Prima uscita discografica per i napoletani Neve, autori di un black atmosferico e melodico dalle buone prospettive ma ancora da rifinire e limare in più di un aspetto.
Prima uscita discografica per i napoletani Neve, autori di un black atmosferico e melodico dalle buone prospettive ma ancora da rifinire e limare in più di un aspetto.
Clouds of melancholy ci accoglie riportandoci di peso alle sonorità dei primi Old Man’s Child, band di quel Galder che poi diverrà membro stabile dei ben più famosi Dimmu Borgir, però già a metà del brano si coglie la volontà dei ragazzi partenopei di non accodarsi ad un modello precostituito, provando ad inserire qualche variazione sul tema, rarefacendo il sound e preparando il terreno alla successiva traccia This Ancient Cliff, episodio dai tratti sognanti e contraddistinto da un bell’impatto melodico.
Indubbiamente è proprio questo il punto di forza sul quale i Neve dovrebbero sviluppare poi tutto il resto della loro idea compositiva, perché il potenziale evocativo che si riesce a cogliere in diversi passaggi, disseminati nei vari brani, viene talvolta affossato da un’esecuzione ancora perfettibile e da una produzione che va di pari passo.
Interessante, in Tales From The Unknown, si rivela peraltro l’utilizzo del basso, molto più in evidenza rispetto ai normali parametri del genere, assieme ad un approccio volto a ricercare soluzioni tutt’altro che scontate (emblematica in tal senso la componente acustica evidenziata in Perpetual Nightmare).
In sintesi, questo primo passo dei Neve, al netto delle screpolature evidenziate, mostra più di un dato incoraggiante, in particolare perché in questo caso quello che deve essere rifinito non è tanto lo sviluppo compositivo quanto la sua messa in pratica, un aspetto destinato a progredire naturalmente con il passare del tempo e l’acquisizione di ulteriore esperienza.
Tracklist:
1.Clouds Of Melancholy
2.This Ancient Cliff
3.The Night
4.So Many Times
5.Perpetual Nightmare
6.Pure
Cinque brani da maneggiare con cura, spiazzati da questa mezzora di musica glaciale e dall’animo intriso di una male freddo, siderale, vero.
Una proposta affascinante come solo la musica fuori dai soliti schemi sa essere, ed un sound che potrà piacere a molti e magari non essere digerito da altri, anche abituali ascoltatori di metal estremo, ma che indubbiamente tiene incollati alle cuffie come un film o un libro dei quali si aspetta con curiosità il loro evolversi verso la soluzione finale.
Questo gioiellino estremo dal titolo Di Sangue e Di Luce è opera degli Insania.11, gruppo che ha i suoi natali addirittura alla fine degli anni ottanta, ma che con il monicker Insania risulta attivo dal 2008 come studio project di musicisti appartenenti ai Res (heavy/speed) e agli Incubo (hardcore grind).
Una line up che negli anni ha visto più di un accorgimento, specialmente per quanto riguarda la batteria, prima suonata da Max, ora in forza agli heavy epic metallers Holy Shir,e ed in seguito con Luca Sigfrido Percich. Di Sangue E Di Luce vede i soli Ethrum (chitarra) e Samaang (voce e chitarra) alle prese con un death/thrash campionato nella fase ritmica, ovviamente improntato sulle chitarre, progressivo e violento, originale ed insolito.
Partendo da una struttura che può ricordare le cose più violente di Devin Townsend, il duo spara mitragliate di thrash moderno alla Meshuggah, in un’atmosfera industriale, asettica e fredda come l’acciaio al contatto della pelle, mentre si viene torturati dal growl cattivissimo che si trasforma in un cantato schizoide ed aggressivo, in due parole, inumano.
Una proposta estrema ma curatissima, dalla copertina al booklet fino alla produzione, perfettamente in linea con quanto proposto dagli Insania.11.
Cinque brani, dall’opener Uroboros alla conclusiva B Naural (I Figli Del Quinto Sole), da maneggiare con cura, spiazzati da questa mezzora di musica glaciale e dall’animo intriso di una male freddo, siderale, vero.
Tracklist
01. Uroboros
02. Metamorfosi
03. Nosferat (Aspettando L’Alba)
04. I Morti
05. B Naural (I Figli Del Quinto Sole)
un lavoro piacevole, vario e scorrevole, duro ma con un occhio particolare verso melodie che catturano ed imprigionano, legati al filo del blues e della musica nera.
