Gli Xpus non scherzano e le varie Desecration of the Image of God, The Cherub’s Throne, Primordial Evil Essence non lasciano spazio all’ascolto distratto di ascoltatori che non siano amanti del genere.
Esordio sulla lunga distanza per gli Xpus, band italiana nati dalle ceneri degli Unholy Land, black metal band nata a Bergamo nel 1998 e con all’attivo due album tra il 2003 ed il 2008 ( The Fall of the Chosen Star, Dethrone the Light).
Il gruppo tricolore è protagonista di un oscuro e devastante black metal d’ispirazione satanica, dove non mancano accenni al death, specialmente nel growl, il resto del sound è totalmente devoto all’oscuro signore, malatissimo e putrido metal estremo, dove non mancano parti cadenzate pesanti come macigni, cori ecclesiastici e furiose sfuriate evil.
Quaranta minuti scarsi di delirio black/death, blasfemo e senza compromessi, una via di mezzo tra la tradizione polacca ed il black metal oltranzista della scena nordica, il tutto circondato da un’aura satanica difficile da riscontrare nelle band di ultima generazione.
Impatto, attitudine anti cristiana ed una buona dose di violenza, fanno di Sanctus Deus Sabaoth il classico album must per i true black metal fans, un inno di glorificazione alla morte, alla distruzione del genere umano ed al satanismo davvero notevole.
Gli Xpus non scherzano e le varie Desecration of the Image of God, The Cherub’s Throne, Primordial Evil Essence non lasciano spazio all’ascolto distratto di ascoltatori che non siano amanti del genere.
Il trio composto da questi sacerdoti del male vede Aren al basso e a vomitare blasfemie con un growl demoniaco, mentre la sei corde di Normak sputa riff black direttamente dall’inferno, accompagnata dalla batteria di L.(Luca Mazzucconi), per una tempesta di note estreme, malvagie, disturbanti e brutali.
Album affascinante e pregno di vero male in musica, una vera opera oscura.
TRACKLIST
01. Intro
02. Desecration of the Image of God
03. Die as a Sinner
04. The Cherub’s Throne
05. LHP
06. Wirlwind of Fire
07. The Great Worm of the Third Circle
08. Primordial Evil Essence
09. Eternal Flame
10. Outro
La raffinatezza e l’eleganza della musica sinfonica e classica, violentata dalle ritmiche indiavolate e devastanti del brutal, produce un risultato che lascia esterrefatti candidando il gruppo nostrano come uno dei migliori ensemble estremi in circolazione.
Brutal death metal e musica sinfonica o classica, come vi pare, niente di più distante, per i detrattori del metal e in questo caso, di quello estremo.
Eppure, come ormai è consolidato, il mondo metallico è talmente vicino alla musica classica da essere perfettamente in simbiosi con essa, non una novità per chi ha vissuto sulla sua pelle le varie fasi di questa unione, uno scandalo per altri ed un piacevole diversivo ai soliti suoni per chi i due generi li conosce in modo superficiale.
Uno dei gruppi maestri nel coniugare le due filosofie dello spartito è italiano, si chiama Fleshgod Apocalypse, esce per Nuclear Blast ed il nuovo lavoro è la sublime esaltazione di questo fenomeno che nobilita, a mio parere, non solo il mondo metal ma anche quello apperentemente lontano (concettualmente parlando) della musica classica.
Siamo al cospetto di una band unica, creatrice di un sound magniloquente, un’apocalisse di suoni epici e sinfonici dove la brutalità del metal si unisce all’epicità ed alla monumentalità della classica, per donare forti emozioni che nascono dalla grandezza spirituale dell’arte.
Come i più grandi maestri che, nel corso dei secoli hanno forgiato per noi musica immortale, i Fleshgod Apocalypse tornano con il nuovo lavoro, l’opera ( è il caso di dirlo) King, quarto parto di una nidiata di capolavori iniziata nel 2009 con Oracles e continuata imperterrita con Agony (2011) e Labyrinth (2013), tralasciando le uscite minori, confermandosi come una delle realtà più spettacolari dell’universo estremo mondiale.
Brutal death metal, devastante ed ipertecnico, a fare da tappeto sonoro e compagnia ad uno tsunami di musica sinfonica che, all’unisono, sfociano in un delirio di suoni drammatici, da tregenda, epici e tragici, teatrali nel senso più angosciante del termine.
La raffinatezza e l’eleganza della musica sinfonica e classica, violentata dalle ritmiche indiavolate e devastanti del brutal, produce un risultato che lascia esterrefatti candidando il gruppo nostrano come uno dei migliori ensemble estremi in circolazione.
Ho ancora nelle orecchie le sinfonie accompagnate dal sound futurista dei fenomenali Mechina, mentre In Aeternum, Cold as Perfection, And the Vulture Beholds e A Million Dephts, giungono a riempire il mio spazio cosmico di perfezione estrema, magniloquenza classica e monolitica pesantezza brutal, distanti concettualmente ma uniti da un sapiente uso delle sinfonie.
Saprete che sarete alla fine dell’album perché il sole tornerà a splendere, la pioggia torrenziale si placherà ed una luce divina risplenderà sul vostro soffitto di casa, anche per oggi l’apocalisse è stata solo sfiorata, almeno finché non rischiaccerete il tasto play del vostro lettore … solo applausi a cotanta magnificenza.
TRACKLIST
1. Marche Royale
2. In Aeternum
3. Healing Through War
4. The Fool
5. Cold as Perfection
6. Mitra
7. Paramour (Die Leidenschaft Bringt Leiden)
8. And the Vulture Beholds
9. Gravity
10. A Million Deaths
11. Syphilis
12. King
Album che va assaporato, avendo la pazienza ed il tempo per farlo propiro, ed una band che assolutamente da supportare e rispettare per la personalità ed il coraggio nel proporre un’opera così ambiziosa al primo colpo.
Premessa: fate molta attenzione quando si parla di rock alternativo o, superficialmente di grunge, perché (lo dico da anni) il grunge a mio parere come genere musicale non esiste, o meglio, quello che fu chiamato così era solo una moda che non riguardava assolutamente la musica scritta dalle band di Seattle, troppo diverse tra loro, troppe anime contrapposte per unirle in un unico calderone musicale.
Così il primo full length dei nostrani Fractal Reverb, band di rockers nati da pochi anni in quel di Milano, con un ep all’attivo licenziato lo scorso anno dal titolo How To Overcome The Ego Mind, alla fine risulta un buon album di rock alternativo, debitore sì del decennio novantiano, ma dall’anima moderna e noise, come se il lato più intimista dei Sonic Youth si fosse appartato con i Pearl Jam e i Tool e facesse l’occhiolino al rock del nuovo millennio.
Voce femminile (Carolina Locatelli) ancora da perfezionare come interpretazione dei brani, ma comunque sufficientemente personale e rock per non sfigurare nel mezzo dei deliri elettrici dei suoi compagni di viaggio( Davide Trombetta alla chitarra e Alessandro Pinotti alle pelli) e un gusto quasi psichedelico per il rock moderno, fatto di brani lunghi, molte volte vicini strutturalmente a delle jam, che perdono in appeal solo per l’eccessiva durata di un album che supera abbondantemente l’ora.
Ecco, questo è l’unico appunto che mi viene da fare al gruppo, ottantadue minuti sono davvero troppi, specialmente in tempi dove, purtroppo anche nel rock, manca il tempo di assimilare lavori di questo genere causa la marea di uscite discografiche e la poca attenzione degli ascoltatori a musica che chiede un minimo d’impegno nell’ascolto.
Sì, perché Songs to Overcome the Ego Mind è un album impegnativo, adulto, poco incline alle facili melodie di band pop rock contrabbandate per il fantomatico post grunge che, se non esisteva l’originale, figuriamoci i facili surrogati.
