I Long Distace Calling tornano su Inside Out con Boundless, un altro viaggio onirico e astrale tra il rock/metal del nuovo millennio, con ormai poche ispirazioni classiche e tanta musica moderna, originale e composta da un pugno di musicisti dal talento enorme.
Non sono mai stato un amante dei lavori strumentali, troppo spesso rifugio di musicisti dall’ego spropositato, composti da una valanga di note che alla fine non lasciano ricordo di se.
Questo avviene maggiormente proprio nel progressive, genere di cui si parla per questo sesto, bellissimo lavoro dei tedeschi Long Distance Calling, band che in passato aveva lasciato il microfono ma solo in alcune tracce a qualche ospite, tra cui John Bush (Armored Saints, Anthrax), e con un passato da alternative post rock band che con il passare del tempo ha venduto l’anima al demone progressivo con il precedente Trips a vestire i panni del capolavoro di una discografia di altissimo livello.
La band torna su InsideOut con Boundless, un altro viaggio onirico e astrale tra la musica rock/metal del nuovo millennio, con ormai più poche ispirazioni classiche e tanta musica moderna, originale e composta da un pugno di musicisti dal talento enorme. Boundless è un lavoro da gustarsi in religiosa solitudine, chiudendo gli occhi ed aspettando che le note di In The Clouds ci facciano da tappeto volante, mentre Out There ci ha preparato con il suo alternare scudisciate post metal e progressive rock a quello che i Long Distance Calling hanno creato per noi.
La tensione elettrica rimane altissima anche nei momenti più introspettivi, tramite una musica che tende a liquefarsi ma che al tocco emana pericolose scariche elettriche (Like A River) o mastodontiche bordate metalliche (The Far Side) per poi riprenderci per mano come nulla fosse successo e così riportare il tappeto alla giusta altitudine per continuare il volo.
Siamo nel gotha del rock strumentale, poco incline ai facili compromessi, ma che lascia aperta una via a chiunque abbia ancora voglia di sorprendersi e mettersi in gioco con una varietà di sfumature ed atmosfere incredibili (On The Verge). Boundless è un’opera a tratti entusiasmante giocando a suo piacimento con il progressive moderno, il metal ed il post rock.
Tracklist
1.Out There
2.Ascending
3.In The Clouds
4.Like A River
5.The Far Side
6.On The Verge
7.Weightless
8.Skydivers
Line-up
David Jordan – guitar
Florian Füntmann -guitar
Janosch Rathmer – drums
Jan Hoffmann – bass
L’ennesima buona proposta dell’attivissima etichetta Andromeda Relix parla il linguaggio progressivo dei romani AElementi, quartetto romano nato una decina d’anni fa e solo ora giunto all’attenzione degli amanti del genere grazie al debutto Una Questione Di Principio.
L’ennesima buona proposta dell’attivissima etichetta Andromeda Relix parla il linguaggio progressivo dei romani AElementi, quartetto romano nato una decina d’anni fa e giunto solo ora all’attenzione degli amanti del genere grazie al debutto Una Questione Di Principio.
La band vede all’opera quattro ottimi musicisti come Daniele Lulli (chitarra), Francesca Piazza (voce), Manuele D’Anastasio (batteria) e Angelo Celani (basso), con la collaborazione di Dario Pierini (tastiere) creatori di un sound che pesca da varie correnti del mondo progressivo per un risultato apprezzabile.
Il cantato nel nostro idioma non inficia la resa di questi sei brani più intro, eleganti e sempre in bilico tra la tradizione italiana e le storiche band degli anni settanta, ed un più roccioso prog metal che modernizza e rende al passo coi tempi il sound di brani maturi e dalle gustose melodie come Lontananza, Straniero o Voce.
Le melodie, importantissime nella musica degli Aelementi, consemtono di fare agevolmente presa sull’ascoltatore, anche quello meno abituato alle impegnative sonorità del progressive rock, con il gruppo che, a camei strumentali dalle atmosfere settantiane e fughe strumentali che strizzano l’occhio al metal più raffinato, aggiunge linee vocali tradizionali nella musica tricolore: non solo rock quindi, ma anche piccoli passi nel pop d’autore.
P.F.M. e Le Orme vanno a braccetto con i più giovani e metallici Shadow Gallery e Threshold tra le trame di Vuoto e Addio, senza andare scalfire la spiccata personalità del gruppo capitolino. Una Questione Di Principio è un buon lavoro rivolto non solo agli amanti del rock progressivo, ma sicuramente in grado di soddisfare una più vasta gamma di ascoltatori.
Il progetto di questo disco è un affrontare l’ignoto, poiché nessuno aveva mai tentato di coniugare in un concerto i synth ed un’orchestra.
Potrebbe sembrare strano, ma ci sono ancora terre musicalmente vergini e piene di rigogliosi frutti che aspettano di essere colti.
Gabriels è molto più di un musicista e qualcosa in più di un compositore, è una mente ed un corpo votati totalmente alla musica, in quanto figlio d’arte e approfondito studioso della musica sia nella sua forma musicale che in quella fisica, come la foniatria. Innumerevoli sono le sue collaborazioni e le cose che ha fatto per la musica, spaziando dalla classica al metal, passando per il prog. Il progetto di questo disco è un affrontare l’ignoto, poiché nessuno aveva mai tentato di coniugare in un concerto i synth ed un’orchestra. Innanzitutto l’ascolto ci rende chiara l’assoluta godibilità di questo connubio, poiché come dice lo stesso Gabriels nell’intervista che ci ha rilasciato, se si trova la forma giusta si può fare tutto, e questo disco ne è la dimostrazione. Il concerto è una sorta di disco sugli dei dell’Olimpo, le loro gesta e le loro vicissitudini, quindi un qualcosa che deve essere rappresentato con maestosità. Il suono moderno del sintetizzatore si sposa molto bene con l’orchestra, e ci rimanda ai fasti sperimentali del prog anni settanta, quando la sperimentazione era la centro di molti percorsi musicali, totalmente scevri da qualsiasi intento commerciale, come è questo disco. La forza, la potenza e la bellezza della musica classica si incontrano con il suono moderno del sytnh per dare vita ad un qualcosa di totalmente nuovo che delizierà le vostre orecchie. Nella composizione l’attitudine è molto metal, poiché il synth viaggia spesso veloce e racchiude in sé ciò che potrebbe fare un gruppo musicale. Si viaggia veloce, ma tutto ha un suo tempo all’interno del disco, non c’è fretta poiché tutto segue un suo percorso ben preciso, e il genio di Gabriels tiene tutto assieme molto bene. Un disco che rimanda ad epoche lontane e ad alcune più vicine, sempre con la musica e l’amore per essa al centro, essendo questo una compenetrazione totale fra pensiero umano e composizione musicale. Musica classica progressiva.
Tracklist
01. Temple Valley (Andante)
02. By The Giant’s Eyes (Moderato)
03. Titans Versus Giants (Andante Con Moto)
04. Through White Clouds (Moderato)
05. The Magical Castle (Adagio)
06. Gods (Allegretto Con Fuoco)
07. Immortals (Epico)
08. Thunderbolts (Moderato)
09. Over The Olympus (Maestoso)
I quattro brani, divisi in quattro splendide suite, nella versione in doppio vinile coprono ogni lato per un tuffo nel progressive d’autore, per una volta concepito fuori dalle mode del momento e più in linea con le creazioni dei mostri sacri del progressive rock settantiano.
I progsters statunitensi Perfect Beings le basi per arrivare a questo ultimo lavoro le hanno poggiate già da qualche tempo.
Ryan Hurtgen, Johannes Luley e Jesse Nason creano musica progressiva di altissimo livello da una manciata d’anni, prima con il debutto omonimo, seguito da II, licenziato nel 2015 e ora con Vier, mastodontico album di musica progressiva, come si faceva una volta.
I quattro brani, divisi in quattro splendide suite, nella versione in doppio vinile coprono ogni lato per un tuffo nel progressive d’autore, per una volta concepito fuori dalle mode del momento e più in linea con le creazioni dei mostri sacri del progressive rock settantiano.
