Simulacro – SuperEgo

Mai come in questo caso si può affermare che la riedizione di un lavoro sia ben più che opportuna, non fosse altro che per il fatto di poter ascoltare da parte dei Simulacro brani che per certi versi si possono considerare quasi degli inediti.

Nel 2016 i Simulacro non pubblicarono solo il loro secondo full length Echi dall’Abisso, ma non troppo tempo prima vide la luce anche l’ep SuperEgo che, sia per la sua reperibilità solo in formato digitale, sia per la quasi sovrapposizione con l’altro album finì in qualche modo per essere ignorato.

La Third I Rex, etichetta che ha curato l’ultima uscita della band sarda, colma questa lacuna offendo il formato fisico di quel lavoro che ne diviene un valore aggiunto all’interno della discografia.
In poco più di venti minuti il trio isolano offre due magnifici brani come SuperEgo e Et in arcadia ego che fotografano al meglio lo stile di un gruppo capace di manipolare al meglio la materia black aggiungendovi anche sentite e mai banali liriche in italiano (utilizzate in tale occasione per la prima volta). Queste due tracce dimostrano anche la varietà stilistica dei Simulacro, in grado di muoversi nell’alveo più tradizionale del genere così come spaziare su lidi più atmosferici e melodici senza perdere le coordinate di base e, soprattutto, facendolo con spiccata personalità. La stessa cover che chiude questo breve ep la dice lunga sull’approccio del gruppo sardo, visto che Roma Divina Urbs è un magnifico brano inciso originariamente dagli Aborym quando questi erano ancora, seppure sui generis, un gruppo black prima di trasformarsi nell’obliqua entità dark industrial attuale.
Pertanto, mai come in questo caso si può affermare che la riedizione di un lavoro sia ben più che opportuna, non fosse altro che per il fatto di poter ascoltare da parte dei Simulacro brani che per certi versi si possono considerare quasi degli inediti.
Se Echi dall’Abisso era stata nel 2016 una delle uscite più interessanti in ambito estremo nazionale, SuperEgo giunge a puntellare il valore di un band che potrebbe avere in serbo ancora molte sorprese in futuro.

Tracklist:
1. SuperEgo
2. Et in arcadia ego
3. Roma Divina Urbs

Line-up:
Xul – Lead Screaming and Clean Vocals/Guitars/Synthesizers/Programming
Ombra – Bass/Backing Vocals
Anamnesi – Drums/Backing Vocals/Lyrics in “Et In Arcadia Ego”

Guests:
Stefano Porcella – Tromba
Dora Scapolatempore – Arpa in “Roma Divina Urbs”

SIMULACRO – Facebook

Hecate Enthroned – Embrace of the Godless Aeon

Chi apprezza queste sonorità non potrà fare a meno di ascoltare con moderata soddisfazione l’incedere familiare di alcuni brani ben costruiti, all’interno di un lavoro la cui carenza di personalità non viene sufficientemente compensata da una adeguata brillantezza compositiva.

Quando una band fin dai suoi esordi viene subito additata quale copia di un’altra di successo emersa precedentemente, tale nomea diviene poi molto difficile da scrollarsi di dosso.

Certo che quando si parla di un gruppo come gli Hecate Enthroned, in giro ormai da un quarto di secolo, tutto questo appare paradossale ma è in effetti innegabile che la band inglese abbia vissuto la propria carriera sotto l’ombra ingombrante dei Cradle of Filth, finendo sempre per trovarsi un passo indietro rispetto alle mosse di Dani e soci, anche nei momenti può opachi attraversati da questi ultimi.
Questo ultimo album, Embrace of the Godless Aeon, è solo il secondo negli ultimi 15 anni per gli Hecate Enthroned, e se questo poteva indurre a pensare ad un’evoluzione stilistica o ad uno scostamento rispetto ai propri modelli ci si sbaglia di grosso, perché alla fine tutto appare per assurdo più filthiano di quanto non lo sia oggi la stessa band del Suffolk.
Chiaramente, chi apprezza queste sonorità non potrà fare a meno di ascoltare con moderata soddisfazione l’incedere familiare di brani ben costruiti come Revelations in Autumn Flame e Silent Conversations with Distant Stars, o apprezzabilmente solenni come Erebus and Terror, all’interno di un lavoro la cui carenza di personalità non viene sufficientemente compensata da una adeguata brillantezza compositiva. Lo stesso ricorso ad una voice femminile come quella di Sarah Jezebel Deva, protagonista nei migliori album dei Cradle Of Filth, non è certamente un qualcosa che possa far presupporre un distacco, anche parziale, dal solco stilistico seguito in tutti questi anni.
Poi, a ben vedere, come spesso ribadiamo in tali contesti, la derivatività di una proposta non è mai un ostacolo insormontabile a patto che ciò sia associato ad un impeto ed una freschezza capaci di spazzare via gli strati di polvere che ricoprono sonorità ascoltate centinaia di volte negli ultimi vent’anni.
Per esemplificare ciò che intendo, basti confrontare questo parto degli Hecate Enthroned con quello dei coreani Dark Mirror Ov Tragedy, capaci di inserire su uno scheletro compositivo altrettanto debitore delle band guida del symphonic black tutti quegli elementi di interesse e le brillanti intuizioni melodiche che, purtroppo, si rinvengono solo in minima parte in in questo discreto e poco più Embrace of the Godless Aeon.

Tracklist:
1. Ascension
2. Revelations in Autumn Flame
3. Temples That Breathe
4. Goddess of Dark Misfits
5. Whispers of the Mountain Ossuary
6. Enthrallment
7. The Shuddering Giant
8. Silent Conversations with Distant Stars
9. Erebus and Terror

Line-up:
Nigel – Guitars
Dylan Hughes – Bass
Andy – Guitars
Pete – Keyboards
Gareth Hardy – Drums
Joe Stamps – Vocals

HECATE ENTHRONED – Facebook

Owl Company – Iris

Iris è un album che si ascolta piacevolmente, composto da tredici brani potenti ma molto attenti alle melodie, specialmente nei chorus e che, se fosse uscito qualche anno fa, avrebbe sicuramente trovato maggiore attenzione da parte di fans e addetti ai lavori.

Il Brasile metallico ha quasi sempre parlato la lingua del metal classico e di quello estremo, partendo da due punti fermi come Sepultura e Angra, le band che hanno portato alla ribalta più di altre il metal nato nella terra del samba e del calcio.

Gli Owl Company, invece propongono un alternative rock dai molti spunti metallici, ma legato a doppia mandata con il sound americano arrivato dopo l’enorme successo del rock di Seattle negli anni novanta e chiamato appunto post grunge.
Dei Creed più metallici o, se preferite, dei Nickelback meno commerciali e più rispettosi della tradizione settantiana, ipervitaminizzati da anni di alternative metal, gli Owl Company non deluderanno i fans del genere con questo loro secondo album intitolato Iris, licenziato dalla Eclipse Records dopo il debutto autoprodotto intitolato Horizon uscito lo scorso anno.
Niente di originale dunque, solo del buon rock alternativo, orfano di MTV, ma pur sempre nei cuori dei rockers della generazione a cavallo dei due millenni, ora leggermente in ombra rispetto alle desertiche sonorità stoner.
Iris è un album che si ascolta piacevolmente, composto da tredici brani potenti ma molto attenti alle melodie, specialmente nei chorus e che, se fosse uscito qualche anno fa, avrebbe sicuramente trovato maggiore attenzione da parte di fans e addetti ai lavori.
Boogie Man, Antagonist, Broken Paradigm e Shades sono i brani che spingono l’album verso un giudizio più che buono, se il rock alternativo statunitense fa parte dei vostri abituali ascolti Iris potrebbe essere una piacevole sorpresa.