Se vi avvicinate alla band milanese pensando di ascoltare i nuovi Nickelback ( tanto per intenderci) avete sbagliato indirizzo, qui si fa rock, sporcato di noise e dall’anima punk statunitense, magari nascosta da umori cantautorali, in un’escalation di vibrazioni progressive dove la voce femminile non è il classico specchio per le allodole, ma un modo alquanto personale di raccontare il loro concept, un percorso che parte da una dimensione prettamente estroversa per arrivare ad una introversa, trovando così il perfetto equilibrio … e scusate se è poco.
Album che va assaporato, avendo la pazienza ed il tempo per farlo propiro, ed una band che assolutamente da supportare e rispettare per la personalità ed il coraggio nel proporre un’opera così ambiziosa al primo colpo.
TRACKLIST
1.Introspective
2.I’ll find my way
3.Song of nothing
4.Dystonic wave
5.Spleen
6.Song of something
7.Natural sounds
8.20 January 2013
9.Fall in leaves
10.Test yourself
11.Trees in circles
12.Hidden places
13.Blindfolded
14.Song of everything
15.Outroot
Basta poco per farsi piacere questa raccolta di brani, serve solo non avere paraocchi di sorta e riuscire ad apprezzare ogni sfumatura che la band ci riserva, senza un attimo di tregua, lungo l’intero lavoro.
E’ tempo di tornare sul mercato per i nostrani Shivers Addiction: il nuovo lavoro, licenziato dalla Revalve Records ed intitolato Choose Your Prison, scaraventa la band tra le realtà più significative dell’hard & heavy nostrano, regalandoci un’oretta di metal rock dalle grandi potenzialità.
Fondato da una decina d’anni, in cui la band ha dato alle stampe il primo demo nel 2007 e successivamente l’esordio sulla lunga distanza tre anni dopo (Nobody Land’s), il gruppo dopo vari cambi di line up, può contare sulle prestazioni del chitarrista Gino Pecoraro dei Nuclear Simphony e soprattutto sul talentuoso vocalist Marco Cantoni dei prog metallers Cyrax, messisi in mostra in questi ultimi due anni con due perle di metallo progressivo ed originalissimo come Reflections del 2013 e Pictures, uscito quest’anno.
Completano la line up i bravissimi Angelo De Polignol alle pelli, Marco D. Panizzo alla seconda ascia e Fabio Cova al basso, un combo compatto e di altissimo livello, così che Choose Your Prison possa risultare un ottimo album che, in modo sapiente ed originale, amalgama alla perfezione thrash metal, progressive, rock e metal classico.
Ed eccoci qua, come Zio Paperone nei dollari, a tuffarci nel variegato mondo musicale del gruppo nostrano che, al primo ascolto riesce nell’impresa di confezionare un album maturo ma godibilissimo, con sorprese che ci investono ad ogni passaggio.
Basta poco per farsi piacere questa raccolta di brani, serve solo non avere paraocchi di sorta e riuscire ad apprezzare ogni sfumatura che la band ci riserva, senza un attimo di tregua, lungo l’intero lavoro.
Come ci ha abituato sui dischi targati Cyrax, Cantoni ne esce alla grande, eclettico, interpretativo e passionale, davvero bravo nel modulare la sua voce tra le sfuriate thrash del gruppo, che, in un attimo si trasformano, in passaggi progressivi, molto vicini al genere classico, lasciando poco al prog metal, abituati a sentire negli ultimi anni.
Bellissime le parti dove armonie acustiche dal sapore folk prendono il sopravvento, accompagnate da un delicato flauto che sa tanto di prog settantiano, per poi essere investiti da tempeste elettriche, dove le chitarre ci assalgono con ritmiche thrash e solos dai rimandi metallici e con la sezione ritmica che al momento opportuno sa picchiare e cambiare tempo come se fossimo in alta montagna.
Preferisco parlare di generi che di band, anche perché la musica dei Shivers Addiction è talmente colma di idee ed atmosfere che risulta cangiante, cambiando pelle in modo repentino anche nello stesso brano.
Un lavoro notevole in fase di songwriting, crea questo arcobaleno musicale dove trovare un brano più significativo è impresa ardua, ma la cattiva We Live on a Lie, la progressiva The King and the Guillotine e l’epica Painted Arrow, sono i brani che più mi hanno entusiasmato.
Cresce a dismisura con gli ascolti Choose Your Prison, pregno di note che appaiono dal nulla ogni volta che vi riavvicinerete con l’udito e con la mente alla musica di questa grande band.
TRACKLIST
1. Eternal Damnation
2. We Live on a Lie
3. La mort qui danse
4. The King and the Guillotine
5. Money Makes the Difference
6. Freedom
7. Where Is My Future
8. Painted Arrow
9. Against We Stand
10. Death Has Nothing to Teach
LINE-UP
Gino Pecoraro – Guitars
Angelo De Polignol – Drums
Marco D. Panizzo – Guitar
Fabio Cova – Bass
Marco Cantoni – Vocals
Alchemica vive di varie anime che si rivelano emblematiche degli umori, ora drammatici ed oscuri, ora più delicati e melanconici, che si rincorrono tra i vari brani.
I Rossometile sono una band di Salerno arrivata, dopo vari cambi di formazione e tre album, al nuovo lavoro intitolato Alchemica che vede l’esordio della cantante Marialisa Pergolesi ed un sound rock/metal intriso di atmosfere gothic/dark.
La band in questi anni ha variato molto la musica proposta, passando di album in album da sonorità metal prog al rock tradizionale, sound protagonista del precedente lavoro del 2012 intitolato Plusvalenze.
L’arrivo della nuova cantante è coinciso con una nuova sterzata musicale ed il quartetto campano si ritrova tra le mani un piccolo gioiello dark rock cantato in lingua madre, con testi molto maturi e, soprattutto, un lotto di buone canzoni che vanno a formare un’opera ambiziosa, relativamente lunga (sessanta minuti non sono pochi) ma dall’ascolto gradevole.
E’ bellissima la voce della cantante, protagonista dell’intero lavoro, elegante e raffinata, assolutamente non forzata in inutili passaggi operistici ma molto personale e dalle sfumature che, a tratti, si fanno pop per non far passare inosservato questo ottimo esempio di rock cantato in italiano, con tutti i crismi per piacere agli amanti del metal dalle reminiscenze gotiche.
Prodotto molto professionalmente, Alchemica vive di varie anime che all’ascolto sono emblematiche degli umori, ora drammatici ed oscuri, ora più delicati e melanconici che si rincorrono tra i vari brani, non dimenticando un volto ad illuminare il mood dark che avvolge i brani.
Ottime sono le parti di chitarra, ad oopera di Rosario Runes Reina, che richiamano il passato metal prog del gruppo con elettrizzanti assoli (Le Ali Del Falco) ed altrettanto valide risultano le parti elettroniche che danno quel tocco dark ottantiano vero punto di forza del gruppo.
Non mancano le orchestrazioni, come da copione nel gothic metal in voga in questi ultimi anni (Pandora), mentre il cuore dell’album è anche il punto più alto della musica dei Rossometile, con le due parti di Nel Solstizio D’inverno, un brano spettacolare che unisce il dark prog degli storici Goblin con i primi Nightwish della splendida Tarja.
Da segnalare ancora la title track e Tirrenica, altri ottimi esempi del sound creato dalla band campana, che guarda al passato del dark rock, senza dimenticare il sound di gruppi attuali come Lacuna Coil, Evanescence e Nightwish. Alchemica è un ottimo lavoro nel quale l’uso della lingua italiana non inficia assolutamente le atmosfere create dalla musica, perciò poche storie e fate vostro questo album, vivamente consigliato agli amanti dei suoni gotici e dark.
TRACKLIST
1.Solve
2.Amore Nero
3.La Fenice
4.Il Lato Oscuro
5.Le Ali Del Falco
6.Pandora
7.Presenze
8.Candore
9.Nel Solstizio D’inverno parte1
10.Nelo Solstizio D’inverno parte2
11.Guerriero Senza Re
12.Viaggio Astrale
13.Alchemica
14.Ripetizione
15.Terrenica
16.Coagula
LINE-UP
Maria Lisa Pergolesi: voce
Pasquale Murino: basso
Gennaro Balletta: batteria
Rosario Runes Reina: chitarra
I Seventh Genocide hanno ottime potenzialità e grossi margini di miglioramento, seguirli nelle loro crescita è un passo obbligatorio, per chiunque ami la musica fuori dai soliti schemi.
