Unreal Terror – The New Chapter

The New Chapter è un lavoro di heavy metal tradizionale che non rinuncia a piccoli dettagli tali da renderlo appetibile sul mercato di questo nuovo millennio, con la band nostrana che si destreggia perfettamente con la materia e con infinita esperienza tra le trame del genere classico per antonomasia.

Tornano dopo più di trent’anni con un album nuovo di zecca i pescaresi Unreal Terror, storico gruppo heavy metal nostrano.

Infatti è dal 1986, anno di uscita del primo ed unico full length Hard Incursion, che del gruppo si era parlato solo per alcune ristampe uscite negli anni, mentre quest’anno è giunto il momento dell’uscita del tanto atteso successore di quello storico album e di altri due lavori minori, il demo del 1982 e Heavy & Dangerous, ep licenziato nel 1985.
Il gruppo abruzzese ha visto i suoi natali addirittura sul finire degli anni settanta con il monicker U.T. per poi adottare quello di Unreal Terror dal 1982, anno di uscita del demo: in quegli storici anni alla chitarra si destreggiava anche Mario Di Donato, storico personaggio del metal tricolore successivamente nei Requiem e soprattutto nei The Black.
Dell’iconico artista abruzzese in tutti questi anni è stato fedele compagno il bassista Enio Nicolini, che ritroviamo qui assieme agli due membri fondamentali del gruppo come il singer Luciano Palermi ed il batterista Silvio “Spaccalegna” Canzano, ai quali si aggiungono i nuovi chitarristi Iader D. Nicolini e Paolo Ponzi (Arkana Code): con questa configurazione la band ci conduce indietro nel tempo, fino alla metà degli anni ottanta, con un sound  definibile hard & heavy al 100%.
Il nuovo capitolo di questa lunga storia non poteva che essere proprio un ritorno al metal tradizionale, valorizzato da una buona produzione che però non tradisce lo spirito old school dell’opera, risultando moderna ma rispettosa dei suoni che i musicisti del gruppo hanno creato senza allontanarsi da quello che sono sempre stati gli Unreal Terror.
The New Chapter è un lavoro che non rinuncia a piccoli dettagli tali da renderlo appetibile sul mercato di questo nuovo millennio, con la band nostrana che si destreggia perfettamente con la materia e con infinita esperienza tra le trame del genere classico per antonomasia, senza esagerare con i watt ma dando dimostrazione di classe.
L’album infatti alterna cavalcate in stile NWOBHM a brani in cui l’elemento heavy si scontra con parti hard o progressive, con uno splendido lavoro delle sei corde e sfumature oscure che non fanno scendere l’attenzione neppure nelle tracce più ragionate, mentre lo storico cantante interpreta i brani con la giusta determinazione e le ritmiche variano lasciando ad altri facili compitini.
Il gruppo ha esperienza da vedere e si sente, i brani al secondo giro nel lettore si incollano nella mente grazie ad una serie di refrain davvero azzeccati, con il brano Time Bomb (scelto per l’anteprima dell’album), The Fall, The Thread e Lost Cause a spingere l’album verso un giudizio positivo.
The New Chapter sarà un ritorno gradito per i rockers di vecchia data e potrebbe diventare una bella sorpresa per i più giovani consumatori di musica dura

Tracklist
1. Ordinary King
2. Time Bomb
3. All This Time
4. Fall
5. The Thread
6. One More Chance
7. Trickles of Time
8. It’s the Shadow
9. Lost Cause
10. Western Skies

Line-up
Luciano Palermi – Vocals
Enio Nicolini – Bass
Iader D. Nicolini – Guitars
Arcanacodaxe – Guitars
Silvio “Spaccalegna” Canzano – Drums

UNREAL TERROR – Facebook

Jack Starr’s Burning Starr – Stand Your Ground

Questo è heavy metal nella sua più fulgida espressione, old school nell’approccio ma perfettamente calato nel nuovo millennio, valorizzato da un ottimo lavoro in studio, nobilitato da un songwriting in stato di grazia e da una manciata di musicisti fenomenali: in una sola parola, imperdibile.

Colpaccio della High Roller che licenzia in questa torrida estate Stand Your Ground,  uno degli album heavy metal dell’anno firmato da Jack Starr, ex chitarrista dei Virgin Steele.

Opera maestosa, il settimo sigillo del musicista americano si presenta con un artwork classicamente epico disegnato da Ken (Rainbow, Kiss, Manowar), prodotto da Bart Gabriel, con Kevin Burnes (Dokken, Raven) al mix e Patrick W.Engel al master.
Lo storico chitarrista americano affiancato da un’altra icona del metal classico statunitense, l’ex Manowar Rhino alle pelli e con due assi come il singer Todd Michael Hall ed il bassista Ned Meloni, sforna un album spettacolare che per più di un’ora immerge nelle atmosfere epiche, guerresche e gloriose tipiche del metal nato nel nuovo continente, spogliato da inutili orpelli power e rivestito di armature d’acciaio.
Un apoteosi di riff e solos forgiati da fabbri nel cuore di montagne dimenticate dal tempo, una serie di chorus da cantare al cielo rosso del sangue degli dei, in un delirio metallico chiamato Stand Your Ground, questo ci regalano i Jack Starr’s Burning Starr e questo vorremmo sentire sempre, almeno quando ci avviciniamo da un album heavy epic metal.
Todd Michael Hall è protagonista di una performance straordinaria, trattandosi di un singer dotato di una voce metal fuori dal comune e perfetto narratore delle storie leggendarie e delle epiche avventure che il gruppo mette in musica fin  dall’opener Secrets We Hide, passando per l’epica cavalcata che dà titolo all’opera, brano di una bellezza commovente per intensità, talento melodico e cori che spaccano il cielo per arrivare direttamente agli dei.
Ariosa e dal piglio hard rock è Destiny, dal refrain irresistibile e dal chorus che entra in testa al primo passaggio, mentre arriviamo al brano numero sette prima di riposarci da giorni di battaglia, con la super ballad Worlds Apart che ci accompagna all’accampamento, luccicante delle fiamme dei falò che rischiarano la notte.
L’inizio maideniano di Escape From the Night arriva giusto per non perdere l’altro picco di questo splendido lavoro, We Are One, un crescendo di epica e fiera musica metal che esplode nelle due guerresche tracce (Stronger Than Steel e False Gods) che fanno da preludio alla conclusiva semi ballad To The Ends, intensa, drammatica ed epica conclusione di questo straordinario lavoro.
Questo è heavy metal nella sua più fulgida espressione, old school nell’approccio ma perfettamente calato nel nuovo millennio, valorizzato da un ottimo lavoro in studio, nobilitato da un songwriting in stato di grazia e da una manciata di musicisti fenomenali: in una sola parola, imperdibile.

Tracklist
1. Secrets We Hide
2. The Enemy
3. Stand Your Ground
4. Hero
5. Destiny
6. The Sky Is Falling
7. Worlds Apart
8. Escape From The Night
9. We Are One
10. Stronger Than Steel
11. False Gods
12. To The Ends

Line-up
Todd Michael Hall – lead and backing vocals
Jack Starr – guitars
Ned Meloni – bass guitar
Kenny “Rhino” Earl – drums

Kevin Burnes – additional rhythm, harmony and acoustic guitars

JACK STARR’S BURNING STARR

https://www.youtube.com/watch?v=fwbmQN5YHs8

Kliodna – The Dark Side…

Il quintetto di Minsk affronta con ottima determinazione il genere, cercando di bilanciare orchestrazioni e parti metalliche e confezionando un prodotto assolutamente in grado di soddisfare i palati degli ancora molti amanti del power metal sinfonico.

Attivi dal 2012, i bielorussi Kliodna sono una nuova band che va a rimpolpare le truppe del power metal sinfonico tra il folto rooster della Wormholedeath.