Tracklist
1.One Last Time
2.Boogie Man
3.Rise
4.Antagonist
5.Shattered Dreams
6.Daw of days
7.Broken Paradigm
8.Disconnected
9.Forbidden Ground
10.The Other Side
11.Shades
12.Doors

Line-up
Enrico Minelli – Vocals
Felipe Ruiz – Guitars
Bruno Solera – Guitars
Fabio Yamamoto – Bass
Thiago Biasoli – Drums

OWL COMPANY – Facebook

Warp – Warp

Diverse ma ancora più estreme rispetto a quelle americane, le aree desertiche del loro paese hanno ispirato non poco questo trio israeliano che dimostra notevole competenza in fatto di psichedelia, stoner ed heavy doom.

Questa macchina macina riff chiamata Warp proviene da Tel Aviv e debutta con questa mezzora di stordente e psichedelico lavoro omonimo.

Diverse ma ancora più estreme rispetto a quelle americane, le aree desertiche del loro paese hanno ispirato non poco i tre musicisti israeliani che corrispondono a Itai Alzaradel (chitarra e voce), Sefi Akrish (basso e voce) e Mor Harpazi (basso e voce), un trio che dimostra notevole competenza in fatto di psichedelia, stoner ed heavy doom con questa jam di mezzora divisa in otto brani potenti, drogati ed ispirati tanto dall’heavy rock settantiano, quanto dallo stoner/doom anni novanta.
Il riff viene rimesso sul trono del rock dagli Warp, stordente come i raggi del sole che scaldano la sabbia del deserto, accompagnato da liquide parti jammate dove psych e hard rock si fondono tra le rocce arroventate tra le quali stanno in agguato serpi e scorpioni micidiali in attesa del passaggio delle loro vittime.
Licenziato in cd dalla Reality Rehab Records ed in seguito nella versione in vinile dalla Nasoni Records, Warp ci fa viaggiare tra illusioni ottiche in cui appaiono oasi di musica fuori dal tempo, tra atmosfere dilatate, solos incisivi e blues sporco di hard rock stonato a caratterizzare brani come l’opener Wretched, Gone Man, Out Of My Life e la conclusiva Enter The Void.
Sleep, Orange Goblin, Radio Moscow sono i primi nomi che sovvengono tra gli indistinti miraggi che appariranno dopo le troppe ore trascorse al sole.

Tracklist
1.Wretched
2.Into My Life
3.Gone Man
4.”Confusion Will Be My Epitaph” Will Be My Epitaph
5.Intoxication
6.Out Of My Life
7.Hey Littly Rich Boy II
8.Enter The Void

Line-up
Itai Alzaradel – Lead Guitar, Vocals
Sefi Akrish – Bass Guitar, Vocals
Mor Harpazi – Drums, Vocals

Folkstone – Diario Di Un Ultimo

Diario Di Un Ultimo è un bellissimo viaggio nei mondi costruiti dai Folkstone, i quali si confermano come uno dei più interessanti e peculiari gruppi nel panorama italiano e non solo.

Torna uno dei gruppi più interessanti del panorama underground italiano, i Folkstone, con il loro nuovo disco Diario Di Un Ultimo.

Il gruppo bergamasco, attivo dal 2004, ha fatto innamorare molti italiani e non solo del folk metal, con sonorità molto vicine al rock. I Folkstone sono forse l’anello di congiunzione tra l’underground ed il mainstream, e sono soprattutto un gruppo che regala pagine bellissime di poesia e musica in italiano. Fin dal primo disco l’ensemble folk metal ha portato avanti un discorso stilistico che ha avuto un’evoluzione incredibile, con l’importante svolta di Ossidiana del 2017, un disco che ha aperto un nuovo corso pressoché unico in Italia: con Ossidiana i Folkstone si sono avvicinati ad un forma maggiormente vicina al rock, con una spinta maggiore verso la poesia, perché i testi del gruppo sono piccoli e bellissimi componimenti, come lo sono sempre in passato ma ultimamente in maniera maggiore. L’importante per un gruppo è il progredire ed in questo i Folkstone sono bravissimi nel proseguire senza alcuna remora: Diario Di Un Ultimo è un’ulteriore e bellissimo avanzamento in un viaggio che si spera non si fermi mai. Questo disco arriva dopo alcuni cambi di formazione, e racconta il mondo visto dallo sguardo di un ultimo, un reietto agli occhi della società, uno che potrebbe essere un ribelle della montagna dei primi dischi dei Folkstone. Il gruppo mette tutto il cuore come sempre in questo lavoro pieno di vita, di canzoni e di assenza di rimpianti, del vivere questa breve vita tra valori e musica vera. Musicalmente il loro suono compie sempre nuovi passi senza mai snaturarsi, anzi forse rispetto ad Ossidiana si è sviluppato un discorso maggiormente aderente alle origini, ma al contempo c’è molto di quell’album in Diario Di Un Ultimo. I testi sono sempre introspettivi e con il cuore in direzione ostinata e contraria, aprono mondi, parlano di noi come di universi lontani e fanno vedere le cose da una prospettiva diversa e più aperta rispetto alla quotidianità. La scelta di cantare in italiano è premiante, perché si rivela qualcosa di peculiare e completamente originale: quando le parole si fondono con la musica scaturisce la magia dei Folkstone, che è davvero tanta e ti esplode nella mente e nel cuore. Come di consueto tutte le canzoni sono composte per essere vissute dal vivo, tra alcool e calore umano, sopra e sotto il palco. Chiude il lavoro I Miei Giorni, una delle canzoni più belle scritte dal gruppo, e vero e proprio manifesto di ciò che è il gruppo lombardo. Diario Di Un Ultimo è un bellissimo viaggio nei mondi costruiti dai Folkstone, i quali si confermano come uno dei più interessanti e peculiari gruppi nel panorama italiano e non solo.

Tracklist
01. Astri
02. Diario Di Un Ultimo
03. La Maggioranza
04. Elicriso ( Storia Di Un Pazzo )
05. Naufrago
06.Danza Verticale
07. La Collina
08. Una Sera
09. Spettro
10. In Assenza Di Rumore
11. Il Grammo Di Un’Ora
12. Fossile
13. Escludimi
14. I Miei Giorni

Line-up
Lorenzo Marchesi: voce
Roberta Rota: cornamuse, bombarde, voce
Maurizio Cardullo: cornamuse, flauti e bouzouki irlandesi, cittern, bombarde
Luca Bonometti: chitarre
Federico Maffei: basso
Edoardo Sala: batteria e percussioni
Marco Legnani: ghironda e strumenti a corde

FOLKSTONE – Facebook

Windswept – The Onlooker

Nessuna sperimentazione, nessun avanguardismo, solo raw Black selvaggio, potente e incompromissorio creato dal mastermind dei Drudkh, Roman Saenko, che urla la sua rabbia con forza e convinzione.