Operazioni dal retrogusto vintage o meno, è un fatto che l’hard rock sia tornato a fare la voce grossa sul mercato del metal/rock a tutti i livelli, dalle reunion live di gruppi storici alle proposte di un mondo musicale alternativo che non ha mai smesso di crederci, anche quando solo al pronunciare le due magiche parole (hard rock) si veniva tacciati e additati come immobili conservatori, amanti di un modo d’espressione ormai obsoleto.
Ma come sempre è successo in questo meraviglioso mondo, in questi ultimi anni, d’incanto, tutto è tornato al suo posto e l’hard rock nelle sue molte sfaccettature è tornato a far ruggire i leoni lungo criniti sui palchi di tutti il mondo.
E la nostrana Andromeda Relix non è certo stata a guardare mettendo sotto contratto vari gruppi impegnati nel rock duro come i Mother Nature, dal 1993 in giro a suonare hard rock zeppeliniano, dai rimandi al blues e in quota Bad Company.
Si parte da qui per descrivere il sound del gruppo pugliese, come detto da una vita ormai in sella, anche se non sono mancati problemi e stop forzati: un album uscito nel 1998 (Skin), un paio di demo precedenti che piacquero non poco alla stampa dell’epoca ed una predisposizione per tutto quel che riguarda il rock del delta, lasciato tre le mani di rockers che, con personalità e gusto, affrontano la materia seguendo le strade tracciate dai dinosauri settantiani, tra il Regno Unito e l’America(Aerosmith)
Ne esce un lavoro piacevole, vario e scorrevole, duro ma con un occhio particolare verso melodie che catturano ed imprigionano, legati al filo del blues e della musica nera (funky e soul fanno sicuramente parte del bagaglio musicale dei nostri).
Un album arioso, che parte come meglio non potrebbe con il riff dell’opener Spit My Soul, e mentre il sole scalda gli strumenti il ritmo prende il sopravento con l’irresistibile Magnet Girl.
L’inizio non poteva essere più promettente e adrenalinico, ed a confermare che non si tratta di un fuoco di paglia, Haze ci travolge, ipnotica e dal chorus melodico di una bellezza imbarazzante, mentre accenni alle nuove sfumature desertiche fanno capolino tra il groove ritmico di questo stesso brano e di Does It Suit You.
Gli Aerosmith a braccetto con gli Zep canticchiano Everything Will Follow, mentre gioiosi si incamminano verso il delta con il southern rock blues della splendida New Way: il gruppo qui si diverte e fa divertire come non succedeva da ormai vent’anni circa ed il sound esplode dagli altoparlanti, sanguigno e pieno come deve essere un disco del genere.
Un album che non lascia scampo e si fa amare, come un ragazza portata in un fienile nel tramonto di una sera d’estate, perdendosi tra le note mentre fuori, in un attimo, è già l’alba … magie del rock ‘n’ roll.
Tracklist
1.Spit My Soul
2.Magnet Girl
3.Haze
4.Pearl v3
5.Everything Will Follow
6.Ask Yourself
7.Double Deal
8.New Way
9.Does It Suit You
10.Boy, We Gotta Handle This
Il lavoro è ricco di spunti interessanti, a partire dalla volontà di proporre un black metal sicuramente contaminato da altre pulsioni di carattere estremo ma, nel contempo, ben radicato nel suo alveo tradizionale
Questa uscita omonima dei The Reptilian Session è la riedizione in formato cd dell’ep pubblicato già in cassetta nel 2015.
La band romana è autrice di un black metal piuttosto tradizionale, diretto e con qualche spunto prossimo al punk. Ne scaturisce così un sound ruvido, anche a livello di produzione, ma abbastanza ficcante e spontaneo per meritare la giusta attenzione. Indubbiamente il fulcro dell’opera è la notevole Cosmic Glorification of Evil,una canzone meno immediata delle altre per impatto, sviluppandosi inizialmente su un mid tempo: la lunga traccia, impreziosita dal contributo vocale di Fabban degli Aborym, cambia più volte registro nel suo incedere mantenendo comunque il proprio approccio privo di ammorbidimenti di sorta.
