compianto Jesse Pintado (come non ricordare i Terrorizer di World Downfall?); ma soprattutto, Lee Dorrian (che fondò, a quel tempo, i doomsters Cathedral), fu sostituito da un allora giovanissimo (ma già divenuto famoso per i suoi Benediction) Mark “Barney” Greenway.

3. Trovata la stabilità cercata, i Napalm decisero, assecondando anche la passione mai sopita e mai nascosta di Embury e del chitarrista Harris, di rendere più pesante il loro suono, non svoltando completamente verso il death ma incorporandolo in modo naturale nel loro sound. Affidandosi alle sapienti mani di Scott Burns, ai tempi il re Mida del death, andarono ai famosi Morrisound Studios, un passaggio obbligato per ogni gruppo dedito a queste sonorità. Il risultato, nel 1990, fu Harmony Corruption, che sconvolse il popolo Grindcore, non pronto a una svolta così decisa da parte dei loro beniamini; non tutto, ma molto death si trova nei solchi di quest’opera, che esce nello stesso anno (1990), di Left Hand Path degli Entombed, non sfigurando, ma neanche centrando completamente il bersaglio; la produzione, nonostante Burns, non è ancora perfettamente calibrata, con le due chitarre un po’ schiacciate dal suono della batteria, ma brani come Suffer the children e It the truth be known dimostrano, ampiamente, che la convinzione è notevole e che la strada si deve percorrere. Mick Harris, guru e prime mover del Grindcore, lascia la band, forse non convinto completamente della direzione intrapresa e viene prontamente sostituito da Danny Herrera. Così la band instancabile nel 1992 propone Utopia Banished, maturando ulteriormente quella fusione tra grind, (crust) punk e death. Pintado sforna riff memorabili ed il sound è selvaggio, violento e in alcune parti decisamente anche tecnico. Christening of the Blind e Aryanism sono autentiche mazzate in faccia, sorrette dalle vocals di Barney, incisive e pronte a declamare testi mai banali, improntati sul sociale e sulla degradazione umana. La tesissima e claustrofobica Contemptuous dimostra che la band ha anche altre frecce da scoccare nella sua faretra. Incredibilmente, la band non ha variazioni di formazione e prosegue lo sviluppo del suo suono proponendo nel 1994 Fear, Emptiness, Despair, forse l’apice da quando hanno ‘osato’ abbandonare il puro grind; i cinque musicisti, in grande spolvero, ci donano undici brani cattivi, strutturati con grandi riff, semplici e travolgenti, accostati a suoni dissonanti, generando un’atmosfera devastante ed allo stesso tempo claustrofobica (State of Mind); la ferocia hardcore rimane immutata, ma è innestata in una materia cangiante e assolutamente ispirata. Scena musicale in continuo movimento negli anni ’90 ed i Napalm Death forse si fanno prendere troppo la mano; in perenne movimento in sede live, dal punto di vista discografico, nel 1995 (Greed Killing, un EP) e nel 1996 (Diatribes), danno alle stampe due dischi non perfettamente centrati: vogliono incorporare nel loro sound parti di groove metal, tracce industrial, nu metal ed il risultato non da i frutti sperati. Intendiamoci, se si togliesse il monicker Napalm Death sarebbero due buoni dischi, ma chi ha fatto la storia non può permetterselo; il sound sembra stratificato su diversi piani, con la voce di Barney troppo pesante per la struttura dei brani, che oltrettutto sono a volte poco ispirati per la presenza di troppi ingredienti forse mal pesati. Sono quasi irriconoscibili i ND, mancando la ferocia e la cattiveria a cui ci hanno abituati; riescono raramente ad accendere l’interesse (Cold forgiveness), senza però riuscire a mantenerlo alto. Due dischi che chiaramente divisero la critica e il pubblico, che apprezzò molto relativamente la loro scelta; invito il lettore a mettere nel lettore cd in successione Fear e Diatribes per capire la differenze di suono ed emozionali che ne derivano. I Napalm Death hanno però troppo credito, hanno fattto la storia e non si può credere che possano aver imboccato una strada che non li rappresenti, è giusto guardare al futuro, trarre ispirazione per produrre arte sempre nuova e coinvolgente; sono transitati dal grind al death, con buona naturalezza e hanno rilasciato opere fondamentali, ma forse ora hanno bisogno di correggere la rotta. A distanza di solo un anno, nel 1997 esce Inside the torn apart che inizia a riportare il loro suono su coordinate più consone ai Napalm: introdotto da un opener fantastica come Breed to Breathe, potente e agile il disco, non tutto dello stesso livello, non depone completamente i suoni del precedente, ma mostra incoraggianti segnali di cattiveria che forse ora è meno selvaggia, ma più controllata. Assolutamente non è tra i primi acquisti da fare per conoscere questa band seminale, forse non ci sono brani cosi memorabili, ma rappresenta un buon ritorno a qualcosa che si svilupperà poi successivamente di lì a poco.

4. Nel 1998 i Napalm Death pubblicano sempre per la Earache Words From the Exit Wounds. Qui, il sound aggressivo e moderno degli ultimi dischi viene confermato, non senza sperimentazioni di tipo industrial, sulla scia dei Killing Joke più claustrofobici e violenti. Si tratta di un lavoro di notevole e grande maturità artistica, anche sotto il profilo della scrittura musicale, con una marcata attenzione per la cura dei suoni e le nuove e più aggiornate tecnologie di incisione.
A questo punto, il gruppo di Birmingham sente evidentemente di avere concluso una stagione della propria storia e puntuale arriva il live (semi-ufficiale), Bottlegged in Japan, pubblicato soltanto nel paese del sol levante: un doppio CD che vede i Napalm Death davvero al massimo della forma pure sul palco, con un’ottima carrellata di pezzi più recenti e di classici del loro repertorio.
Senza alcuna fretta sulla strada da intraprendere, i nostri si concedono un’ulteriore – ma fruttuosa – pausa di riflessione, dando alle stampe un interessante Leaders Not Followers (1999), per la Dream Catcher: trattasi, questa volta, di un disco di sole covers, tese (come si evince chiaramente a partire sin dal titolo scelto) a riconoscere l’importanza storica di coloro che sono stati, nella storia del metal e dell’hardcore punk, iniziatori se non pionieri che hanno saputo aprire una strada seguita in seguito da altri. Troviamo così brani dei Death di Chuck Schuldiner, dei doomsters Pentagram, degli italiani Raw Power (la loro Politicians resta evidentemente un pezzo-manifesto noto e amato in Inghilterra, a conferma della statura internazionale dell’act emiliano), degli Slaughter, dei Repulsion e dei Dead Kennedys. Finalmente, nel 2000, sempre per la Dream Catcher, esce il nuovo capitolo in studio dei ND: Enemy of the Music Business, fin dal titolo una (programmatica ed esplicita) dichiarazione di intenti e musicali e lirici, si segnala positivamente come uno dei più feroci ed intransigenti episodi, nella discografia del gruppo inglese. Dal punto di vista stilistico, l’assoluto diniego verso qualsiasi forma di concessione commerciale si trova poi confermata da un approccio non dissimile da quello del coevo brutal death metal d’oltreoceano: un monolite compattissimo ed inflessibile, una grande testimonianza di coerenza e di integrità, da parte della band britannica. Nello stesso anno, vengono stampate anche le Complete Radio One Sessions, gli storici provini radiofonici incisi per John Peel, disc jockey che tanto fece in favore del riconoscimento del movimento punk inglese.
Da questo momento in poi, i Napalm Death si orientano sempre più verso il death-grind: ricuperano cioè il grindcore da loro inventato nella seconda metà degli anni Ottanta, ne rivedono e aggiornano la formula portandola nel terzo millennio e facendo, soprattutto, tesoro dell’esperienza death. Order of the Leech vede la luce nel 2002 per la Spitfire ed è un fantastico affresco di grindcore moderno, con piccoli tocchi black metal alla Immortal. Nel 2003, appare Noise for Music’s Sake, una raccolta di materiale registrato in concerto e di EP con il tempo divenuti piuttosto rari, edita dalla Earache, in formato doppio. Si tratta di una chicca davvero imperdibile: il secondo CD in particolare ripropone il mitico mini Mentally Murdered e pezzi dallo split con gli svedesi At the Gates.
Nel 2004 esce il secondo capitolo di Leaders Not Followers. Questa volta tocca a Cryptic Slaughter, Devastation, Hellhammer, Discharge, Master, Kreator, Massacre, Attitude Adjustment e Agnostic Front, Sepultura e Hirax tra gli altri venire coverizzati in chiave death-grind, con risultati grandiosi; passa solo un anno e nel 2005 è nei negozi il nuovo The Code is Red / Long Live the Code, in linea sotto ogni aspetto con il suo predecessore in studio. Qualche variazione introduce Smear Compaign (licenziato, nel 2006, dalla tedesca Century Media), che vede ospite la vocalist degli olandesi The Gathering. Tre anni e Time Waits For No Slave (2009) ritorna al più classico e collaudato grindcore-death. Dodici mesi dopo esce sul mercato per la Snapper (pure in versione DVD) il live Punishment in Capitals, dall’infuocata esibizione registrata a Londra nel 2002.
I due dischi successivi dei Napalm Death, Utilitarian (2012) ed Apex Predator – Easy Meat (2015), pur non aggiungendo forse più moltissimo in termini di novità – ma è possibile dopo oltre trent’anni e poi può essere cosa che alla band interessa? – ci restituiscono un gruppo ormai intoccabile, sicuro di sé ed entrato di diritto nella storia, incorruttibile e inossidabile come l’etica crust punk impone.
Assolutamente irrinunciabile è l’ultimo Coded Smears and More Uncommon Slurs (2018), antologia doppia, costituita da sessions inedite dagli ultimi lavori, due covers dei Melvins (i veri padrini dello sludge), B-sides e brani dagli split realizzati con Voivod, Converge e Heaven Shall Burn a conferma di un interesse anche verso math-core, SCI-FI metal e post-core melodico. Napalm Death: la Storia.

Roberto Grassi – Michele Massari – Massimo Pagliaro – Dazagthot

Letture essenziali
– Stefano Cerati e Barbara Francone, I 100 migliori dischi death metal (Tsunami)
– Gianni Della Cioppa, Il grande libro dell’heavy metal (Giunti)
– Ian Glasper, Anarcopunk (Shake)
– Ian Glasper, Quando bruciammo l’Inghilterra (Shake)
– Albert Mudrian, Choosing Death (Tsunami)
– Jason Netherton, Profondo estremo (Tsunami)

Made in Florida: alle origini del death metal

Il death nasce in Florida, non altrove. E’ una verità storica e va riconosciuta, senza se e senza ma. E’ inutile, d’altra parte, ricercare altri inconsapevoli ‘precursori’.