Personaggio di culto della scena Black Metal, l’ucraino Roman Saenko, insegnante di storia, è realmente instancabile e continua a proporci la sua personale visione della musica estrema; lo abbiamo conosciuto con gli Hate Forest nel 2001, interessante band che sciogliendosi diede poi vita ai Blood of Kingu, attratti dalla mitologia sumera e tibetana, autori dal 2007 al 2014 di tre opere vigorose e affascinanti, assolutamente da riscoprire.

Attratto anche da sonorità dark ambient, ha creato il progetto Dark Ages, ora dismesso, in cui su base solo strumentale ha dato “vita” ad argomenti come la peste, le eresie e i sortilegi (notevolissimo A chronicle of the plague del 2006). Per la maggior parte degli ascoltatori però il suo nome significa Drudkh, personalissimo progetto black, intriso di umori folk ed atmosfere est europee; band realmente magnifica che dal 2003 con Forgotten Legends ha realizzato una serie di dischi appassionati, dal grande impatto atmosferico e dal fascino peculiare, con testi tratti dalle opere di alcuni poeti ucraini come Taras Shevchenko ad impreziosire i brani fornendo ulteriore interesse nell’ascolto. La band è ancora attiva, con costante alto livello qualitativo, nonché tacciata anche di avere idee politiche estreme, sempre comunque negate con forza da Roman. Circondato quasi sempre dagli stessi musicisti, Thurios con lui fino dagli esordi del 2003 alle keyboards, guitars e vocals, Krechet al basso e Vlad alla batteria, Saenko arso dal sacro fuoco creativo ha dato vita nel 2017 al progetto Windswept (Spazzati dal vento) per liberare una voglia black ancora più viscerale e incompromissoria; non più temi folkorici, non più atmosfere avvolgenti e care alla natura incontaminata dell’est, ma solo black senza altre influenze; raw black senza necessità di avere tastiere nella struttura delle canzoni. La band con The great cold steppe (2017) e ora The Onlooker, intervallati nel 2018 dall’ EP Visionnaire, ci sferra tre attacchi di black metal senza compromessi, potente, viscerale; il nuovo disco presenta otto brani tutti del medesimo livello qualitativo, furiosi e pregni di tremolo picking. La capacità di Roman di costruire riff è notevole, forza e coinvolgimento non mancano e ogni brano colpisce il cuore di chi ama ascoltare Black Metal. Il sapore nostalgico e potente nelle linee chitarristiche (Stargazer), ci riporta indietro nel tempo facendoci ancora una volta apprezzare quello che vuol dire suonare sincero e freddo Black. Onore alla competenza del leader che dimostra ancora una volta la sua bravura e la sua arte.

Tracklist
1. I’m Oldness and Oblivion (Intro)
2. Stargazer
3. A Gift to Feel Nostalgia
4. Disgusting Breed of Hagglers
5. Gustav Meyrink’s Prague
6. Insomnia of the Old Men
7. Times of No Dreamers & No Poets
8. Bookworm, Loser, Pauper

Line-up
K. Bass
V. Drums
R. Guitars, Vocals

WINDSWEPT – Facebook

Kamion – Gain

I Kamion si presentano in modo assolutamente convincente sulla scena underground con un lavoro robusto e tellurico come Gain, consigliato agli amanti dei gruppi citati quale riferimento.

Una folle corsa senza freni con un mastodontico mostro a sei ruote, un muro d’acciaio e sangue che spazza via ogni ostacolo.

Gain è il debutto dei Kamion, uscito autoprodotto lo scorso anno e ora promosso dall’Atomic Stuff, label nostrana con cui il quintetto veneto ha iniziato a collaborare.
Mezzora di pesantissimo heavy/thrash rock è quello che ci propone il gruppo con Gain, lavoro composto otto brani pregni di groove, ripartenze veloci e mid tempo pesantissimi.
L’opener The Reaper apre le ostilità, come un micidiale predatore aspetta il momento giusto per colpire, tra bordate metalliche, sferzate thrash metal ed attitudine heavy rock.
Bruciante e diretta, Another God va a formare un’accoppiata vincente con l’opener, ma è tutta la tracklist di Gain che non perde un colpo, tra esplosioni di nitroglicerina metallica.
I Kamion vedono al microfono una vera tigre come Dodo, singer molto conosciuto nella scena veneta, i due chitarristi e fondatori Paul e Patch e la sezione ritmica composta dal bassista Lux e dal batterista Dan a formare un combo massiccio, ispirato dalla scena metal statunitense e da band come Black Label Society, Pantera ed Alice In Chains, influenze primarie del quintetto che marchiano brani granitici come Mr.Sucker e Going Wrong.
Un grande brano è anche la conclusiva Jungle, mix perfettamente bilanciato tra le band dell’orso Zakk Wilde e di Jerry Cantrell due dei musicisti più influenti della scena metal/rock a stelle e strisce degli ultimi trent’anni.
I Kamion si presentano in modo assolutamente convincente sulla scena underground con un lavoro robusto e tellurico come Gain, consigliato agli amanti dei gruppi citati quale riferimento.

Tracklist
01. The Reaper
02. Another God
03. Queen Of Hate
04. Home
05. Mr. Sucker
06. Going Wrong
07. Escape
08. Jungle

Line-up
Dodo – Vocals
Paul – Lead Guitar
Patch – Rhythm Guitar
Lux – Bass
Dan – Drums

KAMION – Facebook

Amataster – Frammenti

Debutto col botto per la one-man band lucana. Un lavoro pressoché perfetto, un depressive black metal ricco di pathos e atmosfera, che non può e non deve passare inosservato.

Angoscia è l’unico sentimento che provo all’ascolto del debut ep degli italiani Amataster, uscito per l’italiana Masked Dead Records. Un sensazionale tuffo nella più profonda delle depressioni sonore, un viaggio introspettivo e melanconico, attraverso i più sconcertanti dolori che la vita possa causare.

