Necrodeath / Cadaveria – Mondoscuro

Cosa può scaturire dall’unione di due realtà storiche del metal italiano come i Necrodeath e la strega Cadaveria se non grande musica estrema?

Cosa può scaturire dall’unione di due realtà storiche del metal italiano come i Necrodeath e la strega Cadaveria se non grande musica estrema?

Finalmente Mondoscuro, atteso lavoro dove le due band si sono ritrovate ad interagire in sala d’incisione, vede la luce in questa ultima parte d’estate 2016, creando un album atipico, che farà molto parlare di sé, sperando che non rimanga un caso unico come fu nel 1989 Mondocane, progetto che vedeva l’unione delle forze espresse da Necrodeath e Schizo e a cui il titolo fa chiaramente richiamo, oltre ai documentari degli anni ’60 diventati famosi per le loro scene cruente e chiamati Mondo Movie.
Dimenticatevi il classico split, Mondoscuro vede le anime dei due gruppi amoreggiare come serpenti infernali, lascivi e mortali per creare metal orrorifico, macabro e brutale, o rivedere a modo loro classici presi dalle loro discografie per arrivare a brani che vanno dalla gotica Christian Woman dei Type O Negative alla clamorosa versione di Helter Skelter di beatlesiana memoria.
Si parte alla grande con Cadaveria che dà nuovo lustro a Mater Tenebrarum, brano tratto da Into The Macabre, album che è diventato un classico della discografia dei Necrodeath. Il gruppo mantiene la struttura death/thrash della song, fornendole però quell’elemento dark gotico tipico del proprio sound e al minuto 4.46 spettacolarizza il tutto con l’organo di Ignis Forasdomine che riprende il tema dalla colonna sonora di Inferno, creata dal compianto Keith Emerson, ed i cori operistici con in testa la soprano Lindsay Schoolcraft dei Cradle Of Filth, aiutata da Tiziana Ravetti e dal tenore Cristiano Caldera, per un risultato entusiasmante.
Spell, da The Shadows Madame, opera nera creata da Cadaveria nel 2002 e lasciata in mano ai Necrodeath risulta una traccia che alterna atmosfere horror, con Flegias mai così teatrale, a sfuriate thrash addomesticate dai solos ultra melodici del mostruoso Pier Gonella e dal lavoro ritmico del buon Peso aiutato da GL.
Il cuore dell’album è lasciato ai due pezzi inediti: Dominion Of Pain, un brano scritto da Cadaveria e che vede la partecipazione di Flegias e di Gonellaesaltato da una prestazione sugli scudi della singer e valorizzato da chorus evocativi e dallo spiccato flavour gotico,  con una bellissima seconda parte dalle ritmiche quasi doom ed un solo che trancia l’atmosfera dark/gotica del brano; Rise Above, in mano ai death/thrashers liguri, è aperta da un recitato in lingua madre di Cadaveria che introduce una cavalcata metallica dove Gonella emoziona con la sua sei corde in un delirio metallico thrash/gothic.
Il vampiro newyorkese che tormentò le notti di dolci donzelle dagli inizi degli anni novanta ai primi anni del nuovo millennio, è omaggiato dai Cadaveria con la cover di Christian Woman, dal capolavoro gotico Bloody Kisses, resa molto simile all’originale non fosse per un’interpretazione sentita della singer nostrana, che usa tutti i toni della sua voce per rendere il più possibile teatrale e vario il brano cardine della discografia della band di Peter Steele.
Mondoscuro si conclude con la geniale cover di Helter Skelter dei fab four, probabilmente il primo brano heavy metal della storia, pescato dal White Album, aperto da un giro di basso ripreso da Come Together, altro masterpiece dei Beatles, reso devastante dalla furia estrema del combo ligure e con una genialata di Gonella che, a metà brano, riprende l’arpeggio di Ticket To Ride, terzo omaggio alla coppia Lennon/Mccartney.
In conclusione, Mondoscuro è un progetto assolutamente riuscito e, se avrà un futuro, magari con un album di inediti, potrebbe regalare grosse soddisfazioni ai protagonisti e grande musica estrema agli amanti del genere, non perdetevelo.

TRACKLIST
1. Cadaveria – Mater Tenebrarum (Necrodeath cover)
2. Necrodeath – Spell (Cadaveria cover)
3. Cadaveria – Dominion of Pain (feat. Flegias)
4. Necrodeath – Rise Above (feat. Cadaveria)
5. Cadaveria – Christian Woman (Type O Negative cover)
6. Necrodeath – Helter Skelter (The Beatles cover)

LINE-UP
Necrodeath:
Peso – Drums
Flegias – Vocals
Pier Gonella – Guitars
GL – Bass

Cadaveria:
Marçelo Santos – Drums
Cadaveria – Vocals
Dick Laurent – Guitars
Peter Dayton – Bass

NECRODEATH – Facebook

CADAVERIA – Facebook

Tenebrae – My Next Dawn

I Tenebrae possiedono una dote essenziale, al di là di qualsiasi altra considerazione: sanno trasmettere emozioni uniche a chi è in grado di attivare i propri sensi per poterle riceverle.

Per chi aveva apprezzato un lavoro magnifico come Il Fuoco Segreto, la voglia di ascoltare un nuovo disco dei Tenebrae era mista ad un certo timore, alla luce della preannunciata sterzata a livello stilistico unita all’ennesimo rimpasto di una line-up che sembrava aver raggiunto una sua stabilità; inoltre, la necessità, da parte della band genovese, di ricercare una nuova etichetta in grado di supportarne adeguatamente gli sforzi creativi, finiva per disegnare un quadro ricco di criticità che avrebbero potuto mettere in crisi qualsiasi persona sprovvista della passione e della convinzione dei propri mezzi in possesso di Marco “May Arizzi”.