Quando è nato il death metal? E soprattutto dove? Negli Stati Uniti, in Svezia? Questo articolo mira ad andare alle radici del genere, quando era ancora solo un fenomeno puramente underground.

Ogni volta che si parla di origini culturali del death metal, si dice correttamente che il genere è sorto nella seconda metà degli anni Ottanta. Più problematico diventa localizzarlo, dal punto di vista tanto geografico quanto precisamente temporale in maniera esatta. Al riguardo, i pareri restano discordi: secondo alcuni, primo gruppo death sarebbero stati i Possessed, autori nel 1985 dello storico debut Seven Churches, emblematico e sin dalla copertina. Tuttavia, riguardo al gruppo californiano non ci sembra possibile parlare di puro death per come in seguito lo si è inteso: abbondano infatti i rimandi al thrash della Bay Area da cui la band di Larry Lalonde e Jeff Becerra proveniva e Seven Churches è più che altro un grandioso ed epocale album di thrash-death, di passaggio, dall’uno all’altro genere musicale.
Anche riguardo ai grandissimi Celtic Frost permangono alcuni dubbi circa l’appartenenza al death: il seminale act svizzero produsse a inizio carriera capolavori indiscussi di thrash-black primordiale, con tocchi dark, doom e sperimentali (al più, volendo cercare una definizione, proto-death: discorso che potremmo fare anche per i primissimi Bathory in Svezia e i Kreator in Germania, o ancora per gli Hellhammer, primo nucleo dei Celtic Frost). Né basta avere intitolato una canzone Death Metal (come nel caso dei fantastici thrashers inglesi Onslaught) per individuare a fortiori un’appartenenza voluta e soprattutto consapevole al genere.
Taluni citano come primo gruppo death i Master, di Paul Speckmann. Anche qui tuttavia non si può essere del tutto d’accordo. Il primo demo della peraltro imprescindibile band di Chicago (sorta nel 1983) data 1985, lo stesso anno in cui vide la luce anche l’unico nastro dell’altra creatura di Paul, i Death Strike. Nondimeno, quello dei due gruppi era più che altro un thrash-death, a base di Venom, Slayer e Motorhead (le linee vocali non erano, infatti, ancora growl, ma molto alla Lemmy). Stesso discorso per gli Abomination, sempre dell’Illinois, o per i Necrophagia degli inizi, spostandoci in Ohio.
Il death nasce in Florida, non altrove. E’ una verità storica e va riconosciuta, senza se e senza ma. E’ inutile, d’altra parte, ricercare altri inconsapevoli ‘precursori’. Nel 1986, in Florida, i Morbid Angel incidono il loro Abomination of Desolations.

Il disco, purtroppo, non viene stampato subito (uscirà per la Earache solo nel 1991), poiché il gruppo non era soddisfatto di suoni e registrazione. Pertanto il primo vero ed esplicito album di death metal è Scream Bloody Gore (1987) dei Death, formati dal grande e compianto Chuck Schuldiner, addirittura tra il 1981 e il 1982. Quello è il disco che di fatto, uscito per la Combat, crea il death metal e ne fonda il movimento, a livello non solo musicale, ma anche lirico ed iconografico (inclinazioni horror comprese). La base. Una base su cui – e sempre in Florida – in quegli stessi anni o di lì a pochissimo tempo, una autentica legione di leve si sviluppa e cresce in termini esponenziali.

Ricordiamo la prima incarnazione dei Deicide, gli Amon, creatura di Glenn Benton e dei fratelli Hoffmann, il cui primo demo tape apparve sempre nel 1987 (ristampato, insieme alla seconda cassetta di due anni dopo, con il titolo Sacrificial dalla Vic Records).

La Florida, per il death, funge da luogo di partenza e centro d’irradiazione. Nel 1987 si costituiscono i Nocturnus ed i Malevolent Creation, nel 1988 Acheron, Atheist e DVC. Nel 1989 esce Slowly We Rot degli Obituary per la Roadrunner: un manifesto.

Nel 1990 nascono i Monstrosity e trovano un’identità definitiva i Massacre, sorti come gruppo di thrash slayeriano sei anni prima. Moltissimi di questi gruppi passano, poi, per le mani del geniale Scott Burns – produttore, ingegnere del suono, addetto a missaggio e masterizzazione – che presso i Morrissound Studios di Tampa, in Florida, si dà a forgiare quello che rimane il primo ed indimenticabile death-sound.

Con Burns – ricordiamolo – hanno lavorato pure i death-progsters Cynic, gli inglesi Cancer, i Sepultura di Arise e Beneath the Remains, i newyorkesi Suffocation e Cannibal Corpse, gli olandesi Pestilence, i canadesi Gorguts, i grinders britannici Napalm Death (per il capolavoro Harmony Corruption del 1990) e i Terrorizer, i floridiani Six Feet Under, i tedeschi Atrocity di Hallucinations (1990), gli Exhorder, i Devastation, i Coroner, gli Psychotic Waltz ed i Sadus di Steve Di Giorgio, forse il più grande bassista death metal in generale. A quanti hanno sostenuto che Burns avrebbe fornito, alle band che hanno lavorato con lui, un suono sempre uguale e quindi in ultima istanza standardizzato, si può rispondere che: 1) non è del tutto vero, dato che i gruppi in questione sono tutti riconoscibilissimi e distinguibili fra di loro; 2) Burns ha avuto un ruolo determinante non solo nell’ambito del primo death floridiano e mondiale ma anche in quello imparentato con la fusion progressiva (Atheist, Cynic, i lovecraftiani Pestilence di Testimony of the Ancients, Gorguts), in quello fantascientifico (gli indimenticabili Nocturnus, tra Asimov e Crowley) e nella genesi storica dello stesso brutal death metal (Cannibal Corpse, Deicide dal 1995 in avanti), ed infine 3) vista la centralità e rilevanza indiscutibili, se anche il sound di tante death metal band della prima ondata può apparire forse similare, viene da pensare che sia stato, alla fine, un bene, per il quale essergli profondamente grati.

Se oggi, grazie ai fenomenali Kataklysm, il brutal americano ha saputo unirsi con quello melodico (di scuola svedese), lo dobbiamo in maniera indiretta a chi – i gruppi della Florida tra fine anni ’80 e primissimi ’90, che lavorarono con Burns – ha posto le fondamenta.

Arte a luce rock: Giger dal prog al metal

Lo svizzero Hans Rudolf Giger (1940-2014), artista conosciutissimo per avere creato l’iconografica figura del mostro di Alien (portato per la prima volta sugli schemi, da Ridley Scott, nel 1979), ha riservato molti dei suoi lavori alle copertine di numerosi musicisti e band dell’universo rock.

Le sue creature surreali – ai limiti del body horror, di cronenberghiana memoria – erano fatte di carne e di meccanica. Mostri partoriti da una mente visionaria, lovercraftiana, di infinito orrore e bellezza. Si può capire, dunque, perché questo artista estremo abbia trovato un così largo consenso, nel mondo musicale, tanto che oltre alla sua copertina capolavoro di ELP (Brain Salad Surgery, 1973) con quel volto femminile triste e regale presagio di un mondo futuro infernale e tecnologico, abbia avuto poi al suo attivo lavori con i Korn, con Debbie Harry (in Koo Koo), con gli svizzeri Shiver, i francesi Magma, band black metal (come gli elvetici Celtic Frost, Triptykon), gothic-death metal come gli Atrocity, dark-punk come i Danzig e Dead Kennedys. La freddezza metallica della sua arte, unita alla dimensione tecnologica e fantascientifica, ne hanno fatto un’icona imprescindibile, per tutti quei gruppi rock e metal che si sono avvicinati e si avvicinano all’estremo.
E’ un estremo visuale e sonoro, quello di Giger e delle band che si sono avvalse dei suoi favori. Nel 1973, Brain Salad Surgery di ELP fu un disco avveniristico e contro-corrente per l’epoca: infatti, se pensiamo che, in quell’anno, i Genesis pubblicavano il melodico e romantico Selling England by the Pound, un album come quello di Emerson e compagni rappresentava un qualcosa di antitetico: un disco futuristico ed oscuro, elettronico e fantascientifico, forse persino troppo in anticipo sui tempi, per venire compreso ed apprezzato allora sino in fondo. Naturale pertanto che a firmare la copertina sia stato appunto Giger, la cui inquietante pittura era perfettamente confacente a quel sound, nero ed atmosferico, cinematografico e magniloquente, zeppo di tessiture per sintetizzatore e freddissimo sul piano formale. In assoluto, uno dei più grandi dischi della storia del rock, con la Jerusalem del grande poeta William Blake (1757-1827) e la suite Karn Evil 9 sugli scudi.

Quattro anni dopo, nel 1977, Giger venne anche invitato a realizzare la cover per Pictures, debutto e unico album dei suoi connazionali Island, band di culto, molto influenzata dai Van der Graaf, assai dark oltre che progressive, quindi. In copertina, con due anni d’anticipo sul film, troviamo già Alien, all’interno di un scenario, e orrorifico e biomeccanico, che precorre la cultura cyber-punk degli anni Ottanta.

Nel 1978 furono i Magma a chiamare a collaborare Giger in occasione del loro Attahk. Certo non si tratta del loro lavoro migliore, tuttavia valido ed importante, un ulteriore tassello, nella storia dello zeuhl francese ed europeo dei Seventies. Del resto, la band del grande Christian Vander non poteva, vista la propria proposta artistico-musicale, non avvalersi del talento visionario e proto-cibernetico di Giger, artista davvero alieno per un gruppo dichiaratamente altrettanto alieno.

Se negli anni Settanta la nuova frontiera del rock era stata soprattutto il progressive, nel corso della decade successiva lo fu indubbiamente il metal, con tutte le sue branche ed in particolare coi legami intrattenuti dall’heavy con l’universo dell’esoterismo, dell’horror e delle scienze occulte. Giger era in proposito l’artista perfetto al quale chiedere una controparte visiva del tutto complementare a quella sonoro-musicale: una rappresentazione e materializzazione iconica di incubi, paure, terrori. I primi a valorizzarne il genio, durante gli Eighties, furono i Celtic Frost, guarda caso svizzeri come lui. La copertina di To Mega Therion (1985), con il demone che usa il crocifisso come fionda, è ancor oggi non poco disturbante. Quanto alla musica, quasi superfluo ricordare che quel disco, partendo da una base speed-thrash venomiana, ha aperto – direttamente o indirettamente, a seconda dei punti di vista – le porte a black e death primordiali.