Il quintetto di Minsk affronta con ottima determinazione un genere che sembra all’apparenza aver detto tutto e sicuramente non visto più di buon grado dalle riviste di settore, cercando di bilanciare orchestrazioni e parti metalliche e confezionando un prodotto assolutamente in grado di soddisfare i palati degli ancora molti amanti del power metal sinfonico.
Come tutte le realtà provenienti dall’est europeo, anche i Kliodna si fanno apprezzare per un approccio elegante, innato in gente cresciuta in paesi che danno da sempre molta importanza alla musica nell’educazione quotidiana.
Con una cantante perfetta per il ruolo di sirena metallica (Helena Wild, alla quale è poi subentrata Natalia Senko) e dotata di un’ottima voce operistica, la band tiene schiacciato il piede sull’acceleratore, almeno per i primi tre brani, preceduti dalla solita intro di rito e che sfoggiano solida potenza power, orchestrazioni non troppo pompose e un buon songwriting .
Al quarto brano in scaletta di questo ottimo The Dark Side…, il gruppo fa centro con Night Symphony, semi ballad metallica molto suggestiva seguita dalla ripartenza power orchestrale di Blood In The Sea.
Col passare dei minuti la prova della Wild al microfono diventa assolutamente da sottolineare (le sue muse ispiratrici sono sulla scia della solita Turunen), mentre la potenza power lascia spazio a solos di estrazione neoclassica.
Dead Princess Dreams è orchestrata a meraviglia e dona un intervento chitarristico da applausi, mentre l’album si avvia verso la fine, in tempo per godere della ballad Frozen Soul, a ribadisce l’influenza dei Nightwish sulla musica dei Kliodna.
Un buon lavoro dunque, da non farsi scappare se siete amanti del metal sinfonico e se, quando volete ascoltare qualcosa del genere, la scelta cade sempre sui primi lavori dei maestri finlandesi.

Tracklist
1.Intro
2.Kliodna
3.Road to Anywhere
4.I’ll Do the Haunting
5.Night Symphony
6.Blood in the Sea
7.Dead Princess Dreams
8.Northern Wolf
9.Frozen Soul
10.Set Me Fre

Line-up
Helena Wild- Vocals
Alexandr Korobov – Guitar
Anton Michailovskiy – Guitar
Vasily Silura – Bass Guitar
Ilya Konopelko – Drums

KLIODNA – Facebook

Infinight – Fifteen

I tedeschi Infinight tornano con questo ep, Fifteen, composto da quattro brani che continuano ad amalgamare, questa volta con risultati migliori, U.S. Metal e power di scuola europea.

Gli Infinight sono il classico gruppo power metal tedesco che, partito leggermente in ritardo sulla seconda esplosione del power (seconda metà degli anni novanta), è rimasto intrappolato nell’underground anche se tre full length e tre ep non sono affatto poca cosa per un gruppo autoprodotto.

Vi avevamo parlato del quintetto un paio di anni fa, in occasione dell’uscita del loro terzo album Apex Predator, lavoro riuscito in parte, non decollando grazie ad una fastidiosa prolissità.
Tornano con questo ep, Fifteen, composto da quattro brani che continuano ad amalgamare, questa volta con risultati migliori, U.S. Metal e power di scuola europea.
Atmosfere oscure e drammatiche che ricordano gli Iced Earth, qualche fuga ritmica sul purosangue teutonico ed il gioco è fatto, confermando il gruppo come un buon gruppo minore, da seguire se siete fans accaniti dei suoni classici di scuola classicamente heavy/power.
Goodbye II (this cruel World) è l’ esempio perfetto del sound degli Infinight e, insieme a Through The Endless Night e For The Crown, seguono il canovaccio del precedente full length: dunque heavy/power, potente ma mai troppo veloce, oscurità che man mano si fa sempre più pressante e buoni chorus, maschi e drammatici.
La seconda traccia è un brano acustico, a mio parere anche molto bello (Here To Conquer), di fatto una ballata acustica dove la chitarra e la voce riescono a mantenere la tensione alta, non alleggerendo di un grammo l’atmosfera drammatica che si respira in Fifteen.
Un ep che probabilmente traghetterà il gruppo verso il suo quarto lavoro, me che non cambia quelle che sono le sorti degli Infinight: rimanere ai margini dell’underground heavy/power mondiale.

TRACKLIST
1. Goodbye II (this cruel World)
2. Here to Conquer (unplugged)
3. For the Crown
4. Through the Endless Night

LINE-UP
Kai Schmidt – Bass
Hendrik “Harry” Reimann – Drums
Dominique Raber – Guitars
Marco Grewenig – Guitars
Martin Klein – Vocals

INFINIGHT – Facebook

Xanthochroid – Of Erthe and Axen Act I

Of Erthe and Axen Act I è diverso dal suo predecessore, ma resta comunque un altro capolavoro rilasciato da questa band di un livello talmente superiore alla media da rendere persino irritante il fatto che non abbia ancora raggiunto il meritato successo planetario.

Per uno che ha considerato Blessed He with Boils uno dei dischi più belli pubblicati in questi decennio, il ritorno al full length degli Xanthohchroid è stata senza dubbio una splendida notizia che nascondeva però anche un sottile filo di inquietudine.

Infatti, il timore che questi giovani e geniali musicisti americani potessero aver smarrito la loro ispirazione in questi lunghi cinque anni era un qualcosa che ha aleggiato fastidiosamente a lungo nei miei pensieri, spazzato via fortunatamente dalle prime note di Of Erthe and Axen Act I, nelle quali persiste quella stessa e unica vena melodica e sinfonica.
Per parlare di questo nuovo parto degli Xanthohchroid è fondamentale partire dal fondo, non del disco ma delle note di presentazione: infatti i nostri, in un una postilla che in un primo tempo mi ero anche perso, raccomandano ai recensori di valutare l’album quale effettiva prima parte di un’opera che vedrà uscire la sua prosecuzione ad ottobre, e, pertanto, il fatto che il sound possa apparire molto meno orientato al metal e più al folk è motivato da un disegno complessivo che prevede un notevole rinforzo delle sonorità in Of Erthe and Axen Act II.
Tutto ciò è molto importante, perché si sarebbe corso il rischio di accreditare la band di una sterzata dal punto di vista stilistico che, invece, dovrà essere eventualmente certificata come tale solo dopo l’ascolto del lavoro di prossima uscita; detto ciò, appare evidente come quelle audaci progressioni, che fondevano la furia del black metal con orchestrazioni di stampo epico/cinematografico, in Act I siano ridotte all’osso, lasciando spazio ad una componente folk e acustica dal livello che, comunque, resta una chimera per la quasi totalità di chiunque provi a cimentarvisi.
Infatti, i brani che riportano in maniera più marcata ai suoni di Blessed He with Boils sono una minoranza, rappresentata essenzialmente da To Higher Climes Where Few Might Stand, The Sound Which Has No Name, e parzialmente, The Sound of Hunger Rises, laddove si ritrova intatta quella potenza di fuoco drammatica e melodica che rende gli Xanthochroid immediatamente riconoscibili in virtù di una peculiarità che non può essere in alcun modo negata; per il resto, Of Erthe and Axen Act I si muove lungo i solchi di un folk sempre intriso di una malinconia palpabile e guidato dall’intreccio delle bellissime voci di Sam Meador (anche chitarra acustica e tastiere), della moglie Ali (importante novità rispetto al passato) e di Matthew Earl (batteria e flauto).
Detto così sembra può sembrare che questo disco sia di livello inferiore al precedente ma cosi non è: anche nella sua versione più pacata e di ampio respiro la musica degli Xanthochroid mantiene la stessa magia e, anzi, potrebbe persino attrarre nuovi e meritati consensi, rivelandosi per certi versi meno impegnativa da assimilare; quel che è certa ed immutabile è la maturità compositiva raggiunta da una band che si muove ad altezze consentite solo a pochi eletti, andando a surclassare per ispirazione persino quelli che potevano essere considerati inizialmente degli ideali punti di riferimento come gli Wintersun.
Of Erthe and Axen continua a raccontare le vicende che si susseguono in Etymos, mondo parallelo creato da Meador e che nel notevole booklet è illustrato con dovizia di particolari, con tanto di cartina geografica: la storia narrata in questo caso è un prequel rispetto a Blessed He with Boils, ma questi sono particolari, sebbene importanti, destinati a restare in secondo piano rispetto al superlativo aspetto musicale
La formazione odierna ridotta a quattro elementi (assieme ai tre c’è anche Brent Vallefuoco, che si occupa delle parti di chitarra elettrica infarcendo l’album di magnifici assoli) risulta un perfetto condensato di talento e creatività che trova sbocco sia nei già citati episodi più robusti, sia nelle perle acustiche rappresentate da To Lost and Ancient Gardens, In Deep and Wooded Forests of My Youth (per la quale è stato girato dallo stesso Vallefuoco un bellissimo video) e la stupefacente The Sound of a Glinting Blade, che vive di un crescendo emotivo e vocale destinato a confluire nel furente incipit sinfonico della conclusiva The Sound Which Has No Name, andando a creare uno dei passaggi più impressionanti del lavoro.
Se a un primo ascolto l’apparente tranquillità che pervade il sound poteva aver lasciato un minimo di perplessità, il ripetersi dei passaggi nel lettore conferma ampiamente che il valore degli Xanthochroid non è andato affatto disperso, anzi: Of Erthe and Axen Act I è diverso dal suo predecessore, ma resta comunque un altro capolavoro rilasciato da questa band di un livello talmente superiore alla media da rendere persino irritante il fatto che non abbia ancora raggiunto il meritato successo planetario.
Al riguardo, è auspicabile che l’uscita ravvicinata delle due parti di Of Erthe and Axen possa consentire di mantenere viva per più tempo l’attenzione sugli Xanthohchroid, rimediando a questa evidente stortura.