Intanto, il chitarrista e compositore principale dei Tenebrae, assieme all’unico superstite della formazione originale, il bassista Fabrizio Garofalo, ed al vocalist già presente su Il Fuoco Segreto, Paolo Ferrarese, hanno trovato due nuovi compagni d’avventura nel tastierista Fulvio Parisi e nel batterista Massimiliano Zerega. Rinsaldata così una line-up che si era sfaldata proprio durante la fase di stesura dei brani che sarebbero confluiti in My Next Dawn, il processo compositivo ha ripreso slancio ed ulteriore vigore e, mai come in questo caso, si può sostenere a buona ragione che le difficoltà alla lunga abbiano avuto un effetto fortificante, di fronte all’evidenza dei risultati ottenuti.
Già, perché My Next Dawn si pone come il punto più alto raggiunto dal gruppo ligure, cosa neppure troppo scontata se si pensa al valore assoluto che contraddistingueva la produzione precedente ed al parziale abbandono di uno stile peculiare che la marchiava in maniera indelebile.
Il passaggio dall’italiano all’inglese, in sede di stesura dei testi, è stato, in primis, un passo necessario per rendere più appetibile il disco anche al di fuori dei nostri confini, ma non è certo l’unico motivo: infatti, la metrica anglofona meglio si sposa con un sound che punta maggiormente verso l’oscurità del gothic doom e, qui, non si può non fare un plauso alla bravura di Antonella Bruzzone, capace di passare con disinvoltura dalle storie tragiche ed intrise di romanticismo descritte nella nostra lingua in Memorie Nascoste e Il Fuco Segreto, ad un racconto di matrice apocalittica in lingua straniera, ispirato al film The Road, ed affidato alla magnifica interpretazione di Paolo Ferrarese.
My Next Dawn, però, nonostante tali premesse, non recide del tutto il cordone ombelicale con la produzione passata: la peculiare impronta progressive resta ben definita anche se non più in primo piano, assieme ad un afflato melodico che aleggia in ogni brano, persino nei passaggi apparentemente più aspri, andando a comporre un quadro complessivo cupo, malinconico e tutt’altro che semplice da etichettare (atmospheric doom, gothic, dark, sono questi i tag puramente indicativi che accompagneranno probabilmente le diverse recensioni del lavoro)
Dopo l’intro Dreamt Apocalypse, è Black Drape il reale biglietto da visita dei nuovi Tenebrae, con accelerazioni ai confini del black alternate a momenti evocativi guidati dalle tastiere di Parisi ed esaltati dalla versatilità di Ferrarese, capace come non mai di esprimersi in diversi registri vocali che, per la maggior parte dei cantanti, risulterebbero incompatibili: una teatrale voce stentorea si alterna ad un growl profondo e convincente e, soprattutto, a vocalizzi di stampo operistico che hanno il compito di enfatizzare il pathos che pervade lo scorrere delle note.
La bellezza di questo brano spazza via ogni dubbio e da qui in poi l’ascolto diviene null’altro che la scoperta di una serie di gemme disseminate all’interno del lavoro, a partire da Careless, assieme alla title track una delle tracce che i nostri avevano già presentato nelle loro ultime apparizioni dal vivo quale assaggio di ciò che sarebbe stato My Next Dawn: qui è uno struggente assolo di Marco Arizzi a porre il suggello ad un’altra canzone magnifica.
La chitarra acustica suonata dall’ospite Laura Marsano (protagonista qualche anno fa su Le Porte Del Domani, quello che probabilmente è stato l’atto finale della carriera de La Maschera di Cera) è un valore che si aggiunge lungo il corso dell’album e fa bella mostra di sé nell’intro di Grey, traccia che si dipana in un finale di toccante e drammatica bellezza, precedendo quello che si rivelerà uno dei picchi dell’album, la magnifica The Fallen Ones, nella quale viene esaltato il connubio tra le liriche e la musica, con Ferrarese a denunciare un abbrutimento della razza umana che non è più soltanto la precognizione di un futuro post-apocalittico.
Arrivati a metà del guado, non resta che verificare la capacità dei Tenebrae di mantenere anche nella parte discendente dell’album la stessa profondità di un sound che brilla di un’intensità quasi sorprendente.
The Greatest Failure è la risposta, trattandosi dell’ennesima canzone che si imprime nella memoria, apparendo destinata ad albergarvi a lungo così come la successive Behind (che, dopo un inizio rarefatto, esplode letteralmente nella sua seconda parte) e Lilian (contraddistinta da un elegante lavoro tastieristico).
Se, più di una volta, le band che sparano le migliori cartucce in avvio dei loro album finiscono poi per scontare una certa impasse dovuta all’inserimento di riempitivi, i Tenebrae riservano il meglio proprio nel finale, con l’accoppiata composta dalla title track e da As The Waves, due brani di struggente bellezza che dimostrano ampiamente la dimensione artistica raggiunta dal quintetto genovese, capace come pochi altri di chiudere un lavoro in costante crescendo e lasciando in dote all’ascoltatore esclusivamente quelle emozioni trasmesse con stupefacente continuità per una cinquantina di minuti.
Se vogliamo, i Tenebrae sono approdati oggi su un terreno attiguo a quello battuto dagli Ecnephias, benché i sentieri percorsi siano stati decisamente differenti, esprimendo con My Next Dawn un lavoro all’altezza del masterpiece pubblicato lo scorso anno dalla band lucana.
Non credete, allora, che sia arrivato il momento di dare maggior credito a chi compone e suona musica per passione, dando sfogo ad un fuoco che difficilmente cesserà di ardere, piuttosto che supportare passivamente chi contrabbanda per arte il semplice tentativo di sbarcare il lunario?
Se siete ancora convinti che oggi non ci sia più nessuno in grado di regalare opere degne di occupare un posto di rilievo nelle vostre collezioni discografiche, provate prima ad ascoltare My Next Dawn; fatevi questo regalo, date un calcio definitivo alle preclusioni ed ai giudizi precostituiti: i Tenebrae non diventeranno mai, purtroppo, uno di quei nomi  “cool” dei quali farsi vanto d’essere fan o sostenitori, ma ascoltare e vivere la vera musica è un processo interiore, lontano anni luce da un effimero post da condividere sui social, questo non va dimenticato mai …

Tracklist:
1. Dreamt Apocalypse
2. Black Drape
3. Careless
4. Grey
5. The Fallen Ones
6. The Greatest Failure
7. Behind
8. Lilian (changing shades)
9. My Next Dawn
10. As The Waves (always recede)

Line-up:
Marco Arizzi – Chitarre
Fabrizio Garofalo – Basso
Paolo Ferrarese – Voci
Fulvio Parisi -Tastiere
Massimiliano Zerega- Batteria

Laura Marsano – Chitarra acustica
Antonella Bruzzone – Testi
Sara Aneto – Grafica

TENEBRAE – Facebook

Benvenuti in MetalEyes IYE

Oggi, 22 agosto 2016, prende il via a questa nuova avventura targata MetalEyes IYE: come si può intuire dal nome prescelto e dal logo che campeggia in alto nella nostra homepage, è evidente la connessione con In Your Eyes e, in effetti, MetalEyes IYE vuole essere appunto la costola metallica della webzine ligure che ha sempre avuto, quale propria peculiarità, quella d’essere aperta a qualsiasi tipo di contaminazione musicale e culturale, senza porsi alcun tipo di paletto.
Negli ultimi tempi, l’ingresso di diversi collaboratori, tra cui il sottoscritto, dediti soprattutto all’ascolto del metal e dei sottogeneri ad esso connessi, ha portato ad un aumento esponenziale del materiale riferito a questo genere, per cui, dopo una lunga riflessione, si è ritenuto opportuno separare la componente metal dalla testata madre; l’intento è quello di favorire uno sviluppo parallelo di entrambe le realtà, senza ingenerare alcun tipo di confusione in chi ci ha seguito in tutti questi anni: così, mentre In Your Eyes potrà comunque mantenere le proprie caratteristiche, riscontrabili nell’apertura verso diverse forme musicali apparentemente antitetiche e a contenuti di carattere non strettamente musicale (come la letteratura, la poesia, l’arte grafica, ecc.), MetalEyes IYE si occuperà solo ed esclusivamente di musica, abbracciando tutte le forme di metal ed i sottogeneri in possesso di quelle sfumature stilistiche ad esso riconducibili od affini.
In comune con la webzine “madre” resterà comunque un’assoluta indipendenza e, soprattutto, la volontà di supportare in particolare la scena underground e tutti quei musicisti e le etichette che faticano a trovare spazi nelle testate più importanti, soprattutto a livello cartaceo; questo non vuol dire, però, che ci si asterrà da un atteggiamento critico nei confronti del materiale che ci verrà proposto: semplicemente, eviteremo in maniera accurata, perché ciò non fa parte del nostro stile, di deridere, mortificare o ledere la dignità dei musicisti che ci propongono i loro lavori, meritevoli di rispetto a prescindere proprio perché guidati dalla nostra stessa passione per la musica.
Infine, l’ultima missione, sicuramente la più ardua, è quella di far capire a tutti quelli che avranno voglia di seguirci quanta sia la musica di ottima qualità che attende soltanto d’essere portata alla luce; ci rendiamo conto che non sia semplice riuscire a intercettarla, vista l’enorme quantità di dischi che vengono immessi in un mercato che non ha più la capacità ricettiva di un tempo, però è anche vero che chi si trincera dietro un modo di pensare tolemaico, sostenendo e supportando soltanto i soliti vecchi dinosauri ed ignorando qualsiasi novità, non troverà sicuramente terreno fertile dalle nostre parti.
Che dire ? Seguiteci e, soprattutto, se avete voglia e tempo di unirvi alla nostra avventura, scriveteci per proporvi come nostri collaboratori.

Stefano Cavanna

 

Raging Speedhorn – Lost Ritual

Lost Ritual è un disco che afferma rumorosamente quanto ancora hanno da dire e da menare questi ragazzi cresciuti.

Quando ormai le speranze ci avevano quasi abbandonato, ecco tornare i Raging Speedhorn con Lost Ritual.

I ragazzi sono cresciuti come noi, hanno qualche capello in meno e qualche kg in più, ma la furia è sempre la stessa, quella carica di metallica ignoranza che era così bella ai tempi. Riformatisi per un gran concerto al Damnation Festival, i ragazzi di Croby hanno lanciato la loro campagna su Pledge Music per pubblicare l’album. Chi aveva ancora nelle orecchie Thumper non poteva che essere contento. I Raging Speedhorn sono sempre stati molto particolari, nel senso che hanno coniugato un certo tipo di metal caotico con i Motorhead e con cose più hardcore. Con Lost Ritual il paesaggio sonoro muta poiché il gruppo si è avvicinato a sonorità maggiormente sludge che aveva già in nuce. La loro carica da ringhioso pub di provincia, e basta vedere qualche foto della loro natale Corby per capire, è sempre presente con una bella aggressività alla Motorhead, ed infatti così si intitola uno dei pezzi migliori del disco. Dalla band del compianto Lemmy hanno preso quel tipo di metal stradaiolo inglese, fondendolo con riffoni alla Black Sabbath molto più veloci, però. Il risultato è un disco aggressivo, rumoroso, rissaiolo con parti molto ben bilanciate di sludge, metal e hardcore. Il suono degli Speedhorn è molto personale e particolare, soprattutto per l’uso sapiente della doppia voce, cosa che ai loro esordi era risultata devastante e fa ancora il suo effetto. Lost Ritual è un disco che afferma rumorosamente quanto ancora hanno da dire e da menare questi ragazzi cresciuti. Forse la lontananza ha loro giovato, l’ultimo disco prima dello scioglimento Before The Sea Was Buil non era all’altezza dei precedenti. Molto più di un ritorno per monetizzare, i Raging Speedhorn sono qui per fare ancora molto male, e soprattutto divertirci, perché Lost Ritual è davvero un disco travolgente e che ci farà venire voglia di buttarci giù da un palco. Uno dei più bei ritorni. Metal e bestemmie.