Non fraintendetemi, Vier non è affatto un album vintage, lo spartito e la conseguente valanga di note che il gruppo ci riversa addosso ha i piedi ben piantati nel nuovo millennio, così che l’album si cibi di soluzioni moderne ma dall’approccio assolutamente tradizionale, facendone uscire qualcosa di imperdibile per gli amanti del rock progressivo. Guedra,The Golden Arc, Vibrational e Anunnaki sono i titoli delle quattro suite, divise a loro volta in capitoli e che formano un opera d’altri tempi ma dal mood assolutamente targato 2018, tra bellissime melodie di fiati, digressioni jazzistiche, fughe rock ed un uso delle voci incantevole (Ryan Hurtgen nel suo personale approccio al canto si può certamente definire il nuovo Jon Anderson).
In tutta questa meraviglia sonora dalla durata proibitiva, se non si ha il tempo e la concentrazione necessaria per seguire l’opera nella suo lungo dipanarsi tra atmosfere sulfuree e sfumature fluttuanti, i tre musicisti navigano a vele spiegate verso una consacrazione meritata tra i raffinati e conservatori gusti degli appassionati di progressive rock, regalando la loro personalissima versione della musica di Yes, King Crimson e Genesis.
A tratti sorge il dubbio che l’atmosfera tradizionale di Vier possa far storcere il naso a chi apprezza le nuove sonorità progressive, e che i suoi arrangiamenti e le atmosfere moderne confondano i fans con più di un capello bianco, ma sono dettagli che la bellezza della musica spazza via per lasciare solo la sensazione di essere al cospetto di un album straordinario.
Tracklist
1.Guedra – A New Pyramid
2.Guedra – The Blue Lake Of Understanding
3.Guedra – Patience
4.Guedra – Enter The Center
5.The Golden Arc – The Persimmon Tree
6.The Golden Arc – Turn The World Off
7.The Golden Arc – America
8.The Golden Arc – For A Pound Of Flesh
9.Vibrational – The System And Beyond
10.Vibrational – Mysteries, Not Answers
11.Vibrational – Altars Of The Gods
12.Vibrational – Everywhere At Once
13.Vibrational – Insomnia
14.Anunnaki – Lord Wind
15.Anunnaki – Patterns Of Light
16.Anunnaki – A Compromise
17.Anunnaki – Hissing The Wave Of The Dragon
18.Anunnaki – Everything’s Falling Apart
Line-up
Ryan Hurtgen – Vocals, Piano
Johannes Luley – Guitar, Bass, Production
Jesse Nason – Keyboards
Ben Levin – Drums
Su un nuovo album dal vivo di Steve Hackett non c’è molto da dire, soprattutto se sia chi scrive sia chi legge concorda sul fatto che i miti si possono solo venerare e mai discutere.
Su un nuovo album dal vivo di Steve Hackett ci dovrebbe essere francamente poco da dire, soprattutto se sia chi scrive sia chi legge concorda sul fatto che i miti si possono solo venerare e mai discutere.
Per cui non resta che descrivere quello che, più o meno, è contenuto in questo Wuthering Nights: Live in Birmingham, lavoro che esce anche nel formato Dvd/Blue Ray oltre a quello in doppio cd: a grandi linee ci troviamo di fronte alla scaletta che Steve, con la sua band, ha portato in tour anche dalle nostre parti la scorsa estate, rispettando la stessa ideale suddivisione in due parti, con la prima dedicata ai brani della produzione solista e l’altra a quelli storici dei Genesis.
Rispetto al concerto che ho visto in quel di Vigevano a luglio, ho potuto almeno godermi la prima parte riuscendo ad ascoltare i brani senza dovermi preoccupare di difendermi dai nugoli di zanzare che avevano reso i miei connotati simili a quelli di The Elephant Man (e credo che anche lo stesso Hackett se lo ricordi, visto che a tratti lo si vedeva gesticolare sul palco manco fosse stato il Pete Townsend dei bei tempi …).
In questa prima sessione va rimarcata la riproposizione del brano capolavoro della produzione solista del chitarrista inglese, Shadow Of The Hyerophant, qui con l’apporto sul palco della voce femminile di Amanda Lehmann, oltre a diverse altre ottime canzoni (su tutte Every Day, da Spectral Mornings) e con la chiusura affidata a Eleventh Earl Of Mar, prima delle tracce tratte da Wind And Wuthering, l’album dei Genesis omaggiato nell’occasione per il suo quarantennale.
Il secondo cd è del tutto appannaggio della produzione dello storico gruppo, con la giusta attenzione al lavoro celebrato all’uopo, un disco la cui complessiva sottovalutazione da parte degli stessi fan dei Genesis è dovuta all’inevitabile paragone con quei 5-6 capolavori usciti precedentemente piuttosto che al suo oggettivo valore; e, in effetti il motivo di curiosità è appunto la riproposizione di brani che di solito non trovano molto spazio nelle scalette dei concerti, come Blood On The Rooftops, In That Quiet Earth e One For The Vine, più quella Inside And Out che finì fuori da Wind And Wuthering per essere relegata all’Ep Spot The Pigeon, mentre non è certo una novità l’evergreen Afterglow, che va a fare compagnia alle immortali Firth Of Fifth, The Musical Box eDance On A Volcano, con il gran finale rappresentato come sempre da Los Endos.
La band che accompagna Hackett è quella ormai rodata da tempo, con magnifici musicisti capaci di assecondarne il sempre magico tocco chitarristico: in particolare, l’idea di rafforzare diverse parti di chitarra con l’ausilio dei fiati si rivela piuttosto azzeccata, andando ad enfatizzare il sound senza penalizzarne l’intensità.
L’unico dubbio in un simile contesto è la voce di Nad Sylvan, la cui timbrica sembra più adatta ai brani risalenti all’epoca Gabriel che non a quella successiva con Phil Collins nel ruolo di cantante e, indubbiamente, nel confronto con questi due giganti il pur bravo vocalist finisce inevitabilmente per soccombere, facendo scemare in alcuni frangenti la magia evocata da molte delle pietre miliari poc’anzi citate.
In ogni caso l’opera, in qualsiasi formato la si voglia prendere in considerazione, è dedicata ai fans più accaniti che non vogliono perdersi proprio nulla del loro musicista preferito; magari qualcuno avrà da eccepire sul fatto che Steve continui a incentrare i suoi concerti principalmente sui brani dei Genesis, ma credo che ne abbia tutti i diritti, non fosse altro che per la credibilità costruitasi nel corso di una carriera sempre foriera di soddisfazioni per gli appassionati, anche grazie ad album di inediti tutt’altro che superflui per qualità e voglia di esplorare nuove frontiere sonore.
Poi sappiamo bene che la dimensione live è una sorta di rito collettivo, nel corso del quale si versa più che volentieri qualche lacrima di commozione nell’ascoltare i classici suonati da chi ha contribuito fattivamente a farli diventare tali, sperando sia chiaro a tutti che ciò può essere solo avvicinato e mai eguagliato dalle pur ottime cover band che continuano a predicare fedelmente il verbo dei Genesis.
Il mito non si discute, si ama: appunto …
Tracklist:
Disc 1
1. Every Day
2. El Niño
3. The Steppes
4. In The Skeleton Gallery
5. Behind The Smoke
6. Serpentine Song
7. Rise Again
8. Shadow Of The Hierophant
9. Eleventh Earl Of Mar
Disc 2
1. One For The Vine
2. Acoustic Improvisation
3. Blood On The Rooftops
4. In That Quiet Earth
5. Afterglow
6. Dance On A Volcano
7. Inside And Out
8. Firth Of Fifth
9. The Musical Box
10. Los Endos
Line-up:
Steve Hackett – Guitar, Vocals
Roger King – Keyboards
Nad Sylvan – Vocals, Tambourine
Gary O’Toole – Drums, Percussion, Vocals
Rob Townsend – Saxophone, Woodwind, Percussion, Vocals, Keyboards, Bass Pedals
Nick Beggs – Bass, Variax, Twelve String, Vocals
Guests:
John Hackett
Amanda Lehmann
Con una sorpresa dopo l’altra, Elusive Lights of the Long-forgotten ci mostra una band che a spallate butta giù barriere e fortini in cui si barricano i generi musicali per fornirci una panoramica musicale il più ampia possibile.