Tracklist:
01. Open The Gates O Forest Keeper
02. To Lost and Ancient Gardens
03. To Higher Climes Where Few Might Stand
04. To Souls Distant and Dreaming
05. In Deep and Wooded Forests of My Youth
06. The Sound of Hunger Rises
07. The Sound of a Glinting Blade
08. The Sound Which Has No Name

Line-up:
Sam Meador – Vocals, Keyboards, Guitars (acoustic)
Matthew Earl – Drums, Flute, Vocals (backing)
Brent Vallefuoco – Guitars (lead), Vocals
Ali Meador – Vocals

XANTHOCHROID – Facebook

Striker – Striker

Ritmiche dure come la roccia, scalfite da improvvise accelerazioni power, riff taglienti come rasoi e melodie dall’appeal elevato, sono le qualità che il gruppo mette sul tavolo.

Se siete degli amanti dell’heavy metal di lungo corso, allora l’omonimo quinto album dei canadesi Striker è l’ opera che vi mancava per rinverdire i fasti e le gesta dei gruppi storici che fecero meraviglie nei primi anni ottanta, specialmente sul territorio britannico.

Il quartetto, attivo da una decina d’anni e dallo scorso Stand In The Fire finito sulla bocca di fans e addetti ai lavori, viene descritto come uno degli eredi più credibili del sound classico creato da mostri sacri come Iron Maiden e Judas Priest, su cui la band inietta dosi letali di thrash metal e tanta melodia per un risultato altamente esplosivo.
In anni in cui la crisi del mercato e quella dei live, che nel genere sono praticamente ignorati (a parte i festival estivi ed i concerti evento), gli Striker potrebbero portare una nuova ventata di entusiasmo in una frangia del metal che, passata la tempesta di fine secolo scorso, è tornata ad arrancare per mancanza soprattutto di un importante supporto dai media.
Si cerca la new sensation che possa incendiare di passione i giovani, e gli Striker, dall’alto di un lavoro davvero bello a far coppia con il suo acclamato predecessore, si candidano come una delle realtà più agguerrite in tal senso.
Ritmiche dure come la roccia, scalfite da improvvise accelerazioni power, riff taglienti come rasoi e melodie dall’appeal elevato, sono le qualità che il gruppo mette sul tavolo, con i pugni al cielo a cantare refrain irresistibili, sperando che il dio del metal questa volta non sia distratto.
E Striker le carte in regola per fare colpo in terra ed in cielo le ha eccome, a partire dall’opener Former Glory, passando per una serie di tracce dirette e splendidamente metalliche, per finire con la cover di Desire dello zio Ozzy, che benedice la band giunta da Edmonton per risvegliare l’orgoglio sopito dei true defenders.
Un album che nella sua prevedibile natura porta con sé quello spirito che fece innamorare i rockers di quarant’anni fa, trasformati dopo l’ascolto di The Number Of The Beast, Pyromania, Unleashed in The East o Crazy Night in guerrieri metallici dal chiodo luccicante.
Saranno benedetti dal signore del metallo o rimarranno esclusiva degli amanti del genere molto attenti alle vicende del troppo spesso dimenticato underground? Nel dubbio non perdetevi questa cascata di acciaio fuso chiamata Striker, c’è esaltarsi non poco.

Tracklist
1. Former Glory
2. Pass Me By
3. Born to Lose
4. Cheating Death
5. Shadows in the Light
6. Rock the Night
7. Over the Top
8. Freedom’s Call
9. Curse of the Dead
10. Desire (cover)

Line-up
Dan Cleary – Vocals
Adam Brown – Drums
Timothy Brown – Guitars
Wild Bill – Bass

STRIKER – Facebook

Alpha Tiger – Alpha Tiger

Un album che alla lunga non riesce a decollare, facendo perdere un po’ d’attenzione all’ascoltatore, in affanno verso il traguardo dell’ultimo brano: da un gruppo al terzo album per una label così importante ci si aspetta sicuramente di più.

Nuovo album e nuovo cantante (Benjamin Jaino al posto di Stephan Dietrich) per i giovani metallers tedeschi Alpha Tiger, gruppo su cui punta non poco la Steamhammer/SPV.

Il sound proposto dal quintetto si allontana non poco dal classico heavy/power dei gruppi connazionali per un approccio più classico e old school.
Heavy metal quindi, potenziato ma non distante dai gruppi ottantiani, con un uso invece settantiano dei tasti d’avorio, chitarre che si rincorrono in solos taglienti ed una sezione ritmica presente ma non invadente, puntuale ma che rimane stabilmente su tempi medi.
Manca il classico brano che alza le antenne all’ascoltatore e Alpha Tiger come i suoi predecessori (Man Or Machine del 2011 e Beneath The Surface uscito nel 2013) risulta un buon lavoro, pur non avendo quei due o tre brani che fanno la differenza ed alzano l’adrenalina, rimanendo livellato su una qualità sufficiente per non sfigurare nell’immenso mondo dell’heavy metal ma nulla più.
L’album parte bene, Comatose e Feather In The Wind rompono gli indugi e ci introducono nel cuore del lavoro, che perde qualche colpo con il passare dei minuti, per tornare a far male con l’ottimo hard & heavy di Vice e soprattutto con Welcome To The Devil’s Town.
Il nuovo singer si conferma come un buon acquisto per il gruppo, mentre si continua a salire e scendere tra tracce più riuscite ad altre che prendono la strada della monotonia.
E questo è il difetto più grosso di Alpha Tiger, quello d’essere un album che alla lunga non riesce a decollare, facendo perdere un po’ d’attenzione all’ascoltatore, in affanno verso il traguardo dell’ultimo brano: da un gruppo al terzo album per una label così importante ci si aspetta sicuramente di più.