TRACKLIST
01. Bring Out Your Dead
02. Halfway To Hell
03. Motorhead
04. Evil Or Mental
05. Ten Of Swords
06. Dogshit Blues
07. The Hangman
08. Shit Outta Luck
09. Comin’ Home
10. Unleash The Serpent

LINE-UP
John Loughlin – vocals
Frank Regan – vocals
Jim Palmer – guitar
Jamie Thompson – guitar
Dave Thompson – bass
Gordon Morison – drums

RAGING SPEEDHORN – Facebook

The Dead Daisies – Make Some Noise

Crue, Whitesnake, Aerosmith, Bad Company, Kiss, Gunners, metteteli in un bidone e fatelo rotolare giù per la collina di Hollywood, aprite il coperchio e ne usciranno i The Dead Daisies.

Avete presente quando un calciatore, all’ultimo minuto della partita più importante della sua carriera, segna in rovesciata il goal che dà la vittoria alla propria squadra?
Il primo commento è: ora può smettere di giocare!

Ebbene, dopo aver scritto questo articolo il sottoscritto potrebbe tranquillamente tornare ad invasare fiori sul suo terrazzo, perché un disco del genere in campo hard rock, nel nuovo millennio sarà improbabile che gli ricapiti tra le mani.
Ecco quindi il disco perfetto, quello che non uscirà mai più dal vostro stereo e che vi farà cantare, esaltare come e più dei classici, esplosivo in tutte le sue componenti e suonato da una manciata di mostri con a capo il grande John Corabi.
The Dead Daises, ovvero John Corabi al microfono ( (Mötley Crüe, Union, The Scream), Brian Tichy (Ozzy Osbourne, Foreigner) alle pelli, David Lowy (Red Phoenix, Mink) alla chitarra, Doug Aldrich (Whitesnake, Dio) alla chitarra, e quello spettacolo di bassista che è Marco Mendoza (Thin Lizzy, Whitesnake): un’associazione a delinquere dell’hard rock che si presenta in questa metà del 2016 e scarica pallettoni di adrenalinico rock’n’roll da spellarsi le mani fino a farle sanguinare.
Giunto al terzo lavoro, questo supergruppo ideato da Brian Tichy e che, a rotazione, raccoglie tra le sue fila i più grandi interpreti dell’hard rock internazionale, torna dopo il successo del precedente Revolución con un altro spettacolare lavoro dove l’hard rock classico trova la sua glorificazione in riff ficcanti, solos al fulmicotone, un vocalist che per attitudine mette in fila tutti quelli della sua generazione ed un songwriting commovente, da quanto risulta perfetto.
Un disco che è già un classico ancora prima di risplendere sugli scaffali dei negozi, prodotto da Marti Frederiksen (Aerosmith, Def Leppard, Mötley Crüe, Buckcherry) a Nashville, supportato dalle versione in cd, digipack e doppio vinile e composto da dieci brani più due cover (Creedence Clearwater Revival e The Who).
Il nuovo entrato, Mr. Doug Aldrich, si scrolla di dosso la sua avventura alla corte del serpente bianco e traduce la bibbia di tutti i chitarristi rock con una performance stellare, la sezione ritmica portentosa e pregna di quelle ritmiche bluesy ipervitaminizzate da adrenaliniche iniezioni di rock’n’roll, ha nella coppia Tichy/Mendoza due martelli pneumatici sfuggiti all’ormai stanco operaio e che, impazziti distruggono tutto quello che incontrano … e poi c’è lui, Corabi, quel signore che rese un capolavoro l’unico album dei Crue a cui prestò la sua inconfondibile voce.
Il tutto viene tradotto in un monumentale album hard rock: se siete ancora impegnati a cercare il disco della vita, beh non siete così distanti dall’averlo trovato, specialmente dopo essere stati travolti da Mainline, Make Some Noise e le loro bellissime, affascinanti ed irresistibili dieci sorelline.
Crue, Whitesnake, Aerosmith, Bad Company, Kiss, Gunners, metteteli in un bidone e fatelo rotolare giù per la collina di Hollywood, aprite il coperchio e ne usciranno i The Dead Daisies.
Il chitarrista David Lowy ha dichiarato: The Dead Daisies vogliono solo celebrare il classic rock’n’roll; beh, caro Lowy, ci siete riusciti alla grande.

TRACKLIST
1.Long Way To Go
2. We All Fall Down
3. Song And A Prayer
4. Mainline
5. Make Some Noise
6. Fortunate Son
7. Last Time I Saw The Sun
8. Mine All Mine
9. How Does It Feel
10. Freedom
11. All The Same
12. Join Together

LINE-UP
John Corabi-Vocals
David Lowy-Guitars
Brian Tichy-Drums
Marco Mendoza-Bass
Doug Aldrich-Guitars

THE DEAD DAISIES – Facebook

Fyrnask – Fórn

Semplicemente, una delle migliori uscite in ambito black metal ascoltate in questi ultimi anni.

Cominciamo dalla fine: quando le note del gioiello strumentale Havets Kjele sfumano, al termine dell’ennesimo ascolto di Fórn, terzo full-length della one man ban tedesca Fyrnask, posso affermare in tutta tranquillità che, se black metal si deve suonare, questa è la forma in grado di mettere a tacere per sempre critici e scettici per partito preso nei confronti del genere.

In poco più di cinquanta minuti, il buon Fyrn (il quale, in ossequio al verbo black, utilizza nei suoi lavori l’idioma norvegese) mette in mostra tutte le sfaccettature di un movimento musicale che, se per forza di cose ha perso con il tempo la sua carica eversiva, è comunque ben lungi dall’aver esaurito la sua funzione di mezzo espressivo per eccellenza di un sentire pagano, oscuro e introspettivo.
Dopo l’ambient di Forbænir, un brano come Draugr si erge prepotentemente a manifesto della vis compositiva del musicista di Bonn: nel suo interno troviamo l’impulso originario del genere con i suoi natali scandinavi (Emperor), la sperimentazione dai tratti apocalittici che rimanda alla vivace scena francese (Blut Aus Nord) e, ovviamente, la solennità e l’algido rigore della scuola tedesca (Lunar Aurora).
Fórn ha persino il pregio di godere di una buona produzione, capace di esaltare le parti atmosferiche e di scongiurare esiti caotici allorché le tracce vengono lasciate scorrere con il consueto parossismo; a fare la differenza, in effetti, è anche una certa cura de particolari che rende l’ascolto ricco, imprevedibile e sicuramente non banale.
Il crescendo di Agnis Offer, la furia piroclastica di Blótan, lo smarrimento provocato da Kenoma, sono solo alcuni dei numerosi picchi di un disco di rara qualità, che richiede la dovuta predisposizione ad un ascolto attivo e che, senza offesa per nessuno, è lontano anni luce dall’operato di gran parte delle one man band, spesso autrici di opere valide ma, nel contempo, approssimative per esecuzione e produzione.
Impreziosito dal magnifico artwork curato dal grafico irlandese Glyn Smyth, Fórn è, come detto, una delle migliori uscite in ambito black metal ascoltate in questi ultimi anni; questa stessa etichetta, del resto, rischia d’essere riduttiva per un lavoro che esprime con rara efficacia un senso di spiritualità rinvenibile, volendo cercare un paragone calzante con qualche band del passato, soprattutto nei Negură Bunget pre-split, al netto di una componente folk molto meno preponderante: spero che un simile riferimento possa bastare ed avanzare per rendere appetibile l’ascolto di questo splendido album.

Tracklist:
1.Forbænir
2.Draugr
3.Niðrdráttr
4.Vi er dømt
5.Agnis Offer
6.Urðmaðr
7.Blótan
8.Fornsǫngvar
9.Kenoma
10.Havets Kjele

Line-up:
Fyrnd – All instruments, Vocals

FYRNASK – Facebook

ADX – Non Serviam

Vi consiglio di non lasciarvi sfuggire Non Serviam e cominciare a riempire il vostro salvadanaio, non potrete che rifarvi del tempo perduto e far vostra tutta la discografia di questi guerrieri dello speed metal.