E visto che abbiamo parlato di death metal, impossibile non citare a questo punto gli Atrocity, band tedesca davvero storica, il cui esordio Hallucinations, prodotto nel 1990 dal grande Scott Burns, fu illustrato da Giger: stavolta l’ispirazione veniva dal surrealismo francese del primo Novecento, e da Dalì in particolare, come appare evidente dall’uso deformante del tratto e dai connotati obliqui della raffigurazione, astratta e distorta insieme, al centro di una geometria impossibile che ha cessato del tutto di rispondere alle regole euclidee.

Due anni dopo, nel 1990, Giger collaborò con Danzig per il terzo capitolo della sua carriera solista: How the Gods Kills vide l’ex leader dei Misfits alle prese con un thrash gotico per il quale il pittore elvetico pensò ad un’ennesima variazione sul tema di Alien, vera sorgente inesauribile della sua arte estrema.

Nel 1993, furono gli inglesi Carcass a ricorrere a Giger, per il loro Heartwork, un capitolo storico del grindcore nordeuropeo, con in copertina il classico simbolo della pace rivisto in chiave horror e biomeccanica. Provocazione? Umorismo nero? O superiore disprezzo e stravolgimento dei luoghi comuni e dei canoni codificati? Da Giger tutto davvero ci si poteva aspettare.

Più di recente, Giger è voluto ‘tornare a casa’ – artisticamente e musicalmente parlando – tornando a collaborare con il suo vero alter ego in ambito metal, Thomas Gabriel Warrior (Fischer all’anagrafe) per Eparistera Daimones (2010) e Melana Chasmata (2014) dei Triptykon: due stupendi lavori di black-thrash, che aggiornano e conducono a definitiva maturazione l’itinerario principiato dai Celtic Frost a metà circa degli anni ’80. Vera demonologia in musica e perfetta conclusione della migliore e più inquietante meditazione artistico-musicale su spazi altri ed incubi cosmici.

Roberto Grassi – Warhammer

Lovecraft in Rock: una prima ricognizione

Gruppi e artisti che si sono rifatti a HPL sono stati innumerevoli, pertanto la presente ricognizione mira solo a rompere il ghiaccio (cosmico) e a sgrezzare la pietra (nera).

Un grandissimo scrittore come Howard Phillips Lovecraft – il padre del fantastico moderno e della fantascienza orrorifica – non poteva non ispirare, sul piano delle suggestioni letterarie e filosofiche, l’universo del rock, e del metal in particolare.

Due in particolare sono stati, della vasta narrativa del solitario di Providence, i filoni che hanno esotericamente nutrito l’immaginazione di infinite schiere di musicisti: l’orrore cosmico e quello marino. Lo vedremo più in dettaglio, in questa rassegna, che, tuttavia, non ha alcuna pretesa di completezza ed esaustività assolute (sarebbe impossibile).
Gruppi e artisti che si sono rifatti a HPL sono stati innumerevoli, pertanto la presente ricognizione mira solo a rompere il ghiaccio (cosmico) e a sgrezzare la pietra (nera).
Altri studi sull’argomento dovranno in seguito necessariamente venire, anche perché il tema si presta non soltanto ad un articolo (o ad una serie di articoli), quanto piuttosto a un libro vero e proprio, che a quanto ci risulta ancora manca nel panorama editoriale italiano.
Il discorso in merito finisce per riguardare anche il piano iconografico, visto che grandi illustratori che tanto hanno lavorato con band di area metal – Micheal Whelan, solo per fare qui un esempio – si sono rivelati largamente debitori verso l’immaginazione lovecraftiana e tutto ciò a cui essa mette capo (geometrie impossibili, altri mondi, entità aliene, minacce insondabili provenienti dallo spazio, mari oscuri popolati da mostri indicibili, nonché paesaggi onirici).
Iniziamo questa nostra ricognizione preliminare cogli imprescindibili pionieri H.P. Lovecraft, nati a Chicago sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso e divenuti, dopo i primi due dischi, molto più semplicemente Lovecraft.
Proponevano un hard prog primevo, influenzato dai maestri inglesi – Pink Floyd e Procol Harum in testa – incorporandovi altresì influenze più americane (leggasi Love, CSNY, Steve Miller).
Il loro Valley of the Moon guardava oltre che a HPL anche a Abraham Merritt (altro grande scrittore affine al solitario di Providence e, da lui, molto amato).
Degli H.P. Lovecraft, in questa sede, possiamo senz’altro consigliare le due raccolte At the Mountains of Madness (1988) e Dreams in the Witch House (2005), che fin dal titolo richiamano, in maniera esplicita e voluta, due dei maggiori racconti lovecraftiani, traducendoli in musica attraverso trame sonore assai suggestive ed eteree, con divagazioni folk e belle tastiere.
Gli stessi testi della band altro non erano se non veri e propri adattamenti delle poesie scritte da HPL (edite in Italia, da Agfa Press, con il titolo Il vento delle stelle qualche anno fa).

Restando nel periodo degli albori del progressive e spostandoci in Gran Bretagna, è impossibile non menzionare gli Arzachel di Canterbury, che nel 1969 dedicarono un brano del loro debutto (rimasto senza seguito: una vera meteora) al minaccioso Azathot.
Anche i Black Widow, nel loro capolavoro Sacrifice (1970), furono influenzati tra gli altri dagli incubi di HPL.
Né possiamo scordare gli High Tide del violinista Simon House, con il loro Sea Shanties (1969), ispirato agli orrori marini descritti in termini sublimi ed inquietanti da HPL in pagine di prosa barocca rimaste immortali, non solo per gli estimatori.
L’hard rock anglo-americano dei Seventies vide due gruppi soprattutto cimentarsi con liriche e temi di matrice lovecraftiana: ci riferiamo agli statunitensi Blue Oyster Cult (in più dischi) e soprattutto ai Black Sabbath, i quali inserirono nel loro esordio omonimo del 1970 un brano molto evocativo e rappresentativo, se non emblematico, come lo stupendo Behind the Wall of Sleep, impregnato sino al midollo di atmosfere evocative ed ancestrali rese con suoni oscuri e cadenzati. Il racconto Oltre il muro del sonno, si sa, data 1919 ed è una delle cose migliori scritte da HPL, allora agli inizi del suo percorso di autore.
Il vero revival lovecraftiano è tuttavia cominciato con gli anni Ottanta (per non cessare poi più).
Nel 1984, i Metallica omaggiarono HPL con lo strumentale The Call of Ktulu, nel loro storico secondo album Ride the Lightning, prodotto, come noto, da Fleming Rasmussen in Danimarca e dominato da ricerche sulle linee armoniche che hanno fatto veramente epoca ed aperto una strada a generazioni di musicisti.
I Metallica hanno successivamente composto almeno un altro brano, debitore verso il talento visionario e occulto di Lovecraft, The Thing That Should Not Be, omaggio a La maschera di Innsmouth.
Ma anche il loro ultimo lavoro, l’eccellente e sottovalutato Hardwired to Self-Destruct è intriso di aromi lovecraftiani: anche sotto questo profilo, un autentico ritorno al passato.
Rimanendo in ambito thrash e speed, possiamo annoverare i geniali Mekong Delta di The Music of Erich Zann (1988, omaggio dichiarato all’omonimo racconto di HPL) e i Necronomicon (pure loro tedeschi, da pochi anni riformatisi).

Fra epic metal e thrash, quello che è uno dei migliori dischi dei Manilla Road, Out of the Abyss (1989), celebra il sognatore di Providence fin dal titolo. Tra heavy classico e speed-thrash teutonico d’alta scuola rammentiamo quindi i Rage, con due lavori del tutto lovecraftiani, come il capolavoro Black in Mind (1995) e l’ottimo Soundchaser (2003).
Altrettanto si può affermare per la canzone Cthulhu incisa dagli Iced Earth, nel 2014, a mezza strada fra thrash-speed americano e dark metal epico anni Ottanta.
Il metal classico ha omaggiato HPL con gli Arkham Witch (tra Black Sabbath era Dio e primi Iron Maiden) e con gli ellenici Diviner di Fallen Empires (stile Accept-Judas Priest-King Diamond), fin dalla grafica di copertina e da certi testi.
Lovecraftiani sono stati, in A’arab Zaraq / Lucid Dreaming (1997), gli svedesi Therion, a cavallo tra hard sinfonico e gothic melodico (peraltro non certamente il loro prodotto migliore).
Su lidi contrassegnati da una bella ricerca melodica si collocano anche gli hard-glamsters Casablanca di Miskatonic Graffiti (al loro fianco troviamo Per Wiberg, tastierista di Spiritual Beggars e Grand Magus) e i finnici Eternal Silence di Chasing Chimera (2015), bel disco di pomp metal stampato dall’italiana Underground Symphony.
E’ stato specialmente nel settore dell’extreme metal che l’influenza di HPL si è fatta di più sentire. Il death metal nella fattispecie è stato moltissime volte più lovecraftiano di altri generi.
Basti pensare alle discografie di numeri uno, quali Morbid Angel e Hate Eternal. Floridiani come loro sono stati anche gli storici Massacre, tra i padri del death a stelle e a strisce, che si sono apertamente rifatti al genio di Lovecraft per il loro seminale debutto, del 1991, sin dal titolo (From Beyond) e dalla cover (opera di un mago del disegno horror, Ed Repka).
Altri acts di death lovecraftiano da ricordare sono i messicani Shub Niggurath (uno dei Grandi Antichi) con A Deadly Call from the Stars e gli iberici Graveyard (su etichetta War Anthem Records).
Anche gli alfieri del brutal più tecnico e epico, cioè i californiani Nile, hanno tratto gran frutto e giovamento dalla lettura, attenta e competente, dei Miti di Cthulhu.
Altro grande ammiratore di HPL è stato in America il chitarrista James Murphy, che con l’unico disco dei suoi Disincarnate ha fornito una colta e fedele ricreazione in chiave death dei temi e delle tetre atmosfere lovecraftiane, ispirandosi dichiaratamente pure a Brian Lumley, tra i migliori continuatori nel secondo Novecento dell’opera di HPL.
In generale, tra quei gruppi che attingono in ambito death ad elementi fantastici e fantascientifici (gli orizzonti aperti in Florida, a inizio anni ’90, dai seminali Nocturnus), una delle fonti più citate è proprio quella costituita dai racconti di HPL.