Tracklist
1. Road To Vega
2. Comatose
3. Feather In The Wind
4. Singularity
5. Aurora
6. To Wear A Crown
7. Vice
8. Welcome To Devil’s Town
9. My Dear Old Friend
10. If The Sun Refused To Shine
11. The Last Encore

Line-up
Peter Langforth – guitars
Benjamin Jaino – vocals
Alexander Backasch – guitars
Dirk Frei – bass
David Schleif – drums

ALPHA TIGER – Facebook

Attic – Sanctimonius

Tagliare il cordone ombelicale con i propri numi tutelari dovrebbe essere per gli Attic la prima mossa del dopo Sanctimonius, pena il rischio d’essere considerati alla stregua di una buona cover band.

Dalla Germania arriva questo quintetto al secondo lavoro, licenziato per Ván Records ed intitolato Sanctimonius.

Attic è il nome del gruppo e i Mercyful Fate i loro padri spirituali, con il cugino che regna sul regno dell’horror metal col nome di King Diamond e gli amichetti Iron Maiden compagni di sadici giochetti tra i vicoli di città infestate dalla peste e posseduta dall’oscuro signore.
Impossibile avere dei dubbi, basta il primo acuto di Meister Cagliostro e l’incantesimo fa in modo che il ghigno del Re Diamante si materializzi davanti a noi.
Si potrebbe chiudere qui questo articolo, perché in Sanctimonius il sound è troppo simile a quello creato dal leggendario vocalist per trovare qualcosa che faccia da diversivo, a parte qualche maideniana fuga chitarristica.
L’hammond crea atmosfere orrorifiche che fungono da intro per alcune delle tracce, la produzione mantiene perfettamente l’aura old school dell’opera ma i quasi settanta minuti di copia e incolla tradiscono gli Attic ed il loro lavoro.
Non mi si fraintenda, Sanctimonius in definitiva non è affatto un brutto album, i brani in cui sono i Maiden a fungere da riferimento non sono affatto male (A Serpent In The Pulpit, Sinless), ma pure qui il gruppo si fa prendere dal troppo ricalcare pedissequamente le caratteristiche del gruppo di Steve Harris, senza trovare una propria personalità.
Tagliare il cordone ombelicale con i propri numi tutelari dovrebbe essere per gli Attic la prima mossa del dopo Sanctimonius, pena il rischio d’essere considerati alla stregua di una buona cover band.

Tracklist
1. Iudicium Dei
2. Sanctimonious
3. A Serpent in the Pulpit
4. Penalized
5. Scrupulosity
6. Sinless
7. Die Engelmacherin
8. A Quest for Blood
9. The Hound of Heaven
10. On Choir Stalls
11. Dark Hosanna
12. Born from Sin
13. There is no God

Line-up
Meister Cagliostro – Vocals
Katte – Guitar
Rob – Guitar
Chris – Bass
JP – Drums

ATTIC – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=UpJtujr691

Venom Inc. – Avé

Un buon album di nero metallo, Avè si può sicuramente descrivere così, lasciando che il nome della band non influisca troppo nell’ascolto e sul giudizio e cercando di lasciare il doveroso spazio alla musica.

L’incedere potente e cadenzato dell’opener Ave Satanas ci introduce al primo album di quella che è di fatto l’altra faccia dei Venom, quelli lontano da Cronos e che vedono all’opera la line up degli album a cavallo tra il decennio ottantiano e gli anni novanta (Prime Evil, Temple Of Ice e Waste Lands), quindi con Mantas alla sei corde, Abaddon alle pelli e Tony Dolan al basso e voce.

La nuova creatura chiamata Venom Inc. è nata due anni fa, debutta per Nuclear Blast con Avè, un buon album di heavy metal che alterna un approccio classico a qualche fugace velleità estrema, dosate sfumature industriali unite a quel black’n’roll che riportano al glorioso passato senza però cadere troppo nel nostalgico.
Il problema di questo lavoro è che probabilmente verrà giudicato con ben impresso il passato dei protagonisti ed il suo alter ego ancora attivo, mentre va detto che Avè vive di una sua spiccata personalità, più moderno di quello che ci si aspetta, prodotto egregiamente e con una serie di frecce scagliate che fanno davvero male.
Detto dell’opener, otto minuti di mid tempo maligno ed oscuro, la partenza a razzo della seguente Forged In Hell, che il lavoro alla consolle valorizza non poco, ci consegna una band che dall’alto dell’esperienza di Mantas e soci sa come maneggiare la materia metallica.
Chiaramente meno devoto alle veloci cavalcate dal flavour motorheadiano (a parte l’inno conclusivo Black N Roll che diventerà sicuramente il momento clou dei live) Avè ci propone un’ora di heavy metal moderno, come dovrebbe essere dopo l’avvento del nuovo millennio e le trasformazioni camaleontiche che il genere ha avuto nel corso degli anni, attraversato da venti estremi, dal thrash al death, fino all’industrial per poi essere riportato tra le braccia dei suoni classici.
Il mood oscuro ed evil che ovviamente aleggia sui brani di Avè non fa che conferirgli quei rimandi al passato che ne fanno un lavoro sicuramente apprezzato dai vecchi fans, ma che risulta ben piantato nel presente come dimostrano le devastanti Metal We Bleed e I Kneel To No God.
Un buon album di nero metallo, Avè si può sicuramente descrivere così, lasciando che il nome della band non influisca troppo nell’ascolto e sul giudizio e cercando di lasciare il doveroso spazio alla musica.

Tracklist
1. Ave Satanas
2. Forged In Hell
3. Metal We Bleed
4. Dein Fleisch
5. Blood Stained
6. Time To Die
7. The Evil Dead
8. Preacher Man
9. War
10. I Kneel To No God
11. Black N Roll

Line-up
Jeff “Mantas” Dunn – guitars
Tony “Demolition Man” Dolan – bass, vocals
Anthony “Abaddon” Bray – drums

VENOM INC. – Facebook

Blind Guardian – Live Beyond The Spheres

Un rito lungo ben tre dischetti ottici per glorificare il credo musicale e concettuale di un gruppo unico nel suo genere, ultimamente spesso dimenticato dagli addetti ai lavori quando si parla di metal classico, ma stabile ai primi posti nelle preferenze degli ascoltatori

Una volta gli album live erano soliti uscire per fermare su nastro il momento d’oro di un gruppo o un’artista: Made In Japan, Alive, The Song Remains The Same raccoglievano l’esperienze dal vivo delle band e dei loro fans, in un’epoca dove il tubo era quello del lavandino e non la più famosa diavoleria del web.