Non è così semplice descrivere la musica creata da questo trio danese chiamato The Sleeplings, attivo da una decina d’anni e con un primo album targato 2008.
La band di Århus torna tramite la Marrowphone Recordings con Elusive Lights of the Long-forgotten, album di rock alternativo che tra il suo spartito accoglie e coccola molte sfumature ed ispirazioni da generi diversi, creando un sound originale, magari leggermente dispersivo ma oltremodo affascinate.
Con una sorpresa dopo l’altra, Elusive Lights of the Long-forgottenci mostra una band che a spallate butta giù barriere e fortini in cui si barricano i generi musicali per fornirci una panoramica musicale il più ampia possibile.
Rock, alternative, progressive, indie e pop, con tutte le loro aperture e varianti, fanno da infinita cornice a questa raccolta di brani creata da Steen Lauridsen (batteria), Peter Just Rasmussen (piano, basso e tastiere) e Jesper Kragh (chitarra, basso voce) aiutati da una manciata di ospiti e tanto anticonformismo musicale che li porta a viaggiare tra la musica degli ultimi cinquant’anni.
L’opener Dead Horse, scelta come singolo, è probabilmente la più lineare tra le tracce proposte, essendo una canzone progressivamente alternative che ci da il benvenuto nel mondo del gruppo danese. Apothecary,Mary The Quiet, la splendida Broken Light Spectre e via tutte le altre saltano tra un genere e l’altro e con abilità ci deliziano, con citazioni che vanno dai Beatles agli Smashing Pumpkins, dai Gentle Giant e Pink Floyd agli Waterboys, in un quadro ad acquarello dove le note sono come i colori usati da un pittore un po’ pazzo ma assolutamente geniale.
E i The Sleeplings di genialità ne hanno da vendere e come per i veri geni la loro opera va assimilata e compresa.
Tracklist
1. Dead Horse
2. Apothecary
3. Faye Valley Skeleton
4. Mary the Quiet
5. Fog Walkers
6. Broken Light Spectre
7. James
8. Long-forgotten
Line-up
Steen Lauridsen – drums
Peter Just Rasmussen – pianos, keys, double bass
Jesper Kragh – guitars, basses, vocals
Tradizione e soluzioni moderne conferiscono al sound una buona alternativa alle note liquide di molti passaggi, rendendo l’ascolto rilassato ma non troppo, con le strade si alternano tra lunghi rettilinei ed impervie salite sullo spartito che Treece-Birch ha riempito di note a tratti sfuggenti.
Dopo le fatiche sull’ultimo splendido album dei Ten (Gothica), il tastierista e polistrumentista Darrel Treece-Birch torna con un nuovo album solista dal titolo Healing Touch.
Il successore dell’ottimo One More Time, uscito lo scorso anno, è un’opera interamente strumentale, con il musicista britannico che questa volta fa tutto da solo.
Improntato chiaramente su suoni tastieristici, Healing Touch è un album dall’impatto atmosferico molto accentuato, con l’anima dei Pink Floyd che aleggia sulle composizioni con ancora più forza rispetto alle passate release. Treece-Birch passa dunque agevolmente dall’hard rock dei Ten alle sue opere che sono assolutamente da annoverare nel progressive rock, quadri dai tenui colori autunnali come questo nuovo lavoro licenziato proprio nella stagione che prepara l’anima e la natura alle ristrettezze invernali.
L’album parte con la lunga opener God’s Prescription, una sorta di preparazione atmosferica al viaggio che l’ascoltatore intraprende insieme al musicista e che porta inevitabilmente ad una sorta di sound contemplativo dalle sfumature rock.
Tradizione e soluzioni moderne conferiscono al sound una buona alternativa alle note liquide di molti passaggi, rendendo l’ascolto rilassato ma non troppo, con le strade si alternano tra lunghi rettilinei ed impervie salite sullo spartito che Darrel ha riempito di note a tratti sfuggenti. Cast It Out, le pulsazioni elettroniche di Re-Boot e tutta la seconda parte dell’album che si posiziona sul “lato oscuro della Luna”, fanno ormai parte del sound in cui il musicista britannico si trova più a suo agio con una menzione particolare per le suggestive sfumature dai rimandi sci-fi di The Release. Healing Touch è un lavoro per chi ama il rock progressivo strumentale, i Pink Floyd e quel rock atmosferico figlio di tempi nei quali un’opera del genere trovava tutto il tempo per essere assimilata.
Tracklist
1.God’s Prescription
2.From The Mouth
3.Cast it Out
4.Re-Boot
5.The Fruits Of The Spirit
6.The Stand
7.The Release
8.The Expanse
9.No Fear Here
10.God’s Medicine
Gli Unmask sanno come amalgamare le varie ispirazioni cercando di apparire il più personali possibile e ci riescono, anche grazie ad un’ottima padronanza degli strumenti ed un songwriting che non scade mai troppo nel cerebrale e non esce dai binari di un ascolto che rimane interessante per tutta l’ora di durata dell’album.
Post rock, post metal, post dark, post progressive, la nuova moda che fa tanto cool è piazzare un bel post davanti ai soliti generi per avere qualcosa di nuovo su cui costruire una descrizione di un album o di una band, dicendo tanto o nulla a seconda dei casi.
Parla come sempre la musica, che viene manipolata dagli artisti a loro piacimento per donarla a chi ha la fortuna di poterla ascoltare.
Gli Unmask per esempio fanno rock progressivo, moderno, intimista e dal taglio alternativo ma pur sempre rock, il loro sound li porta a sedersi vicino a chi, nel nuovo millennio si è arricchito dell’eredità musicale dei Tool e dei Porcupine Tree, l’ha manipolata con il metal e l’ha rivestita di stoffa dark.
Nato a Roma più di dieci anni fa e con un primo lavoro (Sophia Told Me) licenziato nel 2010, il gruppo torna con One Day Closer, un album che sposa le varie sfumature del rock alternativo internazionale del nuovo millennio, di questi tempi non più una sorpresa, ma sicuramente un buon modo per fare rock al giorno d’oggi.
L’album è quindi un tuffo nelle sonorità moderne che hanno reso ancora più elaborato ed intimista il genere, e gli Unmask sanno come amalgamare le varie ispirazioni cercando di apparire il più personali possibile e ci riescono, anche grazie ad un’ottima padronanza degli strumenti ed un songwriting che non scade mai troppo nel cerebrale e non esce dai binari di un ascolto che rimane interessante per tutta l’ora di durata dell’album.
Musica che va comunque assimilata, dandole il tempo necessario per rendere affascinante l’ascolto di brani come Far Away, Childhood e soprattutto la splendida Now (l’unica traccia che porta con sé note progressive tradizionali) e facendosi spazio in chi si lascerà ipnotizzare dai saliscendi umorali della musica degli Unmask.
Ottimo il singolo Memento, mentre la conclusiva Frammenti, unico brano cantato in italiano,chiude il lavoro e mette la parola fine su un album sentito, emozionale e ben suonato, vario negli umori e nelle sensazioni e con quel tocco passionale tutto Made in Italy.
Tracklist
1.Flowing
2.Far Away
3.Midnight Date
4.Childhood
5. Wanted
6. Now
7. Margot
8. Memento
9. Ancièn Regime
10. Frammenti
Il ritorno della Premiata Forneria Marconi è il trionfo della classe, del talento e della passione, è il veicolo ideale di quelle emozioni che solo la musica sa regalare, imprimendole virtualmente sulla nostra pelle affinché si trasformino in nutrimento per l’anima.
E’ sempre difficile raccontare ciò che contiene e restituisce in termini di sensazioni un disco qualsiasi, figuriamoci se questo corrisponde al ritorno ad un album di inediti dopo oltre un decennio da parte di musicisti che hanno fatto la storia del rock progressivo, non solo in Italia.
Stiamo parlando della Premiata Forneria Marconi, band che è stata una delle tre punte del movimento tricolore negli anni settanta assieme a Banco ed Orme ma che, magari, quelli un po’ meno vetusti del sottoscritto assoceranno più naturalmente al gruppo che diede una nuova veste alle canzoni di Fabrizio De Andrè, accompagnandolo a lungo in tour ed ottenendo un enorme successo.