I Seventh Genocide provengono da Roma e sono attivi dal 2006, ma solo cinque anni dopo licenziano il primo demo, seguito dal full length omonimo del 2012.
Il gruppo gira intorno al leader Rodolfo Ciuffo, bassista, cantante ed alle prese con la chitarra acustica, che viene affiancato nella line-up de altri tre musicisti, Stefano Allegretti e Jacopo Pepe alle chitarra e Valerio Primo alla batteria.
Partiti come gruppo black metal, la loro musica nel tempo si è evoluta in un metal estremo dove è sempre presente la componente black, ma accompagnata ora da parti atmosferiche vicine al post rock, intimiste, ed intrise di reminiscenze alternative. Breeze Of Memories è un ep composto di cinque brani che alternano feroci sfuriate black a sprazzi di ariose aperture acustiche, abbastanza suggestive ed originali: detto che le tracce tendono ad assomigliarsi, va dato atto alla band di una buona personalità, che si riscontra proprio nelle parti dove il black lascia spazio al rock, creando intensi momenti di musica che superano i soliti confini per cercare una propria strada, riuscendoci con sufficiente convinzione.
Quando è la tempesta black a prendere il sopravvento, le sferzate portate dal vento estremo non lasciano tregua, i Seventh Genocide sanno come suonare il genere e lo scream di Ciuffo risulta perfetto nella sua estrema drammaticità.
Mezzora scarsa, non molto, ma abbastanza per arrivare tranquillamente in fondo al lavoro senza incontrare riempitivi, solo musica dalla doppia anima, quella agguerrita e violenta del black e quella solare del rock alternativo, con qualche passaggio dal sapore folk.
Un’opera che ha bisogno di crescere dentro l’ascoltatore, per far proprie le atmosfere di cui è composta, risultando così un ascolto intrigante e suggestivo.
I Seventh Genocide hanno ottime potenzialità e grossi margini di miglioramento, seguirli nelle loro crescita è un passo obbligatorio, per chiunque ami la musica fuori dai soliti schemi.
TRACKLIST
1. Breeze of Memories
2. Be
3. Behind This Life
4. Summer Dusk
5. Il Lampo
I Sunpocrisy hanno due pregi fondamentali: non hanno pausa di osare ma, nel contempo, non spingono oltre il limite del ragionevole la loro vis sperimentale, mantenendo sempre un invidiabile equilibrio tra melodia e inquietudine.
Il secondo full length dei bresciani Sunpocrisy è esattamente ciò che bisognerebbe spiattellare sotto il naso a chi, pervicacemente, continua a sostenere la pochezza della scena musicale italiana, in particolare di quella metal.
La band lombarda propone infatti una versione realmente evoluta di quello che per comodità definiremo post metal, non rendendo del tutto giustizia alle innumerevoli sfaccettature che l’album racchiude; sorta di risposta tricolore (ma meno schizoide e sinfonica) ai geniali statunitensi Xanthocroid, i Sunpocrisy con Eyegasm, Hallelujah! raggiungono qualcosa di molto vicino alla perfezione, verrebbe da dire, se non fosse che affermando ciò si finirebbe per precludere ai nostri un ulteriore margine di evoluzione che, al contrario, si intuisce essere ampiamente nelle loro corde.
L’accoppiata iniziale Eyegasm / Mausoleum of the Almost si rivela oltremodo sufficiente per fotografare le capacità di una band che spazia con disinvolta tra atmosfere liquide ed evocative e sfuriate di stampo post hardcore, senza che ciò vanifichi l’afflato melodico che pervade in maniera costante l’intero lavoro. Eyegasm, Hallelujah! è un magnifico viaggio che si snoda senza soluzione di continuità e, anche quando la strada sembra farsi più tortuosa, dietro l’angolo ci sono sempre soluzioni sonore che ci spingono a proseguire un percorso immaginifico e a tratti commovente: dopo il breve intermezzo strumentale Transmogrification, arriva Eternitarian a ribadire quanto la musica sia in grado di rendere migliori le nostre esistenze, con diversi momenti di autentico incanto.
Dopo mezz’ora, che basterebbe ed avanzerebbe per sancire il successo di qualsiasi lavoro, ci aspettano ancora altri 40 minuti stupefacenti, a partire da Kairos Through Aion, brano dall’intensità spasmodica che, quando si apre melodicamente, può ricordare i migliori Fear Factory o i loro più qualificati seguaci Mechina, ma che in realtà è un personalissimo caleidoscopio di emozioni sublimate dall’impressionante crescendo conclusivo, propedeutico alla successiva Gravis Vociferatur, strutturata esattamente in maniera opposta, ovvero con una sfuriata iniziale che si stempera in sonorità più rarefatte nella sua fase discendente. Festive Garments è l’episodio più aspro, fondamentalmente, con il suo incedere ascrivibile al progressive death meshugghiano, ma pur sempre bilanciato da una sensibilità compositiva che rende il brano tutt’altro che algido nel suo sviluppo, il tutto in preparazione del perfetto e sognante epilogo del disco denominato Hallelujah !.
I Sunpocrisy hanno due pregi fondamentali: non hanno pausa di osare ma, nel contempo, non spingono oltre il limite del ragionevole la loro vis sperimentale, mantenendo sempre un invidiabile equilibrio tra melodia e inquietudine; l’album, poi, sembra rivelarsi nel suo splendore in maniera repentina ma, in realtà, svela ad ogni ascolto particolari che si erano celati nelle occasioni precedenti.
Concludo dicendo solo che, se avessi ascoltato Eyegasm, Hallelujah! il mese scorso, invece che in questi primi giorni del 2016, per quel che vale sarebbe finito decisamente molto in alto nella mia top ten, risultando senza dubbio il miglior album uscito in Italia nell’anno appena terminato.
Ma tutto ciò in fondo è un qualcosa che può interessare solo agli statistici, i fatti ci consegnano piuttosto una band come i Sunpocrisy che, non ci sono dubbi, al di fuori dei nostri confini ci viene invidiata: e noi, all’interno del nostro tormentato stivale, cosa aspettiamo ad aprire per ben le orecchie approfittando di cotanta bellezza ? ….
Tracklist
1. I. Eyegasm
2. II. Mausoleum of the Almost
3. III. Transmogrification
4. IV. Eternitarian
5. V. Of Barbs and Barbules
6. VI. Kairos Through Aion
7. VII. Gravis Vociferatur
8. VIII. Festive Garments
9. IX. Hallelujah!
I Norhod si muovono in un genere dove ormai l’originalità è una chimera ma che, se suonato a questi livelli, è ancora capace di regalare opere entusiasmanti.
Dopo il bellissimo The Efflorescence dei russi Ephemeral Ocean, si continua a navigare in acque agitate, la tempesta che ci aveva accompagnato per tutto il viaggio, dopo un’apparente schiarita è tornata a farsi intensa, il mare si è rinforzato e la nostra prua ha ricominciato ad essere torturata dalla forza delle onde, spinte da una tempesta di death metal sinfonico e power, questa volta con il suo nucleo temporalesco nato in Italia e precisamente a Lucca.
Una tempesta di suoni bombastici, sinfonie dal mood cinematografico in una mareggiata di ritmiche power, tuoni e lampi death metal, accompagnano il secondo lavoro dei Norhod, altra band spettacolare da annoverare tra le migliori realtà del genere proposto e figlia di una scena italiana che ormai può tranquillamente sedersi al tavolo con le sorelle europee.
La WormHoleDeath non se li è fatti sfuggire, e questo sontuoso Voices From The Ocean arriva in questo inizio anno a ribadire l’ottima salute che gode il metallo nazionale.
La band, nata nel 2009, dopo vari cambi nella line up, nel 2012 da alle stampe il primo ep autoprodotto, quel Arianrhod che non passa innosservato e ad aspettarli c’è la firma per la label italiana che produce il primo full length, The Blazing Lily, uscito nel 2013.