Tornano gli storici speed metallers transalpini ADX con questa bomba metallica dal titolo Non Serviam mettendo in fila, nel genere, un gran numero di gruppi più famosi, almeno se guardiamo a questa prima metà dell’anno.

Una band arrivata al decimo lavoro sulla lunga distanza, attiva dai primi anni ottanta e con una reputazione che non ha conosciuto cedimenti, almeno a livello underground: considerato come una delle band leader della scena speed/power europea, il combo parigino non ha mai trovato il successo che meritava, forse l’uso della madre lingua, forse la componente fortuna che in questi casi è fondamentale, fatto sta che molti non conoscono questa entusiasmante realtà del metal classico europeo, da anni sul mercato senza sbagliare un colpo, vena confermata da questo spettacolare nuovo lavoro.
Non Serviam si compone di undici brani, da tradizione cantati alla grande dal bravissimo singer Phil Grelaud, un animale metallico dal carisma stratosferico e suonati con una compattezza strabiliante valorizzata da una produzione perfetta, anche se si tratta di metal old school.
Metal old school, infatti, non vuol dire produzione deficitaria a tutti i costi, come molto spesso capita di ascoltare su produzioni del genere anche licenziate da label importanti, e Non Serviam letteralmente esplode grazie ad un gran lavoro dietro la consolle che permette di gustare le tremende accelerazioni e gli intrecci chitarristici di cui si compongono queste undici mazzate speed/power che non mancano di regalare tanta melodia, perfettamente incastonata nel sound pieno e ridondante del gruppo francese.
Una macchina da guerra metallica, questi sono gli ADX del 2016, ancora dopo più di trent’anni in grado di esaltare con un’apoteosi di suoni metallici, dal taglio classico ma perfettamente inseriti nel genere in questi primi anni del nuovo millennio.
Ritmiche velocissime, solos che fulminano, un lavoro d’insieme che lascia a bocca aperta ed un songwriting al top fanno di questo lavoro un monumento al genere; impossibile resistere, il sound del gruppo vi travolgerà con ritmiche potentissime ma dall’appeal immenso, drammatico e a tratti epico fino al midollo, spingendo via in malo modo almeno una bella fetta dei lavori usciti negli ultimi tempi, specialmente quelli dei gruppi storici.
Non vi sto ad elencare i brani che più risaltano nel contesto dell’album perché la qualità è talmente alta da lasciare senza fiato per tutta la sua durata, vi consiglio solo di non lasciarvi sfuggire Non Serviam e cominciare a riempire il vostro salvadanaio, non potrete che rifarvi del tempo perduto e far vostra tutta la discografia di questi guerrieri dello speed metal.

TRACKLIST
1. L’aube noire
2. La mort en face
3. La complainte du demeter
4. B-17 phantom
5. Non serviam
6. Les oubliés
7. L’irlandaise
8. L’egnime sacrée
9. Cosaques
10. La Furie
11. Theâtre de sang

LINE-UP
Phil Grelaud – Vocals
Nicklaus Bergen – Guitars
Pascal Betov – Guitars
Julien Rousseau – Bass
Didier “Dog” Bouchard – Drums

ADX – Facebook

The Answer – Rise 10th Anniversary Edition

Special edition per il decimo anniversario di Rise, splendido esordio degli hard blues rockers The Answer

Di questi tempi si parla tanto di revival, in campo hard rock, delle sonorità settantiane pregne di sanguigno blues rock e con soddisfazione per gli amanti delle sonorità vintage, le band protagoniste di album clamorosi non mancano di certo.

L’hard blues settantiano, con quel tocco moderno nei suoni e nelle produzioni, non manca di regalare opere molto interessanti, ma ad un orecchio attento è già da parecchi anni che i fans dell’hard rock possono avvalersi, oltre ai dischi dei gruppi storici, di nuovi eroi che si affacciano sul mercato con album bellissimi.
Tra questi ci sono sicuramente gli irlandesi The Answer che, con Rise, debuttavano sulla lunga distanza nel 2006.
In dieci anni altri quattro album, con l’ultimo Raise A Little Hell, uscito lo scorso anno, una serie di singoli, ed in mezzo il bellissimo Revival del 2011 a valorizzare una già ottima discografia.
Il decimo anniversario dell’uscita di questo bellissimo esordio il gruppo di rockers irlandesi lo festeggia licenziando questa gustosa special edition, che vede l’album completamente rimasterizzato con l’aggiunta dei demo del 2004, alcune canzoni in versione acustica e remix inediti.
Un ottimo modo per conoscere la band o per assaporare questo bellissimo lavoro di hard blues adrenalinico, fresco ed assolutamente irresistibile in ogni sua parte, composto da un lotto di brani esplosivi che miscelano in modo sapiente le sonorità settantiane con le moderne sfumature di cui si nutre l’hard rock del nuovo millennio.
Irlandesi di nascita, ma americani nell’approccio, i The Answer sono la perfetta via di mezzo tra i Led Zeppelin e i Black Crowes, con il caldo sole delle route a lasciare sull’asfalto un dolcissimo odore di southern rock.
Il primo album del gruppo è uno dei migliori lavori usciti in questo decennio, con il suo chitarrismo alla Page, vocals che si rifanno agli dei dei microfono (Cormac Neeson è il Chris Robinson del vecchio continente) e tanta voglia di blues rock, vitale, energico ed irresistibile; se siete rimasti folgorati dalle ultime uscite di genere, non potete mancare all’appuntamento con il gruppo irlandese.
D’altronde parla la musica e l’opener Under The Sky, seguita da quella Never Too Late che sembra uscita dalle registrazioni di The Southern Harmony and Musical Companion, fungono solo da benvenuto nel mondo The Answer e sono seguite da brani eccellenticome Come Follow Me, il blues di Memphis Water, il riff potentissimo di Into The Gutter (brano alla Ac/Dc era Bon Scott) e l’apoteosi southern di Preachin.
Tra le molte versioni, l’hardbook version composto da due cd ed il doppio vinile sono proposte a dir poco succulente e da non perdere, nel frattempo il gruppo suonerà di supporto a Coverdale ed ai suoi Whitesnake anche in Italia (Pistoia blues), un concerto che si preannuncia imperdibile per tutti i fans dell’hard rock, non mancate.

TRACKLIST
CD1:
(all songs remastered 2016)
1. Under The Sky
2. Never Too Late
3. Come Follow Me
4. Be What You Want
5. Memphis Water
6. No Question Asked
7. Into The Gutter
8. Sometimes Your Love
9. Leavin`Today
10. Preachin`
11. Always

CD2:
1. Under The Sky (2016 new mix)
2. Never Too Late (2004 demo)
3. New Day Rising (2004 demo)
4. Too Far Gone (2004 demo)
5. Preachin` (2004 demo)
6. Always (2004 demo)
7. Tonight (2004 demo)
8. So Cold (2004 demo)
9. Song For The People (2004 demo)
10. Take It Easy (2006 recording)
11. Not Listening (2006 recording, exclusive mix)
12. Keep Believin`(2006 recording)
13. Rise (2006 recording)

LINE-UP
Cormac Neeson – Vocals
Paul Mahon – Guitars
Micky Waters – Bass
James Heatley – Drums

THE ANSWER – Facebook

MESSA

Il debutto dei Messa, Belfry, è uno dei più bei dischi di quest’anno. L’atmosfera che riescono a creare i Messa non è affatto facile sa spiegare, soltanto ascoltandoli potrete capire. Qualche elemento in più potrebbe fornirvelo questa nostra intervista a uno dei gruppi italiani più interessanti degli ultimi anni.

iye Come nasce il vostro suono così particolare ed ipnotico ?

Nasce da un’esigenza di sperimentazione di un linguaggio musicale diverso da tutto ciò che noi quattro eravamo e siamo tutt’ora abituati a fare: sia dal punto di vista tecnico, formale ed estetico, per noi è un approccio diverso.
Sara non ha mai cantato in vita sua ma sempre suonato in band hardcore/punk il basso, Alberto ha sempre suonato la chitarra in progetti prog,jazz , Rocco alla batteria sempre suonato black metal in molti progetti e io al basso sempre avuto un approccio piu dark’n’roll alla musica con parentesi garage.

iye Quali sono i vostri ascolti ?

I più svariati, da Coltrane ai Darkthrone, dai Bathory ai Current 93, per capirci, passando per tutti i generi lugubri lenti e fumanti.
L’approccio al progetto Messa cerca di non essere mono direzionale ma cerchiamo di esprimere ed evocare delle sensazioni, che poi siano dettate da un fuzz o da una campionatura o da una lirica poco importa.