In questi ultimi anni, sono infatti cresciute di numero le band dedite esclusivamente all’esplorazione in chiave death di scenari come quelli dello scrittore di Providence: poniamo mente agli Starspawn, ai Sulphur Aeon di Gateway to the Antisphere, agli Chthe’ilist di Le Dernier Crépuscule, così come agli svedesi – e con svariati album in carniere – Puteraeon, o ancora ai francesi Monsterbrau (fra death e grindcore), ed i brasiliani Sanctifier.

Vengono, invece, dal techno-death, i Gigan di Tampa: per loro sono già quattro i compact, dal suono spaziale e progressivo, cosmico e violentissimo, cupo e sperimentale. Una delle migliori band degli ultimi anni, non soltanto per i richiami a HPL.

Sempre death, ma colombiani, gli apocalittici Yogth Sothoth. Un nome, una garanzia.
Passando al black metal, qui i nomi da fare sarebbero persino troppi. Scegliamo di segnalare almeno gli statunitensi Dagon (la divinità sumera degli oceani primordiali che ispirò l’omonimo racconto di Lovecraft ed il seguito di Fred Chappell, pubblicato nel nostro paese da Urania), i fantastici Great Old Ones dalla Francia, gli US blacksters Necronomicon (da non confondersi con i colleghi thrash della Germania) con il loro mix di Dimmu Borgir e Behemoth.
Evidentemente il nichilismo del BM ha trovato nella letteratura di marca lovecraftiana terreno fertile da investigare e da rappresentare in musica, in particolare relativamente al nichilismo anti-antropocentrico ed alla glaciale alterità di un universo caotico e negativo, rovesciato di segno rispetto al più rassicurante quadro teologico della astronomia gravitazionale newtoniana sei e settecentesca, codificata dalla cultura dell’Illuminismo, francese ed europeo, nel XVIII secolo.
Argomenti che molto stavano a cuore a Lovecraft, come la sua sua biblioteca – il cui catalogo è stato da poco pubblicato – ed i suoi carteggi provano senza più ombra alcuna di dubbio.
Tra black post-industriale e dark ambient elettronico si sono mossi poi gli inglesi Axis of Perdition,
autori di svariati lavori assai astratti e complessi, quasi una traduzione in chiave futuristica (usando i campionamenti e la programmazione tecnologica in una chiave aggressiva e modernista) di liriche e ambientazioni lovecraftiane.
Il dark ambient più astratto ha omaggiato diverse volte, da parte sua, il genio di HPL: si ricordino i Kammarheit di R’lyeh (2002) e Cthulhu (2014), quest’ultimo un tetro e inquietante abisso sonoro, fatto di tonalità oscure, realizzato in collaborazione con altri quattordici artisti ed edito dalla Cryo Chamber.
Né vanno dimenticati, nel genere, gli Aklo di Beyond Madness (2005) ed i notturni e ritualistici Dead Man’s Hill di Esoterica Orde de Dagon (2008), molto bello anche come confezione (in formato libro).
Molto di HPL anche nel doom. Pensiamo solo ad una canzone come Dunwich degli inglesi Electric Wizard, a un disco come Raised by Wolves (2011) dei Serpentcult (ottimi interpreti belgi di sludge e doom atmosferico), allo stoner-doom degli Space God Ritual, nonché ai grandiosi Ahab, gruppo eccezionale e responsabile del cosiddetto ‘nautic funeral doom’, che tanto deve agli orrori marini, sia di Lovecraft, sia del suo maestro britannico William Hope Hodgson.
L’ultimo disco degli Ahab, non a caso, si intitola The Boats of Glen Carrig, opera magna di Hodgson che Fanucci tradusse nel 1974 in italiano.
Più antico nelle scelte timbriche e ostentatamente retrò il dark-doom sepolcrale e sinistro dei Bloody Hammers, mentre sono da apprezzare anche i Doom’s Day, i Void Moon, i Wo Fat  di Psychedelonaut, i Fungoid Stream, i Bretus di The Shadow Over Innsmouth e gli High on Fire di De vermis mysteriis: il libro maledetto attribuito da HPL e dal suo amico e discepolo Robert Bloch alla fantomatica e leggendaria figura dell’alchimista-negromante Ludwig Prynn, vissuto tra il XVI e il XVII secolo.

Sempre in campo heavy-doom, vanno menzionati anche i lovecraftiani Demon Eye, anche loro assai validi.
Nel funeral doom più intransigente, evocativo e materico, vanno inclusi poi i Catacombs americani, che hanno dedicato il loro unico lavoro, In the Depth of R’lyeh (2006), alla città sommersa ove dorme il suo sonno millenario Cthulhu.
Fra doom atmosferico, post-metal, prog e math-rock lovecraftiano, infine, gli interessantissimi Labirinto di Gehenna (2016), tra le sorprese più accattivanti e da seguire dell’ultimo quinquennio.
Esplicitamente lovecraftiano è il progetto internazionale Space Mirrors, della tastierista russa Alisa Coral, cui di deve uno space rock elettronico e metallizzato, con inserti post-black.
Da avere almeno la trilogia di Cosmic Horror (2012-2015).

Più classicamente prog – nel senso analogico, valvolare e caldo del termine – la proposta dello svedese Annot Rhul (ora su Black Widow Records), che nello splendido Leviathan omaggia tanto HPL quanto la grande scuola nordica di Anglagard, Anekdoten e Landberk: un grande esempio di dark prog, non dissimile da quello dei nostrani Ingranaggi della Valle, che nel loro Warm Spaced Blue – sempre della scuderia Black Widow – si sono consacrati ad una intensa e raffinata rilettura musicale dei Miti di Cthulhu.
Restando in Italia, rammentiamo pure i fiorentini Goad, tra hard prog e dark wave – non senza echi folk alla Paul Roland, altro artista di scuola lovecraftiana – i quali a HPL hanno dedicato tra l’altro il loro bucolico The Wood (2006), un disco intriso di poesia arcana e riferimenti letterari.
Metal e non solo metal, come vediamo. Lovecraft ha ispirato infatti anche artisti zeuhl e euro-rock, come i belgi Univers Zero, che gli hanno tributato la cameristica La Musique d’Erich Zann, grande improvvisazione dissonante e crimsoniana, contenuta nel loro Ceux du Dehors (1981).
Altro pezzo improvvisato è la jam dedicata nel 1988 dai Bevis Frond al fiume Miskatonic, del New England, la cui geografia di fatto HPL riscrisse in versione immaginaria e fantastica.
Astratti ed avveniristici, i francesi Shub-Niggurath hanno preso il nome – come i loro colleghi deathsters meso-americani – da una delle creature di Lovecraft.
Musicalmente vicini ai Magma più caotici e destrutturati, hanno intitolato a Yog-Sothoth una composizione, di oltre undici minuti, presente sul loro disco omonimo, uscito per Musea nel 1985.
Persino il crust punk e l’hardcore più weird non hanno mancato di rivolgersi all’universo di HPL.
Al riguardo, possiamo citare i fenomenali Rudimentary Peni, gruppo davvero oltranzista e feroce, che a Lovecraft ed al suo mondo si è rivolto in un lavoro quali Cacophony, da molti punti di vista vicino nelle sonorità al grindcore di primi Napalm Death, Heresy e Unseen Terror, nonché al punk-metal di Broken Bones, Discharge e (Charged) GBH.
Veniamo alle compilation. Da possedere assolutamente The Stories of H.P. Lovecraft, cofanetto in 3 CD, pubblicato dalla francese Musea, che tributa in chiave prog il solitario di Providence.
Figurano, fra i partecipanti all’operazione, Glass Hammer, Karda Estra, La Coscienza di Zeno, Guy Le Blanc (keybords-wizard dei canadesi Nathan Mahl e anche negli ultimi Camel), Sithonia, Daal e Nexus tra gli altri.
Altro CD collettivo che gli appassionati non potranno obliare è di certo Yogsothery, edito da I Voidhanger: quattro band – Jaaportit, Umbra Nihil, Aarni e Caput I,VIIIm – che tra dark ambient e post black atmosferico-escatologico esplorano, con un brano ognuna (la durata delle tracce va dagli undici ai ventinove minuti), l’universo d’uno dei più grandi scrittori del XX secolo.

Negli Abissi del Fato: l’epopea dei Manilla Road

La recente scomparsa di Mark Shelton (1957-2018), voce e chitarra dei Manilla Road, immensa e storica cult band, impone – non solo agli appassionati ed ai conoscitori – una adeguata opera di ricostruzione e di ripensamento circa quanto da lui magnificamente realizzato con la sua band, nel corso di oltre quattro decenni.

I Manilla Road nascono nel Kansas, a Wichita nel 1976. Inizialmente, vista l’epoca, sono influenzati dal classico hard rock americano, ma subito mostrano, per precisa volontà di Shelton, il proposito di forgiare uno stile personale, che possa permettere di individuarli in maniera precisa, tra i moltissimi colleghi d’oltreoceano. La formazione, un trio, è composta, oltre che da Shelton, dal fedele bassista Scott Park e dal batterista Rick Fisher. Tra il 1977 ed il 1978, il gruppo si fa conoscere attraverso le sue infuocate esibizioni dal vivo, per lo più nei locali del suo stato d’origine. Nel 1979, la band entra in sala di registrazione, per incidere un nastro, i cui pezzi, all’insegna di un hard prog molto potente e d’ispirazione fantascientifica, vanno a far parte, di lì a breve, del mini-LP Invasion (pubblicato nel 1980, dalla Roadster), forte dei primi classici: la spaziale Far Side of the Sun, che oltrepassa gli otto minuti, la breve ma eroica Centurian War Games, la suite di quattordici minuti The Empire.

