For My Demons – Close To The Shade

Un ascolto obbligato per le anime tormentate che vagano in questo tragico inizio millennio.

For My Demons è un brano dei Katatonia tratto dal bellissimo Tonight Decision, album licenziato dal gruppo svedese nel 1999, ma è anche il modo con il quale Gabriele Palmieri ha provato ad esorcizzare i suoi demoni attraverso la musica.

Musica che ovviamente penetra nell’anima, essendo dark e melanconica, melodica e a tratti rabbiosa, ma sempre attraversata da un mood di eleganza estetica sopra la media.
Sarà la bellissima voce del leader (ex Neverdream), sarà l’atmosfera dark che mantiene una raffinatezza d’autore, sarà per quel velo di elettronica che fa da tappeto melodico a strutture ritmiche notevoli e mai banali, ma Close To The Shade risulta un esordio eccellente, un album maturo, sentito e profondo.
Non è cosa da poco riuscire a trasmettere emozioni del genere, ma i For My Demons ci riescono con questo intensa opera prima.
La title track ci da il benvenuto con il suo assolo che scava nella nostra anima, tirando fuori gli incubi a mani nude: un brano splendido che viene seguito da una meno disperata Directions.
Reborn si avvia su un tappeto orchestrale, la chitarra acustica sanguina accordi classici mentre le ritmiche tutt’altro che semplici mantengono alta la tensione, per tornare al dark metallico dell’opener, tragico ed intimista nei perfetti interventi delle sei corde (Emanuela Marino, Luca Gagnoni) e versatile a livello ritmico (Andrea Terzulli al basso e Valerio Primo alle pelli).
La Fleur Du Mal, altro ottimo brano dall’andamento lineare, lascia spazio alla conclusiva Burning Rain, che gode di un riff pesante e dalle reminiscenze riconducibili ai primi Anathema, seguito da un giro pianistico melanconicamente dark con la splendida voce di Palmieri che, quando prende il comando, fa decollare il sound mantenendo altissima la qualità della musica prodotta e portandoci ai titoli di coda che scorrono su un fiume in piena di emozioni.
Non una nota fuori posto in un lavoro in cui è normale essere spinti a confrontare tra i For My Demons con le band storiche del genere, senza però che questo vada a sminuire la personalità e la capacità di emozionare del gruppo nostrano.
Un ascolto obbligato per le anime tormentate che vagano in questo tragico inizio millennio.

TRACKLIST
01 – Close to the Shade
02 – Directions
03 – Scars
04 – Reborn
05 – When Death Hurts
06 – La fleur du mal
07 – Burning Rain

LINE-UP
Gabriele Palmieri – Vocals
Luca Gagnoni – Guitar
Emanuela Marino – Guitar
Andrea Terzulli – Bass
Valerio Primo – Drums

FOR MY DEMONS – Facebook

Sollertia – Light

I Sollertia colpiscono nel segno al primo colpo, rilasciando un album di rara bellezza ed intensità e che possiede la freschezza di un approccio progressivo unito ad un dolente incedere affine per impatto al doom più melodico.

Da un’altra di quelle etichette europee dalle uscite rade ma sempre di qualità, come è la francese Apathia Records, arriva l’esordio dei Sollertia, intitolato Light.

Il duo è composto dal francese VoA VoXyD (con un passato nei gotici Ad Inferna), che si occupa interamente della parte musicale e compositiva, e dal più noto James Fogarty, vocalist britannico conosciuto anche come Mr.Fog, attualmente titolare del ruolo nei grandi In The Woods, nonché detentore del progetto solista Ewigkeit.
Nonostante alcuni indizi derivanti dal passato dei due musicisti possano farlo pensare, in realtà il sound dei Sollertia si rivela estremo solo in pochi frangenti (The Devil Seethe), andandosi invece a collocare in un ambito che si potrebbe definire, a grandi linee, sotto la sfera di influenza dei Katatonia, e comunque andando ad abbracciare le diverse sfumature che si diramano da quel settore musicale ricco di realtà talentuose e nel quale si possono annoverare, con tutte le distinzioni del caso, anche Anathema ed Antimatter.

Infatti, in maniera affine alle band citate, Light offre una serie di brani per lo più avvolti da linee malinconiche, anche se i Sollertia ci mettono di loro una propensione progressiva ed un notevole carico di tensione che pervade il disco per l’intero sviluppo.
Le undici tracce si snodano, così, sempre in maniera convincente, grazie ad una pulizia sonora volta a solleticare con buona continuità la sfera emotiva dell’ascoltatore, alla quale contribuiscono in maniera decisiva sia l’interpretazione vocale di grande spessore da parte di Fogarty (coadiuvato in tre brani dall’ospite Vanja Obscure), sia lo splendido lavoro chitarristico di VoA VoXyD; non penso di esagerare defininendo Light uno dei migliori album usciti finora nel 2017, in virtù di un sound che, nonostante appia a tratti fruibile, gode contestualmente di una grande profondità.
Qui la luce evocata dal titolo è in realtà quella che, nella copertina, si fa largo tra le nubi e la nebbia: un qualcosa di tenue e soffuso che prelude ad un’oscurità mai del tutto assoluta, derivante da una sensibilità lirica e musicale che assume un sentire cosmico nei suo momenti più alti (le meravigliose Pascal’s Wager, Enter The Light Eternal, Praying At The Chapel Perilous, Mathematical Universe Hypothesis e Sisyphean Cycle).
I Sollertia colpiscono nel segno al primo colpo, rilasciando un album di rara bellezza ed intensità e che possiede la freschezza di un approccio progressivo unito ad un dolente incedere affine per impatto al doom più melodico: difficile chiedere di meglio ad un lavoro che, per il suo valore, si colloca come minimo all’altezza delle ultime uscite delle citate band di riferimento.

Tracklist:
1. Adducantur
2. Abstract object theory
3. Pascal’s wager
4. Enter the light eternal
5. Praying at the chapel perilous
6. The devils seethe
7. Mathematical universe hypothesis
8. Dark night of the soul
9. Sisyphean cycle
10. Positive disintegration
11. Light

Line up:
James Fogarty : Lyrics & Vocals
VoA VoXyD : Instruments & Composition

Vanja Obscure : Vocals on #3, #6 and #10

SOLLERTIA – Facebook

The Big Blue House – Do It

Si torna a parlare di blues sulle pagine di MetalEyes con il primo album dei The Big Blue House, quartetto toscano che si presenta al pubblico con un lavoro fresco ed energico, frizzante e disperato come sa essere l’amore e la musica con cui viene descritto.

Quali note se non quelle del blues si rivelano più adatte a descrivere in musica l’amore, essendo per sua natura viscerale, sanguigno e, spesso, perdente (perché nell’amore c’è quasi sempre un vincitore ed un vinto).