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iye Come portate sul palcoscenico il vostro disco ?

Cerchiamo di renderlo il piu low profile possibile, non siamo attrezzati con costumi o stronzate di nessun tipo.
Montiamo sul palco, bruciamo della resina di incenso pura, accendiamo poche candele e cerchiamo di darci dentro.

iye Se poteste scegliere a quale regista vi piacerebbe fare una colonna sonora ?

Sono tutti morti, quelli italiani poi … sepolti, ad ogni modo sarebbe interessante fare una cosa per Roy Andersson.
penso sia un genio. Come sa affrontare temi come morte, alienazione, sesso, ambiente in un modo così sottile non lo fa nessuno, sarebbe un sogno poter farlo

iye Progetti futuri ?

Stiamo cercando di progettare un mini tour di una 10 di giorni per il prossimo novembre e, nel mentre, stiamo già componendo materiale nuovo; un pezzo che è già finito a breve andremo a registrarlo in una chiesetta sconsacrata dove facciamo prove, per inciderlo poi in uno split da fare con i nostri amici tedeschi Breit.

Grand Magus – Sword Songs

We are warriors, defenders of steel, cantano i Grand Magus….unitevi al coro.

Sword Songs, nuovo lavoro degli svedesi Grand Magus è più di quanto heavy metal si può ascoltare quest’anno, epico, guerresco, esaltante ed attraversato da uno spettacolare sentore manowariano.

La band di JB Christoffersson taglia definitivamente i ponti con lo stoner/doom e le reminiscenze Spiritual Beggars (ex gruppo di JB e Ludwig Witt) per inoltrarsi nelle lande dove dei e uomini combattono una guerra che dura da quando esistono il sole e la luna, e le canzoni che raccontano di spade, scudi spezzati ed eroici guerrieri trovano in quest’opera una delle massime espressioni.
Una band prolifica i Grand Magus, dall’alba del nuovo millennio con le vele spiegate ha fatto rotta verso il Valhalla del metal mondiale con una serie di album rocciosi di cui, probabilmente, Iron Will del 2008 era, fino ad ora, il picco più alto, con un sound perfettamente bilanciato tra la granitica forza dello stoner/doom e l’epicità del metal tradizionale.
Sword Songs è composto da nove inni metallici che rinverdiscono le gesta di Manowar ed in parte Bathory, un sanguinario quadro dove i colori predominanti sono il rosso del sangue ed il grigio dell’acciaio, di cui le spade sono forgiate.
Sword Songs è tutto un susseguirsi di mid tempo, chorus epici che si ripetono all’infinito, solos che emanano sentore di punte affilate che si fanno spazio tra le carni, inni di guerra da cantare quando il nemico è in ritirata o sotto un palco, messo a ferro e fuoco dai tre guerrieri svedesi in preda a deliri di conquista.
Dopo la monolitica opener Freja’s Choice, un muro di watt innalzato dal gruppo come il castello di Grande Inverno ci travolge con l”epicità di Varagian e della seguente Forged In Iron – Crowned In Steel, dove i Manowar vengono sedotti dalla vergine di ferro per uno dei brani cardine di questo lavoro, heavy metal epico alla massima potenza.
Ci si destreggia tra lo scontro cercando di rimanere vivi, mentre gli inni metallici si sprecano, così come l’alternanza tra attimi di velocità e monolitica potenza, (Master Of The Land, Frost And Fire), così che l’album continua a mantenere forte l’atmosfera fiera instaurata dal primo minuto dell’opener.
Every Day There’s A Battle To Fight chiude l’opera, una marcia verso la gloria, un esaltante inno metallico che il gruppo guerriero intona mentre il campo di battaglia si avvicina e si può sentire l’alito fetido del nemico davanti a noi.
Un lavoro clamoroso che sarà divinizzato da tutti i true defenders, pregno di quel metal tradizionale troppe volte sottovalutato e che rilancia alla grande i Grand Magus come band di culto nel panorama heavy mondiale; un disco che ha nella propria tracklist brani che diventeranno classici nella discografia del gruppo e soprattutto in sede live.
We are warriors, defenders of steel, cantano i Grand Magus … unitevi al coro.

TRACKLIST
01. Freja’s Choice
02. Varangian
03. Forged In Iron – Crowned In Steel
04. Born For Battle (Black Dog Of Brocéliande)
05. Master Of The Land
06. Last One To Fall
07. Frost And Fire
08. Hugr
09. Everyday There’s A Battle To Fight

LINE-UP
Fox – Bass, Vocals (backing)
JB – Guitars, Vocals (lead)
Ludwig – Drums

GRAND MAGUS – Facebook

Destruction – Under Attack

I gruppi storici, di solito, vivono di luce riflessa emanata dalle opere che li hanno resi famosi, non il gruppo tedesco che con Under Attack scrive una delle sue pagine più importanti

Quante volte abbiamo nominato la famosa sacra triade del thrash metal teutonico, Sodom-Kreator-Destruction, per descrivere le opere di giovani metallari alle prese con il sound che queste icone del metal estremo hanno reso immortale ?

Una scuola quella tedesca che, diversamente da quella statunitense, ha sempre viaggiato su territori estremi, amalgamando il thrash con lo speed e lasciando all’aggressione tout court il compito di spezzare colli ai metallari da almeno una trentina d’anni.
Under Attack è l’ultimo figlio dello spirito santo della sacra triade, i Destruction di Schmier, un razzo impazzito lanciato per distruggere pianeti, un meteorite di metallo devastante che si abbatte sulla terra ed appunto distrugge ogni cosa.
Possiamo sicuramente sorvolare su accenni alla storia di questa storica band, se non conoscete il trio di Lorrach non potete considerarvi veri metallari, ed il fatto che questo nuovo lavoro non si discosti di una virgola dai precedenti lavori risulta solo un dettaglio.
Il thrash metal teutonico di cui il gruppo è maestro non richiede idee originali o grosse novità, per essere apprezzato dagli ascoltatori serve un songwriting sopra la media, un impatto devastante e tanto mestiere, e la band non difetta di alcuna di queste virtù, confezionando un album che semplicemente è legge per chiunque ami il genere.
Un gruppo che non conosce il passare degli anni, questi sono i Destruction del 2016, ed il nuovo album spara dieci missili terra aria, di thrash metal veloci come la luce, accompagnati dal drummer granitico Vaaver, dalla sei corde che trafigge con solos che sono schegge impazzite che cadono sul pianeta e dalla voce inconfondibile di uno Schmier, signore e padrone di un certo modo di concepire il metal d’assalto.
Un assalto appunto che inizia e termina senza un caduta di tono, nemmeno un minuto da poter considerare un riempitivo, mentre i testi che accompagnano questa famigerata decina di songs, dimostrano come questi inesauribili thrashers sono sul pezzo rispetto alle problematiche di questo inizio millennio (terrorismo, corruzione e cyberbullismo).
Compatto, oscuro, bestiale, una battaglia senza tregua, questo è Under Attack, aperto dalla bellissima title track e colmo di pregiati pezzi di thrash old school perfettamente a suo agio in questi anni di modern metal, come Pathogenic o Dethroned, due bolidi metallici che senza freni travolgono, precisi e perfetti nel regalare violenza musicale, o presi per la gola dalla perfezione di Conductor Of The Void e Generation Nevermore, picchi qualitativi di questo mostruoso lavoro.
I gruppi storici, di solito, vivono di luce riflessa emanata dalle opere che li hanno resi famosi, non il gruppo tedesco che con Under Attack scrive una delle sue pagine più importanti, confermandosi, e non poteva essere altrimenti, come gruppo guida del thrash metal europeo.

TRACKLIST
1. Under Attack
2. Generation Nevermore
3. Dethroned
4. Getting Used to the Evil
5. Pathogenic
6. Elegant Pigs
7. Second to None
8. Stand Up for What You Deliver
9. Conductor of the Void
10. Stigmatized

LINE-UP
Schmier – Basso, Voce
Mike – Chitarra
Vaaver – Batteria

DESTRUCTION – Facebook

SUBLIMINAL CRUSHER

iye Quattordici anni di attività e quattro full length: raccontatevi ai lettori della nostra webzine.