Sempre nel 1979, in dicembre, il combo di Shelton suona nella sua città natale: la testimonianza su compact di quel concerto uscirà, per la Shadow Kingdom, nel 2010, con il titolo After Midnight: solo cinque brani, ma Pentacle of Truth, Chromaphobia e Herman Hill già lasciano il segno e fanno intravedere i futuri giorni di gloria, plumbei ed affascinanti, come il fuoco che alimentava secoli fa il crogiolo degli alchimisti.
Nel 1981, i Manilla Road registrano quindi il più oscuro e tenebroso Mark of the Beast, permeato di influenze vagamente sabbathiane e tra le primissime realizzazioni del nascente US metal. Il disco, rimasto allora inedito, verrà pubblicato solo moltissimi anni dopo, dalla Monster (che, insieme alla Rockadrome, ha ristampato anche classici dimenticati di Winterhawk, Sorcery, Poobah, Jerusalem, Saint-Anthony’s Fyre, Ashbury, Militia, Anvil Chorus, Full Moon e Legend, tra gli altri). Materiali da Mark of the Beast si ritrovano oggi anche in Dreams of Eschaton, raccolta doppia di inediti live e studio, risalenti tutti al periodo 1979-1981 dei Manilla Road, fatta uscire recentemente dalla sempre benemerita HR Records.
In questa prima fase del loro percorso artistico, i Manilla Road cominciano a dare corpo al loro stile epic metal. La cosa emerge soprattutto dall’ascolto di Metal (1982) e Crystal Logic (1983). Canzoni quali Enter the Warrior, Defender (da quel momento parola magica per ogni true metal fan), Queen of the Black Coast, Cage of Mirrors, la tetra Necropolis, Flaming Metal System e l’evocativa Veils of Negative Existence segnano un’epoca ed aprono una strada, incarnando attraverso il pentagramma gli scenari della tradizione guerriera di matrice sword and sorcery – quella per capirci di scrittori del calibro di Robert Erwin Howard (il creatore tra gli altri di Conan il Barbaro e Kull di Valusia), Lyon Sprague de Camp, Lin Carter e Fritz Leiber – fatta di maghi e sortilegi, spade e incantesimi, torri e contrade medievali, draghi e mostri da combattere. E’, di fatto, l’invenzione di un genere, per nulla pacchiano o autoindulgente, in anticipo sui Manowar. Una terra altra per tutti coloro che avvertono il disagio della realtà e il bisogno spirituale di evaderne verso altri mondi.

 


Intanto, la creatura di Shelton partecipa alla raccolta US Metal III, curata da Mike Varney, e tramite un tour statunitense in compagnia di Krokus e Ted Nugent vede crescere la propria fama. Nel 1984, l’arrivo del nuovo bassista Randy Foxe sposta l’asse ritmico dei Manilla Road verso lidi più veloci: ne è la prova il capolavoro Open the Gates, più moderno nel suono, puro come cristallo di roccia, vero grande classico a cavallo tra speed ed epic metal. Forte anche di un’ottima produzione, il disco è il primo della band a venire distribuito anche in Europa, grazie alla francese Black Dragon. Al LP viene inoltre allegato un extended play di dodici pollici e sedici minuti in tutto. Lo stile elaborato da Open the Gates – che, tramite pezzi come Metalstrom, la title-track, la cosmica Astronomica, Fires of Mars, The Ninth Wave, le antesignane del fantasy metal The Road of Kings e Hour of the Dragon, dà voce musicale e narrativa a leggende arturiane e miti nordici – si trova confermato dai due lavori successivi: The Deluge (1986) e Mystification (1987). Il primo è consacrato al diluvio biblico ed ai misteri e terrori del mare, con tracce splendide, quali Shadow in the Black, Isle of the Dead, Eye of the Sea, Taken by Storm (che apre la via al pirate metal dei Running Wild), The Drowned Lands e la più inquietante Hammer of the Witches, traduzione in musica del Malleus Maleficarum (1484) degli inquisitori domenicani Sprenger e Kramer. Il secondo disco è, invece, un omaggio al grande Edgar Allan Poe: un brano come Masque of the Red Death, tratto appunto dal racconto La Maschera della Morte Rossa (portato sugli schermi, negli anni Sessanta, da Roger Corman, con la fotografia barocca di Nicholas Roeg) è altamente rappresentativo ed emblematico in tal senso, ma non sono da meno la iniziale Up From the Crypt, Children of the Night, Haunted Palace e Dragon Star, tutte intrise d’una suggestiva atmosfera esoterico-occulta e neo-gotica. Perché anche questo è dark-sound, la cosa non va mai dimenticata. Nell’estate del 1988 esce poi Roadkill, una raccolta dal vivo che conferma i MR al massimo della forma pure sul palcoscenico.
Dopo Poe, Lovecraft. Dal solitario di Providence e dalla sua saga di orrore fantascientifico, il colto e raffinato Shelton tra l’ispirazione letteraria per Out of the Abyss, apparso nel 1989 per la Leviathan e capace di affiancare al solido verbo dell’epic metal inattese ma opportune aperture thrash. Return of the Old Ones – i Grandi Antichi di HPL, appunto – è il brano-simbolo del disco. Nondimeno echi lovecraftiani risuonano altresì in From Beyond e A Touch of Madness, pezzi forti (insieme a Book of Skelos ed alla mitologica The Prophecy) del successivo capitolo in studio: The Courts of Chaos, pubblicato nel 1990. Intanto, il messaggio musicale dei MN veniva in parte raccolto ed aggiornato dai floridiani Iced Earth.
Il primo progetto solista di Shelton – prima cioè dei più dark Hellwell e di Obsidian Dreams – vide la luce nel 1991, intitolato The Circus Maximus, ma pubblicato ancora a nome Manilla Road. Mark, evidentemente, sperava con questo disco di far finalmente raggiungere al proprio gruppo la meritata notorietà, anche al di fuori dei confini americani. Purtroppo, il 1991 fu l’anno in cui i Metallica, con il pur buono black album, tradirono il thrash, messo in crisi – insieme a epic, speed e class metal – da Nevermind dei Nirvana e dall’avvento della moda alternative. Quasi nessuno si accorse pertanto di The Circus Maximus, ispirato all’antica Roma e ai suoi fasti gladiatorii, e si aprì, per tutto l’heavy più classico e tradizionale, una crisi decennale. Vittima dell’indifferenza generale, Shelton si ritrovò costretto a sciogliere temporaneamente i Manilla Road, in attesa di tempi migliori. Questi vennero al principio della nuova decade, che vide come sappiamo letteralmente una rinascita di ogni branca – epic metal incluso, dunque – della nostra musica. I Manilla Road tornarono così alla grandissima, nel 2001, con Atlantis Rising, che, edito dalla Iron Glory, attingeva in quattro libri – quattro suite, di fatto – tanto ad Atlantide e Lemuria, quanto alle leggende scandinave ed a Tolkien. Un vero classico moderno, si potrebbe dire.
Le fortezze nascoste, i castelli imponenti e misteriosi ed i duelli all’ultimo sangue furono, già dalla bella copertina, gli elementi che fornirono la trama a Spiral Castle, uscito nel 2002, per la nostrana Black Widow. Ormai Mark aveva ritrovato la sua originale vena creativa. O, se si vuole, ri-creativa (di miti, leggende e tradizioni arcane e ancestrali, provenienti dal Grande Passato, rese con un metal roccioso e stentoreo, elegante ed all’occorrenza sepolcrale, enfatico e magniloquente). Anche Gates of Fire (stampato dalla Battle Cry, nel 2005) non fu di certo da meno: tre complesse ed articolate trilogie, che guardavano questa volta, oltre che alle gesta dei re (un leitmotiv ricorrente nell’universo dell’epic metal e dei Manilla Road in particolare), ai Giganti del racconto biblico e dell’archeologia spaziale, nonché alle antiche virtù dei combattenti di Roma e Sparta.
Nel 2007 apparve nei negozi il mini Clash of Irons, split dal vivo registrato l’anno prima, giusto per riempire il vuoto temporale in attesa della nuova fatica dei MR. La My Graveyard Production – nel 2008 – si incaricò di licenziare il fantastico Voyager, con cui Shelton e compagni (dalla rinascita vi fu una autentica girandola di musicisti nella line-up dei Manilla) si misuravano, questa volta, con le storie vichinghe e norrene, nonché con il fascino dell’ignoto, racchiuso negli oceani solcati secoli fa dai drakkar dei navigatori nordici.
Ottimi sono stati pure i due lavori successivamente realizzati dal gruppo di Shelton: Playground of the Damned (2011) e il criptico Mysterium (2013), quest’ultimo pubblicato dalla Golden Core. Nel primo, riecheggia ancora il fantasma di Poe (Into the Maelstrom) e in Fire of Asshurbanipal Shelton si confronta la storia della monarchia assiro-babilonese. Nel secondo abbiamo un’ulteriore manciata di anthems epici: The Battle of Bonchester Bridge, la crowleyana Do What Thou Will, The Calling, la title-track e Only the Brave. Come se il tempo non fosse mai passato, cristallizzatosi nello spazio altro dell’immaginazione fantastica e della storia più lontana possibile dallo squallido presente.

Realmente instancabile e con un fuoco creativo sempre acceso, Shelton, nel 2012, dà vita a un side project, denominato Hellwell, dove la necessità primaria è quella di suonare su tematiche più vicine al classico horror, accompagnato da E.C. Hellwell (keyboards, synth) e da Johnny Benson (drums). L’opera Beyond the boundaries of sin presenta brani dominati dall’interplay tra la chitarra del leader e le tastiere, mentre i suoni sono molto più oscuri e pesanti, rispetto alla band madre. Le tematiche sono incentrate su storie orrorifiche ben diverse dai “soliti” testi, come in Eaters of the dead, tratto dall’omonimo racconto di Michael Crichton o come in Acheronomicon, suite basata su una breve storia, mai pubblicata, del sodale E.C. Hellwell. Come affermò Shelton, i Manilla sono l’alfa e gli Hellwell rappresentano l’omega, che si ripresentò, nel 2017, con un secondo capitolo Beyond the demon’s eyes, ancora più intricato ed elaborato, abbracciando anche forti influenze dark prog (The last rites of Edward Hawthorn); in questa seconda opera, si rivede anche un drummer storico dei Manilla, Randy “Trasher” Foxe, attivo nella band dal 1985 al 1990. Gli Hellwell non hanno mai svolto concerti live ed hanno rappresentato una diversa faccia della medaglia di un uomo che ha sempre avuto un forte impulso creativo, sempre all’insegna di una musica di qualità figlia di letture e di una cultura superiore. Nel 2015, Mark pubblica un progetto molto sentito, Obsidian Dreams, dove sono racchiuse nove songs composte in circa quindici anni; quest’opera non ha nulla a che fare con il metallo epico dei Manilla, ma esplora le sue personali radici, dai genitori entrambi musicisti alla provenienza dal Kansas, stato di country music. Songs di bellezza adamantina, pure, vere rette da una chitarra che disegna terse melodie e dà una voce particolarmente sentita ed a suo agio anche in traiettorie molto diverse; sentire oggi Burned o Blood upon the snow, per citarne solo due, è come una lama che si conficca profondamente nel cuore. Disco passato totalmente inosservato, anche perché lo stesso anno i Manilla Road tornano con un progetto importante come The Blessed Curse, incentrato sull’epopea di Gilgamesh; disco doppio, con una prima parte nel tipico ed ispirato stile, grande chitarra sempre suonata magistralmente e vocals giocate tra Mark e “Hellroadie” Patrick, splendide songs come Tomes of Clay o come The Muses Kiss dimostrano che la classe è cristallina e che i Manilla sono imprescindibili. Il secondo disco, chiamato After the Muse, non legato al concept, presenta una serie di brani, sempre gradevoli, ma dediti a un suono con influenze southern e predilige aromi acustici in alcuni tratti. Attività live intensa e si arriva al 2017, quando puntuale la band si ripresenta con To Kill a King, purtroppo, alla luce dei recenti fatti, ultima opera, e la classe rifulge ancora una volta proponendo grandi songs fluide, intense, sincere. Non ci sono altre parole, “chapeau” ad un Artista che in quarant’anni di musica ci ha donato momenti indimenticabili, proponendoci la sua incontaminata arte. La stessa che rifulge anche nel progetto Riddlemaster (del 2017), con Shelton ed il primo batterista dei Manilla, Rick Fisher: un solo disco dal titolo Bring the Magick Down, più legato a sonorità hard rock anni Settanta. Quasi un ritorno alle origini. La parola Origine, del resto, riveste come noto, per chi ha trasposto in musica la più epica sword and sorcery, un grande ed autentico significato.