La one-man band di John Poltergeist (già frontman dei depressive blacksters Eyelids) arriva dalla Basilicata e ci propone un meraviglioso Black Metal atmosferico ricco di pathos, che coinvolge totalmente l’ascoltatore, che vuole farsi travolgere da un’incalzante marea di afflizioni, affanni e sofferenze, attraverso 4 tracce della durata di poco più di venti minuti, ben architettate, quasi a voler tracciare un percorso personalmente interpretativo e assolutamente soggettivo della vita, qui dichiaratamente avara di gioie e di luce.
Così comincia l’avventura (anzi la disavventura) musicale con un brano – L’anima è in fiamme – tipicamente Black ma ricco di funeree ed annichilenti atmosfere. L’incipit delle liriche ci prepara sin da subito a quanto di più doloroso ci si può aspettare da questo disperato percorso attraverso le desolanti disillusioni della vita: “Guardate morire le vostre madri, Guardate soffrire i vostri cari, Bevo il loro sangue, lo sputo sulle vostre mani. Ora inginocchiatevi con me, piangete. Ecco questo è il dolore…” sono versi che ci raccontano molto di quanto sia il leitmotiv dell’album, soprattutto se si considera che vengono preceduti da un intro di synth che gioca meravigliosamente con una soave, ma incredibilmente melanconica, voce femminile, che introduce il Black di Mr. Poltergeist, costruito sul più tipico dei blast, e che alterna, alle oramai immancabili chitarre zanzarose, un lamento ed un pianto disperato di donna, che in maniera devastante, avvilirebbero e sconforterebbero anche l’animo più puramente ottimista.
Perché – la successiva traccia – si domanda John, e dopo un sospiro che pare provenire dai più profondi ed oscuri meandri dell’Inferno, parte un Black tiratissimo che danza armonicamente con gli insert di synth, che contribuiscono a creare un dicotomico connubio tra rabbia (il testo ne è carico sino al midollo) e ossessiva depressione. Rabbia, come detto, e furore sonoro, si avventano contro i nostri padiglioni auricolari, lasciandoci annichiliti, di fronte ad un Depressive che non ammette pause, lento sì in parte, ma pronto a reagire con impetuose sfuriate, proprio nel momento in cui l’ascoltatore sta per assopirsi, assuefacendosi all’atmosfera funerea, che permea tutto l’album…
Ferite dal passato alimentano il mio dolore” ci racconta la successiva Dono delle ombre che, immancabilmente, ci riporta al pensiero che si tratti di una possibile accusa verso una meschina vita, che congiura contro di noi, conducendoci all’odio imprescindibile verso chi ce l’ha donata. Un alchimia di mid e up tempo, sostengono l’attenzione, quasi a voler mantenere alta la nostra concentrazione sul testo, focalizzati su una consapevolezza sempre maggiore della tragicità dell’esistenza umana, che nulla merita, se non un carico incommensurabile di rabbia: “ormai sei solo un ricordo, c’è solo rabbia, in una gabbia” ; qui, nella rima baciata tra rabbia e gabbia, si individua una delle più classiche metafore sull’essenza umana, di chi la legge e la vive, nell’eterna bipartizione tra vita e prigione.
Un arpeggio che ci introduce all’ultima canzone – A.T. the Heart – accompagnato da un breve ma azzeccatissimo assolo, presentano il brano che più si avvicina al Depressive (tanto caro a molte band francesi). I lamenti strazianti di John non lasciano dubbi, sul significato della volontà di chiudere questo debutto nel migliore dei modi. Funerei passaggi , lente ed oscure atmosfere, dipingono ed affrescano l’opera del nuovo Goya della musica, principe della melodia depressiva, a cornice di una pittura che nel ‘700, portava tale nome.

Tracklist
1. L’anima è in fiamme
2. Perché?
3. Dono delle ombre
4. A.T. the Heart

Line-up
John Poltergeist – All instruments

AMATASTER – Facebook

Sergeant Thunderhoof – Terra Solus

Un viaggio a ritroso nel tempo, un’esplorazione musicale del cosmo, che attinge al cospirazionismo alieno con sonorità calde e valvolari, analogiche e vintage.

Gli inglesi Sergeant Thunderhoof già avevano impressionato in termini altamente positivi con Ride of the Hoof (2015).

Con questa quarta fatica, come sempre autoprodotta, la band britannica non fa altro che confermare – sin dalle bellissima copertina, stile Andromeda-Saturnalia – tutte le proprie indubbie qualità. Siamo in presenza di un heavy psych che guarda esplicitamente al passato (non di uno stoner moderno, come numerose volte in questi casi accade). In particolare, nelle otto tracce di questo Terra Solus, tutte di durata compresa tra i quattro e i nove minuti complessivi, si respira aria di fine anni Sessanta-primissimi Settanta. Arcadium, Pink Floyd, Astral Navigations e Dark paiono essere gli amori musicali del gruppo inglese, che ci dona un platter di suoni pesanti e ipnotici, scuri e fantascientifici. La scrittura è sempre abbastanza complessa, le ambientazioni sonore a tratti quasi siderali (vengono in mente pure i primi tre degli UFO oppure gli ultimi Move di Roy Wood, nonché gli Hawkwind degli esordi). Anche i titoli e testi dei vari brani confermano un’attitudine molto rock e spaziale. A livello lirico e ispirativo, i Sergeant Thunderhoof mettono inoltre in mostra testi molto colti ed intelligenti, complessi e sofisticati, consacrati per lo più a temi quali il cospirazionismo, gli Illuminati, la mitologia aliena e la tradizione esoterica ed astrologico-occulta. Vale davvero la pena di ascoltarli, nonostante non siano di facilissima reperibilità dalle nostre parti (ci si può rivolgere a Black Widow di Genova). Le edizioni in vinile, oltre ad essere magnifiche, rendono giustizia a tutto l’immaginario musicale e iconografico dei Sergeant Thunderhoof, un combo realmente senza tempo, capace di riportare in vita (nell’episodio conclusivo) pure certe ritmiche raga della Notting Hill di fine ’60.

Tracklist
1- Another Plane
2- Stellar Gate Drive
3- The Tree and the Serpent
4- B Oscillation
5- Diesel Breath
6- Priestess of Misery
7- Half a Man
8- Om Shaantih

SERGEANT THUNDERHOOF – Facebook

Dream Theater – Distance Over Time

Probabilmente ci si dovrebbe avvicinare a Distance Over Time senza farsi condizionare dal nome della band, lasciando che sia la musica a parlare per i protagonisti: in tal caso le soprese non mancheranno di certo svelando finalmente un nuovo grande album marchiato Dream Theater.

Il quattordicesimo album in studio dei Dream Theater, primo per InsideOut, segna un ritorno al passato e a quelle sonorità metalliche che segnarono le opere del gruppo di John Petrucci almeno fino al bellissimo e sottovalutato Train Of Thoughts.

Questa è la considerazione più logica per valutare un lavoro bello, intenso e finalmente “metal” come Distance Over Time, lontano anni luce dagli ultimi lavori e soprattutto dal prolisso e scialbo The Astonishing.
I cinque sovrani del metal progressivo, che oggi oltre a LaBrie, Petrucci e Myung, vedono ben saldi al loro posto l’ormai veterano Jordan Rudess e Mike Mangini (che a discapito dei suoi detrattori in questo lavoro si dimostra batterista all’altezza della situazione), si sono rinchiusi negli studi Yonderbarn di Monticello per creare questa monumentale opera che, appunto, torna a quel genere che se proprio non hanno inventato (i Rush sono i veri padri del prog metal) hanno portato al successo con i capolavori licenziati nei primi anni novanta.
La verità inconfutabile è che i Dream Theater si sono scrollati di dosso molte scorie progressive superflue, hanno imbracciato gli strumenti decisi a suonare ancora heavy metal inarrivabile sotto l’aspetto tecnico e questa volta supportato da una manciata di belle e robuste tracce.
Petrucci, che appare in stato di grazia come ai bei tempi, Rudess, a tratti ispirato dallo spirito di Jon Lord, e una sezione ritmica garanzia di evoluzioni mai fine a se stesse, accompagnano un LaBrie che non sarà al massimo delle sue prestazioni risultando però convincente dal punto vista emozionale (magari aiutato da qualche filtro di troppo, ma siamo davvero ai dettagli).
Distance Over Time è un album heavy metal, elegante come solo le band con uno spirito progressivo sanno creare e, soprattutto, godibile anche per chi non è un fan accanito del gruppo.
A tratti diretto e potente, l’album regala spettacolari brani come l’opener Untethered Angel, il capolavoro Fall Into The Light, il crescendo melodico di S2N e la progressione metallica del secondo passaggio chiave del lavoro intitolato Pale Blue Dot.
Probabilmente ci si dovrebbe avvicinare a Distance Over Time senza farsi condizionare dal nome della band, lasciando che sia la musica a parlare per i protagonisti: in tal caso le sorprese non mancheranno di certo svelando finalmente un nuovo grande album marchiato Dream Theater.