La forza di questo lavoro sta nell’aver saputo, da parte della band, creare un’opera che in poco più di mezzora, scarica un’impressionate sequela di hit, otto brani, uno più bello dell’altro che alternano, dirompente metallo sinfonico a stupende ed ariose tracce acustiche, dal sapore folk, interpretate dalla splendida voce di Clara Ceccarelli, sirena dall’ugola che ammalia, accompagnata dalle notevoli voci maschili, perfette sia nel growl di stampo death che nelle cleans (ad opera, quest’ultime, dell’ospite Francesco cavalieri dei Wind Rose). Voices From The Ocean vive di questa alternanza, tra la furia sinfonica e la calma, portata dalla tempesta che si allontana, la forza sprigionata da dio Nettuno si placa, per tornare rigenerata ed ancora più aggressiva in un susseguirsi di emozionanti sali e scendi tra le onde dell’oceano.
Sezione ritmica che viaggia a mille, orchestrazioni da brividi e finalmente ballad che non danno l’impressione di riempitivi, ma sono perfettamente incastonate in questo album che ha il sapore dell’avventura.
I Norhod si muovono in un genere dove ormai l’originalità è una chimera ma che, se suonato a questi livelli, è ancora capace di regalare opere entusiasmanti; le influenze e le similitudini con band più famose, lasciamole ad altri, così come un inutile track by track, fate vostro Voices From The Ocean e per mezzora navigate nelle pericolose acque dell’oceano con i Norhod.
TRACKLIST
1. Storm
2. Endless Ocean
3. The Abyss of Knowledge
4. July Rain
5. Bleeding Path
6. Son of the Moon (A Moon Tale – Part VI)
7. Farthest Dream
8. Last Chant
LINE-UP
Clara Ceccarelli – Vocals
Giacomo “Jev” Casa – Growl
Giacomo Vannucci – Guitars
Andrea “Bistru” Stefani – Guitars
Michele Tolomei – Keyboards
Matteo Giusti – Bass
Francesco Aytano – Drums
Album che non può mancare nella collezione di ogni true defenders che si rispetti, ma assolutamente consigliato anche a chi apprezza la buona musica, Storm vi regalerà un’ora di nobile metallo progressivo ed incendiario, suonato e prodotto a meraviglia.
Mentre scrivo questo articolo, sotto l’effetto delle splendide note sprigionate da Storm, secondo lavoro del progetto Odyssea, la playlist di fine anno dei collaboratori di Iyezine è già in bella mostra sulle nostre pagine virtuali, altrimenti, come non inserire un album così bello nella mia personale classifica di questo stancante, drammatico ed oscuro 2015?
Passo indietro, per presentare questo progetto nato dalle menti di due dei più grandi musicisti che la scena metal italiana può vantare, il chitarrista Pier Gonella (Necrodeath, Mastercastle, Vanexa, ex-Labyrinth) e Roberto Tiranti (Wonderworld, ex-Labyrinth, ex-Vanexa), partito nel 2004 con il primo album Tears in Flood e ora tornato alla grande dopo più di un decennio e dopo le tante avventure musicali dei due protagonisti.
Dopo il successo delle opere di Tobias Sammet con il progetto Avantasia, di opere metal dai mille ospiti ne sono uscite davvero tante, alcune davvero belle, altre meno, perciò non è certo una novità questo Storm dove, intorno ai due musicisti principali, si raccoglie una buona fetta del meglio che il genere può vantare su e giù per lo stivale e non solo.
Infatti, oltre al songwriting che, sia chiaro, risulta eccellente, è un piacere trovare così tanti, ottimi musicisti, uniti in un’opera (lasciatemelo dire) tutta italiana, confermando l’elevata qualità che ormai ha raggiunto la scena metallica tricolore in ogni sua parte e in qualsiasi genere e sottogenere volgiamo la nostra attenzione.
Alessandro Del Vecchio, Alex De Rosso, Davide Dell’Orto, Giorgia Gueglio, Christo Machete, Mattia Stancioiu, Peso, Simone Mularoni, Wild Steel sono solo una piccola parte dei musicisti che hanno contribuito a fare di Storm una meraviglia power prog metal dalle mille idee e dalle mille sfumature, dove suoni classici si mescolano ad intuizioni futuriste, cavalcate power amoreggiano con ritmiche hard rock e si appartano con digressioni progressive, il tutto agli ordini della splendida voce di Tiranti, tornato a fare metal dopo il bellissimo lavoro solista uscito all’inizio dell’anno e dalla sei corde di un Gonella ispiratissimo e sempre più guitar heroes.
E come novelli Ulisse ci imbarchiamo in questo viaggio tra mari in tempesta, burrasche improvvise che scaricano fulmini pregni di elettricità, come se gli dei del metallo volessero rendere questo ascolto, un’Odissea, un epico girovagare tra i suoni nobili della nostra musica preferita, travolti da onde che senza pietà si infrangono e distruggono prue ed alberi a colpi di songs travolgenti come l’opener No Compromise, l’epica cavalcata Anger Danger, lo spettacolare duetto tra la Gueglio ed il buon Del Vecchio in Ice, la devastante title track, prima che le sirene di Ride ci ipnotizzino, liberati dall’entrata in campo della voce di Tiranti e da uno splendido e arioso refrain.
L’album regala ancora emozioni, in un susseguirsi di passaggi e cambi di atmosfere che hanno, nelle tastiere moderniste e dalle reminiscenze sci-fi di Apocalypse pt2, uno strumentale rotto solo dalla voce recitata della Gueglio, andando a concludere il nostro epico viaggio con Fly, canzone ripresa dal primo lavoro, e dalla versione alternativa dell’opener No Compromise.
Album che non può mancare nella collezione di ogni true defender che si rispetti, ma assolutamente consigliato anche a chi apprezza la buona musica, Storm vi regalerà un’ora di nobile metallo progressivo ed incendiario, suonato e prodotto alla perfezione.
Fatelo vostro e partite per questa affascinante e pericolosissima avventura in compagnia di questi grandi musicisti, non ve ne pentirete.
TRACKLIST
01. No compromise
02. Anger danger
03. Understand
04. Ice
05. Freedom
06. Galaxy
07. Storm
08. Ride
09. Tears in the rain
10. Apocalypse pt II
11. Fly 2015 (bonus track)
12. No compromise alternative (bonus track)
Il nuovo lavoro dei Pulse-R è un’opera imperdibile per gli amanti dei suoni alternative più maturi e progressivi
Ecco a voi un album per il quale l’etichetta alternative non viene usata a sproposito, o meglio non sta ad indicare il solito rock americano con reminiscenze grunge, ma risulta alternativo proprio nella sua natura molto originale e fuori dagli schemi.
Across The Sky, vede il ritorno di Gabriele Bellini, dopo il bellissimo Acoustic Spaces di qualche mese fa, con questa ottima creatura che del metal/rock sperimentale fa il suo credo.
La band muove i primi passi nel 2011, quando il primo full length omonimo viene licenziato per la New Idols records, raccogliendo in sé una manciata di musicisti di provata esperienza e che formano un gruppo compatto, con il fiore all’occhiello rappresentato dalla sei corde del chitarrista nostrano.
L’ep Pull Me Down, segue di poco il disco d’esordio, da qui passano tre anni, dove, nel frattempo Bellini fonda la Qua’ Rock Records, etichetta che licenzia questo nuovo lavoro, che vede il ritorno in pista del gruppo toscano.
Accompagnata dall’eclettico vocalist Giacomo Salani, dal basso di Vieri Pestelli e dalla batteria di Michel Agostini, la sei corde di Bellini impazza in questo turbinio di suoni metal/rock, non il classico album di sola esposizione della sei corde, sia chiaro, ma un ottimo esempio di musica rock moderna a 360°, dove la chitarra sperimenta, trascina e travolge, seguendo parallelamente le soluzioni ritmiche e vocali che si affacciano lungo l’ascolto di Across The Sky.