Warhammer – Massimo Pagliaro

Beyond the Wall of Blues: Jack Bruce e Ginger Baker dopo i Cream

Dopo lo scioglimento dei Cream, a fine anni Sessanta, secondo molta stampa specializzata e diversi giornalisti rock, Jack Bruce e Ginger Baker – rispettivamente basso e batteria, si sa, della band che rese famoso Eric Clapton – avrebbero disperso il proprio genio, in una miriade di dischi solisti e di troppi progetti, fra loro stilisticamente disomogenei.

Questo, almeno, quel che fin da allora di solito si dice. Forse, però, la verità può essere anche un’altra. E la parola chiave per accedervi, al posto di dispersività – potrebbe risultare versatilità musicale. O anche intraprendenza artistica. Proviamo qui a riscrivere, pertanto, una storia che si crede a torto esser nota. O, peggio ancora, sepolta.
Cominciamo da Jack Bruce: l’effervescente e talentuoso bassista, che suonava il proprio strumento come fosse una chitarra, iniziò la carriera solista con Things We Like, passando dal British Blues al neonato Jazz Rock davisiano. Per il disco, uscito nel 1970, volle non casualmente alla chitarra l’astro nascente John McLaughlin, di lì a poco fondatore della Mahavishnu Orchestra. L’anno dopo (1971), Bruce lavorò con John Marshall, ex batterista dei Nucleus (poi nei Soft Machine). L’intenzione era chiara: portare avanti e nello stesso tempo oltrepassare, in direzione fusion, l’eredità di Bluesbreakers, Cream e John Mayall. Ad ogni buon conto, Bruce non dimenticò del tutto il rock, partecipando al classico Berlin di Lou Reed (1973), grande capolavoro di art-glam sinfonico-orchestrale del decennio, e dando vita con Leslie West e Corky Laing dei Mountain ad un sodalizio molto più hard rock (indimenticabile la calda performance di Live ‘n’ Kickin’, nel 1974). Il sentiero da percorrere, anzi la strada maestra, era tuttavia per Bruce quella del jazz rock, sia quello mutante e provocatorio di Frank Zappa (Overnite Sensation, uscito nel 1973 con la collaborazione, tra gli altri, di Jean-Luc Ponty al violino) sia nelle vesti di solista (il suo nome del resto lo precedeva insieme alla fama). Videro così la luce due dischi che la critica ha sbagliato grossolanamente a voler dimenticare in fretta: How’s Tricks (registrato nel 1976, pubblicato nel 1977) e Jet Set Jewel (1978), due ottimi lavori di fusion settantiana, incisi con il ricercatissimo drummer Simon Phillips e con un tastierista tanto abile quanto sempre sottostimato e sacrificato a più altisonanti nomi, Tony Hymas (poi con Jeff Beck, negli anni Ottanta). Né Bruce si fermò qui, collaborando nel 1979 con il grande sassofonista inglese John Surman, in quegli anni (anche nei SOS e con Terje Rypdal) impegnato a individuare inediti punti di contatto tra il free jazz nordeuropeo e l’elettronica tedesca.

Nel 1980, Bruce – insieme a Billy Cobham ed al tastierista David Sancious (autore, con A Forest of Feelings, di uno dei più bei dischi di space prog americano di sempre) – licenziò il fenomenale I’ve Always Wanted to Do This, un capolavoro assoluto di hard/fusion, un album da ritenere giustamente storico: fresco e fantasioso, tecnico e potente, melodico e ritmico (lo si ascolti nella ristampa della Esoteric). Nel 1981, con Allan Holdsworth ed altri, Bruce fu poi nei riformati Soft Machine di Land of Cockayne, altro lavoro da riscoprire, senza pregiudizi o paraocchi. Sempre nel 1981, Bruce suonò il basso nel fantastico Tilt di Cozy Powell, ancora una volta tra hard e fusion – i suoni sono molto alla Jan Hammer – con il validissimo apporto di Sancious alle tastiere.
Gary Moore, nel 1982, volle quindi Bruce bassista (insieme a Neil Murray, ex Gilgamesh e futuro Black Sabbath) nel suo eccellente Corridors of Power: per l’ex Cream fu l’occasione di ritornare al blues e in particolare all’hard rock metallizzato di scuola britannica. Nel medesimo anno Bruce ebbe anche modo di scoprire le nuove tecnologie elettroniche allora imperanti nel Regno Unito (erano gli anni di gloria del synth-pop): dapprima collaborò infatti con l’ex vocalist degli Yes, Jon Anderson, al suo Animation, gioiellino di new wave sintetica (1982), e di lì a breve fornì la propria versione del pop elettronico con l’album solista Automatic (1983), realizzato con i fedeli Hymas e Phillips: molto progressive in certe aperture, che conservano ancora oggi intatto tutto il loro fascino e non perdono soprattutto mai di vista l’anima rock di fondo (a differenza di quanto accadde allora a molti).
Ancora nel 1983, Bruce partecipò insieme ad un altro immenso bassista, Jeff Berlin, a Road Games, mini-LP di Holsdworth, successivamente rinnegato dall’autore. Tutte queste collaborazioni, tuttavia, lo confermavano, al di là della classe fuori discussione, come un session-man non appariscente. Al quel punto, il suo migliore disco solista restava forse Out of the Storm, apparso nel novembre 1974, per la RSO, impreziosito dalla splendida chitarra di Steve Hunter (Detroit, Alice Cooper, Lou Reed fra i tanti). Seguirono dunque sei anni anni di ritiro dalle scene, di solitudine e di problemi. Solo nel 1989 il bassista scozzese ne uscì, tornando alla grande al suo maggiore amore, il jazz rock, con lo stupendo A Question of Time, affiancato da uno stuolo di musicisti illustri, tra i quali gli amici Allan Holdsworth e Tony Williams: il disco è moderno e tradizionale insieme, attestazione di coerenza e integrità artistica, dall’altissimo spessore qualitativo. In seguito, prima che la morte ce lo strappasse, nel 2014, il lavoro migliore di Bruce è stato, probabilmente, Moonjack (1995), un particolare funk sperimentale per sole tastiere, non privo di reminiscenze mutuate dai Manfred Mann o dai Lifetime dei tempi che furono. Assai interessante altresì la partecipazione a Industrial Zen (2006) di John Mc Laughlin, manifesto della nuova fusion del terzo millennio, con scenari digitali e campionatori Hi-tech, freddi sintetizzatori Yamaha ed ospiti illustri: Bill Evans (Miles Davis), Gary Husband (Level 42) e Vinnie Colaiuta (Zappa). In questo disco, Bruce mette in mostra un variopinto suono ottantiano e brillanti passaggi di basso alla Jaco Pastorius (periodo Weather Report e Word of Mouth). Il degno epitaffio d’una carriera superba.
Dal canto suo, scioltisi i Cream, Ginger Baker, uno dei big five della batteria del Novecento (insieme naturalmente a John Bonham, Tony Williams, Keith Moon e Neil Peart), si buttò prima nei Blind Faith (1969), quindi fondò i suoi Air Force: due grandi dischi di jazz rock nel 1970 (tre con il postumo Live in Offenbach) e ben tre sassofonisti in formazione. Tra il 1971 e il 1972, mentre stava lavorando alla realizzazione del suo esordio da solista con Stratavarius, l’eclettico e formidabile batterista fece la conoscenza di Fela Kuti e con quest’ultimo realizzò tre lavori che di fatto crearono l’afro-beat, sorta di ponte tra Oriente e Occidente, tra rock e Africa, armonizzazioni anglo-americane e ricerche ritmiche sincopate: a dire poco storico il Live che i due incisero in particolare nel 1972: qui il batterista dei Blues Incorporated di Alexis Korner e dei Cream riportava letteralmente a casa il retaggio di Art Blakey, Elvin Jones e Max Roach, aprendosi con ciò alle modalità strumentali dei percussionisti africani, coadiuvato dalla chitarra elettrica di Peter Animasbaun e da una nutrita sezione fiati, che dialoga con i poliritmi delle congas, riscoperte in quegli anni anche da Santana.
Nel 1973 Baker suonò la batteria in Band on the Run dei Wings di Paul McCartney e l’anno dopo si buttò in un nuovo super-gruppo, i Baker Gurvitz Army, con ex membri di Gun e Three Man Army: il primo disco, uscito per la Vertigo nel 1974, offre un entusiasmate ed incandescente hard prog, tra i migliori di tutto il decennio, autenticamente spettacolare e libero dai vincoli commerciali. Aiutati dal cantante Snips (ex Sharks) e dal geniale tastierista-sintetista fusion Peter Lemer (Seventh Wave e Gong) al mini-moog, i BGA registrarono successivamente il più blues Elysian Encounters (1975) e il più melodico Hearts on Fire (1976), ambedue per la piccola Mountain Records. Si sciolsero per lo scarso successo incontrato.