Tracklist
01. Untethered Angel
02. Paralyzed
03. Fall into the Light
04. Barstool Warrior
05. Room 137
06. S2N
07. At Wit’s End
08. Out of Reach
09. Pale Blue Dot
10. Viper King

Line-up
John Petrucci – Guitars
John Myung – Bass
James LaBrie – Vocals
Jordan Rudess – Keyboards
Mike Mangini – Drums

DREAM THEATER – Facebook

Abyssic – High The Memory

Quasi un’ora e venti di musica può sembrare un’enormità, ma non lo è affatto quando viene esibita in maniera così fluida e l’audience possiede il giusto approccio al genere: ciò che meraviglia è appunto il fatto che in un lavoro di tali dimensioni non vi siano cali di tensione, specialmente nei due brani più lunghi che superano entrambi i venti minuti di durata.

Gli Abyssic sono a loro modo una novità in ambito doom, in quanto fondono in maniera mirabile l’incedere rallentato del funeral con gli spunti sinfonici del black metal norvegese.

Non è un caso, del resto, se la band vede quale fondatore Memnoch, già membro oltre che dei notevoli Susperia anche degli Old Man’s Child di Galder, dei quali ha fatto parte anche il ben noto drummer Tjodalv (Dimmu Borgir) che assieme al tastierista Andre Aaslie (Funeral), alla bassista Makhashanah (ex Sirenia) e all’altro chitarrsta Elvorn, anch’egli nei Susperia, va a completare la line-up di quello che potrebbe sembrare a prima vista una sorta di supergruppo black metal e che, invece, è autore di uno degli album più solenni e luttuosi usciti quest’anno.
Quale possibile termine paragone per l’operato degli Abyssic si potrebbe prendere l’ultima opera dei redivivi Comatose Vigil (con il suffisso A.K.) con la differenza sostanziale di un approccio molto meno soffocante, favorito da un lavoro delle tastiere che sposta il sound su un piano atmosferico piuttosto che orrorifico o funereo.
High The Memory va ad aggiungersi allo splendido esordio del 2016 A Winter’s Tale, esaltando come in quell’occasione il tocco di Aaslie e, in generale, di tutta una band composta da musicisti di spessore asserviti alla creazione di brani lunghi, avvolgenti e melodicamente ineccepibili.
Quasi un’ora e venti di musica può sembrare un’enormità, ma non lo è affatto quando viene esibita in maniera così fluida e l’audience possiede il giusto approccio al genere: ciò che meraviglia è appunto il fatto che in un lavoro di tali dimensioni non vi siano cali di tensione, specialmente nei due brani più lunghi come la title track o Where My Pain Lies, che superano entrambi i venti minuti di durata.
Gli Abyssic portano alle estreme conseguenze livello melodico il pathos che sono stati capaci di creare in passato band come gli Ea o i Monolithe; peraltro, proprio con questi ultimi, i norvegesi intraprenderanno in primavera un tour europeo che farà tappa in Italia il prossimo 18 aprile allo Slaughter di Paderno Dugnano: una serata che si preannuncia imperdibile per gli amanti di queste magnifiche sonorità.

Tracklist:
1. Adornation
2. High the Memory
3. Transition Consent
4. Where My Pain Lies
5. Dreams Become Flesh

Line-up:
Memnock – vocals, contrabass
Elvorn – guitars
Andre Aaslie – keys, orchestration
Tjodalv – drums
Makhashanah – bass, additional vocals

ABYSSIC – Facebook

 

Porn – The Darkest Of Human Desires Act II

Goth, electro, ebm, un pizzico di doom e tanto industrial sono la formula vincente di un discorso musicale che sta evolvendo disco dopo disco, in maniera coerente e prepotente.

Ritornano i Porn con il secondo disco sulla trilogia imperniata sulla misteriosa storia del cantante Mr. Strangler, dopo The Ogre Inside – Act I del 2017.

I Porn sono uno dei gruppi più interessanti e validi dell’industrial metal mondiale, scena che non sempre brilla per originalità. I francesi compongono le loro canzoni con un ampio ventaglio di scelte. Molto presente è anche l’elemento gotico, anzi in certi passaggi, specialmente in questo ultimo lavoro, sono quasi doom. Non hanno fretta i Porn, lo squartamento della nostra anima e del nostro corpo avviene pezzo per pezzo, attraverso una lenta e certosina agonia. Il loro suono è molto peculiare, parte dai capisaldi del genere, ma non diventa mai derivativo o imitativo, proponendo invece una via personale che è molto convincente. Molto forte e potente è la presenza dell’elettronica, elemento che porta ancora più in profondità il loro suono. L’eccellente produzione fa rendere al meglio queste note, che essendo così nitide fanno ancora più male. Il disco verte sul male che ci fa la società nella quale viviamo, la continua frattura fra ciò che siamo e ciò che dobbiamo essere per sopravvivere. Non è facile essere frammentati in tante piccole parti, senza mai riuscire a cogliere il nostro insieme. Le fratture provocano danni e violenza, contro noi stessi o contro altri e i Porn descrivono molto bene tutto ciò. Goth, electro, ebm, un pizzico di doom e tanto industrial sono la formula vincente di un discorso musicale che sta evolvendo disco dopo disco, in maniera coerente e prepotente. The Darkest Of Human Desires Act II è inoltre dedicato ai nostri impulsi bestiali, ed infatti possiamo sentire dentro il disco le voci e le gesta di assassini seriali come Richard Ramirez , Ed Kemper, Charles Manson, Richard Schaeffer e Jeffrey Dahmer, che hanno ispirato molta musica.

Tracklist
1. Choose Your Last Words
2. Evil 6 Evil
3. Here For Love
4. Tonight, Forever Bound
5. Remorse For What
6. My Rotten Realm
7. Eternally In Me
8. The Radiance Of All That Shines
9. Abstinent Killer
10. The Last Of A Million

Line-up
Mr Strangler – Vocals, drums programming, synth
The One – Synth, guitar
The Priest – Bass
Zinzin Stiopa -Guitar

PORN – Facebook

Altarage – The Approaching Roar

The Approaching Roar è composto da nove movimenti che formano un inno all’apparenza disarticolato, ma perfettamente logico nel suo andamento, in cui le note non sono mai fini a sé stesse: un’opera che racchiude più di altre il concetto di estremo e quindi in grado di svelare la sua animalesca bellezza solo agli amanti del genere.

