Un disco come Cold Like War è diretto ad una tipologia ben precisa di pubblico, e non si può disprezzare solo perché non è vero metal o per altri motivi, ma bisogna contestualizzarlo.
I We Came As Romans sono un gruppo americano fra i più famosi nella galassia metalcore/metal moderno.
Di metal in loro, a dire il vero, se ne può trovare molto poco, ci sono chitarre abbastanza potenti e distorte che contribuiscono a dare un suono al cento per cento a stelle e strisce, in maniera da coniugare una supposta durezza con una grande melodia, creando un suono molto caro agli adolescenti. Il gruppo proviene dal Michigan ed è attivo dal 2009, e tutti i suoi dischi sono stati venduti in maniera abbastanza cospicua anche in tempo di crisi, soprattutto perché rivolti ad un pubblico adolescenziale, che frequenta molto anche i loro concerti. Un disco come Cold Like War è diretto ad una tipologia ben precisa di pubblico, e non si può disprezzare solo perché non è vero metal o per altri motivi, ma bisogna contestualizzarlo. Gruppi di questo tipo sono qualcosa che non è metal, ma inteso nel senso strettamente sonoro. Tutto in questo gruppo è curato fin nel minimo dettaglio, dai momenti maggiormente melodici agli intarsi di elettronica, ai video che hanno un’eccellente regia, tutto sotto controllo insomma. Le canzoni hanno il medesimo schema sonoro, e come detto sopra sono tutte per un pubblico specifico. La Sharptone Records, sussidiaria della Nuclear Blast, continua nella sua opera di diffusione di tutto lo spettro del metalcore e post hardcore, anche se questa non è sicuramente la loro migliore opera nel catalogo, ma commercialmente sarà una vittoria, e magari qualche canzone finirà anche in una colonna sonora di un film per adolescenti.
Tracklist
1. Vultures With Clipped Wings
2. Cold Like War
3. Two Hands
4. Lost in the Moment
5. Foreign Fire
6. Wasted Age
7. Encoder
8. If There’s Something to See (Feat. Eric Vanlerberghe from I Prevail)
9. Promise Me
10. Learning to Survive
La musica di Miladinov è una via di mezzo tra i Children Of Bodom e gli Stratovarius o, per chi segue l’underground, i brasiliani D.A.M, all’insegna di un power/death metal melodico e tastieristico.
Questa interessante proposta estrema arriva dalla Bulgaria, ed il musicista che vi presentiamo si chiama Ivan Miladinov, tastierista e cantante che, con l’aiuto di Bob Katsionis dei Firewind (chitarra basso e batteria programmata), licenzia tramite la Club Inferno Entertainment questo ep composto da due brani dal titolo Soul Finder.
La title track e I Was In Hell ci deliziano di un death metal melodico, strutturato principalmente sui suoni di tasti d’avorio, quindi dall’approccio molto pomposo e sinfonico con le ritmiche power che si scontrano con un death/pomp metal d’assalto.
Il growl del musicista bulgaro è l’unica vera concessione alla parte estrema, mentre il resto del sound viaggia piacevolmente spedito sulle ali di un power metal bombastico e melodico.
Ne escono due brani accattivanti, classici nell’impatto e dall’ottimo appeal, veloci quanto basta per accontentare sia gli amanti del metal classico di stampo power, che quelli più indirizzati verso ascolti più duri.
La musica di Miladinov è, in sintesi, una via di mezzo tra i Children Of Bodom e gli Stratovarius o, per chi segue l’underground, i brasiliani D.A.M, all’insegna di un power/death metal melodico e tastieristico.
Un full length così strutturato non sfigurerebbe certo tra le uscite targate melodic death metal, anche se qui ci si rivolge agli amanti della parte più classica del genere e non certo quella in uso oggi, colma di soluzioni core.
Tracklist
1. Soul Finder
2. I Was In Hell
Line-up
Ivan Miladinov – vocals, keyboards, composer and arrangements
Bob Katsionis (FIREWIND) – guitars, bass and drums programming
Il gruppo russo ci travolge con Misanthropy Never Fails, album composto da dieci brani che con sagacia riesce a far convivere modern metal e melodic death , con un piede negli Stati Uniti e l’altro in Svezia.
Quando nella prima metà degli anni novanta le storiche band scandinave uscirono con i primi lavori che portavano un fresco sentore melodico in un genere estremo come il death metal, il mondo metal fu attraversato da un’euforia meritata per questi pionieri che, coraggiosamente, sfidavano i fans duri e puri inserendo parti classiche, progressive e melodiche, partendo dall’uso della voce pulita che andava ad affiancare il brutale scream/growl in uso nel genere.
Come tutti i generi anche il melodic death metal, dopo un periodo florido, finì con il tornare nell’underground estremo, a parte quella manciata di band che ancora oggi fanno parlare, alcune con ancora molte cose da dire, altre ormai perse nel loro cercare il successo a tutti i costi mascherandolo per processo evolutivo (chi ha detto In Flames?).
Ovviamente come la storia musicale insegna, scavando nel sottobosco musicale senza fermarsi ai soliti nomi, ci si può ancora imbattere in ottimi lavori come il nuovo dei Town Tundra, gruppo proveniente dalla madre Russia, al secondo full length (il primo, Telegonia è targato 2014) e con un terzetto di ep a completare la discografia incentrata su un death metal melodico, dalle sfumature moderne, ma con uno sguardo alla tradizione nord europea.
Freschi di firma con la nostrana Wormholedeath, che di ottime realtà nel metal estremo se ne intende, il gruppo russo ci travolge con Misanthropy Never Fails, album composto da dieci brani che con sagacia riesce a far convivere modern metal e melodic death , con un piede negli Stati Uniti e l’altro in Svezia, paesi lontanissimi sul mappamondo ma non se si parla di musica.
E di musica i Town Tundra ne fanno uscire tanta dagli altoparlanti, furiosa, devastante e melodica, ottimamente prodotta e dal grande appeal, ispirata dai Soilwork (la band storica da cui i musicisti russi hanno attinto di più) e dai gruppi più cool che si spintonano per un posto al sole dall’altra parte dell’oceano.
Chiaramente. se si parla di sound americanizzato non si può non nominare gli In Flames, che fanno capolino quando le note di Senseless And Merciless, Jack Of Spades o della splendida Hell Bleeds With Oil si fanno ipermelodiche e i chorus in clean guardano più al metalcore da classifica che al death metal.
Non fraintendetemi però, perché l’album spacca che è un piacere, e la furia estrema è presente tra le trame di episodi come la title track o The Last Rome, mentre i giochi si fanno duri e l’alternanza tra melodia e violenza si fa ancora più accentuata.
In conclusione si può certamente affermare che Misanthropy Never Fails sia un lavoro riuscito, rappresentando una gradita sorpresa per gli amanti del genere, intrattenuti non dai soliti nomi ma da anche ottimi outsider.