Nel 1979, Baker entrò a far parte dei rinati Atomic Rooster di Vincent Crane e nel 1980 degli space-rockers Hawkwind, nel magnifico Levitation. Uscito tuttavia dal gruppo di Dave Brock, il batterista si ritirò a vita privata, riemergendone solo anni dopo, in Album (1986) dei Public Image Limited del funambolico John Lydon, che lo volle membro di una vera all-star band, comprendente Steve Vai alla chitarra, Bill Laswell al basso, Ryuichi Sakamoto alle tastiere, Ravi Shankar al violino e Tony Williams alla seconda batteria. Fu in quell’occasione che Baker, conosciuto Laswell, decise di voler collaborare con lui nel progetto newyorkese No Material (1989): un album dal vivo, davvero molto post, intriso di funk obliquo e dissonante, destrutturato e a tratti quasi atonale (collabora non a caso il sassofonista Peter Brotzmann, alfiere del più coraggioso free jazz tedesco (altri nomi al riguardo: Anima e Annexus Quam, sia detto per inciso).
Per il resto, Ginger Baker ci ha lasciato numerosi dischi solisti, nessuno dei quali in verità davvero indimenticabile. Sono rimaste invece realmente nella memoria le sue infuocate esibizioni dal vivo a Monaco di Baviera (1972 e 1987), Berlino (1978) e Milano (1980 e 1981), oggi tutte ristampate su CD e pertanto di nuovo disponibili. Concerti davvero indescrivibili, da avere a tutti i costi. Inoltre, Baker ha collaborato anche con Bill Frisell, Andy Summers, Jens Johansson (Silver Mountain, Dio, Malmsteen, Stratovarius, Mastermind, Allan Holdsworth e Rainbow) e BBM (in trio, con il grande Gary Moore e l’amico ritrovato Jack Bruce). L’ultimo grande disco di Ginger Baker resta senz’altro African Force (2001), capace di riprendere e portar avanti, a ormai trent’anni di distanza, il discorso avviato tempo addietro con il nigeriano Fela Kuti. E dimostrando quanto il connubio rock e Africa, tutt’oggi, abbia ancora da dire e da dare. I pezzi di African Force attualizzano altresì il messaggio di Peter Green (End of the Game, 1970) e di Stuart Copeland (l’estroso The Rhythmatist, 1985), due dei musicisti britannici che tra i primi precedettero (Green) e seguirono (Copeland) la via indicata da Baker e Kuti. Né si possono o devono dimenticare, al riguardo, i concerti tenuti in Zaire nel 1974 da James Brown. A proposito di Kuti, va infine rammentato che mentre Baker si rivolgeva al post-punk e alla dark-wave eterodossa dei PIL, nel 1986, il musicista africano si esibiva a Detroit con gli Egypt 80, continuazione ed aggiornamento di quanto fatto con l’ex batterista dei Cream nel 1971.

Vento di Nord-Est: ricordando il prog italiano anni Novanta

Quando ormai la bella storia del new prog inglese degli anni Ottanta andava avviandosi verso il suo malinconico tramonto, gli echi – opportunamente rivisitati – cominciarono ad attecchire anche nel nostro paese.

Tra la fine del decennio e il principio del successivo, alcune coraggiose formazioni, su tutti i Men of Lake (i quali si ispiravano al progressive britannico dei Rare Bird ed al kraut rock dei primi Tangerine Dream) e i Jester’s Joke (dal nome marillioniano, pure loro arruolati dalla francese Musea) iniziarono a muovere i primi passi, dapprima su cassetta. Erano, del resto, gli anni dei demo tapes, e non solo per il metal. I più longevi sarebbero stati i Twenty Four Hours, ancora su Musea, in bilico tra i Pink Floyd di A Saucerful of Secrets ed atmosfere magniloquenti ispirate ai primi King Crimson, con il mellotron sugli scudi. Impossibile è dimenticare poi i fiorentini Nuova Era (lanciati dalla mitica Contempo Records) e lo storico ed ottimo debut inciso dai genovesi Eris Pluvia (Rings of Earthly Light, Musea, 1991), dai quali sono derivati, in seguito, Narrow Pass ed Ancient Veil, oggi ancora sulla breccia, e con ottimi dischi di matrice canterburyana. Da ricordare anche i toscani (di Livorno, per la precisione) Egoband, che, con Trip in the Light of the World (1992), incantarono non solo i fans del new prog alla Marillion, ma anche quelli di sonorità più hard e dark, alla Van der Graaf-Peter Hammill, prima di virare coi lavori susseguenti verso un anonimo r ‘n’ b psichedelico.

Sul finire degli Eighties, uno dei gruppi italiani più promettenti erano senz’altro i Black Jester, nati a Treviso e responsabili d’un entusiasmante hard prog, con magnifici impasti di chitarra e di tastiere, suoni barocchi e la particolarissima voce di Alex ‘The Jester’ D’Este (poi negli Snowblind, una cover band dei Black Sabbath). Dopo un promettente nastro omonimo, nel 1990, i Black Jester firmarono per la WMMS di Peter Wustmann, la label tedesca che – sino alla cessazione delle attività, tra 1996 e 1997 – tanto e bene avrebbe fatto, al fine di promuovere il nuovo progressive italiano. Nel 1993 e nel 1994, rispettivamente, i Black Jester pubblicarono i loro due capolavori: Diary of a Blind Angel e Welcome to the Moonlight Circus, felicemente impregnati di un pomp rock metallizzato, sinfonico e favolistico. Il gruppo si sciolse dopo avere tentato la difficile trasposizione di Dante su disco (The Divine Comedy, 1997). Alcuni dei suoi membri hanno successivamente suonato, con ex componenti delle Orme, nei più intimistici Faveravola (2006) ed, in particolare, nei Moonlight Circus. Questi ultimi hanno rilasciato Outskirts of Reality (2000) e Madness in Mask (2007): a tutti gli effetti, una ripresa e una continuazione, aggiornata al nuovo millennio, di quanto realizzato dai Black Jester nel 1994, assieme al paroliere Loris Furlan, oggi editore musicale, con la sua Lizard Records, presso la quale incidono interessanti artisti nostrani di prog, post rock, avanguardia e jazz rock.

Affini ai Black Jester, per provenienza geografica e genere musicale di appartenenza, erano pure gli Helreid, nati anche loro a fine anni Ottanta. Esordirono solo nel 1997, con lo stupendo Mémoires e, quattro anni più tardi, sempre per la piemontese Underground Symphony, realizzarono Fingerprints of the Gods (il titolo veniva dal classico di archeologia spaziale di Graham Hancock, Impronte degli dèi). Gli Helreid, di cui resta realmente nella memoria Mark the Wizard, sono da pochi anni in pista di nuovo: il disco del ritorno (aggiungendo una ‘h’ alla fine del loro nome) è stato Fragmenta, uscito nel 2012, idealmente in linea con gli esordi, come se il tempo non fosse mai passato.
La breve ma meritata stagione di gloria dei Black Jester, nella prima metà degli anni Novanta, fece altresì da traino per tutta una scena validissima ed in fermento, come quella del Nord- Est italiano di allora. L’epicentro era Treviso, dove tra il 1988 e il 1990 furono attivi gli Spleen (recuperati poi nel 1994 dalla Mellow), da cui sorsero i Marathon. Questi furono di fatto i Rush italiani. Dopo il demo World of Trend (1991), i Marathon si accasarono anche loro presso la WMMS e pubblicarono due strabilianti lavori, di metal-prog, melodico ed iper-tecnico: Impossible Is Possible (1993) e Sublime Dreams (1994), con la collaborazione di alcuni membri dei tedeschi Manner.

Il gruppo però forse più importante – non solo di Treviso e dell’Italia nord-orientale, ma di tutto il new prog italiano – rimangono di certo gli Asgard. Nati nel 1984 e quindi ispirati ai Marillion era-Fish, parteciparono alle compilation Italian Rock Invasion (1987) ed Exposure (1988) e si esibirono spesso in concerto: ancora oggi c’è chi ricorda con misto di emozione e nostalgia la loro suite in due parti The Light Spring, tra l’altro mai messa poi su disco. Dopo anni di concerti e di crescita costante gli Asgard furono il primo gruppo italiano a firmare per la WMMS. Il debutto, Gotterdammerung, vide la luce nel 1991. Fu una vera rivelazione, uno stupendo incrocio di retaggi marillioniani e echi della mitologia germanica in musica, un disco che inaugurava il nuovo decennio del prog italiano ed illuminava una scena, in quei giorni, in espansione davvero pronunciata. L’anno successivo, apparve il mini-CD Esoteric Poem, che, in tutto e per tutto, teneva fede al titolo. Alcuni puristi storsero non poco il naso – lo rammento bene, come rammento quegli anni – per gli inserti dark-ambient (molti allora ragionavano intendendo i generi alla stregua di compartimenti stagni), tuttavia gli Asgard avevano dimostrato, solo e semplicemente, di voler progredire lungo la loro strada. Arcana, apparso nel 1993, trovò il perfetto punto di contatto tra lo stile del primo disco e le atmosfere del secondo, preparando la strada alla svolta. Nel 1993, sempre per la WMMS, uscì Imago Mundi: il sound si era indurito e faceva incontrare le origini neo-prog della band con il prog-metal dei Queensryche e dei Dream Theater, con risultati potenti e sublimi. Lo stesso percorso, sia detto per inciso, dei tedeschi – anche loro su WMMS – Ivanhoe, i quali – specie con Visions and Reality (1994) e Symbols of Time (1995), prima di perdersi nel banale heavy maideniano di Paralized (1997) – si mossero tra Rush e Marillion, Dream Theater e Queensryche. Imago Mundi fu uno dei migliori dischi dell’anno 1993, ma anche il canto del cigno di una stagione. Infatti, tra problemi di line-up e ritardi nell’incidere le canzoni del nuovo album, gli Asgard si arenarono e tornarono sulle scene, per una piccola etichetta, solo sette anni dopo. Per quanto discreto, Drachenblut (2000) soffriva del tentativo in verità un po’ artificioso di riportare in vita lo spirito bucolico dei primissimi Genesis, quando ormai il momento magico era passato e l’occasione per un successo su più larga scala purtroppo perduta. Membri degli Asgard, nel 1994, collaborarono altresì alla realizzazione di quello che resta uno dei migliori dischi di pomp rock anni Novanta (insieme A Blueprint of the World, degli americani Enchant, 1993). Mi riferisco ad Hunting the Fox di Ines, bella e brava tastierista tedesca, accompagnata tra gli altri pure da componenti degli storici progsters Anyone’s Daughter e dei friulani Garden Wall (i soli ancora attivi oggi di quella scena, autori di molteplici eccezionali lavori, fra thrash, dark, prog e elettronica robotica). Quanto ad Ines, dopo quel magico esordio, non seppe più confermarsi: Eastern Dawning (1996) esibì una piatta new age, alla Lanvall, appena innervata da spunti per radio FM e momenti di blando soft prog (alla Rebekka), mentre The Flow (1999) denunciò una crisi d’identità notevole e fin più preoccupante, all’insegna di una insignificante world music, etnica e modaiola. Il quarto lavoro, Slipping Into the Unknown (2002), tentò se non altro di tornare all’hard rock, con ballate acustiche e influenze pop desunte dai (peraltro prescindibilissimi) dischi solisti di Phil Collins e Tony Banks.