Il tempo passa inesorabile (sono quarantacinque gli anni che ci dividono da Storia di Un Minuto), ma i due brillanti settantenni che rispondono ai nomi di Franz Di Cioccio e e Patrick Djivas hanno ancora voglia di mostrare a tutti quanto abbiano da dire; e proprio il tempo, con il suo inesorabile trascorrere, connesso alla necessità di cogliere l’attimo e sfruttare ogni occasione senza porsi alcun limite, men che meno anagrafico, è un po’ il filo conduttore di un lavoro che non è solo splendido da un punto di vista strettamente musicale ma, appunto, da quello concettuale.
Giusto per essere chiari fin da subito, Emotional Tattoos, è quanto più lontano si possa immaginare dal fiacco ritorno di un gruppo di reduci: Di Cioccio e Djivas, assieme al loro storico sodale Lucio Fabbri, hanno radunato attorno a loro una band che è uno spettacolare mix tra esperienza e talento; così, alle tastiere troviamo due giovani come Alessandro Scaglione e Alberto Bravin (quest’ultimo si occupa anche della backing vocals), mentre alla batteria, ad alternarsi allo storico Franz, troviamo uno dei più richiesti professionisti dello strumento come Roberto Gualdi e, infine, alla chitarra, il non facile compito di sostituire per la prima volta su un album di inediti Franco Mussida è stato affidato al napoletano Marco Sfogli, uno degli astri nascenti delle sei corde, già ampiamente apprezzato anche fuori dai nostri confini in quanto titolare del ruolo nella band che accompagna James LaBrie in veste solista.
Con queste premesse, gli scettici potrebbero continuare a ritenere che, in fondo, dal punto di vista tecnico non ci sarebbe stato nulla da eccepire a prescindere, ma riguardo ai contenuti? Ecco, qui sta il bello: i tatuaggi emotivi evocati dal titolo si stampano adornando senza soluzione di continuità la pelle dell’ascoltatore, ed ogni immagine corrisponde ad un brano che mostra una ricchezza ed una qualità che, nonostante tutto, riesce ugualmente a stupire.
Gli undici brani rappresentano un viaggio nella memoria per i più anziani e l’eccitante scoperta per i più giovani di un epopea che magari si è persa in tempo reale, ma che nulla vieta di recuperare facendola propria a posteriori: Emotional Tattoos, però, è bene ribadirlo, non ha nulla di nostalgico a livello di sonorità, bensì appare in tutto e per tutto un album assolutamente al passo con i tempi, e se l’impronta della vecchia PFM è sempre lì, ben presente nel ricordarci chi siano gli autori di Celebration (Freedom Square), sono brani dal tocco più moderno come il favoloso singolo La Lezione o caleidoscopici come La danza degli specchi, con la quale i nostri portano a scuola diverse generazioni di musicisti, a risplendere con tratti quasi accecanti all’interno di una tracklist tutta da godersi e della quale appare quanto mai superfluo, se non irrispettoso, stare a raccontarne ogni singolo episodio per filo e per segno, facendo le pulci all’operato di musicisti ai quali andrebbero piuttosto intitolate vie e piazze in segno di imperitura gratitudine.
Come ciliegina sulla torta la PFM ha pubblicato Emotional Tattoos nel formato in doppio cd offrendo agli appassionati la possibilità di ascoltare l’album sia in lingua madre che in inglese: il mio consiglio è quello di godere di entrambe le versioni, in quanto alcuni brani si esaltano nella versione anglofona (The Lesson è molto più efficace rispetto a La Lezione), mentre in altri casi l’afflato poetico che l’italiano emana a prescindere fa la differenza nel confronto tra Il Regno e We’re Not An Island e tra La Danza degli Specchi e A Day We Share.
Il ritorno della Premiata Forneria Marconi è il trionfo della classe, del talento e della passione, è il veicolo ideale di quelle emozioni che solo la musica sa regalare, imprimendole virtualmente sulla nostra pelle affinché si trasformino in nutrimento per l’anima.
Tracklist:
CD 1 – English version
1. We’re Not An Island
2. Morning Freedom
3. The Lesson
4. So Long
5. A Day We Share
6. There’s A Fire In Me
7. Central District
8. Freedom Square
9. I’m Just A Sound
10. Hannah
11. It’s My Road
CD 2 – Italian version
1. Il Regno
2. Oniro
3. La lezione
4. Mayday
5. La danza degli specchi
6. Il cielo che c’è
7. Quartiere generale
8. Freedom Square
9. Dalla Terra alla Luna
10. Le cose belle
11. Big Bang
Line-up:
Franz Di Cioccio: lead vocals, drums
Patrick Djivas: bass
Alessandro Scaglione: keyboards, Hammond, Moog
Lucio Fabbri: violin
Marco Sfogli: guitars
Roberto Gualdi: drums
Alberto Bravin: keyboards, backing vocals
One Light Year è tutt’altro che un lavoro superfluo o anacronistico e, di conseguenza, le band come i Marygold vanno solo supportate e ringraziate per la loro impagabile passione ed i brividi che riescono a trasmettere.
La storia dei Marygold parte piuttosto da lontano, dovendo risalire alla metà degli anni novanta per trovarne la prime tracce nelle vesti di cover band dei Marillion eraFish e dei Genesis.
Dopo aver intrapreso la lodevole strada della composizione di brani originali ed aver ottenuto buoni riscontri all’epoca della loro unica uscita su lunga distanza, The Guns of Marygold, datato 2006, la band veronese ha dovuto far fronte agli intralci tipici di chi dalla musica trae gratificazioni di tutti i generi fuorché quelle economiche.
Il ritorno, concretizzatosi un paio d’anni fa e che ha dato quale frutto l’uscita di One Light Year sotto l’egida della Andromeda Relix, si può a buona ragione definire tra l’affascinante e l’anacronistico: infatti, chi ha apprezzato nello scorso secolo tali sonorità dovrebbe trovare di che compiacersi per una loro riproposizione così ortodossa ed efficace ma, d’altro canto, lecitamente molti potrebbero chiedersi se oggi abbia ancora un senso proporre qualcosa che appare così marcatamente legato ad un epopea ben definita temporalmente.
La risposta ovvia a quest’ultima domanda è che comunque la buona musica un suo senso ce l’ha sempre, sia che possa sembrare obsoleta sia che pecchi manifestamente in originalità; a tale proposito ribalto le perplessità sui molti che accorrono a frotte ad ascoltare quella stessa musica riproposta da pur ottime cover band ignorando del tutto, nel contempo, chi invece prova a rinverdirne le gesta con brani di proprio conio.
I Marygold appartengono appunto a quest’ultima categoria e non fanno nulla per nascondere la devozione per i Marillion dei capolavori corrispondenti ai primi tre full length della loro discografia e, conseguentemente, anche quella per i primi Genesis, oltre a riferimenti ad altre importanti band della seconda ondata del prog inglese come gli IQ e i Pendragon.
Le composizioni che fanno parte di One Light Year sono facilmente riconoscibili per le loro trame grazie a un tocco tastieristico e chitarristico inconfondibile e un cantato che si ispira all’accoppiata Gabriel/Fish, con risultati apprezzabili per intensità anche se brillando un po’ meno rispetto alla sezione strumentale.
Il progressive dei Marygold è competente, elegante ed ispirato il giusto per rispedire al mittente qualsiasi obiezione: i sette lunghi brani non cambieranno la storia del genere ma sicuramente sono funzionali a rinsaldarne il peso all’interno della musica contemporanea: perché, diciamolo forte e chiaro, ascoltare queste canzoni nelle quali una chitarra rotheryana regala più di un passaggio da ricordare è un qualcosa che fa bene all’animo e allo spirito di chi quei bei tempi un po’ li rimpiange, non solo per motivi strettamente musicali. One Light Year si trasforma così in un sempre gradito e ben poco disagevole viaggio a ritroso nel tempo: per quanto mi riguarda, l’ascolto di brani splendidi come Spherax H2O e Without Stalagmite (ne cito due quali esempi ma il discorso lo si può fare indistintamente anche per le altre cinque tracce) si rivela come una sorta di ritorno a casa, dove ad attendermi ci sono i dischi e le musicassette del genere che mi hanno sempre accompagnato fin dall’adolescenza, facendomi scoprire quanto siano irrinunciabili le emozioni che le sette note possono donare.