Nelle varie edizioni che si sono succedute, il lavoro si è arricchito prima della versione edit di The Dungeon Before the Void, brano incisivo che nella nuova veste viene letteralmente stravolto da una rielaborazione industrial ambient quanto mai sperimentale, e poi della cover di Double Dare dei Bauhaus, che anche in questo caso viene interpretata con un approccio tutt’altro che fedele dell’originale, venendo restituita in maniera molto personale ma comunque riconoscibile.
Il lavoro è ricco di spunti interessanti, a partire dalla volontà di proporre un black metal sicuramente contaminato da altre pulsioni di carattere estremo ma, nel contempo, ben radicato nel suo alveo tradizionale; alla luce di queste buone premesse non resta che attendere l’uscita di nuovo materiale che dovrebbe dire qualcosa di più sull’effettivo potenziale dei The Reptilian Session.
Tracklist:
1. Dark Matter of Anti-Universe
2. The Feast of the Reptiles
3. The Dungeon Before the Void
4. Cosmic Glorification of Evil
5. The Dungeon Before the Void (Sirio Gry J ‘March To Hell’ Edit)
6. Double Dare
Line-up:
M. Puliani – Bass
C. Usai – Drums
T. Aurizzi – Guitars
Duro, oscuro e violento il giusto per non fare prigionieri.
Death metal tripallico, dai rimandi old school e dall’impatto di un treno in corsa, melodico come solo l’ala nord europea sa essere, feroce ed estremamente intenso come quello statunitense.
…A Trail Of Blood And Hope è un’opera oscura ed estrema, un concept creato dalle menti dei veronesi Diabolical Minds, gruppo che vede nelle proprie fila ex componenti di svariate band della scena estrema.
Sette brani più bonus che raccontano della discesa nella più totale follia di un serial killer, soggiogato dalla sua mente malata e delle sue imprese, tra omicidi e terribili mutilazioni.
La colonna sonora di questo scempio è la musica dei Diabolical Minds, death metal old school, un belligerante pezzo di granito estremo dove le ritmiche mantengono una velocità sostenuta, le sei corde si intrecciano in lascivi e blasfemi solos, taglienti e melodici, con la voce a produrre il suono che la mente suggerisce al nostro pericoloso assassino.
Senza andare troppo per il sottile e seguendo le coordinate dettate dai gruppi storici del genere, la band nostrana centra il bersaglio: l’album si ascolta che è un piacere nella sua natura estremamente violenta, i musicisti coinvolti sono protagonisti di ottime prove, il lavoro alla console ad opera del chitarrista Matteo Migliorini rende giustizia al sound prodotto così da fare di …A Trail Of Blood And Hope un album da consigliare agli amanti del death metal. The Beginning Of The End vi introduce al concept ed alla follia omicida, un’apertura che rende subito giustizia al sound del gruppo, in evidenza con solos di scuola scandinava, mentre Trauma e l’oscura Death Calls continuano la devastante opera con la seconda che strizza l’ occhiolino aldilà dell’Atlantico.
Si continua a produrre ottimo metallo estremo alternando le sfumature provenienti dalle due storiche scuole (Chapter 4, la title track), mentre non si registrano compromessi di sorta, con l’album che nella sua interezza risulta un ottimo sunto di quello che ha offerto il genere in tutti questi anni.
Duro, oscuro e violento il giusto per non fare prigionieri, ma solo vittime.
Tracklist
1.The Beginning Of The End
2.Trauma
3.Death Calls
4.Chapter 4
5.Slowly The Corpse Burn
6.I Can’t Wait
7….A Trail Of Blood And Hope
8.Funeral Of Light
9.My Dark Empire
Siamo nei meandri del metal più maturo ed evoluto, quindi lascerei perdere influenze ed ispirazioni e, per una volta, è meglio concentrarsi solo sulla musica dei Malet Grace, ne vale la pena.
Questa interessantissima proposta arriva da Latina, la band in questione si chiama Malet Grace, un quartetto di thrashers dalla notevole tecnica attivo dal 2014 e qui alla sua prima opera su lunga distanza, Malsanity.
Sviluppata l’idea di un concept album basato sulla disgregazione dell’io e la propria apertura agli schemi apocrifi dell’intelletto umano, e sulla conseguente immoralità del dibattito contrastante tra il bene e il male, la band composta da Giampaolo Polidoro (chitarra e voce), Alessandro Toselli (chitarra), Andrea Paglierini (basso e chitarra acustica) e Andrea Giovanetti alle pelli offre un nobile esempio di metal progressivo, che dal thrash prende tutta la sua dirompente carica e dal prog metal i raffinati passaggi, che non inficiano assolutamente la natura estrema del sound.