Si vola alto tra lo spartito del gruppo in questa raccolta di brani che hanno nel suo dna la voglia di stupire, passando con disinvoltura tra partiture alternative a passaggi progressivi, da toni molto, ma molto vicini al new metal più colto, non lasciando indietro neppure il più puro rock.
Bravissimo Salani nel saper modulare la sua voce ed adattarla agli umori di un songwriting così vario e nervoso, mentre la sezione ritmica da saggio di una bravura disarmante nei moltissimi cambi di tempo ed atmosfere, coinvogliate in songs di spessore come le varie, Escape, Breathing In, Changes e Fears Away.
Tanta carne al fuoco, generi e band chiamate in causa dal gruppo. dotato di una personalità enorme, che si intrecciano, vengono alla luce, ed in un’attimo spariscono nell’ombra, vittime del gioco musicale dei Pulse-R, che con il rock degli ultimi venticinque anni ci scherzano, aiutati da un talento smisurato. Across The Sky è tutto questo e se volete dei nomi, pensate cosa potrebbe suonare una band che racchiude i suoni di System Of A Down, Soundgarden e Faith No More in un contesto progressivo e sperimentale.
Ancora un’opera notevole da parte del chitarrista nostrano, il nuovo lavoro dei Pulse-R è imperdibile per gli amanti dei suoni alternative più maturi e progressivi.
TRACKLIST
1.Escape
2.Breathing In
3.Different Souls
4.Life
5.Changes
6.Across The Sky
7.Side Of The Road
8.Fears Away
9.Never
Disco di doom classico duro e puro, con tempi lenti e riff che scavano al roccia, con una splendida malinconia di fondo che pervade l’aire.
Disco di doom classico duro e puro, con tempi lenti e riffs che scavano al roccia, con una splendida malinconia di fondo che pervade l’aere.
I Soul Of Enoch sono un gruppo nato dalla volontà di David Krieg alla voce ed Andrea Morandi al basso nell’estate del 2005 e riportato in vita ai giorni nostri per mano dello stesso vocalist e del chitarrista Tony Tears: i due sono personaggi noti nell’ambiente doom genovese poiché girano intorno al nero ambiente degli Abysmal Grief e dei Malombra, un sottobosco musicale molto forte che a Genova ha prodotto ottime cose, e questo disco ne è insieme testimonianza e continuazione. Questo doom classico è musica di rara belleza, con un substrato romantico ed allo stesso tempo cristiano, anche si raccontano storie di tenebra. I Soul Of Enoch lo fanno molto bene, con un gran senso della melodia e con un’accurata produzione ed una grande cura dei particolari.
La produzione è affidata a Matteo Ricci, che suona anche il basso, ed è pressoché perfetta. Il tutto viene rilasciato dalla BloodRock Records, che è l’etichetta di riferimento per il doom genovese e non solo.
Un gran lavoro per chi ama il doom classico, sonorità che fortunatamente non sono per tutti, né vogliono esserlo.
TRACKLIST
01. I Ask The Flies To Forgive Me
02. Amber Flowers (On Black Marble)
03. Yule
04. Children Shouldn’t Play With The Dead Things
05. The Witch Is Dead
LINE-UP
David Krieg – Voic .
Tony Tears – Guitars.
Matteo Ricci – Bass.
Carlo Opisso : Drums.
In Deathrising il gothic doom viene espresso a livelli ottimali da un gruppo di musicisti esperti e competenti
Togliamoci subito il dente: a chi obietterà che i Motus Tenebrae assomigliano in maniera spiccata ai Paradise Lost non si può che rispondere affermativamente.
Detto questo, e messa una pietra tombale sopra ogni desiderio o ricerca di originalità, quello che resta di questo Deathrising, quinta fatica su lunga distanza della band pisana, non è ne poco né tanto meno trascurabile.
Gli 11 brani che compongono la tracklist dell’album faranno sicuramente la gioia di chi ama questo tipo di sonorità e, ovviamente, stravede anche per le ultime uscite della premiata ditta Mackintosh/Holmes.
Ribadisco il mio pensiero: l’originalità, se non é accompagnata da una scrittura all’altezza, rimane un esercizio di stile coraggioso ma fine a sé stesso, mentre, al contrario, anche un lavoro fortemente influenzato da quanto fatto da altri in passato (a patto di non scadere nel mero plagio) può risultare assolutamente efficace se composto e suonato da musicisti adeguatamente ispirati.
E questo il caso di Deathrising, dove il gothic doom viene espresso a livelli ottimali da una band esperta e competente, con alcuni picchi non indifferenti raggiunti nelle tracce contraddistinte da linee melodiche più accentuate, mentre risultano un po’ meno avvincenti le canzoni caratterizzate da riff più pesanti: fa eccezione in tal senso un episodio magnifico come Light That We Are, che ci teletrasporta all’epoca di Icon, senza neppure sfigurare al confronto.
È chiaro, però, che la malinconica opener Our Weakness e Black Sun, sorta di Forever Failure dei giorni nostri, aprono come meglio non avrebbero potuto un lavoro indubbiamente bello, che vede almeno un’altra perla come Haunt Me, senza dimenticare l’ambientazione oltremodo cupa della title track ed una For A Change che mostra uno svincolo dalle influenze lostiane per approdare sui territori dei Novembers Doom più aggressivi.
Del resto la voce di Luis McFadden, fondatore dei Motus Tenebrae assieme al chitarrista Andreas Das Cox, e al ritorno in formazione dopo qualche anno di assenza, finisce per accentuare ulteriormente le affinità con i maestri di Halifax per la sua intonazione contigua a quella di Nick Holmes, ma il vocalist toscano, in quest’occasione, fornisce una prova ancor più convincente di quanto fatto su The Dark Days dei Disbeliever, in quanto a mio avviso maggiormente a suo agio con le più robuste sonorità di Deathrising.
E’ nella natura delle cose il fatto che artisti seminali creino uno stuolo di seguaci, alcuni bravi e preparati, altri meno: i Motus Tenebrae appartengono sicuramente alla prima di queste categorie, dall’alto di un’esperienza ultradecennale che depone indubbiamente a loro favore, visto che qui non si parla certo di un manipolo di ragazzini folgorati da un giorno all’altro sulla via di Damasco …
Se mi si concede il parallelismo, i Motus Tenebrae stanno ai Paradise Lost come gli NFD stanno ai Fields Of The Nephilim: penso che neppure lo stesso Peter White abbia mai negato (anche per la presenza di ex FOTN in line-up) di attingere dall’immenso patrimonio musicale lasciato dalla band di McCoy, ma nonostante ciò Waking The Dead è stato considerato a ragione uno dei migliori album usciti lo scorso anno in ambito gothic metal, un motivo in più per mantenere lo stesso metro di giudizio rispetto a quanto offertoci dai Motus Tenebrae con Deathrising.
Tracklist:
1. Our Weakness
2. Black Sun
3. For a Change
4. Light That We Are
5. Faded
6. Deathrising
7. Haunt Me
8. Grace
9. Cold World
10. Cherish My Pain
11. Desolation
Line-up:
Luis McFadden – Vocals
Andreas Das Cox – Bass
Daniel Cyranna – Guitars
Omar Harvey – Keyboards, Synth
Andrea Falaschi – Drums
Lo stile dei Fungus può essere etichettabile in vari modi ma forse nessuno di questi sarebbe del tutto esauriente: di sicuro guarda ai decenni più fertili del secolo scorso, facendolo con il frequente ricorso a soluzioni volutamente vintage ma non per questo obsolete
Cominciamo con un mea culpa: nonostante siano miei concittadini ho scoperto l’esistenza dei Fungus solo in seguito ad una loro breve esibizione risalente alla scorsa estate, in occasione del Festival delle Periferie in quel di Genova Cornigliano.
Vero è che la scena progressive/rock la seguo ormai da tempo un po’ a macchia di leopardo, ma la lacuna resta, specie in questi tempi bizzarri, nei quali magari si finisce per conoscere vita morte e miracoli di gruppi della Papuasia ma si ignora l’esistenza di chi vive ed opera a pochi chilometri da casa tua, nel senso vero del termine se pensiamo che uno dei primi parti discografici dei Fungus è la registrazione di un concerto tenutosi nel 2005 a Murta, amena frazione collinare del comune di Genova limitrofa a quella dove risiedo.