Si torna a parlare di blues sulle pagine di MetalEyes con il primo album dei The Big Blue House, quartetto toscano che si presenta al pubblico con un lavoro fresco ed energico, frizzante e disperato come sa essere l’amore e la musica con cui viene descritto.
I tasti d’avorio passano dai suoni classici dell’ hammond di scuola rock, a quelli jazzati del pianoforte, con Sandro Scarselli che si dimostra musicista dotato di feeling, così come Danilo Staglianò, con una chitarra che sanguina passione ed una voce che racconta di amori, illusione e ricerca della felicità.
Luca Bernetti (basso) e Andrea Berti (batteria) accompagnano semplicemente, ma con classe, la musica che i due compagni estraggono dai loro strumenti lungo otto brani piacevoli, nei quali si alternano l’energia rock della sei corde e lascive armonie tastieristiche.
Un blues che trova la sua natura malinconica nelle note della splendida Now I Can Call Your Name, il suo spirito rock’n’roll nella coppia iniziale formata dalla title track e da Blue Sky, che raggiunge la perfetta armonia ed attitudine nella clamorosa He’s A Fucking Bluesman e strappando, infine, applausi nella disperata e sentita interpretazione che la band offre nella conclusiva This Is How Feel.
Un album godibilissimo per gli amanti del rock blues di scuola classica e in cui spicca una forte personalità che costituisce, ovviamente, un fondamentale valore aggiunto.

TRACKLIST
1.Do It
2.Blue Sky
3.Now I Can Call Your Name
4.He’s A Fucking Bluesman
5.Sweet Thing Bad Thing
6.I Knew A Story About
7.Everything’s Rollin’
8.This Is How I Feel

LINE-UP
Danilo Staglianò – Guitar/Voice
Luca Bernetti – Bass
Sandro Scarselli – Keyboards/ Hammond
Andrea Berti – Drum

THE BIG BLUE HOUSE – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=CF4t94TZhRs

The Match – Just Burn

Just Burn non è un affatto brutto lavoro, ma gli manca a mio parere quell’idea di forma canzone che diventa fondamentale anche quando si opta per lo stile musicale irrequieto ed originale offerto dai The Match.

I The Match sono un duo composto da Francesco Gallo e Ivan Mercurio, rispettivamente basso/voce e batteria, attivi da quattro anni ed ora all’esordio con l’album Just Burm.

Un sound strutturato solo su strumenti ritmici non può che risultare un concentrato di cambi di tempo, sfuriate alternative che fanno capo al funky, ancor prima del rock, e questo rende senz’altro originale la proposta del gruppo.
Chiaramente il rock alternativo proposto non può che fare riferimento ai gruppi che, nel proprio DNA, hanno ben consolidati generi che con il rock hanno poco a che fare, ma è pur vero che in generale i nove brani presenti in Just Burn funzionano, almeno ad un primo ascolto, quando il fattore sorpresa fa il suo sporco lavoro.
Con il passare del tempo scema la sorpresa ed anche l’attenzione, perché le tracce tendono ad assomigliarsi un po’ troppo, coinvolgendo l’ascoltatore solo a sprazzi.
La cover di Firestarter dei Prodigy, Danger e Earthz (il brano più metal del lotto) sono i brani più coinvolgenti di un lavoro consigliato agli amanti dei Primus e dei Red Hot Chili Peppers, nascosti da un attitudine punk rock e dal lavoro del basso, tecnicamente notevole così come quello delle bacchette sulle pelli.
Just Burn non è affatto un brutto lavoro, ma gli manca a mio parere quell’idea di forma canzone che diventa fondamentale anche quando si opta per lo stile musicale irrequieto ed originale offerto dai The Match.

TRACKLIST
1. Beast
2. Firestarter
3. Aflame
4. K-22
5. Danger
6. Shinobu
7. Earthz
8. San Francisco
9. Neh

LINE-UP
Francesco “The GrooVster” Gallo – Bass, Vocals
Ivan “Pattùman” Mercurio – Drums, backing vocals

THE MATCH – Facebook

Olneya – Olneya ep

Un rituale completamente strumentale, psichedelico e stonerizzato.

Chiudete gli occhi ed immaginate la nostra costa adriatica completamente spoglia delle catene di alberghi, parchi di divertimento e cittadine affollate dal turismo estivo, quello del divertimento a tutti i costi, delle facili conquiste e delle balere che hanno fatto illudere di vivere una vita diversa ad una moltitudine di generazioni.

Una distesa sabbiosa che dalle coste venete scende fino alla Puglia, sabbia e mare, un deserto caldissimo dove l’ombra è un tesoro ed il sale ha già riempito la nostra bocca, dopo pochi chilometri in riserva di ossigeno e acqua dolce.
Un trip, un incubo che vi si ripresenterà ogni qualvolta vi metterete in ascolto di questo rituale completamente strumentale, psichedelico e stonerizzato, l’ep omonimo degli Olneya, trio nostrano composto da Maurizio Morea alla Chitarra, PJ alle pelli e Enry Cava al basso.
I piedi bruciano sopra la sabbia arsa dal sole desertico, mentre Mantra e Zerouno ci accompagnano nei primi passi di questo che sarà un viaggio relativamente corto, ma totalmente destabilizzante.
Il basso pulsa e ci dà il ritmo da tenere per non perdere terreno, mentre la sei corde ci tortura, a tratti psichedelica e settantiana, in altri momenti più vicina alle sonorità americane del caldissimo decennio che accompagnò la fine del millennio, tra l’assolato stoner rock della Sky Valley ed il piovoso grunge di Seattle.
Siamo già a Zerotre, liquida, avvolgente e pericolosa come le spire di un serpente mostruoso creato dalla nostra mente in balia del caldo opprimente e degli effetti collaterali causati dall’abuso di questo ep e altro, mentre la musica sfuma, l’incubo sparisce e la spiaggia torna ad animarsi di uomini, donne e bambini, incuranti di noi e del nostro delirio.

TRACKLIST
1.Mantra
2.Zerouno
3.Zerodue
4.Road to Aokigahara
5.Zerotre

LINE-UP
Maurizio Morea – Guitars
Pj – Drums
Enry Cava – Bass

OLNEYA – Facebook

Padre Gutiérrez – Addio Alle Carni

Addio Alle Carni è un lavoro maturo, completo, ottimamente suonato e prodotto e la speranza è che possa trovare il meritato apprezzamento anche da parti di chi non si nutre frequentemente di queste sonorità

Mattia Tarabini è un musicista emiliano che gravita all’interno della scena rock da molti anni e, dopo aver militato in diverse band, circa un decennio fa ha deciso di dar vita ad un progetto solista dai tratti cantautorali denominato, in maniera bizzarra, Padre Gutiérrez.