Tracklist
01. Anti-Psalm .21
02. Senseless and Merciless
03. Wit From Woe
04. Jack Of Spades (Fuck & Chic)
05. Misanthropy Never Fails
06. Ill Itch (Sick Of Revolutions)
07. Wolves Of Shame
08. The Last Rome
09. Hell Bleeds With Oil
10. Humiliating And Insulting
Line-up
Vladimir Alekseenko (Warren Crow) – vocals
Aleksei Lavrentev (J.G.K.) – guitars
Ilya Dyuzhin (William) – drums
Anton Bagrov (Anthony Crimson) – bass
Aleksei Firsov (Alexis Fiersen) – guitars
Entity è un’opera incentrata su un melodic death metal sulle orme del blasonato Crimson, capolavoro degli Edge Of Sanity e che, senza raggiungere quelle vette qualitative, risulta un buon ascolto per gli amanti del genere.
Il sottoscritto quando sente parlare di Edge Of Sanity alza il collo e le orecchie diventano antenne per captare ogni nota che fuoriesce dall’opera in questione, se poi la foto promozionale ritrae il protagonista con una maglietta di quel gruppo, le attese si moltiplicano.
Fortunatamente i Moonscape, progetto solista del musicista norvegese Håvard Lunde, non deludono le aspettative che un nome scomodo come quello della creatura di Dan Swanö inevitabilmente provoca, risultando un’opera estrema interessante. Entity offre quindi un death metal progressivo e melodico sulla scia del capolavoro Crimson, l’ album più famoso dei Sanity, e viene addirittura presentato in due versioni: quella tradizionale, divisa in nove brani distinti e quella alla “Crimson”, che tradotto significa una sola traccia intitolata Entity della durata di quaranta minuti, nella quale Lunde ed i suoi ospiti si dilettano in questa nuova proposta, influenzata non solo però dalla mente del geniale svedese.
Infatti, echi delle prime opere del Lucassen menestrello sotto il monicker Ayreon, sono le varianti in un approccio death melodico che attraversa il tappeto musicale su cui poggia la struttura dall’opera, mentre il prog non manca di nobilitare partiture che dall’estremo passano con disinvoltura al rock, colorato di nero ma aperto a soluzioni che sanno di arcobaleni progressivi: Entity è in buona sostanza una lunga jam suonata e composta da un ottimo musicista che omaggia al meglio quello che è evidentemente il proprio principale punto di riferimento.
Questo costituisce pregio e difetto per questo lavoro targato Moonscape, che se lascia ottime sensazioni perdendo qualcosa in personalità, inconveniente al quale Lunde saprà sicuramente rimediare in futuro: il presente invece si chiama Entity e si merita un ascolto.
Tracklist
1.Disconsolation (The Hidden Threat)
2.A Farewell To Reality
3.Into The Ethereal shadows
4.Abandonment
5.Under Absent Clouds
6.A Stolen Prayer
7.A Crack In The Clouds
8.The Bargaining
9.Entity
Line-up
Håvard Lunde
Guests:
Jim Brunaud (The Gaemeth Project) as “Father” – lead vocals
Matthew Brown (Arkhane) as “Man” – lead vocals and chants
Kent Are Sommerseth (Unspoken, Varulv) as “Demon” – lead vocals
David Russell – piano
Leviathan (ex- Unspoken, Kvesta) – lead guitars
Andreas Jonsson (ex- Spiral Architect) – lead guitars
Diego Palma (LordDivine) – keyboards
Simen Ådnøy Ellingsen (Shamblemaths) – acoustic and clean lead guitars
Jon Hunt – keyboards • John Kiernan – lead guitars
Alex Campbell (Seek Irony) – lead guitars
Noah Watts – lead guitars
Sean Winter – tenor saxophone
Justin Hombach (AeoS) – lead guitars
Cibich, al contrario di molti suoi colleghi, non si incarta in inutili giochini tecnici ma punta tutto sulle emozioni che la sua musica elargisce a piene mani, confermandosi figlio di una generazione di musicisti che con le loro opere stanno regalando nuova linfa ai lavori strumentali.
Apophis è il dio serpente, divinità che incarna il male e le tenebre nelle credenze dell’antico Egitto, terra e popolo che con divinità poco raccomandabili avevano a che fare abitualmente.
Portatori di guerre, pestilenze e terribili maledizioni, gli dei egizi sono stati ampiamente menzionati nell’ormai lunga storia del metal con gruppi che ci hanno scritto un’intera discografia, un solo album o semplicemente si sono ispirati per il monicker.
Gli Apophis di cui vi parliamo sono australiani, una one man band di cui si conosce pochissimo se non il nome del polistrumentista autore di questo piccolo gioiello estremo, Aidan Cibich che, oltre a suonare tutti gli strumenti si è prodotto, masterizzato e mixato l’intero album, intitolato Under A Godless Moon.
Presentato come un’opera melodic death metal con atmosferiche parti doom, l’album risulta interamente strumentale, suonato e prodotto benissimo e composto da un lotto di brani che, se al doom schiacciano l’occhiolino in pochissime occasioni, ci travolgono con una serie tempeste sonore estreme, dove la sei corde è assoluta protagonista, meravigliosa compagna del musicista australiano che da par suo la fa suonare e cantare come una sirena persa nelle acque del Nilo.
Poche atmosfere, dunque, e tanto death metal melodico, squisitamente thrash in qualche passaggio ma debitore della scena scandinava e il pensiero non può che andare al nostro Hitwood, progetto death strumentale del polistrumentista italiano Antonio Boccellari a cui Cibich si avvicina non poco, mantenendo solo un approccio più estremo ed oscuro.
Un paio sono i brani atmosferici (Chaos Under Cimmerian Skies e Ad Absolutum Finem), il resto è un ottimo e alquanto tempestoso melodic death che trova la sua naturale valorizzazione strumentale tra le trame di tracce davvero belle come Watchtowers Of Anubis, la title track e The Kinslayer, anche se l’album merita di essere apprezzato nella sua interezza.
Cibich, al contrario di molti suoi colleghi, non si incarta in inutili giochini tecnici ma punta tutto sulle emozioni che la sua musica elargisce a piene mani, confermandosi figlio di una generazione di musicisti che con le loro opere stanno regalando nuova linfa ai lavori strumentali.
Tracklist
1.Chaos Under Cimmerian Skies
2.Cyclopean Rage
3.Monarchs Throne
4.The Kinslayer
5.Fountains Of Crimson
6.Ad Absolutum Finem
7.Empyreal
8.Watchtowers Of Anubis
9.Firestorm Of Luna
10.Under A Godless Moon
Tutto sommato Will To Power è un buon ritorno, offrendo la miglior parte di sè nel lavoro melodico delle due chitarre e continuando la tradizione che vede il gruppo come il massimo esponente di un certo tipo di metal estremo, anche se gli straordinari album licenziati tra le seconda metà degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio sono ormai un lontano ricordo.
Inutile girarci intorno, l’uscita del nuovo album degli Arch Enemy è senz’altro l’evento clou di questo autunno, parlando di death metal melodico.
Gli ormai padroni assoluti del genere tornano a distanza di tre anni da War Eternal, lavoro che, pur non toccando vette memorabili a livello qualitativo, portava con sè una novità tutt’altro che trascurabile con la partenza di Angela Gossow e l’arrivo dietro al microfono del gruppo di Michael Amott della bravissima e bellissima singer canadese Alissa White-Gluz. Will To Power è il secondo lavoro con la nuova cantante, diventata in poco tempo il simbolo della band riempiendo le copertina delle riviste di settore, e vede l’entrata in formazione dell’ex-Nevermore Jeff Loomis, axeman straordinario che ha valorizzato non poco le trame musicali di questo nuovo album.