Jerico: Subliminal Crusher è il nome di un progetto iniziato nel 2002, da me e Rawdeath, come side project degli altri nostri S.R.L., band di heavy/thrash con testi in italiano attiva dal 1992. I “SubCrush”, sono infatti nati proprio per estendere le tipiche sonorità prog-melodiche degli S.R.L., ed hanno da subito preso connotati death melodici, unici ma affini alle bands da cui al tempo io e Rod eravamo principalmente ispirati (The Haunted, At the Gates, Darkane, Pantera, Testament, etc..) .

iye Darketype, il nuovo lavoro, può essere considerato un ottimo esempio di death metal melodico con chiare influenze thrash, siete d’accordo?

Emiliano: Certamente. come detto sopra da nonno J. le influenze del gruppo sono chiare e, essendo i gusti musicali dei membri del gruppo abbastanza omogenei, non si fatica ad evincerle. L’intenzione del disco verte spesso su sonorità thrash, seppur rimanendo con una chiara base filo-scandinava, già presente in altri lavori, ma stiamo già pensando di dare una linea più death ai prossimi lavori.

iye La melodia riveste un ruolo molto importante nel vostro sound, trovando sfogo in molti solos di estrazione classica: il metal classico fa parte del vostro background?

Jerico: Le melodie sono il giusto equilibrio tra le componenti che a mio avviso compongono una tipica struttura nei brani dei Subliminal Crusher. E’ come quando si cerca di ottenere uno scatto fotografico che riassuma il giusto messaggio, ecco … la melodia è il momenti della messa a fuoco di questa immagine.

iye Come si lavora alla creazione di un album in casa Subliminal Crusher?

Jerico: Fortunatamente, le attuali tecnologie consentono di condividere le idee di tutti in poco tempo. Partendo da questi primi riff, ci si vede in sala prove e si sviluppa il pezzo nella sua forma completa. C’è da dire che l’arrangiamento di un tipico brano SubCrush non impiega mai poco tempo, ma una volta completato siamo sicuri di aver ottenuto il massimo del risultato secondo in nostri canoni.
Emiliano: Questa era per me, e anche per Marco, la prima esperienza nel contribuire alla creazione di un album e posso dire che si lavora con grande entusiasmo e impegno da parte di ogni membro (penso in particolare a Lorenzo che si è fatto carico del lavoro di registrazione, mixing e mastering). Va detto che i nostri membri più anziani (Jerico e Rodolfo) hanno giocato un ruolo fondamentale negli arrangiamenti, noi altri, alle prime armi, non saremmo probabilmente stati in grado di far rendere in modo così efficace i pezzi.

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iye Come ho scritto in sede di recensione, negli ultimi anni le band di genere hanno spostato il tiro verso sonorità più core, perdendo quasi del tutto gli elementi classici che caratterizzavano il sound di metà anni novanta; voi fate parte di quei gruppi che non si sono fatti influenzare dalle nuove tendenze continuando ad avere un approccio”vecchia scuola”, ma quali sono i gruppi che più hanno influenzato il vostro sound?

Jerico: Di certo i SubCrush non hanno mai suonato quello che gli altri si aspettavano ma sempre e solo quello che in quel momento rappresentava la nostra musicalità. Siamo passati anche noi da periodi più thrash a momenti più death, ma in generale, penso che siamo sempre rimasti coerenti al nostro moniker.

iye Nel corso della vostra carriera avete diviso il palco con gruppi a dir poco fondamentali per lo sviluppo del metal estremo come Entombed, The Haunted, Darkane e Sadus: quanto è importante per voi suonare dal vivo?

Jerico: Ogni concerto è una nuova sfida, dalla ideazione della scaletta alla preparazione in sala prove per la stessa, ma ogni volta è una soddisfazione stare sul palco insieme agli altri componenti del gruppo e condividere ogni emozione scaturita da ogni singola nota.

iye La scena italiana negli ultimi anni è cresciuta in modo esponenziale a livello qualitativo: per voi che siete in giro da un po di anni, quali sono le differenze sostanziali tra la scena odierna e quella dei primi anni del nuovo millennio?

Jerico: La scena italiana pullula di band valide, sia dal punto di vista tecnico che delle idee; sicuramente l’attitudine delle band si è modificata nel tempo, ma credo che questo sia inevitabile. Forse quello che manca di più alla scena oggigiorno, rispetto a venti anni fa, è la curiosità nella ricerca di gruppi, suoni e relative “leggende”. Con internet oggi tutto è alla portata di tutti, e questo va sicuramente a discapito dell’immaginazione, che a mio modo di vedere è parte integrante del piacere musicale.

iye Siamo ai saluti, vi lascio spazio per farci conoscere i prossimi passi della band e vi ringrazio a nome dei lettori di Iyezine.

Jerico: Tutto quello che di importante gira intorno alla band è quasi subito postato nei nostri socials (fb in primis). Rimanete in contatto con noi su Facebook

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Winterhorde – Maestro

Chiunque si professi amante della buona musica deve ritagliarsi, almeno per un po’, un’oretta al giorno per cogliere appieno ogni sfumatura e godersi senza distrazioni un lavoro che difficilmente si schioderà dalla top ten di quest’anno.

Gli israeliani Winterhorde potrebbero esser presi ad emblema di ciò che si intende per progressione artistica: partiti come band dedita ad un symphonic black sulle tracce di Dimmu Borgir et similia (Nebula, 2006) ed approdati poi ad una forma parzialmente più evoluta ed avanguardista, ma ancora legata a tratti di matrice  estrema (Underwatermoon, 2010), giungono infine alla quadratura del cerchio con Maestro, tramite il quale, quasi in ossequio al titolo scelto, impartiscono una spettacolare quanto sorprendente lezione della durata di oltre un’ora a base di musica “progressiva” nel senso più autentico del termine.

Il retaggio sinfonico resta fortemente connesso alla struttura compositiva del gruppo mediorientale ma, in questo caso, costituisce un tessuto che avvolge ed arricchisce il lavoro d’insieme piuttosto che rappresentare la classica la soluzione ad effetto volta solo a mascherare, in molti lavori, ampi vuoti creativi.
Il raggiungimento di un simile risultato non arriva per caso ed una delle chiavi di volta è stato sicuramente un pesante ritocco della line-up che ha visto, in particolare, l’ingresso in formazione del cantante Igor “Khazar” Kungurov, il quale, con le sue splendide tonalità pulite duella incessantemente con lo screaming/growl del vocalist e fondatore Z.Winter, finalizzando il lavoro rutilante di una band capace di spaziare con una disinvoltura disarmante tra diverse sfumature stilistiche senza mai appesantire l’ascolto.
Chi ha avuto la ventura di ascoltare quel capolavoro che risponde al titolo Blessed He with Boils degli americani Xanthochroid troverà non poche affinità, specie nei passaggi più accelerati ed in certe repentine aperture atmosferiche, ma i Winterhorde ci mettono di loro un trademark più classico, riconducibile persino a Savatage/Trans Siberian Orchestra nelle frequenti orchestrazioni e, comunque, meno estremo, con una ricerca costante della melodia che non necessità del ricorso a dissonanze o a colpi ad effetto per attrarre l’attenzione dell’ascoltatore.
Mi rendo conto, scrivendone, quanto sia complesso provare a descrivere a parole questo disco, pertanto mi limiterò a dire che chiunque si professi amante della buona musica deve ritagliarsi, almeno per un po’, un’oretta al giorno per cogliere appieno ogni sfumatura e godersi senza distrazioni un lavoro che difficilmente si schioderà dalla top ten di quest’anno.
Anche citare un brano piuttosto che un altro riesce difficile, in quanto Maestro è un’opera di rara compattezza qualitativa, in cui non viene sprecata una nota che non sia funzionale al risultato finale: obbligato a scegliere tra tanta abbondanza, opto per The Heart of Coryphee, la traccia più lunga del lavoro nonché quella che farei ascoltare a qualcuno che mi chiedesse di proporgli un frammento dell’album per farsene un’idea, mentre tutto sommato la traccia meno brillante è proprio la conclusiva Dancing in Flames, in virtù di certe venature circensi che non sono mai state nelle mie corde.
Maestro è l’album che porta i Winterhorde su livelli inattesi ai più: probabilmente il tempo trascorso dall’ultimo lavoro su lunga distanza è stato sfruttato per focalizzare e finalizzare al meglio gli obiettivi, a dimostrazione del fatto che quasi sempre la fretta è nemica della qualità; non resta che assaporare questa splendida opera con la speranza che sia solo l’inizio di una nuova fase della carriera del gruppo israeliano.