Anche se il tipo di musica proposto in Addio Alle Carni, titolo dell’album pubblicato quest’anno, non è propriamente uno dei più trattati dalla nostra webzine, mi ha solleticato non poco l’idea di parlare di questo lavoro, specie dopo averne sentito le prime note ed averne potuto constatare la qualità musicale e l’arguta originalità dei testi.
Intanto, non possedendo troppi parametri contemporanei, dedicandomi giornalmente al metal e per di più con propensioni estreme, sono stato costretto a riavvolgere il nastro e tornare indietro di un bel pezzo, a quando, da imberbe studente alle magistrali, sentivo impazzare nelle radio un album come Burattino Senza Fili di Edoardo Bennato: ovviamente una simile accostamento è da prendere con tutte le riserve del caso, però con il grande musicista partenopeo Mattia ha in comune diversi aspetti, come l’amore per il blues, che traspare in più di un brano, ed un’impostazione vocale spesso sardonica che ben si sposa con testi, come detto, tutt’altro che banali e ricchi di brillanti citazioni e metafore.
E, inevitabilmente, sono proprio i brani più movimentati o blueseggianti quelli capaci di colpirmi di più, come Il Buco Da Riempire, L’Ultimo Maiale Sulla Terra e Vanessa, ma in fondo la bravura del nostro “Padre” sta proprio nell’essere credibile e profondo anche quando, in Corpo Di Martire, si spinge verso lidi più canonicamente indie rock, oppure lambisce il jazz in Nudo Di Venere, per finire con l’intimismo di Della Mia Carne. Come si può intuire fin dal titolo, il tema della carne è ricorrente in tutti i brani, e viene trattato nelle sue diverse forme e significati, partendo dall’accezione propriamente sessuale a quella alimentare, per approdare ad un’eloquente La Carne è Finita, con la quale Mattia ci regala uno dei passaggi più illuminanti del lavoro, quando canta “Prendila con filosofia oppure prenditela con la filosofia se, finita la carne, anche lo spirito va via”, offrendo una sua personale e condivisibile visione su quanto (non) succede dopo che la “nostra” carne perde ogni suo soffio vitale.
Addio Alle Carni è un lavoro maturo, completo, ottimamente suonato e prodotto, e la speranza è che possa trovare il meritato apprezzamento anche da parti di chi non si nutre frequentemente di queste sonorità, perché quando la musica è suonata con simile passione e competenza, non ci sono barriere di genere che tengano.

Tracklist:
1.Il Rock
2.Il Buco da Riempire
3.L’Insaziabile
4.Corpo di Martire
5.La Donna dal Velluto Nero
6.Nudo di Venere
7.L’ultimo maiale sulla terra
8.Vanessa
9.Della mia carne
10.La Carne è Finita

Line up:
Mattia Tarabini

https://www.facebook.com/padregutierrez/

Del Norte – Teenage Mutant Ninja Failures

Teenage Mutant Ninja Failures si rivela un album fresco e graffiante, consigliato ai rockers dagli ascolti alternativi di matrice novantiana

Gli anni novanta non sono stati solo il decennio del grunge, infatti il rock americano in quel decennio ha avuto esponenti di un’ importanza epocale per lo sviluppo di un certo tipo di sonorità, uscite dai primi posti delle classifiche ma assolutamente in grado di influenzare generazioni di rockers in ogni parte del mondo.

Parliamo per esempio di Sonic Youth e Dinosaur Jr, con i primi all’assalto con il loro punk/noise e J Mascis a farci partecipi di un rock di provincia, malinconicamente alternativo, ma meno irruento; se a queste due band aggiungiamo il sound dei primi Smashing Pumpkins (Siamese Dream), siamo molto vicini al rock dei nostrani Del Norte, trio di Pesaro che, all’esordio con Teenage Mutant Ninja Failures, convince con sei brani potenti, irriverenti e aggressivi.
Badano al sodo i Del Norte, infatti l’attacco dell’opener Chun-Li è di quelli che lascia il segno, dritto per dritto il gruppo spara una serie di colpi che non si esauriscono alla prima traccia, e con Faceless arriva la prima bomba dalle reminiscenze Sonic Youth.
Leggermente più ariosa ed armonica On The Basement, mentre Billy Corgan jamma con i Sonic Youth in Pa Pa Pa! e la conclusiva Space Coyote si veste di rock ‘n’ roll energizzato da una vena punk rock.
Gianfranco Gabbani (voce, chitarra), Luca Follega (basso) e Gianluca Fucci (batteria) formano un gruppo molto interessante e Teenage Mutant Ninja Failures si rivela un album fresco e graffiante, consigliato ai rockers dagli ascolti alternativi di matrice novantiana.

TRACKLIST
1.Chun-Li
2.Faceless
3.Old Boy
4.On The Basement
5.Pa Pa Pa!
6.Space Coyote

LINE-UP
Gianfranco Gabbani – Chitarra, Voce
Luca Follega – Basso
Gianluca Fucci – Batteria

DEL NORTE – Facebook

The Night Flight Orchestra – Amber Galactic

I The Night Flight Orchestra hanno il pregio di tributare i suoni pop con una dose di hard rock, a tratti accennata, in altri più presente ma sempre in secondo piano, lasciando le luci della ribalta a suoni funky, soul, space dance in un delirio pop perfettamente riuscito.

In questi anni di recupero dei suoni classici dal rock al metal, chi segue la scena ha già ascoltato di tutto un po’, dalla new wave of british heavy metal al classic rock, fino al metal estremo, che di questi tempi fa tanto cool chiamare old school.

Mancavano le note illuminate dalle luci delle sale ballo della Grande Mela, in sabati sera con la febbre che saliva e gli anni settanta che regalavano grande musica anche nella disco e nel pop: suoni vintage, ovviamente elettrizzati da un’attitudine hard rock che crea un ibrido con i suoni Motown questo è, se volete, l’album più incredibile ed originale uscito quest’anno.
Incredibile perché dietro a questo progetto ci sono una manciata di musicisti della scena estrema , capitanati dall’eclettico vocalist dei Soilwork, Björn Strid, e dal bassista Sharlee D’Angelo degli Arch Enemy.
Dalla Svezia alla conquista dello Studio 54 , con una serie di brani pop/rock/funky da applausi, difficili da digerire per i fans della band di appartenenza, è meglio chiarirlo: qui si torna indietro di almeno quarant’anni, tra citazioni e tributi ad un mondo lontano da quello metallico, ma che ha regalato musica di spessore ed icone che fanno parte della storia delle sette note.
Un album che sarà apprezzato da chi ha qualche anno in più sul groppone e si lascerà trasportare dall’atmosfera de La Febbre del Sabato Sera o Grazie a Dio è Venerdì, pellicole che hanno immortalato il mondo delle discoteche nelle notti di un’ America che, a suo modo, bruciò una generazione lontana dalla cultura rock di quegli anni.
I The Night Flight Orchestra hanno il pregio di tributare i suoni pop con una dose di hard rock, a tratti accennata, in altri più presente ma sempre in secondo piano, lasciando le luci della ribalta a suoni funky, soul, space dance in un delirio pop perfettamente riuscito.
Accenni alle star del rock non mancano certo tra le note di Sad State Of Affair, Domino, Jennie e Something Mysterious (Survivor, Toto, Kiss), ma l’attenzione è catturata dai suoni leggeri ed irresistibili del pop danzereccio e dei suoi eccessi melodici … quando si parla di talento.

TRACKLIST
1. Midnight Flyer
2. Star Of Rio
3. Gemini
4. Sad State Of Affairs
5. Jennie
6. Domino
7. Josephine
8. Space Whisperer
9. Something Mysterious
10. Saturn In Velvet

LINE-UP
Björn Strid – vocals
David Andersson – guitars
Sharlee D’Angelo – bass
Jonas Källsbäck – drums
Sebastian Forslund – guitars, percussion
Richard Larsson – keyboards

THE NIGHT FLIGHT ORCHESTRA – Facebook

Lambstone – Hunters & Queens

Se volete ascoltare un album intenso, duro ma allo stesso tempo melodico e dall’appeal enorme, allora Hunters & Queens fa al caso vostro.