Rispetto ai precedenti lavor,i dunque, gli Arch Enemy, pur continuando la loro missione nel genere, acquistano un valore aggiunto non da poco e ne sfruttano le doti accentuando la parte melodica con un lavoro chitarristico davvero sopra le righe.
E i due nuovi entrati risultano quindi le armi con cui la band vuole conquistare nuovi e vecchi fans, lasciando che le chitarre brucino tra le dita di un Loomis perfettamente calato nella nuova dimensione, una vocalist che rabbiosa offre una prestazione ecellente con l’aggiunta di parti pulite molto convincenti (Reason To Believe).
Il resto della truppa composta dalla notevole sezione ritmica composta dai veterani Sharlee D’Angelo (basso) e Daniel Erlandsson (batteria), non ha cedimenti e l’album parte a razzo con due missili metallici come The Race e Blood In The Water, biglietto da visita niente male per i nuovi Arch Enemy.
Va detto che non tutto è perfetto in Will To Power, perchè qualche brano arranca nello stare al passo con una buona metà della tracklist, come per esempio il singolo The Eagle Flies Alone, scelta non proprio azzeccata per rappresentare un’ opera che, tutto sommato, riesce a mantenere su buoni livelli la reputazione di un gruppo che a tratti fatica in studio ad essere esplosivo e devastante come nella dimensione live. Will To Power è un buon ritorno, offrendo la miglior parte di sé nel lavoro melodico delle due chitarre e continuando la tradizione che vede il gruppo come il massimo esponente di un certo tipo di metal estremo, anche se gli straordinari album licenziati tra le seconda metà degli anni novanta e l’inizio del nuovo millennio sono ormai un lontano ricordo.
Tracklist
1. Set the Flame to the Night
2. The Race
3. Blood in the Water
4. The World is Yours
5. The Eagles Flies Alone
6. Reason to Believe
7. Murder Scene
8. First Dat in Hell
9. Saturnine
10. Dreams of Retribution
11. My Shadow and I
12. A Fight I Must Win
Line-up
Michael Amott – Guitars
Daniel Erlandsson – Drums
Sharlee D’Angelo – Bass
Jeff Loomis – Guitars
Alissa White-Gluz – Vocals
La caratteristica più importante dell’album è il suo mantenersi sempre graffiante, estremo e thrashy nei brani veloci, potente e melodico nei mid tempo, con il synth che in apertura di qualche brano conferma la cura nei dettagli per dare ad After The Sun più appeal possibile.
Con i tedeschi Trinity Site ci tuffiamo ancora una volta nelle oscure trame del death metal melodico di matrice scandinava.
In effetti, all’ascolto di After The Sun, primo album che segue l’ep Ex Inferis uscito ormai cinque anni fa, si torna negli anni novanta e alle opere delle storiche band nord europee.
Poco male, il genere è questo ed il quintetto segue le regole con disciplina, sfornando un lavoro di tutto rispetto. After The Sun é composto da dieci brani dalle ritmiche thrashy che fanno da tappeto a buoni intrecci chitarristici, una cura per le melodie ed il rincorrersi tra il growl e lo scream, mentre i Dark Tranquillity e gli In Flames si guardano come in uno specchio magico che li riproduce come vent’anni fa.
Ronny Rocket, nome da glamster ma voce da orco, si danna l’anima sulle trame create dai suoi compagni con la coppia d’asce formata da Simon Lummel e Jochen Rau e la sezione ritmica dal sicuro massacro composta da Sascha Born al basso e Marc Schuhmann alle pelli.
La caratteristica più importante dell’album è il suo mantenersi sempre graffiante, estremo e thrashy nei brani veloci, potente e melodico nei mid tempo, con il synth che in apertura di qualche brano conferma la cura nei dettagli per dare ad After The Sun più appeal possibile.
E il quintetto non sbaglia l’approccio al genere, scontato quanto si vuole ma perfettamente calato nella scuola scandinava: After The Sunvive di buone canzoni (March Of The Condemned ed Our Wealth su tutte), guadagnandosi un plauso e l’invito agli amanti del death melodico a non perdersi la buona musica di cui è composto.
TRACKLIST
1.After the Sun
2.March of the Condemned
3.Omnicide
4.Beyond the Rim
5.Lost Colony
6.Humanize Me
7.Still Waters
8.Our Wealth
9.Something Is Living Under My Skin
10.Revenants
LINE-UP
Ronny Rocket – Vocals
Jochen Rau -Guitar
Simon Lummel -Guitar
Sascha Born -Bass
Andreas Rau – Drums
Der Rote Reiter è un lavoro brillante, forse leggermente prolisso ma ricco comunque di un novero di canzoni di grande spessore e all’insegna di una creatività che non si è andata affatto spegnendo nel corso del tempo.
I Die Apokalyptischen Reiter arrivano al loro decimo full length, un traguardo ragguardevole per una band dalla storia ultraventennale, tanto più se all’insegna dell’anticonvenzionalità unita ad un elevato livello medio.
Probabilmente l’effetto sorpresa che rendeva irrinunciabili lavori come Samurai e Riders Of The Storm è venuto un po’ meno, complice anche un progressivo indurimento del sound che ha portato i nostri in più di un frangente ad avvicinare stilisticamente i connazionali Rammstein, dai quali comunque divergono per un approccio più scanzonato e in generale più rock oriented.
In ogni caso Der Rote Reiter è un lavoro brillante, forse leggermente prolisso ma ricco comunque di un novero di canzoni di grande spessore e contraddistinto da una creatività che non si è andata affatto spegnendo nel corso del tempo.
Come per le migliori band, quello che fa la differenza è un’impronta personale che resta a prescindere dal diverso approccio che si può riscontrare prendendo in esame i singoli album, e questo viene confermato fin dalle prime note di Wir sind zurück, brano DAR al 100%, furiosamente melodico ed accattivante, mentre la più violenta ed anche cupa title track rappresenta uno dei corrispettivi più metallici del lavoro.
Con Auf und nieder si torna a quelle melodie chitarristiche vagamente folk che fungono da prologo ad una struttura fortemente orecchiabile ed esibiscono in maniera più esplicita il trademark della band, che poi si lascia andare ad un’altra traccia fortemente rammsteiniana come Hört mich an, dove comunque sia l’utilizzo della chitarra in fase solista e la grande versatilità vocale di Fuchs mantengono il sound a distanza di sicurezza da quello tipico del gruppo berlinese.
Del resto se, in The Great Experience of Ecstasy, l’ingannevole punk hardcore iniziale prelude ad un finale altamente evocativo, con la magnifica Herz In Flamme si finisce addirittura dalle parti del death melodico, mentre la solennità del chorus all’interno del disturbato incedere di Ich nehm dir deine Welt prelude alla chiusura rappresentata dalla gradevole ballata Ich werd bleiben.