Ecco elencati i motivi per cui One Light Year non è affatto un lavoro superfluo e perché, piuttosto, le band come i Marygold vadano solo supportate e ringraziate per la loro impagabile passione ed i brividi che riescono a trasmettere.
Tracklist:
Ants in the Sand
2.15 Years
3.Spherax H2O
4.Travel Notes on Bretagne
5.Without Stalagmite
6.Pain
7.Lord of Time
Evil In The Dark è un album che va lavorato non poco per apprezzarne il sound fuori dai consueti schemi: un’opera di un’originalità unica, oscura e a tratti opprimente, destinata a lasciare il segno.
I veronesi Black Hole fanno parte di quella eletta schiera di band provenienti dagli anni ottanta che si possono sicuramente considerare di culto.
Il leggendario primo album, uscito nel 1985, è ancora oggi considerato uno dei lavori più oscuri mai usciti, non solo nella nostra penisola, così come un’aura misteriosa ha sempre accompagnato il leader Robert Measles, polistrumentista, personaggio schivo e fuori dai consueti circuiti che accomunano gran parte dei musicisti.
Il loro ultimo lavoro targato 2000 non era altro che una raccolta di registrazioni datate 1988/89, poi ancora silenzio prima che l’Andromeda Relix arrivasse a licenziare Evil In The Dark, opera che raccoglie vecchie sessioni dei primi anni novanta e nuove tracce.
Detto che la formazione dei Black Hole comprende Robert Measles, alle prese con voce, tastiere e drum machine, il chitarrista Michael Sinnicus ed il batterista Robin Hell, che compare su tre tracce, ci inoltriamo tra le trame occulte ed esoteriche di questa mastodontica opera oscura intitolata Evil In The Darke nella sua alternanza di parti doom metal, dark e new wave anni ottanta, unite a sprazzi di progressive dark rock.
Un album di difficile catalogazione, un ascolto assolutamente affascinante ma dannatamente ostico, almeno per i canoni odierni; la musica dei Black Hole, infatti, è fortemente legata ad un concetto apocalittico, a tratti da colonna sonora, in altri momenti legata da un filo di spine alla musica elettronica e alla dark wave meno commerciale, cosa che si evince specialmente nelle due parti di X Files, cuore di questo lungo viaggio in quello che è, nella sua interezza, un peregrinare tra la parte più oscura di questo drammatico nuovo millennio.
Non fatevi ingannare dall’artwork : il cimitero sconsacrato, le croci rovesciate sulle tombe, i tre loschi figuri incappucciati con le asce sporche di sangue e l’oscura fortezza sul retro non vi porteranno tra facili storielle fantasy, ma toccherete con mano la terribile paura dell’occulto e della morte, del mistero e di un futuro incerto con le fredde tastiere dal suono che si insinuerà nella vostra testa come un diabolico serpente. Evil In The Dark è un album che va lavorato non poco per apprezzarne il sound fuori dai consueti schemi: un’opera di un’originalità unica, oscura e a tratti opprimente, destinata a lasciare il segno.
Tracklist
1.Evil in the Dark
2.Alien Woman
3.Holy Grail
4.Octopus Tenebricus
5.The Way of Unwitting
6.Astral World
7.X Files
8.X Files Part II
9.Inferi Domine
10.Dangerous Beings
11.Nightmare
12.The Final death
Line-up
Robert Measles – All instruments
Michael Sinnicus – Guitars
Robin Hell – Drums
I tre musicisti statunitensi sono protagonisti di un’originale esempio di hard rock progressivo che si nutre di molte sfumature del rock contemporaneo e di metal estremo, pur mantenendo un approccio vintage che li accomuna a tanti nuovi gruppi dal sound che si ispira agli anni settanta.
Meritano di essere portati all’attenzione dei lettori di MetalEyes gli Old Man Wizard, trio attivo tra San Diego e Los Angeles con il debutto sulla lunga distanza licenziato nel 2013 (Unfavorable, uscito anche nella versione strumentale) e questo singolo che funge da apripista al nuovo album in uscita (Blame It All On Sorcery).
I tre musicisti statunitensi sono protagonisti di un’originale esempio di hard rock progressivo che si nutre di molte sfumature del rock contemporaneo e di metal estremo, pur mantenendo un approccio vintage che li accomuna a tanti nuovi gruppi dal sound che si ispira agli anni settanta.
I due brani (Innocent Hands e The Blind Price) si compongono di umori diversi, ora alternativi ora smaccatamente hard progressivi e dai rimandi alla tradizione, mentre le vocals molto melodiche contrastano con ritmiche pesanti, ma varie grazie al gran lavoro della sezione ritmica.
Prendete i Soundgarden e maltrattateli con dosi massicce di progressive e metal estremo, poi accarezzateli con sfumature rock di estrazione americana ed avrete più o meno un’idea di quello che suonano Andre Beller (voce e basso), Francis Roberts (chitarra e voce) e Kris Calabio (batteria e voce).
Inutile dirvi che la curiosità per il full length in arrivo non manca, quindi occhio alle nostre pagine virtuali.
Tracklist
1.Innocent Hands
2.The Blind Prince
Line-up
Andre Beller – Bass Guitar, Vocals
Francis Roberts – Guitar, Vocals, etc.
Kris Calabio – Drums, Vocals
Valorizzato da atmosfere teatrali ed in alcuni casi pomposamente cinematografiche, Blackbox risulta un ascolto maturo, conseguenza di un approccio esemplare per quanto riguarda le interpretazioni vocali e soluzioni musicali fuori da schemi prestabiliti.
La tradizione scandinava per i suoni progressivi continua a donarci band e lavori che rientrano in quell’aura cult riservata alla musica d’eccellenza e che, inevitabilmente, rimane ad esclusiva o quasi degli appassionati che non si sono fermati al 1975 o giù di li, ma ai quali piace andare oltre l’ovvio.
I Major Parkinson sono una band norvegese attiva da anni e con una già buona discografia alle spalle (questo è il quarto full length), ed una formazione che si rinnova quasi ad ogni album.
Gli otto musicisti sono impegnati in Blackbox, album che unisce varie sfumature della musica progressiva, passando con disinvoltura da note rock tradizionale all’uso dell’elettronica, a dire il vero abbondante tra i brani che escono dalla scatola nera, con intrecci di musica a 360° che abbraccia al suo interno una moltitudine di suoni, creando un sound originale ed affascinate, tra strumenti classici, elettricità rock e tappeti di chiara ispirazione ottantiana.
Esaltato dalla prova dello straordinario Jon Ivar Kollbotn al microfono (non solo un vocalist, ma un interprete a tutto tondo), l’album si dipana tra magiche soluzioni progressive, teatrali e moderne, con un’aura oscura che permea il sound con soluzioni e sorprese nel songwriting, che vanno da citazioni più o meno famose (passando da Bowie agli Ultravox) ad atmosfere cinematografiche ed originali come in Night Hitcher o Madeleine Crumbles. Blackbox ha bisogno di qualche ascolto in più e tanta apertura mentale nel saper cogliere le varie e suggestive ispirazioni che la band unisce ad un indubbio talento nel saper scrivere musica fuori dai soliti schemi progressivi odierni, che siano legati alla tradizione o che guardino a soluzioni intimiste e moderne care ai gruppi odierni.
Valorizzato da atmosfere teatrali ed in alcuni casi pomposamente cinematografiche, Blackbox risulta un ascolto maturo, conseguenza di un approccio esemplare per quanto riguarda le interpretazioni vocali e soluzioni musicali fuori da schemi prestabiliti.
Tracklist
1.Lover, Lower Me Down!