Detto questo, mi concedo un ultimo (spero) luogo comune piazzando un bel “meglio tardi che mai”: per fortuna l’arte non conosce prescrizione ed avvalersi della bellezza di un disco come The Face of Evil, a due anni abbondanti dalla sua uscita, non sminuisce affatto il piacere dell’ascolto e della scoperta.
L’occasione per parlarne deriva dalla pubblicazione in doppio vinile dell’album in questione, arricchito del lungo brano The Sealed Room, uno degli ultimi lasciti dell’indubbio genio compositivo di Alejandro J Blissett, chitarrista e fondatore della band, prematuramente scomparso nel 2014.
Lo stile dei Fungus può essere etichettabile in vari modi ma forse nessuno di questi sarebbe del tutto esauriente: di sicuro guarda ai decenni più fertili del secolo scorso, facendolo con il frequente ricorso a soluzioni volutamente vintage ma non per questo obsolete: se vogliamo fare un parallelismo, magari audace, con una band dei giorni nostri, qualche similitudine la si può trovare con i Bigelf, rispetto ai quali le sonorità sono sicuramente meno robuste a fronte di affinità notevoli nel saper maneggiare con gusto ed inventiva certi suoni del passato (in primis quelli tastieristici).
E’ chiaro che hard rock, progressive ed una spruzzata di folk sono gli ingredienti di base di una ricetta vincente, che potrà scontentare solo chi pensa che volgere lo sguardo all’indietro sia esclusivamente una soluzione nostalgica e priva di sbocchi: nulla di più falso, la bravura dei Fungus nell’elaborare il tutto in maniera piuttosto personale è innegabile e se qualcuno li vorrà snobbare trovandoli derivativi o eccessivamente retrò è affar suo.
In realtà ogni brano nasconde sviluppi ben poco prevedibili e direi che questo compensa non poco qualsiasi altra perplessità che possa sorgere nei confronti del lavoro: certo, magari The Sun (brano conclusivo della versione originale di The Face Of Evil) non è forse la traccia ideale per chiudere un album così impegnativo, a causa dei suoi continui cambi di scenario conditi di improvvisazioni e sperimentalismi vari, uniti ad una lunghezza considerevole, e la stessa bonus track, di durata ancor più corposa, nulla aggiunge alla bontà di un’opera che vede altrove i suoi picchi. Al termine dell’ascolto, infatti, a restare impresse sono soprattutto la magnifica Rain, con la chitarra di AJ Blissett a livelli di assoluta eccellenza, la folkeggiante The Key of the Garden, ma anche Better Than Jesus e la title track, senza dimenticare la delicata Gentle Season, traccia che ricorda non poco il Peter Hammill più intimista.
Detto dello scomparso chitarrista e della bontà del suo operato, da rimarcare il tocco tastieristico del bravissimo Claudio Ferreri e le doti interpretative di Dorian Deminstrel, vocalist magari non dotato di un’estensione fuori dal comune, ma sicuramente versatile e, soprattutto, capace di trasmettere adeguatamente all’ascoltatore le sensazioni e le emozioni connesse ad una proposta musicale decisamente affascinante, benché talvolta intricata.
Senz’altro un bella (ri)scoperta in attesa del prossimo lavoro con il quale, peraltro, andrà verificato come i Fungus siano riusciti a metabolizzare, sia dal punto di vista compositivo che da quello prettamente personale, una perdita pesante come quella del loro compagno di avventura.
Tracklist:
1. The Face of Evil
2. Gentle Season
3. The Great Deceit
4. Rain
5. The Key of the Garden
6. Shake Your Suicide III
7. Angel with No Pain
8. Better than Jesus
9. Requiem
10. The Sun
11. The Sealed Room
Possente creatura musical – mefitica da Torino, con un death metal fortemente hardcore e con tanto groove pesante.
Questo disco non è certamente fuori tempo massimo, poiché i dischi ben fatti e con passione non seguono mode o altri momenti, ma ci sono sempre a ricordarci che il metal mena forte.
I Portrait Of A Murder sono ciò che dice il nome, la raffigurazione in musica del nostro lato oscuro, la storia di serial killers, che poi erano quelli che si sedevano di fianco a noi in autobus, o addirittura sono dentro di noi.
Il disco è beatamente claustrofobico, pesante e con tante mazzate. Il loro suono ha sicuramente origini ben precise, ma a me per freschezza e tangibilità fisica mi ricorda molto i Gojira, per quell’impasto sono che picchia fortemente e che non ti lascia scampo.
Vi sono anche aperture sonore invidiabili, sia per melodia che per potenza, e che contribuiscono a fare di questo disco una delle migliori uscite metal italiane di questo 2015.
Molto lo si deve anche alla produzione di Mimmo ” Pentothal ” Musto che ha reso ancora migliore questo ep.
L’ingrediente principale di questo disco è il disagio, e il metal è uno dei codici più adatti a cantare le storie che non vorremmo nemmeno pensare.
Gran debutto davvero.
In questa civiltà fatta di tanto a poco o di poco a tanto, il valore delle cose si è perso, come negli all you can eat che ormai riempono ogni luogo di questa nostra nazione.
Eppure qualcosa di valoroso e di tenace c’è ancora, soprattutto nella musica. Ad esempio questo disco degli Slivovitz, ensemble napoletano di gran valore. Nati nel 2001 sono il collettore per molti tipi di musica, dal free jazz, al prog più moderno, addirittura qualcosa di easy listening. Il tutto composto e suonato con grande sagacia e bravura, in totale controllo nell’esplorazione di anfratti conosciuti all’interno delle nostre ovvie esistenze. Ascoltandoli, ed ognuno nella musica può e deve sentirci ciò che più gli aggrada o gli pare, mi fanno venire in mente un incrocio tra Indukti, Ozric Tentacles e il free jazz. Insomma, situazioni nuove e musica che ti porta dove non sai e sarà bellissimo. I partenopei incidono per la newyorkese Moonjune Records, una Tzadik molto più malleabile e varia. All You Can Eat è molto bello e davvero free da tante cose, libero di essere ascoltato e gustato.
Il disco è stato stampato grazie ad una raccolta fondi su Musicraiser.
TRACKLIST
1. Persian Night
2. Mani In Faccia
3. Yahtzee
4. Passannante
5. Barotrauma
6. Hangover
7. Currywuster
8. Oblio
LINE-UP
PIETRO SANTANGELO: tenor & alto sax
MARCELLO GIANNINI: electric & acoustic guitars
RICCARDO VILLARI: acoustic and electric violin
CIRO RICCARDI: trumpet
DEREK DI PERRI: harmonica
VINCENZO LAMAGNA: bass guitar
SALVATORE RAINONE: drums
L.A.C.K. è al al momento una delle migliori espressioni del DSBM nazionale, un progetto da seguire senza indugi lungo questa via dolorosa quanto affascinante.
Secondo album per L.A.C.K. (Life Affliction Can Kill), progetto di Acheron, musicista italiano dedito ad una forma di DBSM di qualità convincente, come già evidenziato con l’ep When Everything Is Gone, risalente alla scorsa primavera
In quest’occasione il nostro struttura la sua creatura come una vera e propria band, avvalendosi della sezione ritmica degli Eyelessight formata da Ky e HK; inoltre, raduna diversi personaggi della scena nazionale, come Tenebra (Dreariness), Kjiel (Eyelessight) e The Haruspex (Selvans), ed il loro contributo arricchisce non poco il lavoro specie dal punto di vista vocale, apportando diverse varianti a quello che resta, comunque, il classico disperato screaming che è marchio del genere.
Assieme al funeral doom, il depressive black è lo stile musicale che più di altri riesce ad evocare in maniera compiuta il male di vivere, sfruttando nello specifico la dicotomia tra una struttura spesso delicatamente malinconica o di matrice acustica e lo strazio prodotto da un approccio vocale urticante.