I Die Apokalyptischen Reiter fanno parte di quella categoria di band che non lasciano indifferenti, nel bene o nel male: personalmente, oltre ad amare in maniera illogica l’idioma tedesco applicato al rock ed al metal (pur non capendone una parola) ho sempre apprezzato questo bizzarro combo, considerandolo quale portatore di un’espressione fresca ed originale e, sicuramente, Der Rote Reiter non mi farà recedere da tale giudizio.
Tracklist:
1. Wir sind zurück
2. Der rote Reiter
3. Auf und nieder
4. Folgt uns
5. Hört mich an
6. The Great Experience of Ecstasy
7. Franz Weiss
8. Die Freiheit ist eine Pflicht
9. Herz in Flammen
10. Brüder auf Leben und Tod
11. Ich bin weg
12. Ich nehm dir deine Welt
13. Ich werd bleiben
Line up:
Volk-Man – Bass
Dr. Pest – Keyboards
Fuchs – Vocals, Guitars
Sir G. – Drums
Ady – Guitars
Il viaggio di Hitwood continua e ad ogni passo la sua musica si trasforma, completandosi senza perdere la sua personale visione di un metal moderno che si fa estremo, pur lasciando alle melodie la loro fondamentale importanza.
A distanza di un mese circa , torniamo a parlarvi di una nuova uscita targata Hitwood, la creatura musicale creata dalla mente del polistrumentista Antonio Boccellari.
Archiviato il primo full length When Youngness … Fly Away … uscito lo scorso anno ed il precedente ep di cui ci siamo occupati (As A Season Bloom), Hitwood torna a descrivere in musica i suoi sogni che prima di Detriti erano lasciati alla sola musica.
Questa volta l’influenza melodic death di estrazione scandinava è ancora più marcata rispetto ai suoi predecessori, soprattutto per l’ausilio delle voci che sono le protagoniste della musica creata per l’occasione dal bravissimo musicista lombardo.
Dietro al microfono troviamo dunque due ottimi singer. Carlos Timaure al growl ed Eveline Schmidiger, protagonista con growl e clean vocals.
Inutile negare che, con l’inserimento delle voci la musica di Hitwood lascia il mondo della musica strumentale, bellissima ma molto limitata nelle preferenze degli ascoltatori, per raggiungere sicuramente un’audience più ampia.
Rimane un death metal melodico sui generis quello di Boccellari, sempre molto intimista ed atmosferico, ma indubbiamente più completo ed estremo ora che il growl fa il bello e cattivo tempo sulla maggioranza dei brani.
A parte l’intro As Far As I Can Remember e lo strumentale More Winters To Face…, vicino al precedente lavoro come atmosfere e sound, i brani di Detriti risultano sempre molto melodici ma anche più diretti, come la splendida My Path To Nowhere, canzone che ci riporta in pieni anni novanta ed ai lavori di In Flames (padrini del sound Hitwood), Dark Tranquillity ed ai paladini del suono melodico nel metal estremo. Years Of Sadness conferma l’ottima scelta di Boccellari, dall’alto di un brano robusto valorizzato da un tappeto di cori, che enfatizza la componente sognante del concept degli Hitwood, mentre Chromatic lascia campo al lato più estremo del sound e Venus Of My Dreams ci porta alla fine di questo ottimo lavoro, lasciandoci con le trame epico melodiche classiche dei gruppi provenienti dal profondo nord.
Il viaggio di Hitwood continua e ad ogni passo la sua musica si trasforma, completandosi senza perdere la sua personale visione di un metal moderno che si fa estremo, pur lasciando alle melodie la loro fondamentale importanza.
Tracklist
1.As Far As I Can Remember
2.My Path To Nowhere
3.Years Of Sadness
4.More Winters To Face…
5.Chromatic
6.Venus Of My Dreams
Non manca davvero niente ad un’opera del genere, completa sotto tutti gli aspetti, oscura ed animata da un approccio versatile che valorizza brani come la title track, un susseguirsi di cambi repentini tra death metal ed aperture acustiche in una tempesta di suoni estremi.
Attivi dal 2010, arrivano al debutto i greci The Shadeless Emperor, dopo un demo licenziato nel 2013, ed una carriera che fino ad oggi ha stentato per vari motivi a decollare.
Sotto l’ala della Wormholedeath che ne cura la distribuzione, Ashbled Shores andrà sicuramente a rimpinguare la discografia dei melodic death metallers dal palato fino e i muscoli d’acciaio.
In effetti la proposta della band ellenica, pur con le dovute ispirazioni ed influenze, appare da subito personale, un buon mix tra death metal melodico scandinavo, bellissime parti acustiche dalle reminiscenze epic/folk e qualche spunto leggermente più moderno e progressivo, insomma un’ottima proposta per chi dal metal estremo gradisce un sound vario, adulto, ma pressante ed aggressivo.
Prendendo spunto dall’immaginario fantasy, così come dalla letteratura classica, i The Shadeless Emperor vestono il loro sound di nera stoffa epica e la elaborano secondo i canoni dell’ala melodica del death metal, non rinunciando a devastare padiglioni auricolari con fughe ritmiche ed intricate parti chitarristiche, che passano da soluzioni heavy a più intricate parti progressive, mentre strumenti acustici e fiati ricamano partiture folk come nella parte centrale della superba Shades Over The Empire.
Non manca davvero niente ad un’opera del genere, completa sotto tutti gli aspetti, oscura ed animata da un approccio versatile che valorizza brani come la title track, un susseguirsi di cambi repentini tra death metal ed aperture acustiche in una tempesta di suoni estremi.
I Dark Tranquillity fanno da padrini alle parti metalliche, poi lasciate in mano al progressivo aumento delle atmosfere folk, mentre note di piano provenienti dalla folta boscaglia ci introducono ad Helios The Dark con il suo riff scolpito sulla roccia dai primi Amorphis, seguita dal singolo Too Far Gone, estrema e diretta, mentre An Ember Gale conclude alla grande l’album, trattandosi di un brano che racchiude l’anima più estrema e progressiva dei The Shadeless Emperor.
Album perfetto per tornare a godere delle trame oscure ma pregne di melodie del melodic death metal, non fatevelo sfuggire.
Tracklist
1.Oaths
2.Ashbled Shores
3.Sullen Guard
4.Homeland
5.Shades Over The Empire
6.Duskfall
7.Some Rotten Words
8.Helios The Dark
9.Olethros
10.Too Far Gone
11.An Ember Gale
Con l’esordio dei Cemetery Winds si torna a respirare l’aria profondamente maligna del death metal old school, ispirato da un’attitudine black metal e valorizzato da bellissime melodie.
Con l’esordio dei Cemetery Winds si torna a respirare l’aria profondamente maligna del death metal old school, ispirato da un’attitudine black metal e valorizzato da bellissime melodie.
Atmosfere abissali, ritmiche potenti e melodie death/gothic si fondono in un sound che richiama a gran voce i primi fondamentali passi degli Amorphis (The Karelian Isthmus/Tales From The Thousand Lakes) ed Edge Of Sanity (Unorthodox) accompagnato dallo spirito malvagio dei Dissection di The Somberlain.
Mica male, direte voi, e infatti Unholy Ascensions è un gran bel lavoro, creato da questa sorta di one man band con a capo J. Lukka (Batteria e chitarra) aiutato da Kari Kankaanpää (Soluthus/Sepulchral Curse) e Marko Ala-Kleme (Nashorn) al microfono, e Juho Manninen (Curimus) al basso.