2.Night Hitcher
3.Before the Helmets
4.Isabel - A Report to an Academy
5.Scenes from Edison’s Black Maria
6.Madeleine Crumbles
7.Baseball
8.Strawberry Suicide
9.Blackbox
Line-up
Jon Ivar Kollbotn – lead vocals
Eivind Gammersvik – bass, backing vocals
Lars Christian Bjørknes – piano, synth, organs, programming, notation, backing vocals
Sondre Sagstad Veland – drums, percussion, backing vocals
Sondre Rafoss Skollevoll – guitar, backing vocals
Øystein Bech-Eriksen – guitar
Claudia Cox – violin, backing vocals
Linn Frøkedal – guest vocals
Un rock che spazia tra vari generi, a tratti sfiorando la musica d’autore, sempre velato di melanconia dark e per questo vicino alle nuove leve della musica progressiva, meno legate al tecnicismo e più aperte a soluzioni emozionali ed intimiste.
Progressive rock moderno e alternativo, ormai non più così originale come qualche anno fa, ma molto suggestivo e drammaticamente dark.
The Man In A Glass è il debutto in formato ep dei nostrani Stairs Of Life, gruppo attivo nella capitale da qualche anno e ora sul mercato grazie alla Sliptrick Records.
Un rock che spazia, dunque, tra vari generi, a tratti sfiorando la musica d’autore, sempre velato di melanconia dark e per questo vicino alle nuove leve della musica progressiva, meno legate al tecnicismo e più aperte a soluzioni emozionali ed intimiste.
Meno metal di quello che ci si poteva aspettare, il sound del gruppo romano si incupisce e, dolcemente intriso di disperata malinconia, porta con sé quel male di vivere e storie al limite raccontate con buona padronanza della materia che nella musica degli Stars Of Life si traduce in atmosfere e sfumature progressivamente tinte di grigio, colore dell’anima di chi usa l’alcol (The Man in the Glass) per sfuggire alla realtà, di chi perde una persona amata (You Are Gone) o chi è costretto ad interpretare un ruolo non suo per affrontare la vita di tutti giorni (The Mask).
La musica della band segue quindi il mood oscuro e melanconico del progressive moderno e dai rimandi alternativi, quindi le ispirazioni del gruppo vanno dai Porcupine Tree agli ultimi Anathema, passando per le classiche influenze pinkfloydiane. The Man In A Glass è un buon esordio e se il genere è presente nelle vostre corde, vi saprà regalare una ventina di minuti di musica raffinata ed emozionante.
Tracklist
01. Mask
02. The Man In A Glass
03. You Are Gone
04. Our Lady Of Grace
La speranza è che questo, per i Párodos, sia solo il primo passo del brillante cammino intrapreso da una nuova band formata da musicisti che, forse proprio in quest’ambito, paiono aver trovato la loro ideale dimensione.
Anche se il monicker Párodos è una novità nella scena metal italiana, si tratta in realtà del prodotto dell’unione di musicisti già attivi in diverse band dell’area salernitana.
Catharsis dimostra in ogni passaggio d’essere frutto di un lavoro di squadra nel quale nulla è stato lasciato al caso, partendo dal pregevole songwriting per arrivare alla realizzazione curata da Marco Mastrobuono ai Kick Recordings Studio di Roma, in quella che si può considerare la fucina sonora per eccellenza del metal italiano centro-meridionale.
L’etichetta di avantgarde/post black attribuita ai Párodos può starci anche se, come spesso accade, vuol dire tutto e niente, visto che qui troviamo certamente qualche accelerazione di matrice black, ma anche una ricerca melodica che spinge spesso il sound su versanti heavy progressive, mantenendo quale tratto comune un’oscurità di fondo che ben si addice ai contenuti lirici dell’album. Catharsis, infatti, scaturisce dall’elaborazione di un lutto entrando a far parte di quella categoria di dischi che, oltre ad essere riusciti da un punto di vista prettamente artistico, racchiudono quella scintilla di creatività derivante dalla volontà di omaggiare qualcuno che non c’è più ottenendo, appunto, il desiderato effetto “catartico”.
L’album è brillante in ogni sua parte, a partir dall’interpretazione vocale versatile di Marco Alfieri, per arrivare all’elegante ed incisivo lavoro tastieristico di Giovanni Costabile, passando per la puntualità ritmica della coppia Gianpiero “Orion” Sica (basso) ed Alessandro Martellone (batteria), e per il sobrio ed efficace lavoro chitarristico di Francesco Del Vecchio: è notevole l’equilibrio che i Párodos riescono a mantenere tra la tensione drammatica e l’impatto melodico, che sovente squarcia con decisione il velo di oscurità che attanaglia un album di grande intensità emotiva. Space Omega, la title track e Metamorphosis sono i brani che spiccano in un contesto di spessore talvolta sorprendente, e gli ospiti illustri nelle persone dello stesso Marco Mastrobuono (Hour Of penance), Massimiliano Pagliuso (Novembre) e Francesco Ferrini (Fleshgod Apocalyspe) arricchiscono del loro personale marchio di qualità un’opera che si dimostra già dopo pochi ascolti ben superiore alla media.
La speranza è che questo, per i Párodos, sia solo il primo passo del brillante cammino intrapreso da una nuova band formata da musicisti che, forse proprio in quest’ambito, paiono aver trovato la loro ideale dimensione.
Tracklist:
1. Prologue
2. Space Omega
3. Catharsis
4. Heart of Darkness
5. Stasima
6. Black Cross
7. Evocazione
8. Metamorphosis
9. Exodus
Line-up:
Marco “M.” Alfieri – Vocals
Giovanni “Hybris” Costabile – Synth & Keyboards
Francesco “Oudeis” Del Vecchio – Guitars
Gianpiero “Orion” Sica – Bass
Alessandro “Okeanos” Martellone – Drums & Percussions
Special Guests :
Marco Mastrobuono – fretless bass in “Space Omega”, “Black Cross”, “Evocazione”
Massimiliano Pagliuso – guitar solo in “Black Cross”
Francesco Ferrini – “Stasima”, fully arranged and composed
L’operato degli Arabs In Aspic appare sostanzialmente come un’oasi di purezza, una sorta di valicamento di un portale spazio temporale capace di far rivivere emozioni antiche.
Quando il monicker di una band contiene la parola “aspic” e il genere offerto è il progressive, scatta inevitabilmente l’associazione di idee con uno dei tanti capolavori dei King Crimson.
Se poi, fin dalle prime note della title track, non si fa nulla per nascondere la devozione per la creatura frippiana, con i primi cinque minuti che omaggiano brani come, appunto, Larks’ Tongues In Aspic, Pictures Of A City e Easy Money, in una maniera così esplicita da apparire per assurdo del tutto limpida ed onesta, è evidente che gli Arabs In Aspic riavvieranno il consueto ed irrisolto dibattito che verte sull’utilità o meno di riproporre sonorità la cui genesi risale, ormai, a quasi mezzo secolo fa.
In fondo, la vita dei musicisti che si dedicano oggi a questo genere non è facile, almeno in Italia: l’appassionato di vecchia data, salvo rare eccezioni, si è fermato nella migliore delle ipotesi alla fine degli anni ’70, rigettando a priori qualsiasi proposta proveniente da band di formazione recente e presenziando regolarmente i concerti dei pochi reduci rimasti o, piuttosto, quelli delle numerose (e spesso ottime, bisogna ammetterlo) cover band dei gruppi storici; chi è approdato all’ascolto del prog nel nuovo secolo, invece, è più probabile che possa apprezzare maggiormente un diverso approccio, prendendo come punto di riferimento gruppi che in qualche modo contaminano il genere con robuste iniezioni metalliche.
Ecco perché, paradossalmente, una riproposizione così fedele alla tradizione, come è quella offerta dalla band norvegese, merita il massimo rispetto, visto che dietro non ci può essere alcun calcolo di tipo commerciale ma, semmai, uno smisurato amore per quelle sonorità che cambiarono non poco la vita a chi nacque negli anni ‘50 e ‘60.
L’approccio alla materia degli Arabs In Aspic è rispettoso, competente e a tratti commovente: la title track, posta in apertura dell’album, come già detto, dissipa qualsiasi dubbio su quali possano essere i contenuti dell’album, con il suo veleggiare spedito grazie alla spinta di possente vento crimsoniano.