Il lavoro di Acheron si sviluppa così in tal senso, aderendo all’ortodossia del genere ma facendolo attraverso una serie di brani splendidi nel loro unire linee melodiche toccanti alla struttura ritmica del black metal.
L’apporto delle strazianti voci femminili di Tenebra e Kjiel, rispettivamente in The Fragile e Your Reflection, si rivela indubbiamente un bel valore raggiunto per due brani che fotografano in maniera eloquente le doti compositive di Acheron, in grado di imprimere al proprio sound quella patina di disperazione ottundente che non urta ma imprigiona irrimediabilmente l’ascoltatore in un grigio e soffocante bozzolo.
Magnifiche anche Nothingness e la lunghissima Stains, mentre Distress Supernova si sposta su territori più propriamente black, assecondando in parte la presenza dell’ospite The Haruspex; ad aprire e chiudere il lavoro troviamo due tracce strumentali, l’acustica While the silence of the night… e l’ambientale ..It’s the soundtrack of a torment, composte rispettivamente da Kjiel e Ky, a dimostrazione dell’intento di Acheron di sfruttare al massimo l’ispirazione dei propri compagni d’avventura.
La scena DBSM nazionale è decisamente vivace e ben rappresentata un gruppo di band o progetti di grande qualità (diversi dei quali sono appunti rappresentati in questo The Fragile) che forniscono un interpretazione del genere sufficientemente peculiare: L.A.C.K. ne è al al momento una delle migliori espressioni, da seguire senza indugi lungo questa via dolorosa quanto affascinante.
Tracklist:
1 – While the silence of the night…(intro)
2 – Nothingness
3 – Distress Supernova
4 – Your Reflection
5 – Stains
6 – The Fragile
7 – …It’s the soundtrack of a torment (outro)
Line-up:
Acheron : Vocals,Guitars,Arrangements
Ky : Bass
HK : Drums
Non fatevi mancare l’ascolto di Doomsday Breakdown, regalatevi un po’ di divertimento, ogni tanto ….
Eccoci al cospetto di un’altra band made in Italy dalle potenzialità enormi, una macchina rock’n’roll senza freni che, pescando dall’hard rock degli ultimi trent’anni, rifila una serie di hit esagerati e confezionando un album divertente, passionale, stradaiolo e dannatamente cool.
Nati come cover band dei Guns’n’Roses, i Lola Stonecracker hanno debuttato nel 2011 con un Ep omonimo e da allora incendiano i palchi europei e nostrani in compagnia di nomi altisonanti del rock’n’roll più energico come Faster Pussycat, Reckless Love, la band di Steven Adler (ex drummer dei migliori gunners) e le maestà John Corabi e Gilby Clarke. Doomsday Breakdown regala un’ora abbondante di street, hard rock a tratti grungizzato da ritmiche grasse, un viaggio saltando dagli eightees al decennio successivo, tra brani di trascinante rock che non dimentica la melodia e neanche i suoni del nuovo millennio.
Quindici brani sono tanti ma l’adrenalina scorre a fiumi in questa raccolta di canzoni che bombardano l’ascoltatore, elettrizzato e sconvolto dal proprio corpo che si dimena suo malgrado, sotto l’effetto dell’opener Jigsaw, Witchy Lady e Generation On Surface, tre brani che scaraventano al tappeto e dai quali in parte ci si rialza con Secret Of The Universe, semi ballad che mi ha ricordato non poco i Candlebox.
Si riparte sull’ottovolante Lola, per altri quattro brani da infarto su cui la title track spicca alla grande, ed è già tempo di riposarci con un’altra incantevole semiballad, All This Time. Space Cowboys invita al rodeo forte di un riff in slide e c’è ancora tempo, tra le altre, per la cover di Relax, storico hit degli anni ottanta ad opera dei Frankie Goes To Hollywood e Shine, una classica ballad in Bon Jovi style, tanto per ribadire la varietà dei nostri nel miscelare così tante influenze sotto la bandiera dell’hard rock.
Forti di un vocalist (Alex Fabbri) personale e bravissimo nell’interpretare le varie sfumature di un lavoro che definire vario è un eufemismo, i Lola Stonecracker stupiscono, spaziano, si divertono e fanno divertire miscelando le varie influenze e risultando a loro modo originali.
Nel frattempo la band ha fIrmato un accordo con la Atomic Stuff, punto di riferimento per l’hard rock tricolore, che si occuperà della promozione dell’album dando vita ad una partnhership che promette scintille.
Non fatevi mancare l’ascolto di Doomsday Breakdown, regalatevi un po’ di divertimento, ogni tanto ….
Tracklist:
01. Jigsaw
02. Witchy Lady
03. Generation On Surface
04. Secret For A Universe
05. Perils For A Man From The Past
06. Jekyll & Hyde
07. Doomsday Breakdown
08. Mc Kenny’s Place
09. All This Time
10. Space Cowboys
11. Psycho Speed Parade
12. Mistery Soul Maverick
13. Relax
14. Shine
15. Using My Tricks
Line-up:
Alex Fabbri – Vocals
Lorenzo Zagni – Guitars
Giovanni Taddia – Guitars
Diego Quarantotto – Bass
Christian Cesari – Drums
Il quartetto ha buone intenzioni, ma che non ha ancora l’esperienza per colpire in maniera decisa
A quattro anni dal loro primo ep autoprodotto, i bolognesi Parsec (Federico Cavicchi, Samuele Venturi, Gabriele Tassi, Leopoldo Fantechi) ritornano con Sulla Notte, album composto da dieci brani e pubblicato da Waves For The Masses. Il disco, incrociando The Death Of Anna Karina, Affranti e Massimo Volume, cerca di graffiare con il suo sound, ma raramente riesce a mordere in maniera convincente.
Il piovere di chitarre di Audrey, combinato con un parlato/raccontato che mai inchioda con le sue parole, introduce le regolari note di basso, su cui si sfogano i restanti strumenti, di Luci Al Neon, mentre Per Una Volta, nascondendo, nella sua urgenza, un cuore dai contorni post rock, prova ad avvolgere con malinconiche emozioni. Non Siamo Mai Stati Moderni, in quarta posizione, prova ad accelerare il ritmo, lasciando che a seguire siano la non così efficace Un’Infanzia Difficile (nel testo viene recitato il banale “alla fine dell’Estate arrivò l’Autunno”) e il pulsare nervoso della più incisiva All’Ultimo Piano.
Il suono carico di malessere de Il Testamento Di Un Uomo, invece, provando a colpire con il suo piglio più pensieroso, si contrappone all’intreccio di basso, batteria e chitarra (decisamente aggressivo nella conclusione), di Emile. Lo Straniero, infine, più regolare e metodica, cede a Stoccolma e alla sua struttura, a tratti più cerebrale e matematica, il compito di chiudere.
I dieci brani di questo Sulla Notte dovrebbero mordere ed emozionare, ma raramente ci riescono. Si capisce fin da subito, infatti, che il quartetto ha buone intenzioni, ma che non ha ancora l’esperienza per colpire in maniera decisa. Il suono potrebbe essere potente come quello dei The Death Of Anna Karina (o cerebrale come quello dei Ruggine), ma non riesce ad aver dinamica e a colpire con forza, mentre i testi potrebbero essere profondi come quelli dei Massimo Volume (o sofferti come quelli degli Affranti), ma risultano piatti e piuttosto ingenui. Insomma, il potenziale sono convinto che ci sia, ma per risultare convincenti c’è ancora molto lavoro da fare
TRACKLIST
01. Audrey
02. Luci Al Neon
03. Per Una Volta
04. Non Siamo Mai Stati Moderni
05. Un’Infanzia Difficile
06. All’Ultimo Piano
07. Il Testamento Di Un Uomo
08. Emile
09. Lo Straniero
10. Stoccolma
I bresciani After Apocalypse sono una giovane band che cerca di proporre qualcosa di nuovo, partendo da dove tutto è iniziato: i primi anni novanta e la scena olandese, quella dei primissimi The Gathering e Celestial Season.