Prodotto molto bene ed illustrato ancora meglio dall’artista Juanjo Castellano, l’album si sviluppa su otto brani di death metal old school, tradizionalmente scandinavo, ottimamente ricamato da melodie chitarristiche, a tratti reso ancora più sinistro da tappeti di lugubri tastiere e carico di attitudine ed impatto melodic black metal.
Ne esce un’opera affascinante, d’altri tempi sicuramente, ma superlativa se si rimane nel campo atmosferico, il punto di forza di brani sepolcrali come Into The Breathless Slumber, Burials After Midnight o la title track.
Non un brano sotto una media molto alta, non una melodia o una sfuriata di black metal cattivissimo che non sia da portare in offerta sull’altare del genere, mentre il cimitero si popola di anime dannate, i vermi finiscono il lauto pasto e noi premiamo ancora il tasto play, finché che nella nostra stanza non comparirà ai nostri piedi una bocca spalancata e scarnificata, pronta a fare scempio del nostro corpo.
J.Lukka ha fatto davvero un gran lavoro, derivativo quanto si vuole, ma se siete amanti delle band menzionate, Unholy Ascensions è uno dei migliori album di quest’anno, con la benedizione (o maledizione, fate voi) di Jon Nodtveidt ed un plauso da chi la scena l’ha vissuta in tempo reale.
TRACKLIST
1.Dormant Darkness
2.Realm of the Open Tombs
3.Into the Breathless Slumber
4.When Death Descends
5.Burials After Midnight
6.The Storm of Impious Wrath
7.Unholy Ascensions / Outro
LINE-UP
J. Lukka – Drums, Guitar, additional instruments
Session members:
M. Ala-Kleme – Vocals
K. Kankaanpää – Vocals
J. Manninen – Bass
Anche se i fans aspettavano il nuovo Time II, saranno sicuramente soddisfatti da questa nuova ed interlocutoria fatica targata Wintersun, un gruppo ormai divenuto di culto nell’universo della musica estrema.
La natura, il cambio delle stagioni nella foresta come metafora della vita, benvenuti nel nuovo monumentale lavoro di casa Wintersun, tornati dopo i fasti di Time, opera magna licenziata ormai cinque anni fa.
Per Time IIsi dovrà ancora aspettare, dopo la raccolta di fondi ed il raggiungimento di quasi cinquantamila euro sulla piattaforma Indiegogo a cui verranno aggiunti i proventi di questo lavoro, molto bello anche se non raggiunge il livello assoluto del suo predecessore.
Non mi si fraintenda, comunque anche The Forest Seasons vale tutti i soldi spesi, continuando la tradizione del gruppo finlandese e del verbo musicale del suo leader Jari Mäenpää, epic folk metal nobilitato da sinfonie e parti estreme death/black, con quattro mini suite per quasi un’ora immersi nelle foreste nordiche, protagonisti del passaggio e del cambiamento che avviene da una stagione all’altra.
L’ album parte alla grande con le due parti di Awaken From The Dark Slumber (Spring), ma è l’estate con il suo caldo abbraccio a regalare le prime vere emozioni: The Forest That Weeps è uno spettacolare affresco folk epico, che il gruppo colora con note estreme e sinfonie ariose, mentre l’autunno si avvicina, si fanno spazio le zone d’ombra e il black metal è il miglior modo per iniziare a descrivere i colori che si oscurano come il manto di foglie che fa da tappeto a tutta la foresta.
La neve comincia a cadere e tutto si trasforma in una distesa bianca come i capelli di un uomo in prossimità della vecchiaia. Eternal Darkness (Autumn), si nutre di black metal e swedish death, ma l’arrivo dell’inverno porta una vena ancor più melanconica e suggestiva, mentre il bianco mantello poggiato sul mondo si ghiaccia e avvolge tutto in un silenzio ovattato. Loneliness (Winter) ritorna all’epico incedere sinfonico di marca Wintersun che accompagna la natura e l’uomo verso quella che sarebbe una nuova rinascita, in un ciclo ininterrotto nel tempo.
Anche se i fans aspettavano il nuovo Time II, saranno sicuramente soddisfatti da questa nuova ed interlocutoria fatica targata Wintersun, un gruppo ormai divenuto di culto nell’universo della musica estrema.
Per chi non conoscesse ancora il sound proposto dal gruppo finlandese, preparatevi ad un vulcano metallico che vomita Children Of Bodom, Dimmu Borgir, Dissection ed Ensiferum in una sola devastante lava.
Tracklist
01. Awaken From The Dark Slumber (Spring) – Part I The Dark Slumber – Part II The Awakening
02. The Forest That Weeps (Summer)
03. Eternal Darkness (Autumn) – Part I Haunting Darkness – Part II The Call of the Dark Dream – Part III Beyond the Infinite Universe – Part IV Death
04. Loneliness (Winter)
Line-up
Jari Mäenpää – Vocals, Guitars, Keyboards, Bass
Kai Hahto – Drums
Teemu Mäntysaari – Guitars, Vocals
Jukka Koskinen – Bass, Vocals
Asim Searah – Guitars, Vocals
Ottimo lavoro, consigliato agli amanti del genere che troveranno di che divertirsi tra la tempesta musicale scaturita da questa bassa pressione in arrivo dalle terre del Sol Levante.
Giappone, terra di terremotante tradizione metallica, un riparo, un accogliente nido per i suoni classici in tempi di magra in Europa ed America, ora isola di Tortuga anche per i suoni estremi.
Senza farsi troppe paranoie su quello che è più o meno cool, la terra del Sol Levante continua ad essere un paradiso per il metal ed il rock e la Wormholedeath, che la sa lunga, sull’isola ha poggiato i suoi artigli da un po’ di anni, non solo proponendo i suoi prodotti ma cercando di pescare ottime realtà da proporre sul mercato metallico internazionale.
Esempio notevole dell’orecchio finissimo dell’etichetta nostrana sono i No Limited Spiral, quintetto di Osaka che ci prende per il colletto e ci sbatte sulla macchina del tempo, riportandoci nell’ultimo decennio del secolo scorso, quando dalla penisola scandinava scendevano verso l’Europa le truppe d’assalto che battevano bandiera melodic death.
Melodic death metal, Gothenburg sound, swedish death, chiamatelo come vi pare, rimane il fatto che il genere più amato negli anni che ci accompagnarono nel nuovo millennio vive ancora, rigenerato nell’underground internazionale, dallo stivale alle terre d’oriente, ancora perfettamente in grado di entusiasmare proprio come ai tempi dei capolavori di In Flames e Dark Tranquillity.
In verità la band nipponica ha molto a che fare con i cugini finlandesi che campeggiavano sul lago di Bodom, non solo per l’uso delle tastiere di estrazione power e per lo scream di Kxsxk, ma soprattutto per un approccio furioso e tempestoso.
Attivo da quasi dieci anni e con alle spalle un ep ed un full length, per il gruppo arriva dunque il momento di alzare l’asticella con l’uscita di questo ottimo album intitolato Into Marinesnow.