Le altre due tracce che vanno a comporre la tracklist di Syndenes Magi si intitolano Mörket 2 e Mörket 3, si sviluppano complessivamente per circa mezz’ora e cambiano parzialmente le coordinate sonore, non tanto per un’ipotetica modernizzazione del sound ma, piuttosto, per il loro aprirsi alla ricerca di nuove fonti di ispirazione che, in particolare nelle parti chitarristiche e per l’approccio vocale, portano direttamente ai Pink Floyd.
A proposito della voce, i nostri decidono di utilizzare la lingua madre, scelta che potrà anche apparire opinabile visto che il norvegese non è certo idioma di grande musicalità, ma che in quest’occasione conferisce al tutto un minimo di peculiarità.
La lunga traccia di chiusura conferma tutto quanto ci si poteva prefigurare in base ai venti minuti di musica offerti in precedenza, offrendone altrettanti nei quali la qualità complessiva non scende mai sotto la soglia dell’eccellenza, al netto dei riferimenti espliciti che si palesano di volta in volta (i vocalizzi femminili sono per esempio un rimando ai Pink Floyd di The Great Gig In The Sky), che devono essere visti, appunto, come un rispettoso omaggio e non come una comoda scorciatoia compositiva.
Gli Arabs In Aspic, infatti, sono molto di più che degli abili copisti, e la loro forza è la grande coerenza, quella che in certi passaggi fa stentare a credere che Syndenes Magi sia stato pubblicato in un’epoca come quella odierna, nella quale la sensibilità ed il romanticismo sono sentimenti sempre più sopraffatti dalla protervia di un’umanità che prosegue inconsapevole la propria folle corsa verso il baratro.
Ecco, quindi, che l’operato degli Arabs In Aspic appare sostanzialmente come un’oasi di purezza, una sorta di valicamento di un portale spazio temporale capace di far rivivere emozioni antiche, provocando forse anche un po’ di nostalgia, mista al piacere di ritrovare ancora oggi qualcuno in grado di evocare quelle stesse sensazioni proponendo meritoriamente musica scritta di proprio pugno.
Tracklist:
1.Syndenes magi
2.Mörket 2
3.Mörket 3
Line up:
Jostein Smeby: Guitars, Vocals
Stig Jørgensen: Keyboards, Organs
Erik Paulsen: Bass, Vocals
Eskil Nyhus: Drums
Un album nato da un’arcobaleno di tonalità che dal nero si spostano al grigio, teatrale ed affascinante: Edge Of Chaos è un lavoro riuscito, magari di nicchia, ma in grado di intrattenere le anime dalla sensibilità dark che popolano le notti del nuovo millennio.
Misteri, leggende, storie tramadate per secoli in una città che fu repubblica e crocevia di razze, ombre che le strette strade dei vicoli trasformano in oscure creature che ci inseguono fino al mare.
Una Genova alternativa fuori dagli sguardi superficiali dei turisti o di chi vive la città senza fermarsi un attimo a condividerne l’anima e la sua totale devozione alla musica rock, fin dai tempi dell’esplosione progressiva negli anni settanta, dei cantautori e del sottobosco musicale che ha dato i natali a straordinarie realtà metal.
In questo contesto si colloca la Black Widow Records e di conseguenza i Bluedawn, band heavy/prog doom metal capitanata dal bassista e cantante Enrico Lanciaprima, attiva dal 2009 ed arrivata con questo Edge Of Chaosal terzo capitolo di una discografia che si completa con il primo album omonimo e Cycle Of Pain, licenziato quattro anni fa.
Con l’aiuto di una serie di ospit,i tra cui spicca Freddy Delirio (Death SS), la band genovese esplora in lungo e in largo il mondo oscuro del doom/dark progressivo, ed Edge Of Chaos risulta così un lavoro affascinante anche se pesante e dipinto di nero, cantato a due voci da Lanciaprima e da Monica Santo, interprete perfettamente calata nel sound disperatamente oscuro e malato dell’album.
E sin dalle prime note dell’intro The Presence la tensione e la soffocante atmosfera dell’album sono ben evidenziate, con un’aura occulta ed evocativa a permeare tutti i brani dell’opera che sono valorizzati dai vari ospiti e da un uso molto suggestivo delle voci, uno dei punti di forza di un brano come Dancing On The Edge Of Chaos.
Il sax di Roberto Nunzio Trabona conferisce ad alcune tracce un tocco crimsoniano e l’anima progressiva del gruppo si fa tremendamente mistica ed occulta, con accenni atmosferici a Devil Doll ed al dark rock dei Fields Of The Nephilim, mentre la parte elettronica spinge la splendida The Serpent’s Tongue verso il podio virtuale all’interno della tracklist di Edge Of Chaos.
Sofferto, pesante ma tutt’altro di ascolto farraginoso, il pregio di questo lavoro è proprio quello di tenere l’ascoltatore con le cuffie ben salde alle orecchie: le sorprese del primo passaggio nel lettore diventano conferme dello stato di salute dei Bluedawn che, al terzo album, centrano il bersaglio, come confermato dalla notevole Baal’s Demise, nella quale tornano protagonista il sax, e di conseguenza, le sfumature crimsoniane.
Un album nato da un’arcobaleno di tonalità che dal nero si spostano al grigio, teatrale ed affascinante: Edge Of Chaos è un lavoro riuscito, magari di nicchia, ma in grado di intrattenere le anime dalla sensibilità dark che popolano le notti del nuovo millennio.
Tracklist
1.The Presence
2.Sex (Under A Shell)
3.The Perfect me
4.Serpent’s Tongue
5.Dancing On The Edge Of Chaos
6.Wandering Mist
7.Black Trees
8.Burst Of Life
9.Sorrows Of The Moon
10.Baal’s demise
11.Unwanted Love
Line-up
Monica Santo – Vocals
Enrico Lanciaprima – Bass, Vocals
Andrea “Marty” Martino – Guitars
Andrea Di Martino – Drums
James Maximilian Jason – Keyboards, Synth, Vocals
Caesar Remain – Guitars
Roberto Nunzio trabona – Saxophone
Marcella Di Marco – Vocals
Freddy delirio – Keyboard, Synth
Matteo Ricci – Guitars
Children Of The Sounds è un lavoro suggestivo, un ritorno alle armonie ed alle melodie dei grandi del passato ma con un taglio moderno.
Preparatevi a sognare, lasciatevi prendere per mano dalla ragazzina in copertina ed entrate senza indugi nel mondo fatato del bellissimo ultimo lavoro della storica band progressive svedese Kaipa, che prosegue una storia nata a metà degli anni settanta e proseguita fino ai giorni d’oggi all’insegna di un elegante rock progressivo.
Quella che è probabilmente la migliore e più longeva tra le band della tradizione progressiva scandinava torna con Children Of The Sounds, album d’altri tempi, un viaggio tra il progressive rock britannico, classico e derivativo quanto volete, ma che sprigiona classe da tutti i pori.
Stupende fughe tastieristiche, verve elettrica dai rimandi new prog britannici, un lavoro al microfono straordinario, con le due voci (Patrik Lundström e Aleena Gibson) che si alternano nel raccontare questo viaggio fantastico nel paese delle meraviglie della musica progressiva. Children Of The Sounds è un lavoro suggestivo, un ritorno alle armonie ed alle melodie dei grandi del passato ma con un taglio moderno, che si evince da una produzione cristallina, e con qualche tocco più duro in alcune soluzioni chitarristiche che portano il sound in zona Arena e Threshold, ma tenendo ben stretto il cordone ombelicale che lega il gruppo svedese ai sui primi passi negli anni settanta (Genesis e Yes).
Come si faceva una volta, ai Kaipa bastano cinque brani, lunghe suite progressive nelle quali sfogare il proprio talento senza far perdere, neanche per un attimo, all’ascoltatore la giusta attenzione per seguire gli intrecci disegnati su uno spartito d’altri tempi, una pergamena d’oro dove nascoste tra le pieghe si intravedono le note delle splendide On The Edge Of New Horizons (diciassette minuti di perfezione progressiva) e Like A Serpentine.
Un’opera sontuosa, assolutamente imperdibile per gli amanti del progressive rock dal taglio classico.
