Il video di The Wolf Within, dall’album Law of the Jungle in uscita a fine marzo (Jolly Roger Records).
Il video di The Wolf Within, dall’album Law of the Jungle in uscita a fine marzo (Jolly Roger Records).
Jolly Roger Records è orgogliosa di rivelare tutti i dettagli del nuovo ed atteso album della Strana Officina, una delle bands italiane piu’ amate dal pubblico in ambito HM classico, grazie ad una carriera quarantennale e ad una tenacia, passione e dedizione che l’hanno resa piu forte delle stesse tragedie che l’hanno duramente colpita nel corso degli anni.
Solo grazie a questo forte amore che lega indissolubilmente Bud, Enzo, Dario e Rola al nome Strana Officina, ricambiato incondizionatamente dai fans che non hanno mai smesso di supportarli durante tutti questi anni e tutti questi km macinati in giro per concerti che “Law of the Jungle” ha un senso ed un motivo di esistere.
Il disco, nei formati Cd ed Lp (diverse edizioni disponibili, preordini aperti qui) sara’ disponibile dal 29 Marzo sul mailorder della JRR e nelle date live quali il 29 Marzo al Santomato di Pistoia, il 30 Marzo al Jailbreak di Roma e sabato 20 Aprile all’ Acciaio Italiano Festival 9 all’ Arci Tom di Mantova.
Data di uscita per distribuzione digitale (tutte le piattaforme) e negozi: 19 Aprile
Di seguito la tracklist
LAW OF THE JUNGLE
CRAZY ABOUT YOU
ENDLESS HIGHWAY
THE WOLF WITHIN
SNOWBOUND
THE DEVIL & MR. JOHNSON
LOVE KILLS
DIFENDI LA FEDE
GUERRA TRISTE
IL BUIO DENTRO (Cd Bonus)
Il sound è grezzo, registrato sicuramente in presa diretta fuori da qualsivoglia ambizione commerciale e creato e suonato come un lungo rituale pagano, una sorta di jam divisa in sei capitoli in cui rock acustico, atmosfere psichedeliche fine anni sessanta ed un tocco di pazzia compositiva rendono il tutto a suo modo originale.
I The Absense sono un quartetto di ispirazione pagana composto dai due fratelli Siri (Luca e Michele) ai quali nel corso del tempo si sono aggiunti la cantante Gianna Pinotti e il batterista Luca Pagliari.
E proprio il tempo è al centro del concept che si muove dietro a questo lavoro, intitolato Khronocracy e licenziato dalla Sliptrick records.
Il sound è grezzo, registrato sicuramente in presa diretta fuori da qualsivoglia ambizione commerciale e creato e suonato come un lungo rituale pagano, una sorta di jam divisa in sei capitoli in cui rock acustico, atmosfere psichedeliche fine anni sessanta ed un tocco di pazzia compositiva rendono il tutto a suo modo originale.
Non è per tutti la musica dei The Absense, quindi l’avvicinarsi con cautela a litanie distorte come l’opener Black Trip o il brano autointitolato diventa quantomeno d’obbligo, così come quanto consigliarne l’ascolto a chi è maggiormente avvezzo al rock psichedelico e rituale nelle sue vesti più underground.
Tracklist
01. Black Trip
02. Storm
03. Down On Your Eyes
04. The Absence
05. Khronocracy
06. La Fin Du Monde
Line-up
Luca Siri – Guitar/Vocals
Gianna Pinotti – Vocals
Michele Siri – Guitars
Luca Pagliari – Drums
Potente e melodico, questa è la caratteristica principale del nuovo lavoro, che conferma dunque la buona qualità della proposta di un gruppo dalle molte anime unite in un sound moderno e vincente, grazie ad un talento melodico che emerge tra aggressività metal, graffiante alternative rock e pulsioni elettro/industriali, presenti ma mai invadenti.
L’inizio di ogni anno porta sempre molte novità in campo musicale con i nuovi lavori di band storiche e le nuove leve delle quali fanno sicuramente parte i romani New Disorder.
All’indomani dell’uscita del riuscito secondo lavoro che vedeva la band riprendere in mano brani del disco precedente (Straight To Pain, ormai introvabile) con l’aggiunta di due tracce inedite, i New Disorder hanno firmato per la label spagnola Art Gates Records e licenziano Mind Pollution, nuovo album composto da dieci tracce di potente e melodico modern metal.
E’ appunto questa la caratteristica principale del nuovo lavoro, che conferma dunque la buona qualità della proposta di un gruppo dalle molte anime unite in un sound moderno e vincente, grazie ad un talento melodico che emerge tra aggressività metal, graffiante alternative rock e pulsioni elettro/industriali, presenti ma mai invadenti.
Aiutati non poco dal notevole talento del cantante Francesco Lattes, i brani di Mind Pollution alternano quindi un approccio melodico ancora più convincente ad un impatto metallico moderno ed alternative.
Funziona questo lavoro, sorretto da una tecnica che permette ai New Disorder di creare un qualcosa che va al di là di un semplice muro sonoro, sfoggiando raffinate sfumature heavy ricamate in una una serie di brani che trovano nell’opener Riot, nella title track, nel groove di Going Down e nelle melodie di Get Out gli episodi migliori.
Ottimo lavoro e band da seguire con attenzione se si è amanti dell’alternative e del modern metal di un certo spessore.