Nel corso degli anni tanto è cambiato e il gruppo che licenzia un album dal vivo non fa più notizia, a meno che non sia una band popolare o amata come i Blind Guardian.
I quattro bardi di Krefeld tornano con il terzo live nella loro ormai lunga carriera costruita su nove album che, in un modo o nell’altro, hanno fatto la storia del power metal tedesco e non solo, dal lontano Battalions Of Fear, datato 1988, passando per capolavori epocali come Imaginations From The Other Side e l’immenso Nightfall in Middle -Earth (probabilmente il picco più alto della discografia del guardiano cieco, e la migliore opera sull’immaginario tolkeniano in senso assoluto), per arrivare alle ultime produzioni, meno dirette e più pompose e progressive.
Beyond The Red Mirror ha dato il via due anni fa ad un lungo tour di supporto culminato in questo mastodontico triplo cd che raccoglie tutto il meglio della produzione di Hansi Kürsch e compagni, tra folletti, maghi, terre di mezzo, orchi, hobbit e tanto heavy power metal, splendidamente epico, melodico e suggestivo.
Se vi chiedete il perché del tanto amore con cui i fans si dedicano alla musica e al mondo dei Blind Guardian, Live Beyond The Spheres è la più esaudiente delle risposte.
Un rito lungo ben tre dischetti ottici per glorificare il credo musicale e concettuale di un gruppo unico nel suo genere, ultimamente spesso dimenticato dagli addetti ai lavori quando si parla di metal classico, ma stabile ai primi posti nelle preferenze degli ascoltatori, premiati da un’opera monumentale che attraversa trent’anni di metal teutonico in una delle sue migliori interpretazioni.
The Ninth Wave, tratta da Beyond The Red Mirror, apre le danze intorno al fuoco nella contea, seguita dai brani che hanno segnato la carriera del gruppo, dalla spettacolare Nightfall (Nightfall in Middle-Earth) a Imaginations From The Other Side, And The Story Ends e A Past And A Future Secret.
Il coro di The Bard’s Song apre squarci nei cuori degli amanti del guardiano cieco, così come Majesty (Battalions Of Fear), Valhalla (Follow The Blind) e Mirror Mirror, mentre le voci si fanno sempre più roche, le spade alzate al cielo luccicano di una luce intensa e la band ci saluta dal palco, perfettamente a suo agio dopo così tanti anni davanti ai suoi prodi e fedeli fans.
Un lavoro davvero bello che, per una volta lascia ad altri inutili giudizi tecnici, per farci concentrare sulle emozioni suscitate da una buona fetta di storia del power metal tedesco.

Tracklist
CD1
01. The Ninth Wave
02. Banish From Sanctuary
03. Nightfall
04. Prophecies
05. Tanelorn
06. The Last Candle
07. And Then There Was Silence
CD2
01. The Lord Of The Rings
02. Fly
03. Bright Eyes
04. Lost In The Twilight Hall
05. Imaginations From The Other Side
06. Into The Storm
07. Twilight Of The Gods
08. A Past And Future Secret
09. And The Story Ends
CD3
01. Sacred Worlds
02. The Bard’s Song (In The Forest)
03. Valhalla
04. Wheel Of Time
05. Majesty
06. Mirror Mirror

Line-up
Hansi Kürsch – Vocals
André Olbrich – Guitars
Marcus Siepen – Guitars
Frederik Ehmke – Drums

BLIND GUARDIAN – Facebook

Craving Angel – Redemption

Tutti gli ingredienti di base dell’heavy metal, usati in abbondanza dal gruppo, fanno dell’album un perfetto lavoro targato 1984 o giù di li: non un male a priori, visto che molti dei brani di Redemption sono perfetti esempi della più pura interpretazione del genere.

Ancora un’altra uscita marchiata dalla pavese Minotauro Records all’insegna dell’heavy metal old school.

Questa volta l’etichetta italiana vola negli States, precisamente a White Bear Lake (Minnesota) per catturare questi angeli dell’heavy metal classico e fermatisi negli anni ottanta.
I Craving Angel segnano come data di nascita nel documento d’identità metallico il 1984 ma, di fatto, l’unica uscita in trent’anni si fermava al demo omonimo uscito nel 1987.
Finalmente nel 2014 Dark Horse interrompeva il silenzio discografico con una raccolta di materiale scritto dal gruppo in tutti questi anni, mentre l’odierno Redemption si compone di brani più recenti, anche se attitudine, produzione, suoni e copertina rimangono confinati nel decennio ottantiano.
Tutti gli ingredienti di base dell’heavy metal, usati in abbondanza dal gruppo, fanno dell’album un perfetto lavoro targato 1984 o giù di li: non un male a priori, visto che molti dei brani di Redemption sono perfetti esempi della più pura interpretazione del genere.
Il leader ed unico membro superstite della formazione originale (il cantante Buddy Hughes) si accompagna per questa avventura con il chitarrista e batterista Jimmy Cassidy ed il bassista Erick Wright, mentre Dirty Girls apre le ostilità, tra heavy metal e street: così, passeggiando per il Sunset Boulevard, si incontrano le stesse, ormai rugose facce e Freak Show con il suo potente mid tempo si colloca tra gli Wasp ed i L.A Guns.
I Craving Angel non si fanno certo intimorire dall’età o dal tempo ormai passato e nel 2017 ci fanno ballare al ritmo irriverente e rock’n’roll di Bad Voodoo (Motley Crue DOC), mentre Dream Chaser solca territori più metallici e duri.
Hughes si dimostra cantate di razza , dando la giusta interpretazione alle vari atmosfere dei brani che continuano a saltellare tra l’heavy e lo street, mentre l’atmosfera da musicassetta consumata nella vecchia autoradio di papà è li a ribadire l’attitudine old school della proposta dei Craving Angel.
In conclusione, un lavoro ad uso e consumo dei nostalgici e con molti dei pochi capelli rimasti ormai imbiancati, ma valido, almeno per quanto riguarda il songwriting.

TRACKLIST
01. Dirty Girls
02. Crash and Burn
03. Chicaboom
04. Hells Waiting
05. Roses Are Red
06. Outta My Way
07. Freak Show
08. Bad Voodoo
09. Everything I do
10. Gonna Party
11. Dirty Little Secret
12. Dream Chaser
13. She’s No Lady
14. Gonna Getcha
15. New Day
16. Primadonna
17. Roses are Red (acoustic version)

LINE-UP
Buddy Hughes – Vocals
Jimmy Cassidy – Guitar, Drums
Erick Wright – Bass

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Zaiph – New Era

Ci troviamo in presenza di una maniera di interpretare la materia robusta e nel contempo melodica, senza sconfinare in soluzioni banali ed impreziosita da ottimi suoni.

Gli argentini Zaiph sono una band attiva più o meno dall’inizio del decennio e offrono, con New Era, la loro terza prova su lunga distanza.

Il gruppo, guidato dal cantate, tastierista e compositore Nico Moroni, dimostra sicuramente l’intenzione di non appiattirsi su una riproposizione scontata di sonorità del passato, proponendo un heavy/prog metal che, invece di prendere come riferimento naturale i nomi più in vista del settore, riporta alla mente semmai band notevoli ma che non sono certo passate alla storia, una tra queste gli Angel Dust ma infiorettati da una maggiore propensione progressiva:
Questo fa capire che ci troviamo in presenza di una maniera di interpretare la materia robusta e nel contempo melodica, senza sconfinare in soluzioni banali ed impreziosita da ottimi suoni, questo favorito anche dal fatto che Moroni, per mixaggio e masterizzazione dell’album, si è avvalso dell’aiuto di un nome pesante come quello di Dan Swanö.
New Era si snoda lungo lungo 13 tracce inquiete che, di volta in volta, vanno anche a scomodare fonti di ispirazione più importanti come Nevermore e, a tratti, anche i Savatage più progressivi, dando vita ad un opera a suo modo personale proprio perché questi riferimenti (anche se quelli citati non appaiono invece tra le fonti di ispirazione dichiarate) si rivelano sotto forma di accenni che tendono a rappresentare, con buona omogeneità, tutte le diverse anime.
L’album risulta così piacevole e senz’altro degno di nota, anche se forse, a mio avviso, manca quel paio di di brani trainanti che spinga, poi, ad apprezzare la tracklist nel suo insieme: solo un piccola screpolatura, comunque, visto che tracce come Wild Beauty, Song of the Mountain, The Devil’s Swing e la più composita Seconds (Part ll) spiccano sia pure di poco per la loro qualità e la presenza di spunti davvero notevoli.
L’interpretazione vocale di Moroni è apprezzabile, soprattutto perché, non essendo in possesso di un registro dalla particolare estensione, evita inutili forzature risultando ugualmente espressivo e in definitiva gradevole.
Indubbiamente, a differenza di questo avviene in Brasile, le difficoltà per emergere in campo metal nel resto del Sudamerica non sono poche, alla luce di scene vitali, fresche ma di dimensioni ancora troppo ridotte per poter consentire uno sbocco più facile in Europa e nel nord del continente americano.
E’ un peccato, quindi, che una band del valore degli Zaiph debba fare un po’ tutto da sola per cercare di divulgare la propria buona musica; è probabile che, con l’approdo in Francia di Moroni, stabilitosi a Tolosa, le cose possano migliorare in tal senso e personalmente me lo auguro, visto che la musica contenuta in New Era è di un livello più che sufficiente per rendersi appetibile per i fans di alcune delle band citate, oltre per chi apprezza l’heavy/prog metal nel suo complesso.