Accompagnato da un bellissimo artwork, curato da Matteo Spirito, che riassume proprio il contrasto tra bene e male, Malsanity irrompe con la sua estrema personalità e maturità sulla scena metal nazionale, un lavoro curato nei minimi dettagli ed assolutamente in grado di mettere d’accordo una buona fetta di consumatori del nostro amato metallo.
Thrash, prog metal, heavy si rincorrono tra le trame di brani valorizzati da un lavoro strumentale eccellente ed un cantato che sforna attimi interpretativi di elevata difficoltà, mentre le atmosfere di drammatico conflitto tengono alta la tensione fino alla fine delle ostilità.
Non c’è un brano che non sia perfettamente in grado di tenere il passo degli altri, in una tempesta di suoni tra potenti midtempo, furiose cavalcate ed azzeccati rallentamenti in cui l’atmosfera si quieta prima di esplodere e ripartire, tra chitarre saettanti e ritmiche che si avvicinano alla perfezione.
Citare i brani più convincenti è un’impresa, visto l’enorme potenziale proposto e le sorprese che riserva ognuna delle tracce presenti, anche se The Human Side Of Schizophrenia e l’accoppiata Egopathy/ Ambiguity Of Extinction sono, ad un primo approccio, il cuore pulsante di questo bellissimo lavoro.
Siamo nei meandri del metal più maturo ed evoluto, quindi lascerei perdere influenze ed ispirazioni e, per una volta, è meglio concentrarsi solo sulla musica dei Malet Grace, ne vale la pena.
Tracklist
1.Commotion of Frailty
2.Empathy for Silence
3.The Human Side of Schizophrenia
4.Angel of Chaos
5.Subconsciousness of Misery
6.The Pleasant Charm of Memories
7.Egopathy
8.Ambiguity of Extinction
9.Chaos Is My Order
10.Malet Grace
11.Where False Idols Pray
Line-up
A. Paglierini – Bass, Guitars (acoustic)
A. Toselli – Guitars
G. Polidoro – Vocals, Guitars
A. Giovanetti – Percussion, Drums
Le cose positive che si erano ascoltate su Tefaccioseccomerda, qui vengono ampiamente superate, ed il risultato è un ottimo disco di folk metal, che merita molta attenzione dagli amanti del genere, anche perché si lega al discorso originario del genere, che è anche la sua parte più feconda.
Ritornano gli orchi più cattivi delle nostre foreste, pronti a buttarsi ubriachi in nuove avventure. Il disco è stato realizzato con il contributo dei fans, ed esce per la russa Soundage Productions, specializzata in folk metal di qualità.
I Blodiga Skald nascono a Roma nel 2014 da un’idea del batterista Nicola Petricca e del chitarrista Daniele Foderaro. Nel 2015 esce Tefaccioseccomerda, un ep che ha avuto un buon successo, e che ha dato la cifra stilistica di questo gruppo, ovvero un folk metal spensierato, veloce e di grande effetto. Nel nuovo disco i romani continuano a darci dentro, spostano maggiormente il tiro verso il nord dell’Europa, con un suono maggiormente curato rispetto al primo ep, che era comunque ottimo. La produzione di John Macaluso ai Trip In Music ha dato sicuramente i suoi frutti, rendendo maggiormente organico e potenziando ulteriormente il loro suono. Non si sono perse le maggiori peculiarità di questo gruppo, ovvero la potenza e la voglia di divertire e far divertire, con un folk metal riportato alle origini del genere, ovvero una diversa proposta con suoni particolari, mai noiosa ma anzi festaiola e metallica: proprio come il suono dei Blodiga Skald, i quali divertono moltissimo, non come alcuni gruppi compagni di genere che hanno perso la maniglia. Ruhn èbasato sulle storie del mondo che ha lo stesso nome del titolo del disco, e qui seguiamo i nostri orchi attraverso molte storie. Il suono è maturato molto, e i Blodiga Skald offrono una prova molto buona, con un suono compatto, potente e davvero folk metal. Le cose positive che si erano ascoltate su Tefaccioseccomerda, qui vengono ampiamente superate, ed il risultato è un ottimo disco di folk metal, che merita molta attenzione dagli amanti del genere, anche perché si lega al discorso originario del genere, che è anche la sua parte più feconda. Di folk ne troviamo tanto nel disco, anche grazie alla violinista Vittoria Nagni, mentre il metal è ben rappresentato dal death, da spruzzate balck, ma soprattutto dall’insieme che è esclusivamente e fortemente Blodiga Skald.