Tracklist
1.Riot
2.News From Hell
3.Mind Pollution
4.W.T.F.(Spreading Hate)
5.Going Down
6.Room With A View
7.Scars
8.Get out
9.The Beast
10.No Place For Me
Line-up
Francesco Lattes – Vocals
Ivano Adamo – Bass
Lorenzo Farotti – Guitar
Giovanni Graziano – Guitar
Luca Mancini – Drums
Trattandosi dell’operato di due realtà ancora sconosciute ai più, Earth and Space si rivela sicuramente una graditissima sorpresa per chi non disdegna il black metal nella sua veste più sognante ed atmosferica.
Earth and Space è ancora un altro notevole split album questa volta ad opera della label Black Mourning Productions che riunisce due realtà di genesi recente come gli ungheresi Hænesy ed i russi Moondweller .
Due brani a testa per un totale di quasi mezzora di bellissimo black metal atmosferico è quanto bisogna attendersi da questo lavoro, che ha il solo difetto nel suo formato ridotto, vista il potenziale evocativo esibito da entrambi i gruppi coinvolti.
Gli Hænesy offrono un post black quanto mai arioso e melodico e vanno a puntellare le buone impressioni destate con il full length Katruzsa del 2018; il sound fluisce coinvolgente e convincente, sia in Eternal Rest sia An Onthology of Void, in un ambito in cui il solo gracchiante screaming riconduce il tutto ad una matrice estrema, a fronte di spunti melodici di prim’ordine che rendono questo gruppo magiaro una magnifica realtà .
Sono senz’altro maggiori gli aspetti più tradizionalmente black nel sound dei Moondweller, anche se l’elemento atmosferico recita una parte importante anche in Worlds Entwined e Unknown Signals: qui però il tutto viene spinto su un versante più cosmico in particolare nell’incalzante e splendido finale del secondo dei due brani.
Trattandosi dell’operato di due realtà ancora sconosciute ai più, Earth and Space si rivela sicuramente una graditissima sorpresa per chi non disdegna il black metal nella sua veste più sognante ed atmosferica.
Il gruppo è in definitiva molto interessante e ha ancora ampi margini di miglioramento: questo quarto disco potrebbe essere quello che li impone all’attenzione mondiale, anche se l’attenzione del pubblico dura poco e bisogna agire in fretta.
Portando avanti la fertile tradizione basca, i Childrain sono un gruppo di metal potente e moderno, guidato dai due fratelli Ini e Iker.
Nato nel 2008 a Gasteiz, fin dagli inizi questo gruppo ha saputo coniugare potenza e melodia, usando i canoni del metal moderno, portando una propria sceneggiatura originale. Fra le loro peculiarità c’è quella di riuscire a fare ritornelli che sono degli autentici inni da concerto. I riff di chitarra hanno assorbito molto da molti generi differenti come il metalcore, il groove metal e anche cose più southern, non sbilanciandosi mai, ricercando sempre una sintesi originale. I Childrain sono un gruppo da ascrivere a quella corrente di giovani metallari che partendo dal passato prossimo riescono a portare il suono pesante in uno dei futuri possibili. Tutto ciò grazie ad una struttura sonora ben composta che porta l’ascoltatore a provare diverse emozioni. I Childrain hanno ben presente dove vogliono andare e tutto rientra in un disegno ben preciso. The Silver Ghost è il loro quarto album, il primo con dichiarate aspirazioni internazionali, e ascoltandolo si comprende subito il grande potenziale di questo gruppo basco e la sua capacità di inserirsi nell’agone mondiale. Infatti nel mese di aprile faranno delle date a supporto dei Six Feet Under in Europa, come riconoscimento del loro lavoro e come trampolino per nuove avventure. Il disco è piacevole e ben bilanciato e mostra uno degli sviluppi possibili del metal moderno, incentrato sulla potenza e su richiami al passato. Il gruppo è in definitiva molto interessante e ha ancora ampi margini di miglioramento: questo quarto disco potrebbe essere quello che li impone all’attenzione mondiale, anche se l’attenzione del pubblico dura poco e bisogna agire in fretta.
Tracklist
1. Wake The Ghost
2. Saviors of the Earth
3. The Valley of Hope
4. Saturnia
5. The Silver Walker
6. Interstellar
7. Eon
8. Ten Thousand Moons
9. Omega
Reflections offre fughe strumentali, atmosfere eleganti, una forma canzone ben presente ed in generale una forte personalità, pur rimanendo all’interno del progressive metal tradizionale.
Il metallo progressivo ha avuto in questi ultimi anni non pochi scossoni portati da gruppi che lo hanno elaborato e fuso con musica sempre più estrema, sia a livello tecnico che compositivo, molte volte riuscendo a sorprendere, altre perdendo non poco a livello emozionale per mettere in evidenza qualità tecniche elevatissime ma fini a se stesse, se non supportate dalla forma canzone e da un buon talento per le melodie.
Queste ultime caratteristiche le troviamo in Reflections, album di debutto degli Onydia, band proveniente dalla capitale formata dalla cantante Eleonora Buono, dal chitarrista Daniele Amador e dal batterista Luca Zamberti.
Attenzione, però, perché il trio romano di tecnica ne ha da vendere supportando il songwriting con passaggi strumentali che richiamano i maestri Dream Theater, con la voce della singer a donare raffinata eleganza a otto tracce tra metal, progressive e sfumature melodiche straordinarie.