Per parlare del debutto dei milanesi Lambstone bisogna partire da lontano, da una ventina d’anni fa, quando l’esplosione del grunge si esaurì in una nuvola di fumo che, diradandosi, lasciò il music biz (specialmente negli States) orfano della Seattle da ascoltare e iniettarsi nelle vene, morta nell’aprile del 1994 insieme alla disperazione ed alla depressione di Kurt Cobain.

Nu metal e post grunge furono la cura per tornare alla grande, specialmente con il secondo, più melodico rispetto al suono grezzo e selvaggio dei primi anni novanta, ma ancora più amato dai giovani rockers, con una manciata di gruppi che divennero icone del lato melodico del moderno hard rock, tra suoni grunge, ispirazioni southern e più pericolose e lisergiche divagazioni stoner.
Staind, Nickelback, Creed e poi Alter Bridge sono forse le band più accreditate per essere considerate le eredi della scena di Seattle, guarda caso tutte e quattro prepotentemente nelle corde del quintetto lombardo e del suo primo lavoro sulla lunga distanza, intitolato Hunters & Queens, licenziato dalla Vrec Audioglobe, dopo una manciata di ep e singoli autoprodotti, e rilasciato sotto la supervisione del produttore Pietro Foresti, al lavoro in passato con membri di Guns ‘n’ Roses, Korn, Asian Dub Foundation.
La band è composta da Alex “Astro” Di Bello, singer di genere tra Scott Stapp (Creed) e Chad Kroeger (Nickelback), i due fratelli Giorgio “Dexter” Ancona e Ale “Jackson” Ancona alle chitarre, Andrea “Illo” Figari al basso e Andrea “Castello” Castellazzi alle pelli.
Se volete ascoltare un album intenso, duro ma allo stesso tempo melodico e dall’appeal enorme, allora Hunters & Queens fa al caso vostro: un bellissimo esempio di rock americano, colmo di hit, maturo e assolutamente ispirato nel saper manipolare un genere che ha detto molto di sé in passato e rivive in quei gruppi che sanno scrivere canzoni, niente di più semplice ma difficilissimo da attuare.
Ed i Lambstone ci sono riusciti, con il loro rock che non manca di grezza attitudine grunge, ma che nel suo figlio legittimo si specchia, riuscendo a comunicare emozioni e alternando irruenza e malinconia con una serie di brani che hanno nel singolo Hunting, nella Staind oriented Queen e nella splendida accoppiata Jesus e Hopeless il sunto artistico di questa notevole band italiana.

TRACKLIST
1.Sun
2.Hunting
3.Queen
4.Kingdom
5.Stronger
6.Jesus
7.Hopeless
8.Violet
9.Grace
10.Dust in the Wind

LINE-UP
Alex “Astro” Di Bello – vocals
Giorgio “Dexter” Ancona – guitars
Ale “Jackson” Ancona – guitars
Andrea “Illo” Figari – bass
Andrea “Castello” Castellazzi – drums

LAMBSTONE – Facebook

The C.Zek Band – Set You Free

Fatevi elettrizzare e a tratti cullare dal blues suonato con maestria da questo gruppo nostrano, bravo nel saper dosare grinta rock e liquida eleganza soul, contrasti che animano un lotto di brani bellissimi.

Sui vari gruppi di Facebook ai quali, ahimè, mi hanno iscritto e che riguardano la musica (dal rock al metal), le domande più frequenti che gli iscritti pongono all’attenzione degli altri riguardano il genere che un gruppo specifico suona o meno, come se la musica e le emozioni ad essa legate passassero in secondo piano rispetto alla gabbia in cui vengono imprigionate le note.

Forse sono persone che cercano un approvazione su quel gruppo o album, forse è il timore di non ascoltare qualcosa di cool, non so, fatto sta che mai come di questi tempi la nostra musica preferita è sempre più divisa e confinata in antipatici compartimenti stagni.
Fortunatamente c’è chi fa spallucce e supporta gruppi di ogni genere, passando dal metal classico all’hard rock, dal progressive al metal estremo, fino al blues, il genere padre di tutta la musica moderna.
Ed allora mi ritrovo tra le mani Set You Free, bellissimo esempio di rock blues, licenziato dalla The C.Zek Band tramite Andromeda Relix: un viaggio nel rock americano, in partenza da Verona ed in arrivo, un giorno, nelle terre paludose dove il grande fiume americano trova finalmente il suo meritato riposo.
Set You Free regala blues d’autore, contaminato da una leggera brezza soul, cantato con sanguigna eleganza e raffinata malinconia, suonato come se Christian Zecchin (alias C.Zek) ed i suoi compagni fossero impegnati in una lunga jam su uno dei battelli che galleggiano stanchi sul letto del padre Mississippi.
Il cantato sontuoso ma mai invadente della bravissima Roberta Dalla Valle, a tratti lascia spazio a quello del chitarrista, il gruppo unito riporta l’ascoltatore a respirare note che dal blues passano al funk, mentre la sei corde intona note hendrixiane, gli Stones presenziano alla cerimonia con la cover (bellissima) di Gimme Shelter e l’hammond tiene legato il sound con umori settantiani, mentre una lieve nebbia southern si alza sul fiume nella lunga ed umida notte (The Allman Brothers).
Così fatevi elettrizzare e a tratti cullare dal blues suonato con maestria da questo gruppo nostrano, bravo nel saper dosare grinta rock e liquida eleganza soul, contrasti che animano un lotto di brani bellissimi come l’opener John Corn, il capolavoro dell’album Tell Me, con l’hammond e la voce che scaldano la notte sul fiume, la title track, omaggio al miglior Slowhand, e la conclusiva Drink With Me che, con i suoi sette minuti abbondanti, ci accompagna fino all’alba.
C’è comunque tanto di The C.Zek Band su questo lavoro, quindi non solo brani influenzati dai grandi nomi, ma musica ispirata e riportata con personalità e talento su uno spartito del nuovo millennio.

TRACKLIST
1.John Corn
2.I’m So Happy
3.Tell Me
4.Kissed Love
5.Set You Free
6.Gimme Shelter
7.Boring Day
8.It Doesn’t Work Like This
9.Drink with Me

LINE-UP
Christian Zecchin Guitars & Voice
Roberta Dalla Valle – Voice
Matteo Bertaiola – Rhodes&Hammond
Nicola Rossin – Bass
Andrea Bertassello – Drums

THE C.ZEK BAND – Facebook

No Good Advice – From The Outer Space

From The Outer Space è un piacevolissimo e molto ben scritto disco di musica pesante che sicuramente farà la gioia di molti, testimoniando l’assoluta bontà della scena italiana.

I No Good Advice sono attivi a Torino dal 2012 e, dopo alcuni cambi di formazione, si sono ora assestati e hanno prodotto il loro primo disco su lunga distanza, dopo l’ep del 2015 Prehistoric Overdrive.