Tracklist
1.Epicavendemmia
2.Ruhn
3.No Grunder No Cry
4.I Don’t Understand
5.Sadness
6.Follia
7.Blood and Feast
8.Laughing with the Sands
9.Panapiir
10.Too Drunk To Sing
Last Day Of Light risulta davvero un ottimo esempio di metallo proveniente dal nuovo mondo, teatrale e drammatico, epico e a tratti progressivo, mettendo subito in chiaro che qui siamo al cospetto di una band da non sottovalutare.
Le vie del power metal sono infinite e arrivano a Cagliari, in una delle nostre due isole maggiori, portando nobile metallo oscuro e drammatico come da tradizione americana.
La band in questione, all’esordio discografico tramite la Minotauro Records, si chiama Burning Ground, è attiva dal 2002 ma solo ora arriva a fermare la propria musica su disco e, come una foto o un’immagine, lasciare finalmente qualcosa di sé a chi la segue.
E bene ha fatto la Minotauro a non lasciarsi sfuggire il quintetto sardo, all’opera su un lavoro notevole, heavy power che non disdegna passaggi al limite del thrash, atmosfere epiche ed oscure, ed un’eleganza insita nel songwriting del gruppo ed assolutamente di scuola americana. Last Day Of Light risulta davvero un ottimo esempio di metallo proveniente dal nuovo mondo, teatrale e drammatico, epico e a tratti progressivo, mettendo subito in chiaro che qui siamo al cospetto di una band da non sottovalutare, con un singer di razza (Maurizio Meloni) ad interpretare i brani con grinta e pathos, una chitarra solista che sciorina solos forgiati nel sacro fuoco del metal (Andrea Alvito), accompagnata dalle ritmiche del buon Alberto Bandino.
Il basso di Alessio Melis pompa sangue power, le pelli bruciano sotto i colpi inferti da Angelo Melis, mentre Dark Ages è l’intro che ci dà il benvenuto in questo piccolo gioiellino di metal classico.
Non ci si muove dal territorio americano, The Killing Hand conferma la totale devozione del gruppo all’heavy power classico, le atmosfere sono da subito aggressive ed oscure, ma elegantemente impreziosite da un grande lavoro melodico della sei corde. Darkened Desire è uno splendido brano dove le ritmiche la fanno da padrone così come la cura nei chorus, e Facing The Shame è un bombardamento metallico, così come Before I See.
Primi Savatage, Metal Church e Sanctuary, ma pure Nevermore ed Iced Earth, nella musica del gruppo passa una buona fetta del metal classico statunitense, proveniente dagli anni ottanta , ma senza dimenticare i più giovani interpreti della musica dura, ormai da anni nel cuore dei true metallers, messo a dura prova dal The Burning Ground e dalla title track.
Una gradita sorpresa, un album ed una band da non lasciarsi sfuggire, specialmente se vi nutrite di pane ed U.S. power metal.
Tracklist
1.Dark Ages
2.The Killing Hand
3.Darkened Desire
4.Facing the Shame
5.Before I See
6.The Burning Ground
7.Last Day of Light
8.Dawn of Hope
Hansel, Gretel e la Strega Cannibale è un disco di umane vicende raccontate per simboli e con un tappeto musicale veramente progressivo, nel senso di continua progressione, per poter uscire dal labirinto.
I Viridanse sono un’entità musicale che ha avuto molte vite, molte morti e altrettanti nuovi inizi.