Tracklist:
1. That Night in Prague
2. Antipath
3. Worms of Souls
4. They Came with Eyes of Fire
5. Chronic Death
6. The Heart of Coryphee
7. A Dying Swan
8. Maestro
9. Through the Broken Mirror
10. Cold
11. Dancing in Flames

Line-up:
Z.Winter – Vocals
Igor “Khazar” Kungurov – Vocals, Acoustic Guitar
Dima “Stellar” Stoller – Guitars
Omer “Noir” Naveh – Guitars
Sascha “Celestial” Latman – Bass, Saxophone, Acoustic Guitar
Alexander “Morgenrot” Feldman – Keyboards, Theremin
Maor “Morax” Nesterenko – Drums

WINTERHORDE – Facebook

WITCHES OF DOOM

Un interessante scambio di battute con i romani Witches Of Doom, autori di uno degli album più convincenti di questa prima metà del 2016.

iye Tra Obey ed il nuovo lavoro sono passati un paio d’anni, cosa è successo nel frattempo in casa Witches Of Doom?

In questi due anni abbiamo avuto modo di conoscerci e di amalgamarci di più, di poter sperimentare nuove idee, di lavorare sui suoni, ma soprattutto abbiamo fatto numerose date sia in Italia che all’estero, e questo è quello che ci ha fatto crescere maggiormente

iye Obey è stato, almeno per il sottoscritto, un esordio straordinario: voi siete soddisfatti dei riscontri ottenuti da pubblico ed addetti ai lavori?

Sicuramente non ci possiamo lamentare, le ottime recensioni che abbiamo ricevuto ci hanno reso orgogliosi del nostro lavoro, e ci hanno dato quell’ulteriore spinta in più e convinzione nei nostri mezzi. E’ stato ulteriormente emozionante ricevere attestazioni di stima e di apprezzamento per la nostra musica da musicisti del calibro di Tony Dolan (Venom Inc., E-mpire of Evil), con cui abbiamo anche suonato qui a Roma, e Paul Bento ( ex Carnivore – Type O Negative), che ci ha addiritura onorato di un suo assolo di chitarra sul nostro singolo New Years Day.

iye Non è mai facile per una band ripetersi su certi livelli dopo un lavoro pienamente riuscito, avete sentito una certa pressione al momento di scrivere i brani per il nuovo album?

Sapevamo da subito che dopo gli ottimi riscontri di Obey non potevamo permetterci di sbagliare, e questo un minimo di preoccupazione ce lo dava, ma la nostra fortuna è quella di essere molto prolifici nella scrittura dei brani, e questo ci ha permesso, prima di entrare in studio di registrazione, di fare una selezione. Abbiamo scelto i brani che ci divertivamo di più a suonare, visto che la passione e il divertimento sono alla base di tutto quello che facciamo

iye Deadlights conferma il vostro valore, ancora una volta il songwriting è di altissimo livello, senza restare ancorato al sound di Obey ma aggiungendovi con sagacia una base elettronica che gli conferisce un mood ancor più ottantiano: da dove giungono questi nuovi spunti ?

La differenza principale sta nel semplice fatto che le tastiere in Obey sono state aggiunte dopo aver già scritto tutti i brani, in quanto il nostro tastierista Eric è entrato in pianta stabile nel gruppo proprio mentre stavamo ultimando le registrazioni di Obey, mentre i pezzi di Deadlights nascono da subito con le tastiere e quindi abbiamo potuto dare sfogo a tutti nostri desideri di elettronica che nel primo disco avevamo dovuto parzialmente reprimere.

iye Nel nuovo album siete riusciti ad amalgamare, molto più che nel precedente, tutte le vostre influenze, mantenendo però intatta la componente stoner/doom che conferisce ai brani atmosfere ossianiche: quanto influisce sul vostro sound il dark rock delle band storiche?

Sicuramente, anche se ognuno di noi ha influenze e predilige ascolti dei generi più vari di musica, l’amore per il suono di band storiche quali Black Sabbath, Doors, Depeche Mode, The Cure, Joy Division, Bauhaus, Sister of Mercy, The Mission, The Cult, etc.etc. è quello che più ci unisce e che più abbiamo in comune

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iye Come è nato un brano come I Don’t Want To Be A Star, quello che più si avvicina al mood di Obey con le sue atmosfere doorsiane che lo rendono la perfetta conclusione del lavoro?

I Don’t Want To Be A Star nasce da un mio giro di basso, l’ho proposto mentre stavamo provando altri pezzi, anche se non ne ero molto convinto, in quanto pensavo che si differenziasse troppo dal tipo di sound su cui stavamo lavorando in quel periodo. Invece agli altri del gruppo è piaciuto subito, e allora abbiamo incominciato a lavorarci in maniera più seria. La cosa bella è che tutta la seconda parte del brano è una sorta di jam session, ogni volta, sia che si tratti di prove, che di concerti, la improvvisiamo, e così anche la durata del brano è molto variabile

iye Dopo un secondo lavoro ancora di altissimo livello, quali sono i primi bilanci e le aspettative ?

Il disco è uscito da poco, tra l’altro al momento solo in formato digitale, la versione in cd uscirà entro fine maggio, e quindi è ancora troppo presto per fare dei bilanci, anche se devo dire che i primi riscontri sono più che positivi. Le nostre aspettative sono sicuramente alte, crediamo molto in quello che abbiamo fatto, sappiamo anche di avere un sound tutto nostro, che ci contraddistingue, speriamo quindi che sempre più persone vengano a vederci e acquistino il nostro disco

iye Con l’approssimarsi della stagione estiva ci sarà la possibilità di vedervi all’opera in qualche festival?

Al momento non abbiamo niente in programma, almeno in Italia, ma stiamo lavorando per cercare nuove date. I problemi sono essenzialmente due: uno lo hanno in comune tutte le band italiane che suonano pezzi originali, ovvero il sempre minor spazio concesso ai gruppi che suonano musica propria a favore invece delle cover band; il secondo invece si rifà alla risposta alla domanda precedente, ovvero avendo un sound tutto nostro spesso siamo fuori contesto, in quanto o troppo metal per festival rock, o al contrario troppo poco metal per i festival in cui magari suonano anche gruppi metal più estremi. Quindi alla fine ci rimane più facile suonare da soli o come headliner della serata.

iye Nel metal i gruppi italiani sono sempre stati visti come una realtà di serie B, ma negli ultimi anni la scena è cresciuta in modo esponenziale: vi ritrovate in effetti quale parte della scena metal nostrana oppure vi sentite più una band dal respiro internazionale?

Io direi tutte e due le cose, in quanto siamo comunque legati alle nostre origini e grati a gruppi quali ad esempio Lacuna Coil, Novembre, Sadist, Doomraiser, Foreshadowing, solo per citare i primi che mi vengono in mente, che portano in giro per il mondo il metal italiano, dando così anche a noi la possibilità avere una sorta di vetrina internazionale. Allo stesso tempo siamo consapevoli che il nostro è un sound più internazionale, fosse solo per tutti i messaggi di complimenti e richieste varie che riceviamo tutte le settimane dalle parti più sparse del mondo. Proprio per questo motivo, di comune accordo con la nostra etichetta la Sliptrick Records, abbiamo deciso di concentrare la fase iniziale della promozione di Deadlights negli Stati Uniti.

Arkhè – Λ

Perdersi un album di questo livello è un peccato mortale, lasciate entrare dentro di voi le note che accompagnano la musica degli Arkhè, vi riempiranno il cuore e l’anima.

Tra le molte realtà di spessore che hanno attraversato gli ultimi decenni di musica metal ci sono band che non hanno mai raccolto in termini di vendite e popolarità quello che la loro musica meritava.

Tra queste ci sono sicuramente gli ungheresi Sear Bliss che fin dal 1996, anno di uscita del debutto Phantoms, sono stati una delle migliori espressioni del black metal atmosferico in giro per la vecchia Europa.
L’ultimo lavoro targato Sear Bliss risulta Eternal Recurrence del 2012, nel frattempo il leader Andras ha raccolto vari membri che nel corso degli anni hanno contribuito a rendere ottima la discografia del gruppo in qualità di ospiti, e sotto il monicker Arkhè licenzia questo bellissimo lavoro.
Λ lascia gli impervi sentieri del black metal atmosferico per avventurarsi nel mondo del metal alternativo, dove l’aggettivo sta per musica a 360°, sempre oscura, drammatica, estrema più concettualmente che musicalmente, anche se non mancano attimi di tragico metallo progressivo.
Progressive è appunto la migliore descrizione sintetica della musica del musicista magiaro, un caleidoscopio umorale di suoni e sfumature rarefatte, liquide, dove l’elettronica scava nello spartito, lasciando profonde vene aurifere di note melanconiche, a tratti struggenti, in un saliscendi tra momenti di intima drammaticità e rabbiosi, ma ragionati, sfoghi musicali in cui il gruppo da il meglio di se.
Un viaggio nell’oscurità, un cammino alla cieca tra una buona fetta dei generi che si ammantano di colori scuri, tutti sotto la guida progressiva di Andras, cervello e braccio principale di questo progetto che vede ancora una volta l’emozionalità della sua musica a livelli eccellenti.
Dark, new wave, industrial, metal estremo, note adulte di gotico incedere sono le principali colpevoli di questo gioiello senza genere, come se tutte le nostre certezze su cui abbiamo costruito il modo di dividere la musica contemporanea per cercare di spiegarla cadessero, bombardate dalle note di Λ.
Difficile scegliere un brano piuttosto che un altro, l’opera va ascoltata nella sua interezza per poter riuscire a scorgere le mille e più ombre che si aggirano, tra le note di cui si compone, ma lasciatemi sottolineare la fantastica cover di Scum dei Napalm Death, qui in versione industrial dark con finale di atmosferica e sospesa musica che fluttua e ci accompagna verso un epilogo in crescendo di questo meraviglioso lavoro.
Perdersi un album di questo livello è un peccato mortale, lasciate entrare dentro di voi le note che accompagnano la musica degli Arkhè, vi riempiranno il cuore e l’anima.