E’ un album imperdibile e un’autentica sorpresa questo Reflections, registrato, mixato e masterizzato ai Kick Recording Studio da Marco Mastrobuono e licenziato dalla sempre ottima Revalve Records, label che si muove con molta professionalità nell’underground rock/metal tricolore, non sbagliando un colpo. Reflections fin dall’opener The Unknown offre fughe strumentali, atmosfere eleganti, una forma canzone ben presente ed in generale una forte personalità, pur rimanendo all’interno del progressive metal tradizionale, passando per la spettacolare Breath, la raffinata My Paradise e le conclusive A New Safe Path e Dyaphany; un debutto ottimo per gli amanti del metallo progressivo grazie ad una band da tenere d’occhio in un genere in cui probabilmente si è detto tutto e la differenza la fa il talento.
Tracklist
1.The Unknown
2. Breath
3. Silence
4. The Memory of My Time
5. My Paradise
6. The Colour of Nothingness
7. A New Safe Path
8. Dyaphany
Il ritorno, graditissimo ed a lungo atteso, di una band realmente storica del death made in Italy.
In greco Airesis significa scelta.
In età moderna, coloro che compivano scelte altre rispetto ai canoni socio-culturali (e soprattutto teologici) dominanti, erano giudicati – e, spessissimo, condannati – in quanto eretici. Ecco quindi spiegato il nome di questa band ed il titolo del loro fantastico disco, che esce per la sempre attentissima Andromeda Relix, di Gianni Della Cioppa. Il trio italiano si costituì, nel lontano 1995, come Suicide, sotto le insegne di un punk duro e radicale. Quando poi mutarono il loro nome in Eresia, passarono ad un death metal totalmente privo di compromessi, implacabile e feroce, comunque non scevro delle istanze crust dei primi giorni. Un’attitudine che, complice anche il cantato in lingua madre (lungo l’intera carriera), avvicina i tre agli altrettanto storici Distruzione, a fianco dei quali gli Eresia hanno suonato dal vivo. Altri concerti li hanno visti condividere il palco con mostri sacri quali Tankard, Marduk e Dew-Scented. Gli Eresia, dopo la prima demo tape (del 1998) hanno inciso l’album (rimasto inedito sino ad oggi) Parole al buio e Moto imperpetuo (2001), divenuto col passare del tempo un autentico pezzo da collezione, con entusiastici pareri di critica ed anche lusinghieri riscontri di vendita. Malgrado i cambi di line-up, il gruppo è giunto con orgoglio sino ai giorni nostri. Questo Airesis si compone di quattro pezzi estratti da Parole al buio, con nuovi arrangiamenti e totalmente riregistrati, due brani inediti live e tutto il secondo album da moltissimo tempo andato esaurito. Abbiamo dunque tra le mani un prodotto assolutamente da avere. Anzi, dirò di più: è inutile andare a cercare dischi odierni magari ben fatti da band interessanti, se prima non ci si procura lavori come questo, basilare concentrato di death tradizionale, con innesti brutal e thrash, lontanissimo da atmosfere oggi sin troppo di moda. Perché l’estremo non è nato per fare atmosfera, ricordiamolo una buona volta. Perché qui si parla di Storia, con la S maiuscola. E di Maestri. Della notte e della morte, of course. Questo è il death metal, signori.
Tracklist:
01. Dahmer
02. Fai o Muori
03. Parole al Buio
04. Habitat Brutale
05. Fragile [Live]
06. Silente Anelito d’Odio [Live]
07. Eresia (from “Moto Imperpetuo”, 2001)
08. Es (from “Moto Imperpetuo”, 2001)
09. Ultima Notte (from “Moto Imperpetuo”, 2001)
10. Nato per Uccidere (from “Moto Imperpetuo”, 2001)
11. Moto Imperpetuo (from “Moto Imperpetuo”, 2001)
12. Acrono (from “Moto Imperpetuo”, 2001)
13. Sei Solo (from “Moto Imperpetuo”, 2001)
14. Altrove (from “Moto Imperpetuo”, 2001)
15. Metamorfosi (from “Moto Imperpetuo”, 2001)
Il lyric video di “Diario Di Un Ultimo”, dall’album omonimo (Folkstone Records).
Il lyric video di “Diario Di Un Ultimo”, dall’album omonimo (Folkstone Records).
I FOLKSTONE hanno appena condiviso il lyric video di “Diario Di Un Ultimo” brano che da il nome al nuovo studio album in uscita a Marzo su Folkstone Records/Audioglobe!
In occasione dell’uscita dell’album la band sarà al Mariposa Duomo di Milano
Talento e consapevolezza nei propri mezzi, ma anche una grande conoscenza di ciò che possa far saltare il pubblico ad un concerto, questi sono tutti elementi che depongono a favore dei The Royal, per uno degli album metalcore migliori del 2019.
I tanti che affermano che il metalcore è un metal depotenziato e per ragazzini dovrebbero ascoltare questo ultimo lavoro degli olandesi The Royal, un concentrato di mazzate spaccaossa.