Hansel, Gretel e la Strega Cannibale è il loro nuovo lavoro, ancora più profondo e ricercato del precedente Viridanse del 2015, che aveva segnato il ritorno alla produzione di musica inedita del gruppo, dopo l’antologia nel 2012 che era stato il meccanismo che aveva fatto rinascere qualcosa per la mutazione del gruppo. Infatti i Viridanse nacquero ad Alessandria nel 1983, e subito stupirono per la loro dark wave di ottima fattura, tanto che saranno sempre ricordati per l’essere stato un gruppo seminale e molto importante in quella scena e non solo. In due anni, dal 1983 al 1985, pubblicarono due ottimi album, Benvenuto Cellini e Mediterranea, ma i Viridanse di oggi sono altra cosa rispetto a quei suoni, essi ricercano una qualcosa nella musica ma soprattutto nei testi, con tentativi di capire e descrivere dall’interno la parabola umana. Il suono, molto cambiato, è un post psych metal, strutturato molto bene e di grande effetto. Molto importante nel loro suono è anche la parte prog, sicuramente più sbilanciata verso il metal, ma comunque legata a quell’immenso momento che è stato il prog italiano, forse il punto più alto nella musica della nostra penisola. La musica in Hansel, Gretel e La Strega Cannibale è davvero magnifica ed immaginifica, all’altezza dei testi particolari ed iniziatici. I Viridanse sono un gruppo che vuole far nascere qualcosa nella testa dell’ascoltatore, facendogli compiere un viaggio di iniziazione, un sentire le difficoltà come in un labirinto, e attraverso la sua musica e i testi riuscire a liberare la forza del vero io/dio che è dentro di noi. Mille sfaccettature, angoli, piazze e sentieri diversi, fatti di potenza, ora di gusto barocco, ora di inseguimenti tra note evocative di un nostro antico gusto. Il disco è stupefacente, con molti stili fusi nella ricerca e nella psichedelia più totale e slegata dal significato classico che ha. La voce di Gianluca Piscitello è quella di uno psicopompo che ci guida nel culto misterico, mentre il resto del gruppo è eccellente. Hansel, Gretel e la Strega Cannibale è un disco di umane vicende raccontate per simboli e con un tappeto musicale veramente progressivo, nel senso di continua progressione, per poter uscire dal labirinto.
Tracklist
1 Hansel, Gretel E La Strega Cannibale
2 Arkham
3 Alle Montagne Della Follia
4 Scomunica
5 Aria
6 Il Grande Freddo
7 Madre Terra
Prendete quattro musicisti calabresi, già protagonisti con altri progetti più o meno conosciuti nella scena nazionale, lasciateli per un po’ a jammare in un delirio stonerizzato e psichedelico, pesante come una meteora in caduta libera sulla Sila, ed avrete i Deep Valley Blues.
Prendete quattro musicisti calabresi, già protagonisti con altri progetti più o meno conosciuti nella scena nazionale, lasciateli per un po’ a jammare in un delirio psichedelico, pesante come una meteora in caduta libera sulla Sila, ed avrete i Deep Valley Blues, che negli studi della Black Horse ha dato vita in presa diretta a questo mostro stoner/blues.
La band di Catanzaro ha messo la propria esperienza ed attitudine al servizio di questo progetto, rigorosamente in autoproduzione, giusto per alzare di molti gradi la colonnina di mercurio e raggiungendo così temperature vulcaniche. Deep Valley Blues, ovvero tornare da una drammatica settimana persi nel deserto, dissetarsi il giusto per non lasciare questo mondo, prendere in mano il proprio strumento e tuffarsi in quello parallelo delle visioni e dei trip hard rock, tra una neanche troppo velata attitudine southern, accenni allo psych-hard rock settantiano e lo stoner della famosa valle che ha fatto da parco giochi e maestra ai vari Kyuss e compagnia.
L’urgenza rock del quartetto però è farina del suo sacco, con una vena punk che attraversa i vari capitoli di questa odissea, tra la terra che brucia sotto i piedi ed il sole nemico della ragione, mentre in mezz’ora veniamo travolti da questo sabba desertico, schiaffeggiati dai vari capitoli che si susseguono e formano questa lunga jam. Space Orgasm è la parte del viaggio che più preferisco, ma Deep Valley Bluesrimane un lavoro da mandare giù tutto d’un fiato, altrimenti si rischia di perdere molto della magia drogata del sound di questi sacerdoti dell’hard rock stoner.
1. Death Valley Blues
2. Prey
3. Struggle of Interest
4. Hell of a Month
5. Space Orgasm
6. Banzai
7. Ashes in the Wind
Line-up
Umberto Arena – Guitars and Backing Vocals
Alessandro Morrone – Guitars
Giando Sestito – Bass and Vocals
Giorgio Faini – Drums
Un passo indietro che non deve equivalere ad una bocciatura per gli Apneica, i quali possono ripartire da qui scegliendo in maniera più decisa su quale delle due sponde approdare, perché, come già detto, qui di talento da spendere ce n’è in abbondanza e si tratta solo di ottimizzarlo al meglio.