La proposta dei deathsters spagnoli Altarage segue una linea compositiva che ne fa un tornado di note provenienti dall’abisso in un vorticoso salire verso la superficie.

Questa tempesta elettrica si porta dietro demoni e diavoli che attraversano corpi e si impossessano delle anime seguendo il corso di un caos primordiale scaturito da questa insana musica estrema creata dal gruppo basco.
Sono giunti al terzo lavoro gli Altarage, quindi la loro proposta non è più una sorpresa ed il muro sonoro formato da una apparente alleanza tra black, death e sludge metal continua la sua totale devastazione, senza remore e compromessi.
Il terzo album in soli quattro anni, un record di questi tempi, segno di una vocazione per il male in musica in pieno fermento e creatività, porta il quartetto a questo immane lavoro in cui non c’è spazio per melodie, facili riff o chorus, ma solo musica portata all’estremo.
Black, death e sludge si diceva, grazie ad un sound che si nutre di questi generi e viene sferzato da venti imputriditi provenienti dall’inferno, dove il growl è un latrato demoniaco e gli strumenti sono le armi per portare caos e male sulla terra.
The Approaching Roar è composto da nove movimenti che formano un inno all’apparenza disarticolato, ma perfettamente logico nel suo andamento, in cui le note non sono mai fini a sé stesse: un’opera che racchiude più di altre il concetto di estremo e quindi in grado di svelare la sua animalesca bellezza solo agli amanti del genere.

Tracklist
1. Sighting
2. Knowledge
3. Urn
4. Hieroglyphic Certainty
5. Cyclopean Clash
6. Inhabitant
7. Chaworos Sephelln
8. Werbuild
9. Engineer

ALTARAGE – Facebook

Ruxt – Back To The Origins

La voce che fa vibrare corde ormai sopite, le chitarre foriere di riff spettacolari e la sezione ritmica rocciosa e sempre sul pezzo danno lustro ad una raccolta di brani a tratti esaltanti: questo è Back To The Origins e questi sono i Ruxt, che con una punta d’orgoglio campanilistico possiamo senz’altro definire una delle massime espressioni del genere in assoluto.

Era il 2016 quando sulle pagine di MetalEyes si parlava per la prima volta dei Ruxt, hard rockers genovesi che debuttavano con il notevole Behind The Masquerade, album che proponeva un sound ispirato da Dio e Whitesnake, ma riletto in chiave moderna e groovy.

Il secondo, bellissimo Running Out of Time vedeva un gruppo in continua crescita con il proprio sound che, ben radicato nella scuola britannica, espandeva i suoi orizzonti tra Rainbow e Deep Purple con l’asso nella manica rappresentato dal singer Matt Bernardi, straordinario interprete a metà strada tra Coverdale e Dio o, più semplicemente emulo del grande Jorn Lande.
Il gruppo si presenta con un nuovo album ed una line up che vede l’avvicendamento alla batteria tra Alessio Spallarossa (Sadist) e Alessandro Fanelli (Ashen Fields , ex Path Of Sorrow), mentre le vecchie volpi del rock genovese sono tutte ancora al loro posto (il bassista Steve Vawamass, Stefano Galleano e Andrea Raffaele alle chitarre, ed ovviamente Matt Bernardi al microfono).
Back To The Origins conferma dunque il valore assoluto di questa band nel genere, andando forse oltre alle più rosee aspettative grazie ad una alchimia consolidata tra i musicisti, un tocco di sana gioventù portata dal nuovo drummer, ed una consapevolezza ancora più accentuata dell’essere una delle realtà più convincenti nel portare avanti la tradizione britannica sulla scena hard rock del nuovo millennio.
Già dal titolo si intuisce che i Ruxt questa volta hanno dato ampio spazio alle produzioni a cavallo tra gli anni settanta e ottanta con l’accoppiata d’apertura Here And Now/I Will Find Away che fanno vibrare la lingua del serpente bianco tatuato sulla mia spalla (dalla copertina di Trouble).
E’ un sussulto continuo l’ascolto del nuovo lavoro targato Ruxt: la scaletta alterna tracce dall’appeal più moderno ed in linea con quanto fatto dal Lande solista a quelle di ispirazione tradizionale che gli esperti del genere avranno già potuto ascoltare non solo sui monumentali lavori delle band storiche ma anche in quel Once Bitten… che Lande registrò con la storica coppia Moody/Marsden sotto il monicker The Snakes.
La voce che fa vibrare corde ormai sopite, le chitarre foriere di riff spettacolari e la sezione ritmica rocciosa e sempre sul pezzo danno lustro ad una raccolta di brani a tratti esaltanti, heavy rock alla massima potenza sporcato da quel tocco di blues che fece la fortuna del rettile più famoso della storia del rock: questo è Back To The Origins e questi sono i Ruxt, che con una punta d’orgoglio campanilistico possiamo senz’altro definire una delle massime espressioni del genere in assoluto.

Tracklist
1. Here And Now
2. I Will Find The Way
3. All You Got
4. River Of Love
5. Be What You Are
6. Train Of Life
7. Another Day Without Your Soul
8. Come Back To Life
9. Remember The Promise You Made
10. Tonight We Dine In Hell
11. Back To The Origins

Line-up
Matt Bernardi – Vocals
Stefano Galleano – Guitars
Andrea “Raffo” Raffaele – Guitars
Steve Vawamas – Bass
Alessandro “Attila” Fanelli – Drums

RUXT – Facebook

Aenimus – Dreamcatcher

Il lavoro denota fin da subito il defilarsi da parte del gruppo dai soliti cliché del genere, in favore di un approccio estremamente violento, progressivo e solo in parte mitigato da splendide aperture melodiche.

Il progressive metal moderno dai rimandi core e djent è un genere davvero difficile, sia da suonare che da valutare.

Un tipo di musica che porta l’ascoltatore a dividersi tra grandi delusioni, spesso derivanti dal troppo tecnicismo fine a sé stesso, a lavori di spessore in cui la tecnica abbinata ad un songwriting elevato trasforma il tutto in ottimi e trascinanti prodotti metallici.
Gli Aenimus, in uscita con questo lavoro licenziato non a caso dalla Nuclear Blast, raggiungono il traguardo del secondo full length, a distanza di sei anni dal debutto Transcend Reality, album che denotava ancora una poco delineata personalità esplosa del tutto in questo Dreamcatcher, opera composta da undici tracce ispirate ai classici dell’horror e dal sound sorprendente per chi segue le vicende artistiche del metal moderno e progressivo.
Il lavoro denota fin da subito il defilarsi da parte del gruppo dai soliti cliché del genere, in favore di un approccio estremamente violento, progressivo e solo in parte mitigato da splendide aperture melodiche.
Il resto è un susseguirsi di rincorse su e giù per lo spartito, favorite da una tecnica di livello altisonante al servizio di un sound che non lascia spazio a facili e noiose considerazioni sulla mera abilità dei protagonisti, ma che sa come arrivare al cuore ed alla testa dell’ascoltatore con brani entusiasmanti come Eternal, The Ritual, la spettacolare dimostrazione di progressive death/djent Between Iron And Silver e alla devastante The Overloock.
Da menzionare, oltre alla tecnica assolutamente sopra la media dei musicisti, la prova del vocalist Alex Green, un terribile e temibile animale al microfono ed uno dei punti di forza di questo combo che, con i Thy Art Is Murder, sono senza ombra di dubbio tra i massimi esponenti del genere.