Tracklist
1. Children of the Sounds
2. On The Edge of New Horizons
3. Like A Serpentine
4. The Shadowy Sunlight
5. What’s Behind The Fields
Line-up
Hans Lundin – Keyboards & vocals
Per Nilsson – Electric & acoustic guitars
Morgan Ågren – Drums
Jonas Reingold – Electric basses
Patrik Lundström – Vocals
Aleena Gibson – Vocals
Licenziato da Inside Out, una garanzia nei suoni progressivi, In Contact risulta un album con più luci che ombre ma con diversi dettagli da registrare per la band australiana, che a mio parere ha da fare ancora un po’ di strada prima di arrivare ad ambire ad un posto al sole nel panorama progressivo odierno.
Questa volta non posso esimermi da fare una considerazione per alcuni antipatica: il progressive moderno, che poi in molti casi non è altro che rock/metal alternativo dilatato e con soluzioni ritmiche prese in prestito dal tanto vituperato prog metal (alla Dream Theater, per intenderci) che ormai si può tranquillamente definire classico, sta arrivando ad un punto di non ritorno.
Mentre viene sempre più accettato nell’ambiente del prog che conta, le band che veramente fanno la differenza si contano sulle dita di una mano: il resto è buona musica, a tratti intimista e lasciata in balia delle tempeste alternative.
Gli australiani Caligula’s Horse si posizionano perfettamente tra le realtà che ambiscono ad un posto di primo piano nel nuovo progressive mondiale e quelle che rischiano inevitabilmente di cadere in uno stagno da dove rimane difficile riemergere, musicalmente e concettualmente parlando.
Attivi da ormai sette anni, i nostri arrivano al traguardo del quarto album con In Contact, un lavoro che come si diceva rimane incastrato tra il progressive moderno ed il metal, un palazzo di note che crolla ed imprigiona il sound in schemi ormai abusati da gruppi più o meno noti e giunti alla ribalta negli ultimi tempi.
Grande preparazione strumentale, ghirigori ritmici, qualche buona idea ma un sentore di già sentito pervade l’ascolto già dalle prime note dell’opener Dream the Dead.
Non fraintendetemi, In Contact è un buon lavoro e non mancherà di trovare estimatori negli amanti del rock progressivo e di band come Karnivool e Tesseract, però manca l’ispirazione vincente, quella che porterebbe a giudicare con più entusiasmo brani già di per sé buoni come Songs For No One, Fill My Heart o la conclusiva suite Graves.
Licenziato da Inside Out, una garanzia nei suoni progressivi, In Contact risulta un album con più luci che ombre ma con diversi dettagli da registrare per la band australiana, che a mio parere ha da fare ancora un po’ di strada prima di arrivare ad ambire ad un posto al sole nel panorama progressivo odierno.
Tracklist
01. Dream the Dead
02. Will’s Song (Let the Colours Run)
03. The Hands are the Hardest
04. Love Conquers All
05. Songs for No One
06. Capulet
07. Fill My Heart
08. Inertia and the Weapon of the Wall
09. The Cannon’s Mouth
10. Graves
Line-up
Jim Grey – lead vocals
Sam Vallen – lead guitar
Adrian Goleby – guitar
Dave Couper – bass & vocals
Josh Griffin – drums
Detto senza alcuna remora, To The Bone è rappresentazione di pop/rock ai suoi massimi livelli, elegante, accattivante e colto il giusto per riscuotere favori da più parti.
Steven Wilson condivide la sorte di quelli che, quando eravamo ragazzini, venivano costantemente elogiati da professori o dagli altri genitori come esempi di dedizione allo studio, educazione ed ulteriori virtù assortite, finendo loro malgrado per risultare antipatici a più di qualcuno.
Del resto il suo stesso aspetto professorale e la nomea di nuovo Re Mida del prog rock fanno sì che la voglia di coglierlo in fallo superi talvolta la speranza di ascoltare buona musica: con questo suo nuovo album solista, intitolato To The Bone, il musicista inglese prova a fornire altri spunti ai suoi abituali detrattori, abbandonando del tutto o quasi ogni ortodossia di stampo progressive per concedersi digressioni verso i generi più disparati, spingendosi in qualche caso persino ad un utilizzo del falsetto degna della disco music dei tempi d’oro.
La mia impressione è che Wilson, dopo aver ammaliato noi appassionati (anche) di metal con il formidabile In Absentia, nella restante produzione con i Porcupine Tree e in altri progetti abbia sempre goduto di una buona stampa che andava ben oltre l’effettivo valore di album ricchi di forma più che di sostanza, sebbene fosse dotato di una classe superiore alla media non sempre sfruttata a dovere per colpire ed emozionare realmente gli ascoltatori; così, con il fucile ben carico e spianato, mi sono immerso nell’ascolto di quest’album che, come da copione quando si parte armati di cattive intenzioni, mi è piaciuto invece molto proprio in virtù della sua varietà e di una certa voglia di osare.
In sede di presentazione dell’album è stato ipotizzato un parallelismo tra Wilson e Peter Gabriel, accomunando l’approccio stilistico del primo in To The Bone alla svolta che fece a suo tempo l’ex vocalist dei Genesis con So: un paragone, questo, che lì per lì può sembrare quasi un delitto di lesa maestà ma che, a ben vedere, ci può stare a livello di attitudine, ferme restando la diversa caratura complessiva dei due musicisti e soprattutto una differente incisività a livello interpretativo; poi, se la splendida Pariah è un po’ la Don’t Give Up gabrieliana, con relativo supporto di una voce femminile e tematiche non del tutto dissimili, Permanating, con il suo incedere danzereccio può equivalere a Sledgehammer, anche se in realtà sembra trovare più le sue radici nei migliori Style Council.
Qui, in fondo, finisce il gioco dei parallelismi e comincia invece la necessità di valutare con onestà l’operato di un musicista che, effettivamente, possiede la capacità innata di creare melodie fruibili, apparentemente leggere ma capici invece di occupare più a lungo del previsto ampi spazi nella memoria di chi ascolta.
Oltre alle canzoni citate, anche la title track, la hogarthiana Refuge, la tenue Blank Tapes, secondo duetto dopo quello di Pariah con un’interprete entusiasmante come Ninet Tayeb (sempre sia lodato Steven per averci fatto scoprire questa meravigliosa cantante israeliana), la progressiva nel senso più autentico del termine Detonation e la conclusiva Song Of Unborn vivono di un’intensa luce propria, perché se è vero che Wilson in più di un frangente può ricordare questa o quella band più in singoli passaggi che per interi brani (per esempio alcuni break vocali in The Same Asylym richiamano gli Yes di 90125), è innegabile che grazie al suo talento il tutto appare ben lontano dall’essere solo un abile lavoro di taglio e cucito.
Forse l’unico momento dell’album nel quale il nostro esce fuori dal seminato è una inoffensiva Song Of I, con il suo pseudo trip hop, mentre il resto è, diciamolo pure senza remore, una rappresentazione di pop/rock ai suoi massimi livelli, elegante, accattivante e colto il giusto per riscuotere favori da più parti (con esclusione forse delle fasce più retrive di progsters che vedevano in Wilson un possibile successore dei grandi del passato). To The Bone non è un’opera che lascerà segni profondi nella storia della musica ma è un disco brillante e a suo modo onesto, proprio perché Steven Wilson non si nasconde dietro ad un approccio cervellotico o intellettualoide per giustificare (perché mai dovrebbe?) una svolta decisa verso sonorità più dirette ma tutt’altro che di valore trascurabile.
Tracklist:
1.To The Bone
2.Nowhere Now
3.Pariah
4.The Same Asylum As Before
5.Refuge
6.Permanating
7.Blank Tapes
8.People Who Eat Darkness
9.Song Of I
10.Detonation
11.Song Of Unborn
Line up:
Steven Wilson – Vocals, Keyboards, Guitars, Bass
Paul Stacey – Guitars
Adam Holzman – Hammond, Piano
Pete Eckford – Percussions
Jeremy Stacey – Drums
Ninet Tayeb – Vocals on 3. 7.
Sophie Hunger – Vocals on 9.
Mark Feltham – Harmonica on 1. 5.