Giunti con Deathwatch al loro secondo disco, i nostri ne hanno fatta di strada dall’uscita del debutto Seven, che li ha portati in giro per il mondo e, specialmente, per quattro settimane fra Cina e Giappone. Deathwatch è quanto di meglio possa offrire la scena metalcore attuale, è un lavoro molto potente, versatile e curatissimo in tutti i suoi aspetti. Il suono dei The Royal parte dal metalcore per poi generare un groove davvero importante e che è devastante in sede live. Rispetto al precedente e già buono Seven, qui il suono acquista maggiore potenza ed uno scorrevolezza maggiore. Nel loro magma sonoro le chitarre sono molto precise e taglienti, il basso supporta in maniera puntuale una batteria devastante, e gli inserti di tastiere sono molto originali e arricchiscono notevolmente il tutto. Il nuovo lavoro è inoltre molto più oscuro del precedente, scandagliando in maniera più approfondita l’animo umano, e il buio arriva subito. Inoltre si sente distintamente che questi ragazzi provengono dall’underground e sono abituati alla logica del do it yourself, e tutto ciò è una spinta notevole al miglioramento. L’energia sprigionata in questo disco è notevole e non lascia spazio a fraintendimenti. I The Royal sono qui per dominare la scena e con dischi come questo ci riusciranno sicuramente. Rispetto alla media degli altri dischi metalcore questo è un massacro dall’inizio alla fine, e le parti più melodiche sono ancora più inquietanti di quelle più veloci. Talento e consapevolezza nei propri mezzi, ma anche una grande conoscenza di ciò che possa far saltare il pubblico ad un concerto, questi sono tutti elementi che depongono a favore dei The Royal, per uno degli album metalcore migliori del 2019.
Tracklist
1. Pariah
2. Savages
3. State of Dominance
4. Soul Sleeper
5. Deathwatch (feat. Ryo Kinoshita)
6. Exodus Black
7. Nine for Hell
8. Lone Wolf
9. Avalon
10. Glitch
Line-up
Sem Pisarahu – Vocals
JD Liefting – Guitars
Pim Wesselink – Guitars
Youri Keulers – Bass
Tom van Ekerschot – Drums
Un lavoro riuscito questo Elegy, il cui sound ripropone i cliché usati a suo tempo dai gruppi più famosi, ma non manca di regalare momenti pregni di epiche sinfonie perfettamente incastonate tra le trame estreme del gruppo parigino.
I Gorgon sono una band transalpina attiva da una manciata d’anni e con un debutto alle spalle uscito tre anni fa (Titanomachy).
Capitanati dal polistrumentista Paul Thureau, arrivano al loro secondo lavoro con Elegy, un’opera che al metal estremo aggiunge parti sinfoniche ed atmosfere melodiche orientali.
Ne esce un buon esempio di quel lato sinfonico del death/black portato agli onori da Bal Sagoth e Dimmu Borgir, anche se l’anima esotica del sound differenzia la band dai loro più illustri colleghi.
In un opera del genere è forte un approccio progressivo che si evince tra le trame di brani dal piglio magniloquente come Nemesis o The Plague, con il concept che venera la donna come creatrice di vita dedicando a Eva e Pandora, a Ecate e Maria Vergine alcune delle tracce dell’album.
Ottimo è il lavoro vocale di Safa Heraghi (Dark Fortress, Devin Townsend Project, Schammasch) e di Felipe Munoz (Finntroll, Frosttide): la voce eterea della cantante, presente su tutti i brani, dona crea un’atmosfera ancora più epica e sognante all’album che non teme lo scorrere dei minuti ed arriva alla sua conclusione tra sinfonie e cavalcate metalliche dal buon impatto emotivo.
Un lavoro riuscito questo Elegy, il cui sound ripropone i cliché usati a suo tempo dai gruppi più famosi, ma non manca di regalare momenti pregni di epiche sinfonie perfettamente incastonate tra le trame estreme del gruppo parigino.
Tracklist
1.Origins
2. Under a Bleeding Moon
3. Nemesis
4.The Plagues
5.Into The Abyss
6.Ishassara
7.Of Divinity and Flesh
8.Elegy
At The Edge Of Light è probabilmente uno dei migliori album di Hackett da diversi anni a questa parte in virtù di un tocco chitarristico non solo unico, come sempre, ma anche ispirato e capace di evocare in maniera costante quelle emozioni che ogni ascoltatore ricerca.
Non c’è dubbio che tra gli eroi dell’epopea prog settantiana Steve Hackett sia oggi uno dei più amati, non solo per ciò che ha rappresentato ma anche e soprattutto perché è rimasto uno dei pochi che continua ed essere in piena attività, non limitandosi a portare in giro per il modo le immortali sonorità dei Genesis ma offrendo anche con una certa regolarità nuovi album, sempre di ottimo livello e contraddistinti da una classe innata.
Non fa eccezione questo ultimo At The Edge Of Light, quello che viene considerato ufficialmente il venticinquesimo full length di inediti della serie, che anzi è probabilmente uno dei migliori da diversi anni a questa parte in virtù di un tocco chitarristico non solo unico, come sempre, ma anche ispirato e capace di evocare in maniera costante quelle emozioni che ogni ascoltatore ricerca.
Infatti Steve, pur non rinunciando alle parti cantate, delle quali si occupa in prima persona, almeno per quanto riguarda la voce maschile, si lascia andare senza particolari remore ad una serie di brani in cui vengono spesso rievocati i fatti del passato asservendo le composizioni allo strumento principe e sfruttando, come sempre, la tecnica sopraffina dei compagni di viaggio di turno.
Non mancano neppure qui, in ogni caso, quegli accenni etnici alla cui fascinazione Hackett non si sottrae, esibendoli specialmente in un brano come Shadow And Flame, ai quali vengono in altri frangenti associate sfumature tra il gospel ed il country/blues che vengono racchiuse in Underground Railroad, a dimostrazione di quanto questo magnifico musicista non rinunci a ricercare diverse soluzioni espressive, nonostante un’età ed uno status che gli potrebbero consentire di viaggiare agevolmente con il pilota automatico inserito, all’interno del genere che ha contribuito a portare al successo.