Tracklist
1. Before the Eons
2. Eternal
3. The Ritual
4. My Becoming
5. The Dark Triad
6. Between Iron and Silver
7. The Overlook
8. Caretaker
9. Second Sight
10. Day Zero
11. Dreamcatcher

Line-up
Alex Green – Vocals
Sean Swafford – Guitar, backing vocals
Seth Stone – Bass, backing vocals
Cody Pulliam – Drums
Jordan Rush – Guitar

AENIMUS – Facebook

Dark Mirror Ov Tragedy – The Lord Ov Shadows

I Dark Mirror Ov Tragedy riescono nell’impresa di unire gli stilemi del symphonic black con una maestosità orchestrale degna dei migliori Rhapsody, con il particolare non da poco di non risultare stucchevoli: un motivo in più per avvicinarsi a quest’ottimo album senza particolari remore.

I Dark Mirror Ov Tragedy sono probabilmente la band di punta del movimento metal coreano.

In effetti il loro symphonic black, per quanto fortemente debitore di chi il genere l’ha codificato (Cradle of Filth e Dimmu Borgir), è decisamente di ottima fattura, provvisto di spunti melodici importanti e arrangiamenti orchestrali ineccepibili.
Qui si determina alla fine lo spartiacque tra chi apprezza tali soluzioni in ambito black e chi non le digerisce proprio; di sicuro chi appartiene alla prima delle due categorie troverà più di un motivo di soddisfazione da questo quarto full length della band asiatica. Il sound è decisamente monopolizzato da un lavoro tastieristico di gusto classico sul quale si abbatte lo screaming filthiano del vocalist Material Pneuma, con il tutto reso  più peculiare dal bel contributo della violino dell’ospite Arthenic, ma la differenza tra i copisti senz’anima e i musicisti di spessore, che si ispirano a chi è venuto prima rielaborandone la lezione, sta tutta in una sola parola: talento.
Questa band di Seul ne ha parecchio da vendere, soprattutto per la capacità di creare melodie avvincenti inserite all’interno di un involucro sonoro affascinante, magnificamente orchestrato dal pregevole tocco della tastierista Genie, che spesso tocca inattese vette di lirsmo alternandosi con altrettanto significativi assoli chitarristici.
Altro punto di forza di questo The Lord Ov Shadows è la varietà delle soluzioni offerte, ed è proprio grazie ai cambi di ritmo, alle repentine aperture melodiche od acustiche, talvolta anche di matrice folk, alternate alle sfuriate di natura estrema, che i Dark Mirror Ov Tragedy riescono a ritagliarsi una cifra stilistica personale quanto basta per renderne la proposta fresca e a tratti entusiasmante, nonostante non si possa definire certo innovativa.
Tre lunghi brani più due eleganti intermezzi atmosferici (uno dei quali con tanto di notevole voce lirica) formano un album di valore difficilmente eguagliabile di questi tempi in ambito symphonic black, sottogenere del quale i Dark Mirror Ov Tragedy interpretano al meglio i pregi e riducono al minimo sindacale quello che molti considerano un difetti (l’indubbia magniloquenza esibita dai coreani non può certo essere nelle corde di tutti di ascoltatori); I Am the Lord Ov Shadows, lunghissima traccia conclusiva, è una sorta di apoteosi di queste sonorità grazie alla quale la band asiatica riesce nell’impresa di unire gli stilemi del symphonic black con una maestosità orchestrale degna dei migliori Rhapsody, con il particolare non da poco di non risultare stucchevoli: un motivo in più per avvicinarsi a quest’ottimo album senza particolari remore.

Tracklist:
1. Chapter I. Creation of the Alter Self
2. Chapter II. Possession
3. Chapter III. The Annunciation in Lust
4. Chapter IV. Acquainted with the Nocturnal Devastation
5. Chapter V. I am the Lord Ov Shadows

Line-up:
Material Pneuma – Vocals
Gash – Guitars
Senyt – Guitars
Reverof – Bass
Confyverse – Drums
Genie – Keyboards

Guests:
Yama Darkblaze – Vox
Binna Kim – Soprano
Arthenic – Violin

DARK MIRROR OF TRAGEDY – Facebook

Feed Them Death – No Solution/Dissolution

Un’opera estrema violenta e senza compromessi in cui il songwriting, oltre a risultare costantemente di alto livello, non perde mai la bussola e le varie tracce scorrono via senza intoppi, lasciando sempre una sensazione di orecchiabilità, gradita sicuramente dai fans del genere.

Feed Them Flesh è la creatura di Void, bassista e cantante dei seminali Antropofagus di No Waste Of Flesh ed Alive Is Good… Dead Is Better, qui alle prese con un solo project all’insegna del più feroce death/grind,

Dopo il primo assaggio con l’ep uscito nel 2017 che portava lo stesso titolo, Void torna con una versione più lunga e completa raddoppiando il minutaggio e passando così dalle cinque tracce del precedente lavoro (tutte presenti su questo full length) ad una dozzina di mazzate estreme notevoli.
A parte il contributo di due ospiti come Argento (Spite Extreme Wing, Antropofagus) e Christian Montagna (Preda, Cast Thy Eyes), presenti su due brani, il nostro fa tutto da solo creando un sound vorticoso che prende spunto in egual misura dal death metal e dal grind.
Ne esce un’opera estrema violenta e senza compromessi in cui il songwriting, oltre a risultare costantemente di alto livello, non perde mai la bussola e le varie tracce scorrono via senza intoppi, lasciando sempre una sensazione di orecchiabilità, gradita sicuramente dai fans del genere.
Groove, velocità ed impatto brutale rimangono le armi con cui Void ci attacca al muro, con una forza sovraumana espressa da vere deflagrazioni sonore come Exposed Paradising Dissent o First Time Death.
La sete di violenza in musica degli amanti di queste sonorità viene sicuramente appagata da questo nuovo mostro musicale che, spezzate le catene, vi travolgerà con tutta la sua furia death/grind.

Tracklist
1.Cadavoracity I
2.Exposed Parading Dissent
3.Bloodshed Theatre
4.The Horrific Balance
5.Terrific Gods Caravan
6.First Time Dead
7.Prosperity / Captivity
8.Doctrine of Approximation
9.Penance In the Wrong Direction
10.Inception in Rot
11.Divide + Conquer
12.Cadavoracity II

Line-up
Void – All instruments, Vocals, Songwriting, Lyrics

FEED THEM DEATH – Facebook

Octopus – Supernatural Alliance

Oscuri, epici e fantastici: gli Octopus si candidano a essere la nuova sensazione del dark-doom. Per coloro i quali amano Coven, Lucifer e naturalmente Electric Wizard.