Tracklist:
1.Tomorrow’s Promises
2.Mental Equinoxis
3.Wild Beauty
4.Blow!!!
5.Don’t Live a lie
6.Gates
7.Song of the Mountain
8.In The End
9.The Devil’s Swing
10.The Butterflies Carrousel
11.Seconds ( Part ll )
12.Conscious Minds
13.13 Lunas

Line up:
Nico Moroni: Lead and Backing Vocals, Keyboards, Piano and Synths
Luca Frizza: Lead and Rhytim Guitar; Percussion
Pablo Cesar Moreno: Lead and Acoustic Guitars
Nanci Bochatay: Bass and Vocals
Luis Morero: Drums

Additional Musicians:
Alejandro Goncebat : Percussion “Gates”; “Song of the Mountain”; “The Butterflies Carrousel”
Marcelo Camusso: Percussion “Gates” ; Flute and Tibetan Bowls “Song of the Mountain”
Leo Verra: Piano and Synths “In The End”; “Seconds (Pt ll)”

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Hell Done – The Dark Fairytale

Gli Hell Done si sono ritrovati ed hanno finito il lavoro iniziato tanti anni fa, raccontando con The Dark Fairytale una tragica storia d’amore supportata dalle note epiche, dure, a tratti violente, dell’heavy metal dai rimandi speed/thrash.

Gli Hell Done portano a termine quello che era stato iniziato anni fa, ed è così che The Dark Fairytale può finalmente vedere la luce e la storia del paladino Riccardo essere raccontata.

Un percorso iniziato nel 1998 ed interrotto più volte, quello della band bolognese, con i soliti problemi che affliggono molti gruppi underground, falcidiati da continui cambi di line up ed altrettante ripartenze che non impedirono agli Hell Done di registrare un ep intitolato The Dark Fairytale nel 2003 per poi sciogliersi nuovamente.
Lo scorso anno i musicisti si sono ritrovati per mettere le mani sul materiale targato Hell Done, con alle spalle esperienze passate e presenti in band come Old Flame, Tarchon Fist, e ora con Sange Main Machine e Badmotorfinger, per il singer Luigi Sangermano, Eva Can’t per il batterista Diego Molina, così come per il chitarrista Simone Lanzoni, a sua volta anche vocalist negli In Tormentata Quiete, mentre il presente per il bassista Andrea Sangermano si chiama Raw Pink e Iggy and His Booze.
Una sorta di super gruppo a tutti gli effetti, quindi, che oggi con The Dark Fairytale può raccontare una tragica storia d’amore supportata dalle note epiche, dure, a tratti violente dell’heavy metal dai rimandi speed/thrash.
Il concept narra di Riccardo, generale dell’esercito dei Franchi in guerra contro i Saraceni, un grande guerriero visto però con sospetto dai suoi compagni per essere figlio di una donna francese ed un saraceno, e della sua storia d’amore con Heleonore dal tragico epilogo; gli Hell Done raccontano la storia del paladino con la forza drammatica del metal, valorizzato da suggestive parti acustiche e sfuriate heavy/speed che, in alcuni casi, si avvicinano al thrash mantenendo in generale una struttura ben radicata nell’heavy metal classico.
L’album è colmo di duro metallo epico, di scuola tedesca tra power e thrash, ma sono le melodie che fanno la parte del leone, drammatiche, tragiche, a tratti oscure come se si trattasse di una poderosa jam tra Grave Digger e Kreator benedetti dal talento melodico degli Iced Earth, unica concessione al metal d’oltreoceano.
The Dark Fairytale cresce con il passare dei minuti mentre brani potenti ed epici come Realms In War Covering My Way ci accompagnano verso l’emozionante finale con The Seed Of Evil e la title track, brani top di questo ottimo lavoro, un saliscendi di emozioni in un crescendo drammaticamente metallico.
Bene hanno fatto i musicisti nostrani a portare a termine la storia dando lustro a questa raccolta di brani: il risultato è un album di heavy metal classico con tutte le caratteristiche per far innamorare i tanti defenders con una Heleonore nel cuore.

Tracklist
1 – 732 A.D.
2 – Realms in War
3 – And Though the silence
4 – Covering my way
5 – Just began
6 – Heleonore
7 – Betrayer
8 – The Seed of Evil
9 – The Dark Fairytale

Line-up
Luigi “Sange” Sangermano – vocals
Simone Lanzoni – guitars
Andrea Sangermano – bass
Diego Molina – drums

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Quintessenz – To the Gallows

Il sound offerto in quest’album è piuttosto diretto, senza particolari fronzoli e se vogliamo, molto più attinente a livello tedesco allo spirito thrash che non a quello black, che invece di solito tende ad essere da quelle parti molto più introspettivo.

I Quintessenz sono l’ennesima one man band, questa volta proveniente dalla Germania e dedita ad un thrash/black piuttosto diretto e di discreta fattura.

Il musicista che sta dietro al progetto, Genözider, alle prese anche in altre band come Vulture e Luzifer, arriva con To the Gallows al suo secondo full length, dopo il precedente Back to the Kult of the Tyrants che aveva ottenuto buoni riscontri.
Il sound offerto in quest’album è piuttosto diretto, senza particolari fronzoli e se vogliamo, molto più attinente a livello tedesco allo spirito thrash che non a quello black, che invece di solito tende ad essere da quelle parti molto più introspettivo.
Tutto ciò da vita ad una forma musicale scorrevole, spesso dalle propensioni heavy che conferiscono ad alcuni brani un andamento piuttosto trascinante (su tutte Sounding the Funeral Bell, dall’accattivante linea chitarristica, e Endless Night, 100% in quota primi Savatage) ma che, nel suo complesso, non possiede la necessaria profondità.
Per chi ricerca un qualcosa di stuzzicante e con un pizzico di spirito innovativo sarà bene passare oltre ma se, invece, si vuole ascoltare musica che faccia scapocciare senza troppi patemi d’animo, To the Gallows è un disco ideale in quanto rifugge, grazie alle sue venature black e power, la tetragona linearità di certo thrash, lasciando un buon retrogusto, pur se di limitata durata.

Tracklist:
1. Zeitgeist
2. Of Majestic Shores
3. The Claws of Nosferatu
4. Her Spell
5. Sounding the Funeral Bell
6. To the Gallows
7. Endless Night
8. Seth
9. Gloomweaver
10. Cursed by Moonlight

Line-up:
Genözider

Guests:
M. Outlaw – vocals on “Zeitgeist”
Bonesaw – Vocals on “Sounding the Funeral Bell”
Tyrannizer – Vocals on “Seth”

QUINTESSENZ Facebook

Accept – The Rise Of Chaos

Gli Accept di oggi sono un gruppo di cui potersi fidare ciecamente, uno dei pochi dalla carriera ultra trentennale del quale vale la pena ascoltare ancora un album di inediti.

Se esiste una band che, senza essere mai arrivata al successo stellare di Iron Maiden o Metallica, incarna perfettamente la storia e lo sviluppo delle sonorità heavy, questa si chiama Accept, il gruppo che con gli Scorpions ha regnato per anni sulla scena hard & heavy tedesca ed oggi sempre capace di raggiungere ottimi livelli senza lasciare quel fastidioso odore di stantio che aleggia tra le note degli album di molti dei loro amici/rivali sopravvissuti alla storia del metal mondiale.