Difficile dire qualcosa di nuovo in un genere come il metal gotico dalle sfumature sinfoniche, troppe le band che la scena ha da offrire, anche se per un amante di queste sonorità la qualità delle proposte riamane mediamente alta, specialmente se si rivolge l’attenzione dentro i confini nazionali.
I bresciani After Apocalypse sono una giovane band che cerca di proporre qualcosa di nuovo, partendo da dove tutto è iniziato: i primi anni novanta e la scena olandese, quella dei primissimi The Gathering e Celestial Season.
Certo il doom gothic, priorità della scena di un ventennio fa, è addolcito dalla sempre presente componente sinfonica, ma il growl profondo e cavernoso ed il sempre presente clarinetto, rendono il sound del gruppo molto vicino alle atmosfere gotiche del tempo, lasciando le sonorità bombastiche ad altre realtà.
La voce della vocalist, di genere ma molto bella, fa il resto e After Apocalypse risulta cosi un buon lavoro, maturo e personale, anche se scritto da una band al primo passo nel mondo del gothic metal.
Il gruppo dosa bene dolcezza gotica e aggressività death, l’uso del clarinetto dona ai brani eleganza ed un tocco di originalità che non guasta e l’album scorre che è un piacere, tra momenti leggermente più sinfonici ed altri dove le chitarre si fanno sentire, ed escono estreme il giusto per accompagnare l’orco che dall’ombra duetta con la singer.
Ottime le trame ricamate dallo strumento classico in World Of Marzipan e Glorious Way, mentre in One Day le due voci creano l’effetto la bella e la bestia molto suggestivo, con le ritmiche che tengono un passo accelerato per uno dei motivi più interessanti dell’album. White Page risulta più in linea con il symphonic odierno, anche se il clarinetto continua ad imperversare fino alla metà del brano, dove i ritmi si fanno marziali e pomposi, mentre Mechanical Mask, potente brano gothic, cede il passo alla conclusiva Sentence, brano dall’inizio cinematografico e dall’andamento più marcatamente potente e aggressivo nel suo incedere estremo.
In definitiva un bel debutto: consigliato agli amanti del genere, After Apocalypse è accompagnato da un’ottima produzione affidata al guru dell’Atomic Stuff Oscar Burato, come sempre nei studi dell’etichetta in quel di Isorella e, già di per sè,una garanzia di qualità. Senza dubbio, buona la prima.
TRACKLIST
01. After Apocalypse
02. World Of Marzipan
03. Dark Side
04. Glorious Way
05. Insight
06. Crying Moon
07. One Day
08. White Page
09. Mechanical Mask
10. Sentence
Possono ricordare molte band e nessuna gli Ensight, ma il loro lavoro farà la gioia di chi è attento a quello che ha da offrirci la nostra scena, che si arricchisce di un’altra ottima realtà.
Nel 2011 questa band pisana si fece conoscere nella scena metallica nostrana per un ep omonimo, uscito autoprodotto per rompere il ghiaccio ed avere la possibilità di cominciare a girare per i palchi dello stivale e far conoscere la propria splendida musica.
Arriva finalmente il primo full length ma, questa volta, accompagnato dalla firma per la Revalve, etichetta nostrana tra le più autorevoli quando si parla di metal underground.
Per chi sente nominare il gruppo per la prima volta, è bene ricordare i talenti che sono dietro al progetto, iniziando dai musicisti che questa band l’hanno creata; Gabriele Caselli (Domine e Eldritch) e Raffahell Dridge (Eldritch), con l’aiuto di Alessio Consani (Eldritch), Dimitri Meloni alla sei corde e lo splendido vocalist Antonio Cannoletta.
Eldritch e Domine, praticamente una buona fetta del meglio che la nostra nazione ha saputo offrire in ambito metallico, gruppi storici e di qualità superiore, conosciuti e rispettati sopratutto all’estero, ed il risultato non poteva che essere clamoroso.
Prog metal di altissimo livello, un songwriting che sa quando e come far male, o dove deve frenare, per rendere la propia proposta ad altissima gradazione melodica, costruendo e disfacendo a suo piacimento, volando alto e lasciandosi cadere in picchiata in un mondo, quello del progressive metallico che se non ci si guarda alle spalle, si rischia di essere aggrediti dall’autocompiacimento e dal troppo specchiarsi nella mera tecnica che in Hybrid si trova comunque in abbondanza.
Il gruppo, dall’alto della sua esperienza, ci rifila As The World Falls Down, posta in chiusura, dodici minuti ed un po’ di symphonic/power/prog metal da standing ovation, un bel biglietto da visita e la chiave per entrare, dalla porta principale, nel loro mondo dove aggressività e melodia sono perfettamente amalgamate per donare musica eterna.
Inutile enfatizzare le prove dei musicisti, ma un plauso va al singer davvero bravo nell’assecondare i vari passaggi, atmosfere e cambi di tempo repentini di cui la musica del gruppo è colma.
Picchiano alla grande e lo sanno fare bene gli Ensight, l’adrenalina scorre a fiumi, a tratti epico ed elegante, il metal dei nostri ha una forza che smuove montagne e le songs dall’alta gradazione metallica non fanno che alzare la tensione e l’attenzione dell’ascoltatore, travolto da cotanto vento tempestoso ( The Pain Society). Words And Dust, posta a metà album ci da solo il tempo di riprendere le forze, la sua rilassata compostezza da modo di prendere respiro prima che la musica del combo torni ad investirci, una buriana di suoni tecnici ed aggressivi e che con Bloodstained trovano la loro consacrazione.
Possono ricordare molte band e nessuna gli Ensight, ma il loro lavoro farà la gioia di chi è attento a quello che ha da offrirci la nostra scena, che si arricchisce di un’altra ottima realtà.
Alberto Centenari
Si fa largo dirompente nell’ascolto, questa prima fatica discografica dei nostrani Ensight; il sound power/progressive pulito, lirico, massiccio eppure siderale si dipana impreziosito da lyrics futuristiche che compongono un concept fantascientifico uscito diretto dalla bibliografia di Kurt Vonnegut.
Le 9 tracce che compongono questo Hybrid si snodano con un perfetto sentiero logico-musicale, in poco meno di un’ora di metal molto tecnico ma senza mai eccedere negli scomodi meandri dell’autoreferenzialità: chitarre potenti, lucide, chirurgiche ma bilanciate; una sezione sinfonica carica e intrecciata da tastiere ben calibrate che esaltano la voce di Cannoletta.
La storia dei componenti di questo quintetto è chiara e parla di radici ben salde nei classici della scena power/progressive italiana, annoverando al suo interno Gabriele Caselli (Ex-Eldritch, Ex-Domine) e Raffahell Dridge (Eldritch), il che non rappresentando a priori una certezza per la riuscita di un nuovo progetto, in questo caso rivela accenni ad un “savoir-faire”derivato anche grazie all’esperienza di band affermate e capitali per il suond metal nostrano. Hybrid è un buon disco: massiccio, equilibrato, al cui ascolto non si può non pensare ad influenza storiche quali Dream Theater e Symphony X, ma anche Secret Sphere e, a tratti, a sfuriate thrash in cui le chitarre prendono direzioni musicali inaspettate intrecciandosi con le tastiere, che sperimentano ambienti digitali e disturbanti propri di certi momenti dei Fear Factory.
Bella prova quella degli Ensight, che negli Eden Studio supportati da Alessio Lucatti e Olaf Thorsen hanno registrato francamente un bell’album, sapientemente mixato da un Simone Mularoni il cui lavoro in postproduzione si percepisce chiaramente senza essere invadente.
Gli Ensight segnano una nuova tappa nel loro percorso musicale e proseguono il loro buon lavoro, restiamo in attesa di conoscerne l’evoluzione.
Elio Genzo Balbo
TRACKLIST
1. Downfall
2. Godfreak
3. The Pain Society
4. Hybrid
5. Words and Dust
6. Bloodstained
7. Falling from Above
8. Until the End
9. As the World Falls Down