Un disco come questo poteva uscire solo per la Rise Above. Senza dubbio.

Solo il genio e il talento del grande Lee Dorrian potevano cogliere i significati della proposta di questi Octopus (attenzione, da non confondersi con le due band dallo stesso nome degli anni Settanta: quelli anglo-britannici di psichedelia e quelli tedeschi di hard prog sinfonico). Quello degli Octopus è doom e non solo doom: oggi al riguardo si parla non solo più di dark, ma anche – ed una volta tanto la definizione sembra essere del tutto azzeccata e calzante – di occult rock. In effetti, in queste dieci canzoni – mai troppo lunghe, in vero – si respira un alone volutamente magico, esoterico, spirituale e misticheggiante. Le scelte compiute da Supernatural Alliance non guardano peraltro solo agli scenari del metal classico ed oscuro, lento e cadenzato, funereo e tombale, ma altresì (e con notevole frutto) alla tradizione di stampo epic della fantasy eroica (pezzi come The Sword and the Stone e Dragonhead). E’ la stessa grafica dell’album, bellissima e inquietante, a metterci del resto sull’avviso in merito. Veramente un ottimo lavoro, valorizzato nella fattispecie dalla voce femminile e dai tocchi prog delle tastiere e dei sintetizzatori.

Tracklist
1- Beyond the Center
2- Supernatural Alliance
3- Slave and Master
4- Strike
5- Child of Destiny
6- The Unknown
7- The Sword and the Stone
8- Fleetwood Mac
9- Black Dynamite
10- Dragonheart

Line-up
Masha Marjieh – Vocals
J. Frezzato – Guitars
Matt O’ Brien – Bass
Adam Cox – Keyboards / Synthesizers

OCTOPUS – Facebook

From Sorrow To Serenity – Reclaim

Prendete dei Meshuggah più giovani e meno eterodossi, mischiateli ai migliori gruppi metalcore math djent e otterrete qualcosa di vicino a ciò che si può sentire in Reclaim.

La proposta sonora degli scozzesi From Sorrow To Serenity è molto composta e stratificata, poiché include molte cose diverse al suo interno.

Reclaim è il loro nuovo album e suona molto bene, e può diventare un nuovo classico per il metal moderno. Questi scozzesi riescono a partire dal metalcore unito al math per esplorare molti mondi. Come paragone prendete dei Meshuggah più giovani e meno eterodossi, mischiateli ai migliori gruppi metalcore math djent e otterrete qualcosa di vicino a ciò che si può sentire in Reclaim. La narrazione sonora di questo disco è un filo musicale che parte dalla prima nota della prima canzone e si dipana per tutto il disco, senza mai un calo di tensione, in un’opera che ci invita a guardare dentro e fuori di noi. Un disco così rimane di difficile classificazione, ma è un bene perché le opere fuori dagli schemi sono rare di questi tempi. Si capisce che questi musicisti hanno fatto ottimi e ben differenziati ascolti, perché i riferimenti ci sono e sono tanti e molto solidi, portando alla formulazione di una proposta molto originale. Ad esempio in qualche passaggio spuntano riff che possono assomigliare a qualcosa dei Raging Speedhorn (mai gruppo fu più sottovalutato), e poi nel passaggio successivo si passa a cose più metalcore e math. La cosa più importante è che la loro cifra stilistica è assolutamente originale e non c’è nulla di derivativo. L’universo sonoro che dipingono i From Sorrow To Serenity è variegato è spazia da chitarre bombate a batterie che scavano gallerie verso mondi sotterranei dominati da imponenti giri di basso, con la voce del nuovo cantante Gaz King, ex Nexilva, che si adatta molto bene a tutti i registri. Le visioni sono potenti e la produzione è davvero eccellente nel supportarle: il disco è stato registrato nel loro studio sotto il controllo della consolle da parte del loro chitarrista Steven Jones, che milita anche nei Bleed From Within. La masterizzazione è stata eseguita da Ermin Hamidovic, Architects, Periphery, Bury Tomorrow a Melbourne in Australia. Un disco potente, molto moderno, metal fino al midollo e che fa muovere i nostri neuroni in vortici molto veloci.

Tracklist
1.Denounce
2.We Are Liberty
3.Reclaim
4.Alight
5.Perpetrator
6.Solitude
7.Unity Asunder
8.Inside A Soul
9.Supremacy
10.7
11.Resurgence

Line-up
Gaz King – Vocals –
Steven Jones – Guitars –
Andrew Simpson – Bass –
Ian Baird – Drums –

FROM SORROW TO SERENITY – Facebook

Equipoise – Demiurgus

Demiurgus valica montagne musicali ed oltrepassa confini, viaggiando su territori in cui metal estremo, tecnica individuale e parti progressive costruiscono ponti di spartiti su fiumi di note in piena.

Dopo un primo ep rilasciato nel 2016, arrivano al debutto sulla lunga distanza gli Equipoise con Demiurgus, mastodontico lavoro che non lascerà certo indifferenti i fans del death metal tecnico e progressivo.

Sette musicisti provenienti da varie band del circuito estremo, uniti sotto lo stesso monicker producono grande musica: questo in sintesi è quello che troverete in Demiurgus, un’ora abbondante di scale musicali, fughe metalliche, ritmiche da capogiro e tanto death metal valorizzato da un ottimo songwriting.
Beyond Creation,Virulent Depravity, Ashen Horde, The Fractured Dimension, Abigail Williams, Hate Eternal, Perihelion, Wormhole sono solo alcuni dei gruppi che fanno parte del curriculum dei musicisti coinvolti nel progetto Equipoise, una bestia progressiva che non conosce limiti, tra furia e tecnica esecutiva sorprendente così come una forma canzone che invoglia l’ascolto di devastanti e tecniche prove di forza come Alchemic Web of Deceit o Dualis Flamel o accenni a generi lontanissimi dal metal estremo, come in molte delle opere del genere, in brani stratosferici come Waking Divinity o Cast Into Exile.
Demiurgus valica montagne musicali ed oltrepassa confini, viaggiando su territori in cui metal estremo, tecnica individuale e parti progressive costruiscono ponti di spartiti su fiumi di note in piena.
Consigliato agli amanti del genere e di band che vanno dai Cynic agli Obscura, dagli Atheist ai Beyond Creation, Demiurgus si candida già da ora come uno degli album di quest’anno appena iniziato, almeno per quanto riguarda il technical progressive metal.

Tracklist
1.Illborn Augury
2.Sovereign Sacrifices
3.Alchemic Web of Deceit
4.A Suit of My Flesh
5.Shrouded
6.Sigil Insidious
7.Reincarnated
8.Dualis Flamel
9.Eve of the Promised Day
10.Waking Divinity
11.Ecliptic
12.Squall of Souls
13.Cast into Exile
14.Ouroboric

Line-up
Stevie Boiser – Vocals/Lyrics
Phil Tougas – Guitars
Nick Padovani – Guitars/Composition
Sanjay Kumar – Guitars
Hugo Doyon-Karout – Fretless/Fretted Bass
Jimmy Pitts – Keyboards/Synths
Chason Westmoreland – Drums

EQUIPOISE – Facebook