Tanti cambi di line up che, invece di minarne la stabilità, hanno rinfrescato il songwriting del gruppo, ed una discografia che parte addirittura dagli anni settanta con pochissime cadute di tono ed un bel numero di album divenuti dei classici.
Udo ormai fa parte del passato, così come gli altri musicisti che hanno contribuito a fare del suono Accept un marchio riconoscibile e personale: il presente si chiama Mark Tornillo, dietro al microfono da ormai quattro lavori ed affiancato da Wolf Hoffmann e Uwe Lulis alle chitarre, Peter Baltes al basso e Christopher Williams alla batteria.
Se la band dal vivo fa fuoco e fiamme, in studio estrae dal cilindro un album perfetto di heavy metal classico alla Accept, che tradotto vuol dire anthem a ripetizione fatti di chorus esaltanti (l’opener Die By The Sword risulta in questo caso un inizio straripante), riff granitici e solos in un crescendo sonoro diretto e senza orpelli di sorta, roba da duri insomma.
E dura è la musica di The Rise Of Chaos, una serie di pugni al volto, una tempesta di destro/sinistro che vi smorzeranno il fiato, mentre Tornillo il suo lo sa fare alla perfezione, come un vero animale metallico, incisivo, cartavetrato e dal carisma dei grandi.
The Rise Of Chaos, il riff di Koolaid dai rimandi neanche troppo velati ai fratelli Young, Carry The Weight e What’s Done Is Done regalano ottime atmosfere metalliche, confermate in blocco da una tracklist di tutto rispetto.
Gli Accept di oggi sono un gruppo di cui potersi fidare ciecamente, uno dei pochi dalla carriera ultra trentennale del quale vale la pena ascoltare ancora un album di inediti.

Tracklist
1. Die By The Sword
2. Hole In The Head
3. The Rise Of Chaos
4. Koolaid
5. No Regrets
6. Analog Man
7. What’s Done Is Done
8. Worlds Colliding
9. Carry The Weight
10. Race To Extinction

Line-up
Mark Tornillo – Vocals
Wolf Hoffmann – Guitars
Uwe Lulis – Guitars
Peter Baltes – Bass
Christopher Williams – Drums

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ACCEPT – Facebook

Pagan Altar – The Room Of Shadows

Dopo molti anni, durante i quali si era quasi persa la speranza, ecco tornare quando meno te li aspetti i Pagan Altar, semplicemente un pezzo di storia della NWOBHM.

Fondati nell’ormai lontano 1978, i Pagan Altar, insieme ai Witchfinder General, sono stati uno dei principali gruppi doom all’interno della nuova ondata del metal inglese, negli anni in cjui Britannia dominava i giradischi e gli stadi d’Europa. E tutto ciò avendo inciso solo un demo in quegli anni, ristampato dalla Oracle Records nel 1998 con il titolo Volume 1. Riformatisi nel 2004 grazie alle risposte positive ricevute da pubblico e critica per il disco Lords Of Hypocrisy, gli inglesi hanno continuato con la loro carriera con una buona qualità media, fino ad avere un lungo hiatus tra il 2006 fino all’attuale disco. The Room Of Shadows è un buon album, composto e suonato con eleganza, ricco di ricami barocchi, con forti richiami doom, ma anche una notevole epicità. I Pagan Altar raccontano storie come facevano i menestrelli, musicandole nella maniera giusta per farle arrivare ancora meglio al pubblico. Nel disco si sente molto la loro duplice natura che fa capo sia all’heavy metal classico inglese che al doom, e tutto ciò lo rende piacevolmente fuori dal tempo, perché suona in maniera molto diversa rispetto alle cose che siamo abituati a sentire. Le canzoni scorrono benissimo e si fa davvero fatica a pensare che il lavoro è stato composto tredici anni or sono e che, poi, per mille motivi, non sono riusciti a pubblicarlo se non oggi. E due anni fa è morto vinto dal cancro il cantante Terry Jones, del quale possiamo apprezzare l’ultima performance in questo disco, che acquista inevitabilmente maggiore valore. I Pagan Altar sono un grande gruppo e questo album, molto piacevole e classico in tutti i sensi, conferma la loro bravura. Un ottimo ritorno.

Tracklist
01 Rising Of The Dead
02 The Portrait of Dorian Gray
03 Danse Macabre
04 Dance of the Vampires
05 The Room of Shadows
06 The Ripper
07 After Forever

Line-up
Terry Jones
Alan Jones
Diccon Harper
Andrew Green

PAGAN ALTAR – Facebook

Svartstorm – Illusion Of Choice

È la sua spontaneità a rendere Illusion Of Choice meritevole di attenzione, benché il genere offerto sia stato già sviscerato ampiamente da molti in passato: bravi gli Svartstorm, quindi, nel perseguire con convinzione e gradualità un risultato positivo tutt’altro scontato.

Sempre dalla prolifica Russia arriva questo full length d’esordio degli Svartsorm, band di Saratov attiva dall’inizio del decennio, dedita ad un gothic/power metal molto dinamico e ben equilibrato nel suo snodarsi tra sfumature epiche e malinconiche.

L’utilizzo della lingua madre può creare qualche intoppo ma proprio una certa immediatezza del sound rende la cosa un po’ meno problematica, questo anche grazie ad un’interpretazione davvero versatile del bravo Alexandr Tolgayev, a suo agio con qualsiasi gamma vocale, anche se per lo più predilige vocalizzi ruvidi tipici del power thrash.
Illusion Of Choice, tra brani di nuovo conio e qualcuno ripescato dalle uscite più recenti (Damned e Dead Town), scorre via molto fluido, tra accelerazioni e brillanti spunti melodici, un buon lavoro tastieristico che, senza perdersi in virtuosismi, punteggia adeguatamente il sound, come avviene emblematicamente nella notevole Irrelevant People, infiorettata anche da una voce femminile.
Probabilmente anche la lontananza geografica dalla scena moscovita rende il sound degli Svartsorm un po’ meno omologato a certi schemi e l’impressione è che l’album, per quanto curato, possieda una sua carica di selvaggia spontaneità che fa passare in second’ordine anche qualche momento meno scintillante di altri.
È appunto la sua spontaneità a rendere Illusion Of Choice meritevole di attenzione, benché il genere offerto sia stato già sviscerato ampiamente da molti in passato: bravi gli Svartstorm, quindi, nel perseguire con convinzione e gradualità un risultato positivo tutt’altro scontato.

Tracklist:
1.Мы Просили У Вечности Рай (We Begged The Eternity For Paradise)
2.Чёрный Цвет Лжи (Black Color Of Lies)
3.Мёртвый Город (Dead Town)
4.Проклятые (Damned)
5.Ненужные Люди (Irrelevant People)
6.Ветер Февраля (February Wind)
7.Стены Этих Домов (These Houses’ Walls)
8.Ошибки Творца (Errors Of The Creator)
9.В Вечном Забвении (In Eternal Oblivion)

Line-up:
Alexandr Tolgayev – vocals
Vladimir Bratkov – guitars
Peter Fateyev – drums
Dmitriy Udalov – bass (1, 3)
Elena Sukhodoeva – keyboards

with the participation of:
Roman Nosov – bass (2, 4-9)
Ksenia Lamash – female vocals (5)
Vitaliy Belobritzkiy (Psilocybe Larvae) – lead guitars (7)

SVARSTSTORM – Facebook

Argus – From Fields Of Fire

Sono evidenti gli ottimi intarsi sonori, figli del migliore heavy metal che ogni amante del genere ha bene presente, perché in questo genere non è tanto o solo importante la velocità, ma la classe e l’eleganza, e di queste ultime due gli Argus ne hanno in abbondanza.