La musica per questo grande artista è anche il veicolo ideale per diffondere un messaggio di pace e fratellanza, un qualcosa del quale mai come di questi tempi si sente un forte bisogno, specialmente quando giunge da una voce così autorevole e, in effetti, nelle sonorità contenute in At The Edge Of Light non è difficile cogliere un senso di ecumenismo che va oltre i già citati richiami etnici.
Non è quindi solo un sentore nostalgico quello che spinge a farsi cullare senza troppe remore dal tocco unico di Steve, messo al servizio di brani più lineari e sognanti come Hungry Years (con la voce di Amanda Lehmann) oppure dall’incedere solenne di Descent (nella quale si colgono accenni dell’intro di Watcher Of The Sky), o da quello più drammatico di Conflict, che va a formare con quella precedente una magistrale coppia di tracce strumentali.
Se a questo quadro aggiungiamo altre canzoni splendide come Beasts In Our Time, Under The Eye of the Sun (brano che sembra quasi omaggiare gli Yes, e conseguentemente l’amico scomparso Chris Squire) e Those Golden Wings, a livello di consuntivo non resta altro che ringraziare il chitarrista inglese per averci donato ancora un’altra prova del suo smisurato talento artistico, e pazienza se poi, durante la sua incessante attività dal vivo, il nostro alla fine cede alla tentazione di offrire al pubblico ciò che più vuole ascoltare, ovvero i cavalli di battaglia dei Genesis: le leggende si possono solo amare, e per quanto mi concerne la libertà di critica in casi simili andrebbe abolita per decreto …
Tracklist:
1 Fallen Walls and Pedestals
2 Beasts In Our Time
3 Under The Eye of the Sun
4 Underground Railroad
5 Those Golden Wings
6 Shadow and Flame
7 Hungry Years
8 Descent
9 Conflict
10 Peace
Line-up:
Steve Hackett – chitarre elettriche e acustiche, dobro, basso, armonica, voce
Gulli Briem – batteria, percussioni
Dick Driver – contrabbasso
Benedict Fenner – tastiere e programmazione
John Hackett – flauto
Roger King – tastiere, programmazione e arrangiamenti orchestrali
Amanda Lehmann – voce
Durga McBroom – voce
Lorelei McBroom – voce
Malik Mansurov – tar
Sheema Mukherjee – sitar
Gary O’Toole – batteria
Simon Phillips – batteria
Jonas Reingold – basso
Paul Stillwell – didgeridoo
Christine Townsend – violino, viola
Rob Townsend – sax tenore, flauto, duduk, clarinetto
Nick D’Virgilio – batteria
Il video di “Light Minutes live @ Manchester Academy”, dall’album “Adeline” (Wormholedeath).
Il video di “Light Minutes live @ Manchester Academy”, dall’album “Adeline” (Wormholedeath).
I rocker italiani The Shiver sono orgogliosi di annunciare la ripubblicazione del loro album “Adeline” via Wormholedeath.
“Adeline” sarà disponibile su tutti gli stores digitali a partire dal 15 Marzo 2019 e conterrà la bonus track “Light Minutes live @ Manchester Academy”.
1.Awaiting
2.Adeline
3.Rejected
4.Wounds
5.How Deep Is Your Heart, How Dirt Is Your Soul
6.Light Minutes
7.High
8.Pray
9.Miron-Aku
10.Electronoose
11. Light Minutes live @ Manchester Academy***
The Harrier è di fatto un bombardamento sonoro dove tradizione e sfumature moderne trovano la loro perfetta alchimia, in un metal estremo di matrice death/black, derivativo quanto si vuole ma che lascia comunque una sensazione di forte personalità in chi l’ha creato e suonato.
Tornano con un nuovo devastante lavoro gli Hiss From The Moat, band che vede l’ex Vital Remains e Hour Of Penance James Payne insieme ad un trio di musicisti nostrani (Carlo Cremascoli al basso, Giacomo “Jack” Poli alla chitarra ed il neo arrivato Massimiliano Cirelli alla chitarra e alla voce).
Un gruppo dal taglio internazionale a tutti gli effetti, tornato dopo sei anni dal precedente Misanthropy, album che ne vedeva il debutto sulla lunga distanza, ed ora sul mercato estremo con The Harrier, opera che continua la crescita del gruppo in una notevole realtà death/black metal.
Registrato, mixato e masterizzato allo SPVN Studio di Milano con Stefano Orkid Santi, The Harrier è di fatto un bombardamento sonoro dove tradizione e sfumature moderne trovano la loro perfetta alchimia, in un metal estremo di matrice death/black, derivativo quanto si vuole ma che lascia comunque una sensazione di forte personalità in chi l’ha creato e suonato.
Un gruppo che sa quel che vuole e trasmette questa sensazione di convincente sicurezza in chi ascolta: non male davvero per questi paladini del death/black devastante e nero come la pece.
Politica, religione ed altre piaghe che nei secoli hanno distrutto l’umanità e la sua storia, vengono raccontate attraverso un metal estremo appesantito da uno strato di catrame musicale, nero, viscido ed impermeabile a qualsivoglia forma di pentimento, in una corsa verso l’abisso a colpi di violento metallo che se continua ad ispirarsi alla scena dell’est europeo trova una sua precisa identità in brani apocalittici come la title track, nella nera epicità smossa dall’epica Slaves To War e nel black metal alla Behemoth di God Nephasto.