Nei primi anni ’90, in Veneto, furono attivi anche i Top Left Corner, di Padova. Anche per loro un demo tape omonimo (1994), e due buonissimi dischi, per la WMMS: Mystery Book (1994) – col suo progressive epico alla Rush-Yes-Asgard – e Nowhere (1996). Sempre dal Nord-Est venivano inoltre i friulani Barrock, autentici maestri del prog sinfonico, guidati dal grande Walter Poles. Tre lavori, oltre alle tante cassette registrate tra il 1983 e il 1988: L’alchimista (inciso nel 1990 e pubblicato in Giappone dalla Moon Witch, l’anno dopo), Oxian (edito dalla olandese SI Music nel 1995) ed infine La strega, licenziato dalla ligure Mellow Records, nel 1999, proprio in conclusione della decade. In Friuli, ad Udine, furono attivi anche i Last Warning, nati nel 1987. Dopo il demo Bloody Dream (1992-1993), incisero per la WMMS il fantastico From the Floor of the Well (1994), a metà strada fra Threshold e Crimson Glory, per poi proseguire su Underground Symphony. Di Udine sono pure gli straordinari Quasar Lux Symphoniae, tra i maggiori e forse sottovalutati gruppi italiani di prog barocco ed orchestrale. Formatisi nel lontano 1976, incisero sempre per la WMMS due capolavori, quali la rock opera Abraham (1994) e il mitologico The Enlightening March of Argonauts (1997). E la loro discografia non si ferma qui.
Affini al vento che soffiava da Nord-Est furono poi i varesini Court, che si fecero notare col demo-tape Live, nel 1992. Il loro And You’ll Follow the Winds (1993) fu un autentico gioiellino hard-folk, che rimpiazzava senza rimpianti le tastiere (virtualmente assenti) con chitarre acustiche e flauto alla Jethro Tull. Fenomenali dal vivo – condivisero il palco fra Italia e Germania con i Black Jester e gli Ivanhoe, nell’estate 1994 – i Court smarrirono purtroppo quasi subito la propria identità: Distances (1997) mise in mostra soltanto un rock annacquato, con momenti di sbadiglio o addirittura irritanti, pochissimo prog e un vago orientamento psichedelico mal metabolizzato. Anche il successivo Frost of Watermelon (2007), ispirato ai Caravan, non lasciò il segno. Da riscoprire comunque il debutto, insieme a quello dei modenesi Lie Tears – i quali, dopo i nastri Hypnotic Mind (1995) e Lost Sand Sad (1997) – pubblicarono per la Underground Symphony A Gate for Another Life (1999), davvero bellissimo nei suoi riusciti intrecci di hard melodico inglese e new prog appena metallizzato.
Oggigiorno, quel mondo e quella scena musicale, che specie nel Nord-Est italiano dei primi anni ’90 vide emergere ottimi gruppi, non esistono più. Restano solo i ricordi. In generale, il new prog – sia inglese, sia europeo ed italiano – pare avere ormai esaurito la sua linfa vitale. Consiglio nondimeno di dare un ascolto a chi, nella nostra penisola, ancora ci crede e realizza CD validi e interessanti. Si ascoltino in particolare i Cage, i riformati CAP, gli Archangel (con Clive Nolan dei Pendragon, alle tastiere, in qualità di ospite), i Sithonia, i Gran Turismo Veloce, gli scoppiettanti Flower Flesh e, soprattutto, i grandissimi Graal, forse i migliori eredi in termini compositivi dei Black Jester, epici e gotici, con il loro hard prog pomposo e fantasy, che – attraverso quattro meravigliosi album – cita e riprende in una maniera originale, creativa e personale, l’eredità perenne di Uriah Heep, Magnum, Rainbow e Dio. Perché la fiamma non si spegne mai.

Tra Mozart e Lovecraft: le molte vite artistiche dei Mekong Delta

Questo straordinario gruppo, soprattutto ad inizio carriera, ha sempre saputo creare, attorno a sé, un alone di mistero, specie circa le sue origini e la sua prima formazione.

Il nome, Mekong Delta, è da riferirsi alla foce di un fiume del Vietnam, mentre l’intero progetto venne organizzato dalla mente, a dir poco geniale, di Ralph Hubert, ingegnere del suono di Living Death, Warlock e Steeler, nonché proprietario e factotum dell’etichetta discografica Aaarrg dal 1985.
I primi demo tapes dei Mekong Delta furono incisi da una line-up composta dal cantante Wolfgang Borgmann, dalle due asce dei Living Death (Reiner Kelch e Frank Fricke), da Hubert al basso (sotto lo pseudonimo di Bjorn Eklund) e da Jorg Michael, in quel momento già batterista di Avenger, Rage e Paganini (e in seguito con Tom Angelripper, Axel Rudi Pell, Headhunter, Schwarzarbeit, Running Wild, Grave Digger, Stratovarius e Saxon, tra i molti altri). Con questa formazione, i Mekong Delta realizzarono nel 1987 il loro primo album omonimo, contenente un thrash metal durissimo e vicino alla scuola newyorkese degli Anthrax.

Nel 1988 apparve il capolavoro del gruppo, il concept album The Music of Erich Zann, prodotto dal medesimo Hubert, bissato dal mini Toccata, sul finire dell’anno. Con questi due lavori, in pratica, i Mekong Delta si posero come gli ELP del thrash. I testi e la copertina si ispirano alla fantascienza horror dell’omonimo racconto lovecraftiano ed offrono qualcosa di diverso ai tanti thrashers europei di fine anni Ottanta. In ambito techno-thrash, del resto, i precedenti erano pochissimi, solo Release From Agony dei connazionali Destruction e Killing Technology dei Voivod, oltre ai Watchtower. In anticipo pertanto su Coroner, Megadeth, Annihilator, Deathrow e Despair, i Mekong Delta mettono in mostra un approccio di tipo orchestrale, che necessita di ascolti ripetuti, per essere capito. Tempi dispari, riff imprevedibili, controtempi e cambi improvvisi di tempo abbondano. L’energia dei MD è inesauribile: si ascoltino Age of Agony, Confession of Madness, Prophecy e Memories of Tomorrow, oppure il thrash sinfonico dello strumentale Interludium (una versione riarrangiata della musica che Bernard Hermann scrisse per Psycho di Hitchcock, tratto dal noto romanzo di Robert Bloch, amico e discepolo di Lovecraft). Per dirla altrimenti, The Music of Erich Zann dimostra quanto la band di Ralph Hubert fosse “avanti” nella concezione musicale, sperimentale come negli Eighties sono stati in fondo pochi (vengono giusto in mente, per stare in territori metal, Celtic Frost e Prong).
La band tedesca si conferma con il terzo disco, The Principle of Doubt (1989), apparso per la Major Records, label sorta dalla fusione tra la Aaarrg e la Atom H degli Accuser. Intanto, Mark Kaye, alla chitarra, ha preso il posto di Kelch. Per il lavoro di scrittura, registrazione e produzione del quarto lavoro, Dances of Death (1990, di nuovo per la sola Aaarg) i Mekong Delta si chiudono in studio e per un anno intero: il segno del modo di lavorare di Ralph Hubert, certosino e maniacale, attento ai dettagli ed alle sfumature anche più minute. Il Robert Fripp del metal, verrebbe da dire, anche se il techno-thrash mutante e progressivo dei Mekong Delta è maggiormente debitore verso il fantasioso gusto emersoniano del virtuosismo, mai fine a se stesso e spesso giostrato sulle scale minori.

Nel 1991, mentre il thrash canonico si avvia ad entrare in crisi, i Mekong Delta celebrano, alla loro maniera, i vent’anni di Pictures at an Exhibition di ELP – lo storico e personale omaggio, in chiave pomp rock, reso dal celeberrimo trio inglese a Mussorgsky, nel 1971 – con il concerto di Live at an Exhibition. E’ la spia del fatto che ormai la creatura partorita dalla mente di Ralph Hubert intende da par suo guardare oltre, non solo i confini del thrash tradizionale, ma altresì quelli dello stesso metal, per abbeverarsi, sorretta del resto da doti tecniche e di scrittura impressionanti, alla scuola del prog anglo-britannico e della stessa musica classica, che lo aveva ispirato, in moltissimi casi. Escono così dischi coraggiosi e sperimentali, innovativi ed avventurosi, originali e creativi, come Kaleidoscope (1992) e soprattutto Vision Fugitives (1994), forse l’apice del gruppo: un post-thrash ipertecnico con archi, di ispirazione settecentesca e segnatamente mozartiana. Un lavoro realmente incredibile, a cui peraltro manca, oramai, un pubblico in grado di apprezzare e davvero le complesse quanto intricate stratificazioni armonico-melodiche dei Mekong Delta e le loro ricerche ritmiche sulle strutture degli accordi. Forse, il gruppo si è paradossalmente spinto troppo oltre e inevitabile arriva un temporaneo scioglimento.
Nella seconda metà degli anni Duemila, Hubert ha infine rimesso in piedi i MD ed ancora una volta ne sono venuti quattro dischi strepitosi: Lurking Fear (2007), Wanderer on the Edge of Time (2010), Intersections (2012) e In a Mirror Darkly (2014), forse meno orientati al techno-thrash degli esordi e più in linea con un comunque strabiliante ed eclettico metal prog neo-classico. Musica che rimane aristocratica e d’élite, esoterica (nel senso etimologico del termine), e quindi per pochi iniziati e non per tutti: di certo superbi esperimenti di metal sinfonico, da riscoprire.