Se dovessi dirvi, come un venditore di qualcosa, in cosa differiscono i No Good Advice dagli altri gruppi, rimarcherei il grande equilibrio che hanno tra melodia e potenza, tra la forte armoniosità della voce e l’impero del resto del gruppo. Questo non è solo stoner o qual dir si voglia, ma è un rock and roll potente ed altro, che colpisce per ricchezza, struttura e lussuria. I No Good Advice fanno dischi concept, questo parla dello spazio ed è accompagnato da uno splendido libretto del cd di 24 pagine, praticamente un fumetto, che è parte essenziale del progetto. Il loro suono pieno riesce a soddisfare totalmente l’ascoltatore in cerca di musica, potente ma bilanciata melodicamente, con frequenti accenni al meglio della scena pesante anni settanta. Dischi come questi sono possibili poiché teenagers di tanti anni fa ribassarono le chitarre, fecero lunghe jams nelle quali il trip non era solo fiori e amore. From The Outer Space è un piacevolissimo e molto ben scritto disco di musica pesante che sicuramente farà la gioia di molti, testimoniando l’assoluta bontà della scena italiana. In certe aperture melodiche, specialmente in Stoned Jesus, oltre ai riferimenti più classici, sembra davvero di poter sentire qualcosa dei Ritmo Tribale, e per estensione maggiore di un certo rock italiano che per fortuna non muore mai, ma si ripropone in altre forme e battaglie.

TRACKLIST
1 The Great Dawn
2 Space Surfers
3 Black Monolith
4 Napalm
5 Suicide Inside
6 Stoned Jesus
7 Super Looper Groover
8 Astronaut Superstar
9 Mother of the Void
10 Tears of the Universe
11 Into Your Grave
12 Between the Earth and Space

LINE-UP
Livio Cadeddu : Guitars, Voice
Lorenzo Moffa : Guitars
Marco Nalesso : Bass
Giacomo Passarelli : Drums

NO GOOD ADVICE – Facebook

Danzig – Black Laden Crown

E’ apprezzabile da parte di Danzig la voglia di rimettersi in gioco con del materiale inedito, quando molti altri, alla sua stessa età, si limitano a vivacchiare sulle produzioni del passato, e qualche brano riuscito rende Black Laden Crown un album non del tutto superfluo, anche se purtroppo il confronto con i lavori composti nei primi anni novanta si rivela impietoso.

Glenn Danzig rappresenta un bel pezzo di storia del rock/metal contemporaneo e, in quanto tale, la gratitudine per quanto fatto con i Misfits prima e con la band che porta il suo nome in seguito, è doverosa ma non può influenzare le sensazioni derivanti dall’ascolto di questo nuovo album di inediti, pubblicato ben sette anni dopo l’ultimo Death Red Sabaoth.

Il tempo trascorre inesorabile per tutti, e se già un certo calo della voce di Danzig era emerso nei primi lavori del nuovo millennio, Black Laden Crown segna in questo senso un punto di probabile non ritorno.
Infatti, non sono stati pochi i vocalist che, ad un certo punto della loro carriera, non sembravano più in grado di ripetersi ai livelli del passato salvo poi riuscire a tornare su registri accettabili, ma questo non sembra proprio il caso del nostro che, quanto meno, pare accettare il tutto cercando di adeguare il sound alle sue attuali potenzialità, optando anche per una produzione ovattata che di certo, però, non aiuta a valorizzare il lavoro chitarristico del buon Tommy Victor.
Inevitabilmente tutto ciò finisce per penalizzare un album che a livello compositivo non dispiace nemmeno troppo, pur non avvicinandosi alle migliori opere del passato: la peculiare commistione tra heavy/doom metal e rock/blues che aveva reso sfolgoranti i primi quattro lavori usciti a nome Danzig, con due capolavori assoluti come Lucifuge e How The Gods Kill, ogni tanto fa capolino tra le atmosfere di Black Laden Crown, ma senza l’apporto decisivo di quella voce che riusciva ad essere sia profonda che stentorea.
Così qualche spunto brillante lo si riscontra ancora nella notevole But A Nightmare o nella blueseggiante Last Ride, mentre riguardo ad un brano come Devil On Hwy 9 non si può fare a meno di notare come il Danzig d’annata avrebbe potuto esaltarne al massimo il buon potenziale, anche commerciale, e lo stesso discorso lo si può fare anche per la conclusiva Pull the Sun.
Resta comunque apprezzabile, da parte del musicista americano, la voglia di rimettersi in gioco con del materiale inedito, quando molti altri, alla sua stessa età, si limitano a vivacchiare sulle produzioni del passato, ed i buoni episodi citati all’interno della tracklist rendono alla fine Black Laden Crown un album non del tutto superfluo, anche se purtroppo il confronto con i lavori composti nei primi anni novanta si rivela impietoso.

Tracklist:
1. Black Laden Crown
2. Eyes Ripping Fire
3. Devil On Hwy 9
4. Last Ride
5. The Witching Hour
6. But a Nightmare
7. Skulls & Daisies
8. Blackness Falls
9. Pull the Sun

Line-up:
Glenn Danzig – lead vocals, rhythm guitar
Tommy Victor – lead guitar, bass guitar
Joey Castillo – drums, percussion
Johnny Kelly – drums, percussion
Karl Rockfist – drums, percussion
Dirk Verbeuren – drums, percussion

DANZIG – Facebook

Circus Nebula – Circus Nebula

Qui le barriere sono abbattute da un purosangue musicale che indomito cavalca verso la libertà, quella di esprimersi senza briglie, tra riff metallici, impatto street rock, irriverenza rock’n’roll e tanta di quella attitudine da farne dono ad una buona fetta di realtà che calcano la scena attuale.

Oggi è tutto più difficile, si cerca sempre di dividere e a catalogare tutto, ad incatenare creatività ed idee in compartimenti stagni che, nella musica, non sono altro che generi e sottogeneri sotto la stessa bandiera, quella del rock’n’roll.

Il rock e l’ hard rock , per chi lo ha vissuto negli anni settanta ed ottanta era soprattutto libertà di esprimersi o ascoltare fuori dai soliti schemi, diventati purtroppo obbligatori anche nella nostra musica preferita da almeno due decadi.
Ora, infatti, ascoltare e scrivere di rock o progressive e con disinvoltura e passione godere anche di un album estremo è cosa di pochi, ma tanti anni fa ascoltare Led Zeppelin, Iron Maiden ed i primi vagiti estremi di Slayer e Venom era la normalità, con magari nel mezzo dosi adrenaliniche di street rock dalla lussuriosa Los Angeles.
Nel 1988 la scena italiana, povera di mezzi e di seguito e tenuta in piedi da veri eroi delle sette note, vedeva nascere i Circus Nebula, gruppo che esordisce con il primo full length solo oggi, ma che calca i palchi in giro per lo stivale fin da allora, sempre in mano a Alex “The Juggler” Celli (chitarra), Mark “Ash” Bonavita (voce) e Bobby Joker (batteria).
Ora voi vi chiederete : cosa c’entrano i Black Sabbath con l’hard rock stradaiolo suonato nella città degli angeli?
Come può un gruppo southern rock prendere sottobraccio e farsi un giro con una band proveniente dalla new wave of british heavy metal?
E come hanno potuto i nostri eroi aprire i concerti di Death SS e Paul Chain, ma anche quelli dei Dog’s D’Amour?
La risposta sta tutta in queste dodici tracce, che formano un album di adrenalinico hard & heavy, colorato con una scatola di pennarelli che vanno dal nero del doom, al rosso del rock’n’roll, dal grigio del metal, al marrone del southern con un tocco di giallo psichedelico a formare un arcobaleno di musica straordinaria.
A completare la formazione troviamo Michele “Gavo” Gavelli alle tastiere (in comproprietà con la band Blastema) e Frank “Leo” Leone al basso, un contratto con l’Andromeda Relix ed il sogno del rock’n’roll continua anche dopo trent’anni, tanta esperienza con altre band ed una voglia di lasciare il segno che si evince da questo splendido lavoro omonimo.
Come si può intuire, qui le barriere sono abbattute da un purosangue musicale che indomito cavalca verso la libertà, quella di esprimersi senza briglie, tra riff metallici, impatto street rock, irriverenza rock’n’roll e tanta di quella attitudine da farne dono ad una buona fetta di realtà che calcano la scena attuale.
D’altronde quando una band conclude l’album con un brano rock’n’roll alla Chuck Berry (Mr. Penniwise), seguito subito dopo da un heavy doom alla Death SS (Spleen) le possibili chiavi di lettura sono la pazzia o la genialità: io propenderei per la seconda ipotesi, senza tralasciare del tutto la prima …