Una quarantina di minuti scarsi sull’ottovolante del melodic death metal, su e giù tra gli In Flames e i Children Of Bodom, armati di una buona tecnica ed un ancor migliore songwriting, tanto basta per creare un album piacevole, dove chitarre, basso e batteria incendieranno il vostro lettore, con le sei corde taglienti come katane di indomabili Samurai, e i tasti d’avorio che ricamano melodie con la sezione ritmica in modello treno in corsa a devastare padiglioni auricolari.
Non cercate originalità perché non ne troverete, Into The Marinesnow , dall’opener Nyx in poi vi travolgerà sotto tuoni e fulmini di melodic death metal con una serie di brani su cui spiccano le notevoli Kalra the Everlasting Red, Dissolved In The Color Of Ocean e la conclusiva Clockwork Serenade.
Ottimo lavoro, consigliato agli amanti del genere che troveranno di che divertirsi tra la tempesta musicale scaturita da questa bassa pressione in arrivo dalle terre del Sol Levante.
Tracklist
1.In Reminiscence
2.Nyx
3.The Witch of Dusk
4.Gestalt-Eve
5.Kalra the Everlasting Red
6.Daffodil
7.The Rusted Dream and My Sweet Nightmare
8.Dissolved in the Color of Ocean
9.Cherished, Frozen and Faded
10.Clockwork Serenade
Octastorium si fa sentire con molto piacere e trasporto dall’inizio alla fine, ad opera di una delle migliori band folk metal della scena russa e non solo.
Ristampa su Adulruna del primo disco su lunga distranza della band russa folk metal Woodscream, originariamente uscito nel 2014 mediante autoproduzione e autodistribuzione.
Grazie a questo disco e ai loro concerti i Woodscream si sono fatti conoscere nella nutrita scena folk metal. Questo genere in Italia non viene apprezzato per ciò che vale, anche se abbiamo gruppi notevoli, tra i tanti citiamo Furor Gallico e Blodga Skald, mentre nelle terre russe è un genere che va fortissimo e che vede molti gruppi sgomitare per la ribalta. I Woodscream, come potrete verificare ascoltando Octastorium, sono ben più di una spanna sopra la media. Innanzitutto assaltano l’ascoltatore con un chitarre metal e una parte folk davvero ben costruita , che si sposa alla perfezione con il resto dell’ambiente. Il cantato in russo non è assolutamente un limite, anzi diventa un punto di forza. I Woodscream avanzano come antichi guerrieri slavi sul campo di battaglia senza lasciare sopravvissuti o prigionieri alle loro spalle. Il disco funziona benissimo e la splendida voce della vocalist Valentina è un valore aggiunto al tutto. Fare folk metal di qualità non è affatto facile, poiché è un genere che in mani senza talento può facilmente deragliare in una pantomima senza molto senso, invece qui è un gran spettacolo. I ritornelli sono incalzanti e sono di grande effetto nei concerti, e la band possiede una notevole presenza scenica. Octastorium si fa sentire con molto piacere e trasporto dall’inizio alla fine, ad opera di una delle migliori band folk metal della scena russa e non solo. Una riproposizione meritevole e da ascoltare senza indugio.
Tracklist
1.Алан
2.Топь
3.Лесной царь
4.An Dro
5.Коваль
6.Ворон
7.Зов
8.Witnesses of J
Line-up
Valentina Tsyganova – vocal & recorder
Alexander Klimov – guitar & scream
Ivan Budkin – bass & growl
Pavel Malyshev – drums
Siamo di fronte ad una band che sta facendo passi da gigante, con poco o nulla da invidiare a grandi gruppi come Soilwork, Gojira o Children Of Bodom, e lanciata quindi verso un futuro roseo.
Dal 2010, anno in cui i Solution .45 hanno pubblicato il loro primo album For Aeons Past, ne è passato di tempo. La band ha accumulato molto materiale, da qui la scelta di pubblicare due album distinti, ma appartenenti alla stessa saga.
Nel 2015, il supergruppo svedese pubblica Nightmares In The Waking State, pt.1 e, l’anno successivo, ecco la seconda parte, Nightmares In The Waking State, pt.2, un album davvero ben fatto, senza dubbio.
I brani hanno chiaramente delle radici modern metal, con una componente melodica tipica del metal scandinavo. Tuttavia, questi ragazzi riescono a trasmettere tutta la rabbia e la grinta presente in primis nei loro testi che, come ormai ben sappiamo, hanno tematiche basate sui problemi esistenziali, i sentimenti e, come si evince dal titolo, gli incubi che ognuno di noi ha. Tematiche abbastanza delicate insomma, che possono essere percepite solo dalle menti aperte, da chi guarda il mondo con occhi diversi, non vivendo passivamente la vita. Analizzando questo album dal punto di vista del sound, notiamo innanzitutto che vine introdotto da una traccia strumentale/orchestrale dalle sonorità epiche, quasi come se fosse una sorta di varco, di portale che ci trasporta in un’altra dimensione. Dopo questa intro, ecco che i Solution .45 mostrano subito tutto il loro potenziale compositivo con il brano The Faint Pulse Of Light. Si conferma la scelta della band inerente il “cambiamento” di stile già intrapreso nel precedente album: vi chiederete perché la parola “cambiamento” va messa tra virgolette. Bene, ecco il motivo: più che un vero e proprio stravolgimento del sound, i Solution .45 aggiungono importanti elementi al melodic death stile Children Of Bodom che presenta l’album For Aeons Past. I due Nightmares In The Waking State presentano, invece, un sound molto più complesso e ricercato, con molte caratteristiche del progressive, molto evidenti nel brano Mind Mutation, probabilmente il migliore dell’album. Anche questa volta, come nel precedente disco, i chitarristi Jani Stefanovic (Miseration, Divinefire, Essence of Sorrow) e Patrik Gardberg (Torchbearer, The Few Against Many, Ammotrack) ci stupiscono creando melodie che vanno da passaggi tipici del power, a quelli del progressive che, in alcuni casi, ricordano addirittura i Dream Theater, fino al djent, riconoscibile soprattutto nel brano Chain Connector. Sempre più evidenti le grandi qualità del batterista Rolf Pilve (Miseration, Essence Of Sorrow, Stratovarius), che ci dimostra tutte le sue abilità nel brano Misery Mantra. Inutile soffermarci troppo sulle enormi e ben note doti del cantante Christian Alvestam (Miseration, ex Scar Symmetry), capace di passare improvvisamente da un cantato in clean al growl e addirittura a toni tipici del metal più estremo: basta ascoltare il brano Built On Sand, episodio a due facce equivalente a Winning Where Losing Is All del precedente album. Nightmares In The Waking State, pt.2 contiene, infine, anche due slow-tempo come The Curse That Keeps On Giving e Chain Connector.
Ricapitolando, qui siamo di fronte ad una band che sta facendo passi da gigante, con poco o nulla da invidiare a grandi gruppi come Soilwork (il cui brano Enemies In Fidelity rappresenta molto il sound che i Solution .45 presentano in questo album), Gojira o Children Of Bodom, e lanciata quindi verso un futuro roseo.