TRACKLIST
1. Rianás
2. Meditation In The Wood
3. Fergeteg Hava
4. Lélekölök
5. Space Derelict
6. Scum (Napalm Death – Cover)
7. Eredet
8. Álom Hava
9. Esthajnal

LINE-UP
Andras – vocals, guitars, bass, synth, fretless bass, piano

Guests:
Viktor Scheer
Olivér Ziskó
Attila Kovács
Balázs Bruszel
Zsófia Korponay

ARKHE’ – Facebook

Sleep Of Monsters – II: Poison Garden

La musica degli Sleep Of Monsters è bella come una sirena e ha la stessa carica di ipnosi, è una mutazione pop di un metal lussurioso e volontariamente oscuro.

I Sleep Of Monsters, dovessero subire un processo della Santa Inquisizione, sarebbero accusati di adorazione del Demonio, stregoneria e di diffusione di musica demoniaca.

Purtroppo, per alcuni e meglio per altri, Lucifero ha sempre ispirato musica molto migliore della controparte, e questo disco ne è la prova. Questi finlandesi fanno un bellissimo e seducente incrocio di metal, pop e musica gotica. La loro seconda prova è ancora più bella e convincente della prima, Producers Reason del 2013, poi ristampato dalla Svart nel 2014, e che era tranquillamente entrato nella top 50 finlandese. La musica degli Sleep Of Monsters è bella come una sirena, e ha la stessa carica di ipnosi, è una mutazione pop di un metal lussurioso e volontariamente oscuro. I magnifici cori femminili delle Furies sottolineano grandi momenti quasi come negli anni ottanta dei Pink Floyd, con la voce di Vil già nei magnifici Babylon Whores, che comanda la nera carovana.
Tutto è lento e tristemente bello, con il dipanarsi delle nostre più recondite paure , e l’emergere della nostra parte oscura e più profonda. I recessi della nostra anima gioiranno per questa epifania finlandese, un disco che è alla pari con Meliora dei Ghost, anzi l’occulto qui è ancora più presente. Tutte le componenti degli Sleep Of Monsters portano qualcosa nell’insieme che è davvero notevole ed unico. Per la cronaca nel gennaio 2015 durante un concerto ad Helsinki, mentre il gruppo eseguiva The Lesser Banishing Ritual Of The Pentagram, prese fuoco il centro commerciale dall’altra parte della via.
Siete stati avvertiti.

TRACKLIST
01. Poison King
02. The Golden Bough
03. Art of Passau
04. Babes in the Abyss
05. Beyond the Fields We Know
06. As It Is, So Be It
07. The Devil and All His Works
08. Our Dark Mother
09. Foreign Armies East
10. Land of Nod
11. Poison Garden

LINE-UP
Ike Vil – Vocals
Sami Hassinen – Guitar
Janne Immonen – Keyboard.
Pätkä Rantala – Drums
Mäihä – Bass
Uula Korhonen – Guitar
The Furies: Hanna Wendelin, Nelli Saarikoski, Tarja Leskinen

SLEEP OF MONTERS – Facebook

Sixx A.M. – Prayers For The Damned Vol. 1

Stavate cercando una band da far sedere sul trono dell’hard rock mondiale? L’avete trovata.

Negli ultimi mesi non sono state poche le band tornate in campo hard rock a far parlare la propria musica, gruppi ormai famosi che hanno attraversato con alterne fortune gli ultimi vent’anni, ancora comunque tutte ben inserite in un music biz sull’orlo di una crisi di nervi, nel trovare la band trainante per tutto il movimento.

La moria delle cosidette ultime icone del rock’n’roll, ed una crisi economica mondiale che ha influito negativamente anche sul mondo musicale, stanno dando ragione (ma solo in termini economici) a chi continua a sostenere che il rock è morto, aiutati dai passi falsi delle ultime band storiche che pur di attaccarsi agli ultimi dollari si inventano collaborazioni ridicole (la storia AC/DC-Axl Rose ne è il più clamoroso esempio).
Ed allora chi prenderà per mano il rock’n’roll per accompagnarlo in questi primi anni del nuovo millennio?
I Sixx A.M., liberati dallo scioglimento dei Motley Crüe (Nikki Sixx) e dalle bizze di Axel Rose (Dj Ashba), con questo nuovo lavoro potrebbero essere tra le band cardine di questi prossimi anni a venire, intanto per il carisma dei protagonisti e poi per la qualità della musica proposta che si colloca perfettamente tra il rock tradizionale, quello più moderno ed easy listening con una componente metal, che potrebbe davvero mettere d’accordo tutti e fare del gruppo statunitense una bomba pronta ad esplodere sul mercato discografico.
Una collaborazione, quella tra il bassista dei leggendari Crüe ed il chitarrista dei fenomenali Beautiful Creatures (il loro debutto omonimo del 2001 è un capolavoro assoluto), iniziata nel 2007 per dare una colonna sonora al libro The Heroins Diaries, cronache della tossicodipendenza di Sixx che, a molti, dava l’impressione di un progetto estemporaneo, anche per il rientro in campo dei Crüe con una serie infinita di live e l’entrata del chitarrista tra le file dei gunners del solo Rose.
Non è andata così fortunatamente, ed il gruppo arriva al traguardo del quarto lavoro, il quale avrà un seguito sul finire dell’anno (Vol.2) e che succede, oltre al debutto ad altri due ottimi lavori come This Is Gonna Hurt (2011) e Modern Vintage di due anni fa.
Prayers For The Damned Vol.1 è un lavoro colmo di canzoni bellissime, con irresistibili refrain e quella vena tragica che è nel DNA della band, ed appunto una perfetta amalgama tra tradizione e modernità.
Non un brano che qualsiasi artista non venderebbe l’anima per scrivere, non un riff che non sia perfettamente inserito in un contesto che funziona, tra melodia e scintille metalliche al servizio del rock’n’roll.
Chorus che si insinuano nella testa, scavano nella mente e si costruiscono una nicchia per non uscire più, mentre le emozioni si susseguono, vagando tra queste undici canzoni che semplicemente rapiscono.
Fin dall’opener Rise è un’apoteosi di rock moderno, confermato ed accentuato da piccoli capolavori come le metalliche When We Were Gods e Belly of the Beast o alla vena drammatica e seriosa della title track, passando dall’hard rock dannatamente moderno e a stelle e strisce di I’m Sick, Everything Went To Hell (splendidamente Beautiful Creatures) e You Have Come To The Right Place.
Detto di una prova mostruosa di James Michael al microfono, del talento di un D.J Asbha che si dimostra uno dei più validi interpreti alla sei corde nel genere, oltre ovviamente di un Nikki Sixx che si fa beffe degli anni e di un passato “turbolento”, non rimane che inchinarsi davanti ad un album superbo.
Stavate cercando una band da far sedere sul trono dell’hard rock mondiale? L’avete trovata.

TRACKLIST
1. Rise
2. Have You Come The Right Place
3. I’m Sick
4. Prayers For The Damned
5. Better Man
6. Can’t Stop
7. When We Were Gods
8. Belly Of The Beast
9. Everything Went To Hell
10. The Last Time (My Heart Will Hit The Ground)
11. Rise Of The Melancholy Empire

LINE-UP
Nikki Sixx – bass guitar, backing vocals, keyboards, additional guitar
James Michael – lead vocals, rhythm guitar, keyboards
Dj Ashba – lead guitar, backing vocals

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