TRACKLIST
1. Hypnos (Intro)
2. Sex Garden
3. Ectoplasm
3. Here Came The Medecine Man
4. Rollin’ Thunder (Raw’n’Roll)
5. Vacuum dreamer
6. Welcome To The Circus Nebula
7. 2 Loud 4 The crowd
8. Electric Twilight
9. Head down
10. Mr. Pennywise
11. Spleen

LINE-UP
Mark Ash – Vocals
Aex “The Juggler” – Guitars
Bobby Joker – Drums
Michele “Gavo” Gavelli – Keyboards
Luca “Ago” Agostini – Bass

CIRCUS NEBULA – Facebook

Three Horns – Jackie

Un lotto di brani da spararsi senza remore, una botta di vita a tutto volume, mentre il caldo ci soffoca e l’impianto dell’aria condizionata ci ha salutato da un pezzo, cosi che mai come ora la nostra pianura si trasforma in un deserto aldilà dell’oceano.

Tra citazioni del Grande Lebowsky, una partita a bowling, ed una Voghera trasportata nell’inferno del deserto americano (ma anche in quei luoghi d’estate il caldo non scherza), i Three Horns ci consegnano un altro lavoro di stoner hard rock, genere che in Italia sta regalando grosse soddisfazioni nella scena underground.

Il gruppo formato da Alessio Bertucci (chitarra e voce), Mic Roma (basso e voce) e Simone Gabrieli (batteria) se ne esce con un album, Jackie, formato da una serie di brani irriverenti, dallo spirito punk e rock’n’roll che si impossessa dell’hard rock stonato, classicamente americano e perso nel deserto o nelle pianure infuocate del nord Italia.
Diretto come un pugno in pieno volto preso in una rissa da bar, Jackie lascia ad altri jam psichedeliche per incontrare il grunge, l’alternative rock dei primi anni novanta ed il rock’n’roll appesantito da potenti dosi di ritmiche stonerizzate e varie, come se Kurt Cobain avesse lasciato le parti ritmiche di Nervermind nelle mani di Les Claypool.
L’irriverenza punk fa il resto, consegnandoci mezz’ora di rock adrenalinico, un sound live che si evince da una produzione essenziale ma perfettamente in linea con l’idea di rock del gruppo di Voghera, che piazza una serie di colpi come California, brano che apre l’album, la successiva Evil Dead, Michigan e Fight Velasquez.
Un lotto di brani da spararsi senza remore, una botta di vita a tutto volume, mentre il caldo ci soffoca e l’impianto dell’aria condizionata ci ha salutato da un pezzo, cosi che mai come ora la nostra pianura si trasforma in un deserto aldilà dell’oceano.

TRACKLIST
1.California
2.Evil Dead
3.Jackie
4.Half Life
5.Michigan
6.Fight Velasquez
7.The balland of the lonley man

LINE-UP
Alessio Bertucci – lead vocals and backing vocals, electric and acoustic guitar, synth,dobro,banjo, keyboards,percussions, glockenspiel
Michele Romagnese – lead vocals and backing vocals, bass, megabass, percussions
Simone Gabrieli – Drums,percussions

THREE HORNS – Facebook

Evil Cinderella – Dangerous Inside

La band ci presenta cinque brani di spumeggiante hard & heavy tedesco, con le chitarre a forgiare ritmi potenti e riff tosti come l’acciaio, una forma canzone già di buona fattura e chorus ottantiani di quell’hard rock melodico che nel loro paese è tradizione radicata come la birra.

Le nuove leve dell’hard & heavy mondiale fanno spallucce ai detrattori ed ai ricercatori dell’originalità a tutti i costi e tornano sulle strade impervie del genere, quello vero che negli anni ottanta fece innamorare un’intera generazione di ascoltatori, tanto da non lasciare mai le classifiche di settore.

Negli anni novanta il rock americano ha letteralmente spinto in un angolo il genere, ma nell’underground ed in certi paesi (come il Giappone) i gruppi sopravvissuti agli eccessi del decennio precedente e le nuove leve hanno trovato un rifugio sicuro.
Di questi tempi, per l’ennesima volta è cambiato tutto e l’hard & heavy sta tornando ad infiammare le autoradio degli amanti del genere, così non manca mai una nuova band di cui occuparsi per chi di questi suoni scrive e si nutre.
I giovani rockers tedeschi Evil Cinderella sono un quartetto attivo da una manciata d’anni e Dangerous Inside è il secondo ep, successore di Wanna Get Dirty uscito un paio di anni fa.
La band ci presenta cinque brani di spumeggiante hard & heavy tedesco, con le chitarre a forgiare ritmi potenti e riff tosti come l’acciaio, una forma canzone già di buona fattura e chorus ottantiani di quell’hard rock melodico che nel loro paese è tradizione radicata come la birra.
Krokus, Bonfire, Gotthard e più o meno tutte le band di rock duro, passano attraverso questa manciata di brani, interpretati con passione da questo gruppo di giovani musicisti che valorizzano gli insegnamenti dei maestri con la potenza e la melodia che si alternano su Eagle Eye, Day By Day e la title track.
Un ep che conferma la buona presa della musica del gruppo, pronto per un futuro full length che noi di MetalEyes cercheremo di non farci scappare.

TRACKLIST
1.Eagle Eye
2.Day by Day
3.Dangerous Inside
4.Without a Chance to Fight
5.Pretend You Died

LINE-UP
Henrik de Bakker – Vocals, Guitars
Paul Nakat – Guitars
Christian Lange – Bass
Jonas Christians – Drums

EVIL CINDERELLA – Facebook

Dark Ages – A Closer Look

L’incontro tra il progressive rock ed il metal, avvenuto nei primi anni novanta, ha portato una ventata di freschezza al primo, genere tendenzialmente conservatore (più tra gli ascoltatori che tra i musicisti, ad onor del vero) ed un tocco di eleganza e raffinatezza tecnica al secondo, creando di fatto un genere parallelo (il prog metal) anche se non mancano proposte come quella dei veterani Dark Ages,  classica band progressive alla quale, a tratti, non mancano verve e grinta metallica.