In conclusione, un ritorno assolutamente da non perdere che conferma le buone qualità del gruppo transcontinentale, una delle più convincenti realtà della scena estrema degli ultimi anni.
Tracklist
1.The Badial Despondency
2.The Harrier
3.I Will Rise
4.The Passage to Hell
5.Slaves to War
6.Sine Animvs
7.The Abandonment
8.The Allegory of Upheaval
9.God Nephasto
10.Unperishing
11.The Decay of Lies
Line-up
Max Cirelli – Vocals/Guitar
James Payne – Drums
Jack Poli – Guitar
Carlo Cremascoli – Bass
Live In Athens è un ottimo supporto per fare la conoscenza dei Planet Of Zeus o comunque per per saggiarne le potenzialità on stage.
Dopo dieci anni dall’uscita del debutto Eleven The Hard Way, i greci Planet Of Zeus immortalano una loro perfomance su dischetto ottico.
Trattasi del concerto tenutosi al Gagarin205 di Atene lo scorso 12 maggio, raccolto in un doppio cd a riassumere la fin qui una onorata carriera di un gruppo molto popolare nel proprio paese.
Per chi non conoscesse la band ed il suo sound, questo è un ottimo modo per riempire la lacuna data l’ottima resa live dei brani pescati dai vari lavori che hanno visto i Planet Of Zeus alle prese con un metal moderno dai rimandi stoner.
Ruvida il giusto senza perdere quall’appeal melodico che fa la differenza, la band ellenica dà vita ad un buon concerto, molto seguito dal pubblico di casa, sciorinando una forma invidiabile e diciotto brani per cento minuti di musica rock dal buon piglio, battente bandiera a stelle e strisce e quindi rivolta ai fans dei nomi più noti provenienti dal deserto americano.
I Planet Of Zeus non inventano nulla, suonano metal/rock, pesante e melodico e lo fanno alla grande, coinvolgendo gli astanti con le pesanti scariche stoner di brani come Macho Libre, A Girl Named Greed, Devil Calls My Name, Leftlovers e i due brani che concludono lo show, la massiccia The Beast Within e il rock’n’roll di Vigilante.
La band gira come una macchina perfettamente oliata, il pubblico si diverte e il live man mano che passano i minuti prende sempre più le sembianze dell’evento, almeno per chi sta sopra e sotto il palco. Live In Athens è un ottimo supporto per fare la conoscenza dei Planet Of Zeus o comunque per per saggiarne le potenzialità on stage.
Tracklist
CD1 :
1.Unicorn without a horn
2.Macho Libre
3.Doteru
4.The Great Dandolos
5.A Girl Named Greed
6.Loyal To The Pack
7.Devil Calls My Name
8.Something’s Wrong
9.Them Nights
10.Your Love Makes Me Wanna Hurt Myself
11.Little Deceiver
CD2 :
12.Stab Me
13.No Tomorrow
14.Leftovers
15.Woke Up Dead (William H. Bonney)
16.Vanity Suit
17.The Beast Within
18.Vigilante
Il video di “Nowhere to run”, dall’album “Silent Conspiracy”.
Il video di “Nowhere to run”, dall’album “Silent Conspiracy”.
The chilean groove metal band Sobernot – formed by César Vigouroux on vocals, Pablo La’Ronde on guitar and backing vocals, Joaquín Quezada on bass and Felipe Sobarzo on drums – releases a new music video of his single “Nowhere to run”, from their debut album “Silent Conspiracy” (2018), produced by Pablo La’Ronde.
The production of this work was in charge of Abysmo Films, which has worked with bands like Arch Enemy, Lacrimosa, Therion, Helloween, among others.
The video talks about the different forms of violent submission that human being can be capable of inflicting on another without any remorse, showing that “the world is turning into madness” as the lyrics says.
Vigouroux adds: “the first version of the video included very violent clips for the general public, we had to censor several of these images and replace them with other less explicit images of violence. The original uncensored video has not yet found where to house it, but it is probably in Some place without restrictions like Dailymotion, Vimeo or some gore site The fans even recommended us to do it in porn sites where you can upload practically anything, but I don’t know if ending up watching porn after our music video it’s a very good transition. Or maybe yes? hahaha”.
Sobernot releases this video in the context of his “Nowhere to run tour 2018/2019”.
I Green River non erano solo dei precursori ma furono un gruppo che fece qualcosa di nuovo partendo da elementi già presenti nella scena musicale del tempo e di quella precedente.
Ristampa di lusso per l’unico disco su lunga distanza dei Green River.
Uscito originariamente nel 1988, Rehab Doll può essere considerato la summa e contemporaneamente il punto più alto della loro carriera: sintomo di un’epoca che stava cambiando musicalmente, a parte le note vicende future dei suoi membri, l’album è un piccolo capolavoro per quanto riguarda la musica e la sintesi fra post punk ed un hardcore altro. Registrato da Jack Endino, vero e proprio fautore di un certo suono, Rehab Doll è un compendio di un certo alternativo americano che in quegli anni da un lato annoverava gruppi come i Black Flag e dall’altro lato i Green River, che stavano facendo qualcosa di veramente differente. Rispetto a Dry As A Bone qui la musica è maggiormente strutturata, le canzoni mutano molto nel loro divenire, e la carica distorsiva è preponderante. Rehab Dollè un disco irripetibile di un gruppo che, oltre che anticipare alcune istanze musicali come il grunge, ha saputo proporre una sintesi molto riuscita fra post punk e il rock. La musica dei Green River non nasce con loro ma è originale la proposta musicale che fanno, di grande importanza ancora adesso. Ascoltando Rehab Doll si può facilmente comprendere come questo disco sia ancora avanti di anni ai giorni nostri e, cosa più importante, sia bellissimo dalla prima all’ultima canzone. Questa ristampa di lusso della Sub Pop comprende gli otto brani originali, più alcune versioni dei brani presi dalle cassette di prova di Jack Endino, e due inediti, un documento prezioso e occasione per poter riascoltare un capolavoro quanto mai attuale. I Green River non erano solo dei precursori ma furono un gruppo che fece qualcosa di nuovo partendo da elementi già presenti nella scena musicale del tempo e di quella precedente. Qualcosa a Seattle si stava muovendo e non sarebbe finito tanto presto.