Tracklist
1) Dim Are The Pathways
2) The Faint Pulse Of Light
3) Mind Mutation
4) Built On Sand
5) Inescapable Dream
6) The Curse That Keeps On Giving
7) Chain Connector
8) What Turns The Wheels
9) Misery Mantra
10) Heavy Lies The Crown
Line-up
Christian Alvestam – Vocals
Jani Stefanovic – Guitars
Patrik Gardberg – Guitars
Rolf Pilve – Drums
Anticult si può leggere come un ulteriore passo verso una camaleontica trasformazione iniziata con il precedente Blood Mantra, riuscita in parte, ancora da registrare ma che lascia buone sensazioni per il prosieguo della carriera del gruppo polacco.
Evoluzione, involuzione, tradimento o solo voglia di suonare qualcosa di diverso (anche perché non credo che con il metal estremo si possa parlare di soldi), fatto sta che quando una band storica lascia l’ormai abituale via per seguire altre strade, porta sempre malumore tra i fans e gli addetti ai lavori, poche volte bilanciato da commenti entusiastici.
E’ il caso dei polacchi Decapitated, una vita a suonare death metal tecnico e brutale, ora trasformatisi in una groove metal band, rabbiosa e melodica.
Potrà anche non piacere la svolta, ma rimane indubbio che Anticult sia un lavoro pesante e melodico, sicuramente rivolto ad un altro tipo di ascoltatori e non ai soliti fruitori della musica del gruppo di Vogg e compagni.
Ovviamente potete pure mettere la classica pietra sopra al vecchio sound proposto dai Decapitated, perché questo nuovo lavoro non è neppure avvicinabile ai deliri tecnici ed estremi dei passati album del gruppo, qui si fa death metal melodico e cool, con il groove ben in evidenza ed una spiccata propensione alla melodia che si evidenzia in molti passaggi, anche se manca ai brani quel quid per essere ricordati. Anticult si può leggere come un ulteriore passo verso una camaleontica trasformazione iniziata con il precedente Blood Mantra, riuscita in parte, ancora da registrare ma che lascia buone sensazioni per il prosieguo della carriera del gruppo polacco.
In breve, i Decapitated non esistono più, o meglio stanno lasciando la vecchia pelle in una lenta mutazione che li sta portando, attraverso brani come la devastante opener Impulse, o la pesantissima Kill The Cult, verso lidi groove melodic death più vicini a gruppi come Arch Enemy, The Haunted e Darkane.
Se ne parlerà e tanto di questo lavoro, il sottoscritto consiglia l’ascolto prima di giudicare la scelta del gruppo che, a conti fatti, non risulta così male.
Tracklist
1. Impulse
2. Deathvaluation
3. Kill The Cult
4. One Eyed Nation
5. Anger Line
6. Earth Scar
7. Never
8. Amen
Boccellari non concede neppure un secondo al proprio ego, creando un piccolo gioiello dove la parole d’ordine è emozione e consegnandoci un lavoro strumentale bellissimo.
Potremmo stare giorni, mesi o anni a discutere su quanto importante possano essere gli eventi di massa, lontano dal concerto in senso lato e più vicino proprio alla definizione evento e a quella frase (io c’ero) che diventa sempre più importante della musica stessa.
Poi, dopo avere discusso e litigato, chi dalla parte del fenomeno che unisce un intero popolo, chi invece dà ancora un valore quasi sacrale alla musica, anche e soprattutto al rock’n’roll o al metal estremo, si finisce al cospetto di un lavoro come As A Season Bloom, ep di quattro brani del polistrumentista lombardo Antonio Boccellari, alias Hitwood, reduce da un full lenght uscito lo scorso anno, intitolato When Youngness… Flies Away….
Un amore sconfinato per gli In Flames e il death metal melodico, un talento compositivo di sicuro valore ed il gioco è fatto: la sua musica può scorrere come un fiume di note, tra l’alternativo e l’estremo, piacevolmente strumentale, a tratti sognante, in certi passaggi quasi meditativa, in altri esplosiva e metallica.
Sembra facile a dirsi, ma non è così, i brani che compongono As A Season Bloom hanno una loro vita, anche se il tutto è perfettamente assemblato in un’unica opera musicale per la quale non servono le parole, persi nello spartito di A Spring Glare Where Green Shine the Brightest, piacevolmente progressiva, o nelle trame semiacustiche dell’alternativa Memories from a Gentle Summer Evening.
Tranquilli, il metal estremo è li che aspetta il suo momento, prima melodico e classico in Catch the Autumn Scent, brano a cui manca il canto di Anders Fridén per essere una canzone degli In Flames del periodo Whoracle, mentre il gioco si fa duro con la furia estrema della conclusiva Awaked By A Winter Blast, gioiellino swedish death da applausi.
Boccellari non concede neppure un secondo al proprio ego, creando un piccolo gioiello dove la parole d’ordine è emozione e consegnandoci un lavoro strumentale bellissimo, con una prima parte molto progressiva ed atmosferica che cresce d’intensità col passare dei minuti, per esplodere nell’ultimo brano: da avere e consumare.
Tracklist
1.A Spring Glare Where Green Shine the Brightest
2.Memories from a Gentle Summer Evening
3.Catch the Autumn Scent
4.Awaked by a Winter Blast
Rispetto alla pre-produzione ascoltata diversi anni fa, il growl di Sébastien Pierre conferisce ulteriore pathos ad un sound trascinante e melodico, che oscilla senza soluzione di continuità tra il death/doom atmosferico ed il death melodico, andando a completare un’opera di rara completezza e profondità.
Quattro anni fa rinvenni on line un album intitolato Further Nowhere, a nome Cold Insight, che mi aveva incuriosito in quanto si trattava del progetto solista di Sébastien Pierre, tastierista degli ottimi ma appena disciolti death-doomsters francesi Inborn Suffering, nonché partner di Jari Lindholm nei magnifici Enshine
La musica contenuta in quelle tracce di natura esclusivamente strumentale mi colpì favorevolmente, tanto che ritenni di scrivere due righe al riguardo, ben conscio del fatto che si trattava di una pre-produzione messa in circolazione sul web per sondare il terreno, come ci tenne a chiarire anche il musicista francese, pur se lusingato dal riscontro positivo.
Approdato ad un’etichetta specializzata in musica oscura e di qualità come la Naturmacht / Rain Without End, Pierre ha finalmente dato alle stampe la versione definitiva di Further Nowhere e, come era prevedibile, l’inserimento della voce rende un’opera magnifica quella che nel 2013 era apparsa un già notevole abbozzo.
Il growl di Sébastien conferisce ulteriore pathos ad un sound trascinante e melodico, che oscilla senza soluzione di continuità tra il death/doom atmosferico ed il death melodico, andando a completare un’opera di rara completezza e profondità.
Ovviamente le tracce che già a suo tempo mi avevano colpito per la loro bellezza vengono esaltate in questa loro nuova veste, impreziosita dal contributo alla chitarra dello stesso Lindholm ed del suo connazionale (nonché compagno negli Exgenesis) Christian Netzell alla batteria: così, affreschi melodici e dal groove irresistibile come The Light We Are, Above ed Even Dies A Sun (solo per citare quelle che prediligo) vengono offerte all’interno di un progetto che trova finalmente un suo sbocco ben definito, e sarebbe stato un vero delitto se ciò non fosse avvenuto.