Il gruppo fondato da Simone Calciolari, chitarrista ed unico membro rimasto della formazione originale datata 1982, licenzia il suo quarto studio album per l’Andromeda Relix di Gianni Della Cioppa, dopo le fatiche per aver portato in teatro le due parti del concept Teumman, opera ambiziosa piaciuta non poco nell’ambiente del progressive rock.
Dopo l’entrata in formazione di Roberto Roverselli alla voce e Gaetano Celotti al basso, arriva il momento di A Closer Look, album che conferma quanto di buono i Dark Ages hanno fatto in questi anni.
Non mancano alcuni ospiti, come i cantanti Claudio Brembati (Anticlockwise), Ilaria L’Abbate e Tiziano Taffuri, il sax di Enrico Bentivoglio (Against The Tides) ed il recitato di Paul Crespel in Fading Through the sky, a completare ed impreziosire un’ altra opera rock/metal in arrivo dalla scena nazionale.
A Closer Look, nella sua interezza, è un susseguirsi di tensione emotiva ed atmosfere eleganti, un rincorrersi tra la parte più rock e rilassata del progressive e quella animata dall’irruenza del metal, tra cambi di tempo perfetti ed un lavoro sontuoso sui tasti d’avorio che orchestrano a meraviglia gli umori cangianti di perle progressive come At The Edge Of Darkness, cuore pulsante di questo lavoro, dieci minuti di melodie progressive sapientemente metalliche che sfumano nelle armonie delicate create da sax e piano in Against The Tides.
Il gruppo conosce molto bene la materia e le scale armoniche che riempiono la title track e la bellissima Yours non mancheranno di strappare un sorriso agli amanti del genere collocandosi tra Dream Theater e Yes, due generazioni di musica progressiva che si incontrano senza scontrarsi nella musica dei Dark Ages.
Una velata sfumatura epica aleggia su A Closer Look, particolare di non poco conto, importantissimo per riuscire a far breccia nei cuori ribelli dei progsters dall’anima metal e rendere l’album uno dei migliori esempi di musica progressiva uscita dal nostro paese in questa prima metà del 2017.

TRACKLIST
01. A Closer Look
02. Till the Last Man Stands
03. Yours
04. At the Edge of Darkness
05. Against the Tides
06. The Anthem
07. Fading Through the Sky

LINE-UP
Simone Calciolari – Guitars
Gaetano Celotti – Bass
Roberto Roverselli – Vocals
Carlo Busato – Drums
Angerla Busato – Keyboards

DARK AGES – Facebook

A Closer Look nella sua interezza è un susseguirsi di sali e scendi di tensioni ed atmosfere eleganti, un rincorrersi tra la parte più rock e rilassata del progressive e quella animata dall’irruenza del metal.

The Dead Daisies – Live & Louder

Licenziato dalla Spitfire/SPV in vari formati, tra cui uno con un documentario ed interviste ai vari membri dei The Dead Daisies, Live & Louder fotografa perfettamente la dimensione live di una band che, ad oggi, può sicuramente esser considerato il super gruppo per eccellenza, almeno per quanto riguarda il genere suonato.

I ragazzi terribili sono tornati e dopo aver dato alle stampe un esordio omonimo, un secondo album dinamitardo come Revolución, ed un autentico capolavoro dal titolo Make Some Noise, mancava solo il classico live album (come si faceva una volta), che va ad immortalare una formazione ed una raccolta di canzoni che sono l’essenza stessa dell’hard rock.

La formazione è la stessa dell’ultimo lavoro (ricordo che i The Dead Daisies sono un progetto del chitarrista David Lowy , nel quale si sono dati il cambio musicisti che sono icone del genere) con un John Corabi straordinariamente in forma al microfono, la sezione ritmica composta dal batterista Brian Tichy e Marco Mendoza al basso, un signor chitarrista come Doug Aldrich e l’evento è servito.
Licenziato dalla Spitfire/SPV in vari formati, tra cui uno con un documentario ed interviste ai vari membri dei The Dead Daisies, Live & Louder fotografa perfettamente la dimensione live di una band che, ad oggi, può sicuramente esser considerato il super gruppo per eccellenza, almeno per quanto riguarda il genere suonato.
Ovviamente i brani suonati, pescati dai vari album, dal vivo assumono quel pizzico di verve in più che li rende delle autentiche perle, graffianti e spettacolari, ma anche bluesy, dove l’ elettricità lascia spazio alle atmosfere semiacustiche di Something I Said.
Long Way To Go e Mexico indicano una partenza che lascia senza fiato e sul posto almeno il 90% dei gruppi odierni, mentre il bolide The Dead Daisies sfreccia a tutta velocità verso un traguardo che prima vede passare la title track dell’ultimo album, il rock’n’roll di Fortunate Son, Join Together e With You And I stritolate da un serpente bianco, mentre Corabi elargisce lezioni da rockstar, Aldrich e Lowy strapazzano le loro sei corde e la coppia Tichy/Mendoza è una macchina da guerra hard rock.
In altri tempi i The Dead Daisies sarebbero osannati come stelle del rock alla pari dei gruppi storici, impressione che diventa consapevolezza all’ascolto di questo mastodontico live, mentre Helter Skelter, capolavoro heavy di quei quattro geni dei Fab Four, accompagna verso il gran finale gli astanti, presi a schiaffi da American Band, cover dei Grand Funk Railroad, e Midnight Moses dal bellissimo Revolución.
Per gli amanti dei live album, Live & Louder si rivela un album imperdibile, a rappresentare l’hard rock alla sua massima potenza.

TRACKLIST
1. Long Way To Go
2. Mexico
3. Make Some Noise
4. Song And A Prayer
5. Fortunate Son
6. We All Fall Down
7. Lock ‘ N’ Load
8. Something I Said
9. Last Time I Saw The Sun
10. Join Together
11. With You And I
12. Band Intros
13. Mainline
14. Helter Skelter
15. American Band
16. Midnight Moses

DVD content: total playing time: 85 min language: English video: NTSC / 16:9 audio: 2.0 Stereo Documentary “Live & Louder” (40min)
1. Intro
2. Looking back at 2016
3. Touring with the Daisies
4. Doug Aldrich
5. Show Preparation
6. Stage Fright
7. Song Favorites
8. Cover Songs
9. The Signing Sessions
10. Looking to the Future
Tour Recaps (25 min)
1. Recording
2. Musikmesse / Hessentag
3. Summer Tour
4. Freedom to Rock Tour
5. Arizona Cardinals
6. Japan / South Korea – U.S.O.
7. Kiss Kruise
8. Fall/Winter
Tour Bonus Content (20min)
1. Slideshow Best of 2016
2. Videoclip: Song and a Prayer
3. Videoclip: Join Together
4. Videoclip: Long Way to Go
5. Videoclip: Make Some Noise

LINE-UP
Brian Tichy – drums
David Lowy – guitars
John Corabi – vocals
Doug Aldrich – guitars
Marco Mendoza – bass

THE DEAD DAISIES – Facebook

From The Dust Returned – Homecoming

Un debutto davvero sorprendente per un gruppo che riesce nella non facile impresa di risultare classicamente progressivo pur usando note, sfumature ed attitudine fuori dai cliché conservatori del genere.

Dopo varie vicissitudini che hanno portato il gruppo a rimodellare la formazione, Homecoming finalmente vede la luce tramite la Sliptrick Records e la carriera di questa ottima band progressive può prendere il via.