Tracklist
01. Forever Means
02. Rehab Doll
03. Swallow My Pride
04. Together We’ll Never
05. Smilin’ and Dyin’
06. Porkfist
07. Take a Dive
08. One More Stitch
09. 10000 Things
10. Hangin’ Tree
11. Rehab Doll
12. Swallow My Pride
13. Together We’ll Never
14. Smilin’ and Dyin’
15. Porkfist
16. Take a Dive
17. Somebody
18. Queen Bitch
Sono invecchiati bene gli Overkill, senza tradire fans vecchi e nuovi, rimanendo fedeli ad un certo modo di fare metal, ma migliorando e curando ogni particolare di album in album, così che ancora oggi possono competere con quelle nuove leve che. al cospetto di un lavoro come The Wings Of War, arrancano alle spalle della band statunitense.
Eccovi servita la diciannovesima bomba sonora targata Overkill.
Gli storici thrashers del New Jersey tornano a distanza di poco più di un anno dal massiccio The Grinding Wheel con un nuovo lavoro che conferma una freschezza compositiva ed una verve invidiabile per un gruppo arrivato a quasi quarant’anni di attività. The Wings Of War, licenziato in questi primi mesi del nuovo anno, si candida come uno dei migliori lavori in ambito thrash metal per quello che, si spera, sia un 2019 ricco di soddisfazioni per un genere dato per morto centinaia di volte ma sempre resuscitato dalle sue calde ceneri, grazie anche ai vecchi ed indomabili leoni come il gruppo di Bobby “Blitz” Ellsworth e D.D. Verni, autore di un assalto sonoro senza soluzione di continuità che alterna e amalgama sapientemente thrash metal, heavy, hardcore, tradizione e modernità in un delirio metallico che a tratti entusiasma.
Sono invecchiati bene gli Overkill, senza tradire fans vecchi e nuovi, rimanendo fedeli ad un certo modo di fare metal, ma migliorando e curando ogni particolare di album in album, così che ancora oggi possono competere con quelle nuove leve che. al cospetto di un lavoro come The Wings Of War, arrancano alle spalle della band statunitense. Last Man Standing apre le danze e si viene catapultati nel mezzo della mischia, con Blitz che comanda le operazioni dall’alto di una forma invidiabile ed un’attitudine commovente, supportato da una band compatta e riottosa che fin da subito fa capire che qui si fa dannatamente sul serio.
L’album vive di ruggiti metallici come Head Of A Pin, il crescendo metallico di Distortion e Welcome To The Garden State, brano thrash/punk irresistibile, allinterno di una tracklist che convince ed esalta dalla prima all’ultima nota.
The Grinding Wheel, il bellissimo Live in Overhausen uscito pochi mesi fa ed ora questo nuovo lavoro: per gli Overkill continua la festa, unitevi anche voi, non ve ne pentirete.
Tracklist
1. Last Man Standing
2. Believe In The Fight
3. Head Of A Pin
4. Bat Shit Crazy
5. Distortion
6. A Mother’s Prayer
7. Welcome To The Garden State
8. Where Few Dare To Walk
9. Out On The Road-Kill
10. Hole In My Soul
Line-up
Bobby “Blitz” Ellsworth – Vocals
D.D. Verni – Bass, Backing Vocals
Dave Linsk – Lead and Rhythm Guitars
Derek Tailer – Rhythm Guitars, Backing Vocals
Jason Bittner – Drums
Questi quattro brani mostrano l’intenzione di proporre il genere in una maniera tra il sognante ed il rarefatto e per far ciò il contributo di una componente post metal diviene inevitabile; l’operazione però convince solo a tratti, perché tale connubio unito ad una voce femminile, invero non troppo incisiva, riesce ad evocare sensazioni di malinconico abbandono così come momenti piuttosto tediosi.
Il duo ucraino Noyde esordisce con questo ep intitolato Surface nel quale vengono convogliate diverse idee, comunque tutte gravitanti attorno all’area doom.
Questi quattro brani mostrano l’intenzione di proporre il genere in una maniera tra il sognante ed il rarefatto e per far ciò il contributo di una componente post metal diviene inevitabile; l’operazione però convince solo a tratti, perché tale connubio unito ad una voce femminile, invero non troppo incisiva, riesce ad evocare sensazioni di malinconico abbandono così come momenti piuttosto tediosi.
È evidente come l’operato dei Noyde sia ancora in divenire e sicuramente da focalizzare: indubbiamente, per esempio, l’opener Vapors è un buon brano, soprattutto nella prima parte di natura strumentale (della quale è fautore il buon Nickolay Romanov, ad esclusione della tastiere) perché gli interventi vocali di Anastasia Lazarenko non convincono come invece avviene nella successiva This Unrest, cover di Siouxsie and The Banshees doomizzata in maniera molto efficace, anche perché la timbrica si rivela appunto più adatta ad un contesto come quello del post punk che non del metal.