Epico e sontuoso ritorno degli americani Argus, uno dei migliori gruppi attuali in campo heavy e epic tradizionale.

Questo disco è la conferma della loro grande classe, e dell’ottimo lavoro che stanno facendo. Quarto album per questa formazione che ha molto chiaro il suo percorso musicale, e lo sta percorrendo fino in fondo con ottimi risultati. Ascoltando From Fields Of Fire si rimane affascinati dalla visione epica che riescono a far nascere nella testa dell’ascoltatore gli Argus. La loro musica è limpida e cristallina, come l’acqua di una sorgente montana, possiede degli elementi doom che si fondono molto bene con il tappeto sonoro classicamente heavy ed epic. A distanza di quattro anni dal precedente Beyond The Martyrs, il gruppo della Pennsylvania conferma e supera le aspettative, elevando ulteriormente la loro asticella della qualità. Gli Argus raccontano storie fantasy e di eventi a noi lontani persi nella nostra triste quotidianità, e serve riavvicinarci a paradigmi epici ma comuni al nostro essere umani. Ritornelli azzeccati che, insieme a riff coinvolgent,i portano ad alzarsi in piedi e a cantare a squarciagola, infatti gli Argus sono rinomati per le loro esibizioni dal vivo, che hanno portato per tutto il mondo. Sono evidenti gli ottimi intarsi sonori, figli del migliore heavy metal, che ogni amante del genere ha bene presente, perché in questo genere non è tanto o solo importante la velocità, ma la classe e l’eleganza. E di queste ultime due gli Argus ne hanno in abbondanza.
Un disco lavorato molto bene, con una produzione molto valida, e i cambi di line up hanno migliorato il tutto. From Fields Of Fire uscirà solo a settembre, quindi segnatelo sulla vostra metallica agenda.

Tracklist
Into the Fields of Fire
2. Devils of Your Time
3. As a Thousand Thieves
4. 216
5. You Are the Curse
6. Infinite Lives Infinite Doors
7. Hour of Longing
8. No Right to Grieve
9. From the Fields of Fire

Line-up
Brian ‘Butch’ Balich – Vocals
Dave Watson – Guitars
Jason Mucio – Guitars
Justin Campbell – Bass
Kevin Latchaw – Drums

ARGUS – Facebook

Rage – Seasons Of The Black

Seasons Of The Black si può certamente considerare un Rage album DOC, magari non il migliore del gruppo, ma sicuramente buono per proseguire la strada nel mondo metallico nel ruolo di protagonisti, come sempre, a dispetto degli anni che passano.

I Rage vantano una discografia immensa e per una buona metà di altissima qualità, con geniali intuizioni che hanno praticamente inventato un genere, sommate ad un approccio ed una coerenza che hanno fatto della band e del suo uomo giuda Peavy Wagner un monumento ad un certo modo di intendere il metal.

Oggi una delle band più importanti nate in Germania sotto la bandiera del power torna con un nuovo album: archiviato il periodo (splendido) in cui il funambolico Victor Smolsky elargiva prove chitarristiche dal taglio progressivamente neoclassico, dal precedente The Devils Strikes Again i Rage si avvalgono del più essenziale Marcos Rodríguez.
Con l’ausilio di Vassilios Maniatopoulos, dietro ai tamburi come nel precedente lavoro, il trio non si risparmia consegnandoci a distanza di un solo anno un buon lavoro, diretto, potente e melodico come nella tradizione dei dischi più lineari offerti in tutti questi anni.
Chiariamo subito un fatto importantissimo: il periodo orchestrale è finito da un pezzo, con i Rage a suonare power sinfonico, epico ed oscuro quando gli idolatrati sovrani del symphonic power metal di oggi erano solo dei lattanti, così come, con l’allontanamento di Smolsky, il sound ha perso quel tocco progressivo che ne aveva valorizzato l’ultimo periodo; la band è tornata così a suonare puro e diretto power metal come ai tempi di Black In Mind, da molti (compreso il sottoscritto) considerato uno dei loro lavori cardine.
Quindi Seasons Of The Black, seguendo la nuova/vecchia strada intrapresa con il precedente lavoro, risulta un pezzo di granito power metal, con i Rage a picchiare come forsennati su brani che dosano potenza metallica, melodie, accelerazioni power di livello superiore e refrain che entrano in testa dopo pochi passaggi, confermando che Peavy, pur invecchiando, non perde un grammo in talento compositivo.
Il mastodontico (in tutti i sensi) bassista e cantante continua imperterrito nella sua missione, mentre, assecondato dai nuovi compari, ci porge la mano per poi scaraventarci in mezzo alla tempesta di suoni che dalla title track ci investe senza tregua, con l’album che altrerna brani top (Blackened Karma, la devastante Walk Among The Dead) a qualche passaggio più ordinario (Septic Bite).
Con il mixaggio curato da sua maestà Dan Swanö ed una produzione perfetta per il genere senza essere troppo patinata, Seasons Of The Black si può certamente considerare un Rage album DOC, ma sicuramente buono per proseguire la strada nel mondo metallico nel ruolo di protagonisti, come sempre, a dispetto degli anni che passano.

Tracklist
1. Season Of The Black
2. Serpents In Disguise
3. Blackened Karma
4. Time Will Tell
5. Septic Bite
6. Walk Among The Dead
7. All We Know Is Not
8. Gaia 1:02 9. Justify
10. Bloodshed In Paradise
11. Farewell

Line-up
Peter Peavy Wagner – Vocals, Bass
Marcos Rodriguez – Guitars, Vocals
Vassilios Lucky Maniatopoulos – Drums, Vocals

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Infinitas – Civitas Interitus

Civitas Interitus è un lavoro piacevole, a tratti suggestivo, in altri più indicato per svuotare boccali di birra scura in qualche festa sperduta tra le vallate elvetiche: un album per divertirsi e, perché no, anche sognare.

Interessante progetto in arrivo dai monti della vicina Svizzera quello degli Infinitas, i quali danno alle stampe il loro primo full length.

La band, dalle forti connotazioni medievali, prende spunto da gruppi storici come gli Skyclad e debutta con Civitas Interitus, album dal sound che amalgama thrash, folk, reminiscenze power e qualche accenno estremom, dando vita ad un incalzante e a tratti epica storia fuori dal tempo.
Si potrebbe sintetizzare (come fa il gruppo stesso) in melodic thrash metal la musica che compone l’album, chiaramentedi matrice old school, su cui la cantante Andrea con buon impatto e interessanti soluzioni si destreggia con risultati che vanno aldilà delle aspettative.
Aggressiva e melodica, ma pur sempre d’impatto metal, la voce accompagna questi dieci brani, tra le foreste ed i castelli persi nelle Alpi in un tempo indefinito, se non per le ambientazioni epico folkloristiche che non solo accompagnano i brani più aggressivi (Alastor e Samael) ma creano atmosfere suadenti e pregne di sfumature tradizionali in tracce come la bellissima Amon, perla folk/thrash metal di questo lavoro.
Civitas Interitus è un lavoro piacevole, a tratti suggestivo, in altri più indicato per svuotare boccali di birra scura in qualche festa sperduta tra le vallate elvetiche: un album per divertirsi e, perché no, anche sognare.

Tracklist
1.The Die Is Cast
2.Alastor
3.Samael
4.Labartu
5.Aku Aku
6.Skylla
7.Rudra
8.Morrigan
9.Amon
10.A New Hope

Line-up
Andrea Böll – Vocals, Percussion
Laura Kalchofner – e-Recorder, Background Vocals
Pauli Betschart – Bass, Background Vocals
Pirmin Betschart – Drums, Vocals, Percussion, Clarinette
Selv Martone – Guitar, Virtual Instruments

INFINITAS – Facebook