Stiamo parlando dei From The Dust Returned, gruppo nostrano che vede all’opera due membri degli storici Graal (Danilo Petrelli e Cristiano Ruggero, rispettivamente tastiere e batteria) e del suo debutto in formato ep, una mezzora di musica progressiva, tra tradizione settantiana, metal estremo ed atmosfere dark.
Ogni brano prende ispirazione da patologie psichiatriche, un viaggio in più di una mente malata di schizofrenia, clinofobia e depressione e la musica che supporta il concept non può che essere cangiante, tragica, oppressivamente estrema e dark, seguendo appunto i deliri provocati dalla sofferenza che malattie del genere comportano.
L’album si apre con Harlequeen, sunto del sound prodotto dai From The Dust Returned, con armonie acustiche post dark ammantate di prog metal teatrale che ci accompagnano in questo viaggio nella mente umana: la voce pulita, a tratti declamatoria, si scontra con il growl, mentre i tasti d’avorio disegnano arabeschi di progressive rock;
l’atmosfera delle varie tracce si può senz’altro dichiarare estrema, perennemente in tensione e attraversata da notevoli cambi di tempo e parti acustiche suggestive.
In un sound in cui l’anima progressiva classica è preponderante, il growl ed i vari toni vocali usati fanno la differenza, così come il gran lavoro delle tastiere, mentre la parte estrema permette a brani come Echoes Of Faces e Wipe Away The Rain di acquistare un tocco di originalità in più, elevando Homecoming al rango di lavoro da apprezzare in tutte le sue sfumature.
Un debutto davvero sorprendente per un gruppo che riesce nella non facile impresa di risultare classicamente progressivo pur usando note, sfumature ed attitudine fuori dai cliché conservatori del genere.

TRACKLIST
01. Harlequeen
02. Homecoming
03. Echoes of faces
04. Glare
05. Wipe away the rain
06. Sleepless

LINE-UP
Alex De Angelis – Vocals, Guitars
Marco del Bufalo – Vocals
Miki Leandro Nini – Bass
Danilo Petrelli- Keyboards
Cristiano Ruggiero – Drums

FROM THE DUST RETURNED – Facebook

Sunroad – Wing Seven

Un album onesto di musica dura come si faceva una volta, con un cantante in palla, buone trame chitarristiche ed almeno due o tre brani meritevoli d’attenzione.

La tradizione metallica del Brasile si concretizza in tutti i generi e sotto generi dell’universo musicale che più ci piace, con il death metal ed i suoni hard’n’heavy che si giocano il ruolo di traino per tutto il movimento.

I Sunroad suonano hard & heavy da quando il secolo scorso ha lasciato il passo al nuovo millennio, un ventennio circa di suoni tradizionali ora marchiati a fuoco da un nuovo cantante (Andre Adonis), novità di non poco conto nell’economia del sound del gruppo.
Unico membro originale rimasto è il batterista Fred Mika, da sempre in sella al gruppo di Goiania che arriva, con questo Wing Seven, al sesto lavoro sulla lunga distanza di una carriera discografica che si completa con un ep ed una raccolta di brani dei primi tre album.
Hard ed heavy metal che si uniscono come nella migliore tradizione in un sound a tratti esplosivo, pescando tra Europa e Stati Uniti, rigorosamente in ambiti ottantiani: ne esce un buon album, forse appesantito da un che di già sentito, ma è comunque un ascolto rivolto agli amanti dei suoni che hanno fatto la storia dell’ hard & heavy mondiale.
Si passa così da brani chiaramente hard rock e che richiamano lo stile losangelino, a composizioni più in linea con l’heavy metal europeo, con le tastiere che prendono il comando delle operazioni ed i Rainbow che diventano principale fonte di ispirazione per la band brasiliana.
Un album onesto di musica dura come si faceva una volta, con un cantante in palla, buone trame chitarristiche ed almeno due o tre brani meritevoli d’attenzione (In The Sand, Day By Day e Brighty Breakdown): da ascoltare, visto che potrebbe piacere a più di un appassionato.

TRACKLIST
1.Destiny Shadows
2.White Eclipse
3.In the Sand
4.Misspent Youth
5.Tempo (What Is Ever)
6.Whatever
7.Skies Eyes
8.Day by Day
9.Craft of Whirlwinds
10.Drifting Ships
11.Brighty Breakdown
12.Pilot of Your Heart
13.Last Sunray in the Road

LINE-UP
Akasio Angels – Bass, Vocals
Netto Mello – Guitars, Backing Vocals
Fred Mika – Drums, Vocals
Andre Adonis – Vocals (lead)

SUNROAD – Facebook

Hot Cherry – Wrong Turn

Non così scontato come potrebbe sembrare ad un primo approccio, Wrong Turn si fa apprezzare per la sua energia e per quell’atmosfera sanguigna e vera che è alla base della riuscita di un album del genere.

Wrong Turn è il primo lavoro dei toscani Hot Cherry, uscito qualche mese fa autoprodotto ed arrivato a MetalEyes tramite l’etichetta napoletana Volcano Records, che si è aggiudicata le prestazioni del gruppo del cantante Jacopo Mascagni.

La band nasce nel 2009, ma purtroppo, dopo l’uscita del singolo Scar In The Brain, nel 2013 si scioglie, con il cantante che di fatto rimane l’unico componente e, non arrendendosi, comincia il reclutamento di nuovi componenti.
Nel corso degli anni gli sforzi per dare una nuova vita al gruppo vengono ripagati e con la formazione al completo vede la luce Wrong Turn, una mazzata di metal/rock, dal groove micidiale, potente e dall’anima thrash.
Jacopo Mascagni viene così raggiunto da Nik Capitini e Luca Ridolfi alle chitarre, Kenny Carbonetto al basso e Stefano Morandini alle pelli, e insieme danno vita a questa mezz’ora di muro sonoro che non lascia dubbi sull’impatto di questa nuova formazione e del suo sound, vario nel saper pescare da vari generi, senza mai abbandonare la strada del metal moderno ricco di groove e di un pizzico di pazzia rock ‘n’ roll.
Mascagni canta come se non ci fosse un domani, le frustrazioni passate vengono riversate su nove tracce che non lasciano respiro fin dall’opener Anonymous: una mazzata senza soluzione di continuità tra hard rock, groove, stoner rock, ed attitudine thrash ‘n’ roll che si evince dal singolo Scar In The Brain, dalla mastodontica Craven e dalla devastante Call To The Void.
Non così scontato come potrebbe sembrare ad un primo approccio, Wrong Turn si fa apprezzare per la sua energia e per quell’atmosfera sanguigna e vera che è alla base della riuscita di un album del genere.
Immaginatevi una jam tra i Pantera, gli Anthrax, i Corrosion Of Conformity e i Beautiful Creatures ed avrete un’idea della proposta degli Hot Cherry, non male davvero.

Tracklist:
1.Anonymous
2.8000 HP
3.Scar In The Brain
4.Narrow Escape
5.Craven
6.On Your Own
7.Call To The Void
8.Modern Vampire
9.Bloody Butterfly

Line-up:
Jacopo Mascagni – Vocals
Nik Capitini – R&L Guitars
Luca Ridolfi – R Guitars
Kenny Carbonetto – Bass
Stefano Morandini – Drums

HOT CHERRY – Facebook