Il post metal lagnoso di Languishing e la difficile convivenza tra i ritmi parossistici dell’incipit e l’incedere sognante della parte finale di Wasted segnano una seconda metà dell’ep che lascia diverse ombre sull’operato dei Noyde, anche se la sensazione è che al duo non manchino le idee bensì la capacità di racchiuderle in un contenitore maggiormente compatto e indirizzato verso una direzione ben definita.
A mio avviso i Noyde funzionerebbero molto meglio se si dedicassero ad un post metal strumentale dai tratti oscuri e malinconici, una soluzione per la quale dimostrano d’avere una certa predisposizione in più frangenti nel corso di Surface.
Tracklist:
1. Vapours
2. This Unrest (Siouxsie and the Banshees cover)
3. Languishing
4. Wasted
Un grande disco di metal moderno ed originale, orgogliosamente privo di schemi prefissati, con ex membri dei Fatal Destiny.
Quando il nome scelto dice tutto.
Obiettivo di questa nuova band scaligera è quello di portare avanti una concezione artistico-musicale del tutto libera da vincoli o limiti, nel costante rifiuto di ogni tipo – al di là dei generi, appunto: Overkind – di staticità, quanto a linguaggio sonoro. Niente etichette, soltanto musica: questa la parola d’ordine del quartetto veronese. Le dodici parti di Acheron, album liberamente ispirato alla Divina Commedia dantesca, è un concept che dimostra l’immortale attualità anche nel nostro presente dei contenuti racchiusi nel capolavoro dell’Alighieri. E, se pensiamo che siamo in presenza d’un disco di debutto, il livello è già molto alto. I precedenti, in ambito dantesco, non mancavano (dai Metamorfosi di Inferno sino a The Divine Comedy dei Black Jester), e tuttavia gli Overkind realizzano un qualcosa di estremamente personale. Anche sotto il profilo compositivo: abbiamo infatti qui una entusiasmante commistione di ascendenze hard-sinfoniche alla Queen, dark-doom alla Ghost, prog metal in stile Dream Theater e thrash nella vena dei Metallica più sofisticati, non senza opportuni innesti di suoni moderni (per capirci: a metà strada fra Timoria, Alter Bridge, Muse e Foo Fighters). Davvero un grande esordio, già assai maturo e coinvolgente.
Tracklist
1- Acheron
2- Love Lies
3- Cerberus
4- Interlude
5- Anger Fades
6- Flames
7- Hollow Man’s Secret
8- My Violent Side
9- All Is Gray
10- End of a Souless Thief
11- Traitor’s Letter
12- The Fiend
Line up
Andrea Zamboni – Vocals / Piano
Filippo Zamboni – Bass
Tino Fracca – Drums
Riccardo Castelletti – Guitars
Mai come in questo caso si può affermare che la riedizione di un lavoro sia ben più che opportuna, non fosse altro che per il fatto di poter ascoltare da parte dei Simulacro brani che per certi versi si possono considerare quasi degli inediti.
Nel 2016 i Simulacro non pubblicarono solo il loro secondo full length Echi dall’Abisso, ma non troppo tempo prima vide la luce anche l’ep SuperEgo che, sia per la sua reperibilità solo in formato digitale, sia per la quasi sovrapposizione con l’altro album finì in qualche modo per essere ignorato.
La Third I Rex, etichetta che ha curato l’ultima uscita della band sarda, colma questa lacuna offendo il formato fisico di quel lavoro che ne diviene un valore aggiunto all’interno della discografia.
In poco più di venti minuti il trio isolano offre due magnifici brani come SuperEgo e Et in arcadia ego che fotografano al meglio lo stile di un gruppo capace di manipolare al meglio la materia black aggiungendovi anche sentite e mai banali liriche in italiano (utilizzate in tale occasione per la prima volta). Queste due tracce dimostrano anche la varietà stilistica dei Simulacro, in grado di muoversi nell’alveo più tradizionale del genere così come spaziare su lidi più atmosferici e melodici senza perdere le coordinate di base e, soprattutto, facendolo con spiccata personalità. La stessa cover che chiude questo breve ep la dice lunga sull’approccio del gruppo sardo, visto che Roma Divina Urbs è un magnifico brano inciso originariamente dagli Aborym quando questi erano ancora, seppure sui generis, un gruppo black prima di trasformarsi nell’obliqua entità dark industrial attuale.
Pertanto, mai come in questo caso si può affermare che la riedizione di un lavoro sia ben più che opportuna, non fosse altro che per il fatto di poter ascoltare da parte dei Simulacro brani che per certi versi si possono considerare quasi degli inediti.
Se Echi dall’Abisso era stata nel 2016 una delle uscite più interessanti in ambito estremo nazionale, SuperEgo giunge a puntellare il valore di un band che potrebbe avere in serbo ancora molte sorprese in futuro.
Tracklist:
1. SuperEgo
2. Et in arcadia ego
3. Roma Divina Urbs
Line-up:
Xul – Lead Screaming and Clean Vocals/Guitars/Synthesizers/Programming
Ombra – Bass/Backing Vocals
Anamnesi – Drums/Backing Vocals/Lyrics in “Et In Arcadia Ego”
Guests:
Stefano Porcella – Tromba
Dora Scapolatempore – Arpa in “Roma Divina Urbs”