L’unica traccia che ha conservato la propria veste strumentale è proprio la title track, ed è giusto così perché, in fondo, è tra tutte quella che esprime le melodie più struggenti e che, forse, sarebbero state intaccate dall’inserimento delle vocals; la chiusura invece è affidata a Deep, unico brano non presente nella prima stesura e dotato di un chorus che non lascia scampo, come del resto avviene in quasi tutte le altre canzoni, nelle quali questa capacità da parte di Pierre viene perpetuata con un approccio non dissimile a quello dei migliori Amorphis.
L’ascolto di questo effettivo primo full length targato Cold Insight conferma una volta di più quanto ho sempre sostenuto riguardo alla tendenza ormai diffusa, emersa in questi ultimi anni, di pubblicare opere interamente strumentali: avendo, per una volta, l’occasione di confrontare lo stesso lavoro nell’una e nell’altra versione, si può oggettivamente constatare come non ci sia competizione tra le due soluzioni, in particolare quando le linee vocali sono incisive ed espressive come quelle del musicista parigino.
Alla fine della recensione scritta quattro anni fa per In Your Eyes Eyes affermavo che a un album come Furter Nowhere mancava solo la parola … ora che l’ha trovata è davvero un bel sentire.
Tracklist:
01. The Light We Are
02. Midnight Sun
03. Sulphur
04. Close Your Eyes
05. Above
06. Rainside
07. Stillness Days
08. Even Dies a Sun
09. Distance
10. I Will Rise
11. Further Nowhere
12. Deep
Line-up:
Sébastien Pierre – vocals, keyboards, guitar, bass
Jari Lindholm – guitar solos, mixing, mastering
Christian Netzell – drums
Il songwriting è l’arma in più di Myrrys, un album fresco, con i Noumena sempre attenti a piazzare melodie vincenti e bravi nell’alternare cavalcate death/dark a parti più intimiste, e con la lingua finlandese che dona un tocco di magia ad un sound già di per sé affascinante.
Quando nelle informazioni su di una band si legge la collaborazione del sommo Dan Swanö, si parte con la consapevolezza di essere al cospetto di un ottimo lavoro, perché troppa è l’esperienza e la bravura del musicista e compositore svedese per permettersi di sbagliare un colpo.
Ed infatti Myrrys, nuovo album dei finlandesi Noumena, non tradisce le aspettative che l’ingombrante padrino alla consolle crea, risultando un album di ottimo death metal melodico dalle tinte dark, pregno di sinfonie oscure e buona alternanza tra metal estremo e melodie.
Il gruppo è attivo da quasi vent’anni dunque non si parla di novellini, con una discografia vede quattro full length già editi più una manciata di lavori minori, così che il lavoro dell’ospite d’onore non è che l’ombrellino sul cocktail, che prevede metal classico potenziato dal death melodico e tanta malinconia che sfiora il gothic, in brani che saltellano qua e là tra metal estremo, folk e sinfonia.
Il songwriting è l’arma in più di Myrrys, un album fresco, con i Noumena sempre attenti a piazzare melodie vincenti e bravi nell’alternare cavalcate death/dark a parti più intimiste, e con la lingua finlandese che dona un tocco di magia ad un sound già di per sé affascinante.
Le ispirazioni sono da ricercare nei soliti nomi nati nella terra dei mille laghi, Amorphis e Sentenced su tutti, quindi se il death melodico dai richiami dark, epici e melanconici sono i vostri ascolti abituali, tracce come Kirouksen Kantaja e, soprattutto, la splendida Roihu non vi deluderanno di certo.
TRACKLIST
1.Kohtu
2.Metsän viha
3.Kirouksen kantaja
4.Sanat pimeydestä
5.Sanansaattaja
6.Roihu
7.Murhehuone
8.Pedon veri
9.Syvällä vedessä
LINE-UP
Hannu Savolainen – Bass
Ilkka Unnbom – Drums
Ville Lamminaho – Guitars
Tuukka Tuomela – Guitars
Antti Haapanen – Vocals
Suvi Uura – Vocals
Through Aching Aeons torna a far risplendere il death metal scandinavo con una serie di brani impeccabili sotto ogni aspetto, lasciando a molti dei nomi nuovi le briciole e a noi nove gemme estreme.
Vissuti all’ombra dei grandi nomi della scena svedese di primi anni novanta, quella che forgiò il death metal melodico (tanto per intenderci), i Desultory da Stoccolma non andarono oltre una popolarità di culto, conosciuti quindi dai soli fans che del genere volevano ascoltare tutto.
Eppure la band fu una delle primi ad attivarsi, addirittura come gli act più famosi, la sua nascita risale infatti alla fine degli anni ottanta e la propria discografia inizia ufficialmente nel 1990, con l’uscita del demo From Beyond.
Il primo full length risale al 1993 e Into Eternity precede l’album di maggior successo del gruppo, oltre che piccola perla nera di metal estremo violento, melodico e progressivo: Bitterness, uscito nel 1994 porta maggiore attenzione da parte di media e fans sul quartetto che due anni dopo però fallisce il bis con un lavoro non pienamente riuscito come Swallow The Snake.
Una lunga pausa durata quattordici lunghi anni porta il nome dei Desultory nel nuovo millennio, e l’uscita nel 2010 di Counting Our Scars consegna agli amanti del genere un gruppo ritrovato, sensazione confermata da questo nuovo lavoro intitolato Through Aching Aeons.
Sette anni non sono pochi, specialmente se si vuole battere il ferro finché è caldo, ma probabilmente non è ambizione dei Desultory conquistare nuovi fans con uscite che non siano ponderate in tutti i dettagli come il nuovo lavoro dimostra.
Licenziato dalla Pulverised Records, Through Aching Aeons è un ottimo esempio di death metal melodico, che senza soluzione di continuità tracima violenza sonora, parti melodiche sopra le righe, trame progressive, ed un’oscurità di fondo che, se mi passate il termine, definirei old school. Through Aching Aeons è un album cattivo ed oscuro, la scuola svedese torna a fare danni tra Dismember ed At The Gates in un boato che arriva forte e distruttivo alle orecchie dei deathsters sparsi per il mondo.
Registrato al Necromorbus Studio di Tore Stjerna (Watain, Repugnant, Tribulation) e accompagnato dal bellissimo artwork di Pierre-Alain D (Kamelot, Necrodeath), l’album torna a far risplendere il death metal scandinavo con una serie di brani impeccabili sotto ogni aspetto, lasciando a molti dei nomi nuovi le briciole e a noi nove gemme estreme tra le quali spiccano l’opener Silent Rapture, In This Embrace e Divine Blindess.
Mai come questa volta un articolo merita di concludersi con un sincero “bentornati”!
TRACKLIST
1. Silent Rapture
2. Spineless Kingdom
3. Through Aching Aeons
4. In This Embrace
5. Beneath The Bleeding Sky
6. Slither
7. Divine Blindness
8. Breathing The Ashes
9. Our Departure
LINE-UP
Klas Morberg – Vocals/Guitar
Håkan Morberg – Guitar
Thomas Johnson – Drums/Vocals
Johan Bolin – Bass