Aspettavo con una certa curiosità il secondo passo su lunga distanza dei sardi Apneica, band che tre anni fa mi aveva colpito non poco con l’ep Pulsazioni … Conversione, un lavoro nel quale confluivano in maniera naturale il death doom ed il post metal.
Fin dal primo ascolto appare piuttosto evidente lo spostamento deciso verso la seconda delle due componenti, lasciando purtroppo un senso di incompiutezza a chi, come me, predilige invece sonorità più aspre e drammatiche piuttosto che il liquido e languido fluire per i quale ha optato il comunque bravo Angelo Seghene.
Già perché, nonostante tutto, il talento del musicista di Sorso continua ad essere sempre ben tangibile anche se appiattito oggi su soluzioni che, su una durata vicina all’ora, alla lunga si rivelano se non proprio tediose sicuramente interlocutorie, nell’attesa spesso vana che il pathos conferito dal death doom prenda prima o poi il sopravvento.
Una voce pulita, che non riesce ad esser ficcante come il growl, declama testi sempre originali ed interessanti, con il loro constante riferimento all’acqua quale elemento fondamentale per la vita umana ma anche come metafora dell’esistenza: è così che Vulnerabile Risalita vive di alti e bassi, con sprazzi di ottima musica alternati a cali di tensione che corrispondono, per lo più, ai passaggi maggiormente rarefatti.
Ma non si tratta solo della mia predilezione per uno stile musicale rispetto all’altro a lasciarmi perplesso: infatti, anche brani dalla struttura ben più robusta, come per esempio la conclusiva In Risalita, faticano a prendere quota ed assumere una fisionomia melodica ben definita, e la sensazione è che la quantità di spunti brillanti esibita nell’ep sia rimasta più o meno la stessa, perdendo in efficacia nel suo essere diluita sulla lunga distanza.
Peccato, anche perché la parte finale dell’opener Sul Fondo e le successive Acqua Su Acqua e Inserimento Dati Vitali paiono avviare sui giusti binari un lavoro che, invece, si snoda sino alla sua conclusione senza nessun episodio deprecabile ma neppure provocando particolari sussulti, salvo con una più incisiva e psichedelica Sognando Nuove Colonie.
Un passo indietro che non deve equivalere ad una bocciatura per gli Apneica, i quali possono ripartire da qui scegliendo in maniera più decisa su quale delle due sponde approdare, perché, come già detto, qui di talento da spendere ce n’è in abbondanza e si tratta solo di ottimizzarlo al meglio.
Tracklist:
1. Sul fondo (angoli remoti)
2. Acqua su acqua
3. Inserimento dati vitali
4. Programmazione sentimenti
5. Elemento
6. Modalità percettiva
7. Sognando nuove colonie
8. In risalita
Line-up:
Alessandro Seghene – chitarra
Alice Doro – chitarra
Ignazio Simula – voce
Francesco Pintore – basso
Luigi Cabras – batteria
Crumbs è un lavoro ispirato e vario, dove ci si confronta con un gruppo che ha trovato un’alchimia perfetta tra le sue varie influenze, senza mai ripetersi, variando e giocando con le atmosfere care all’alternative gothic rock.
I Diesanera con il loro debutto passeggiano tra le strade del gothic/dark rock e, come in un ombroso labirinto, si perdono tra le molte ispirazioni, ritornando sulla via oscura non prima di aver creato Crumbs.
E Crumbs non deluderà chi di notte si aggira per i vicoli di città decadenti, fuori dagli schemi di generazioni mordi e fuggi, solitarie creature della notte affamate di poesie gotiche.
Il gruppo nasce un paio di anni fa per volere di Valerio Voliani (ex singer di Icycore, Absolute Priority e Motus Tenebrae) e Ilario Danti (ex chitarrista dei Death SS e Madness Of Sorrows), raggiunti nel frattempo dal chitarrista Yuri Giannotti, da Matt Langella al basso e da Alessio Toti alle pelli.
La firma per l’etichetta napoletana Volcano Records & Promotions e l’uscita di Crumbs in questa assolata estate non sono che l’ottima partenza per il gruppo toscano che si inserisce di prepotenza tra le migliori novità in ambito gothic/dark, almeno per quanto riguarda la scena underground dello stivale.
L’album si presenta come un riuscito riassunto di quello che il genere ha regalato in questi anni, elaborato in modo personale così da trovare subito una propria identità, partendo dal dark rock classico, passando per le trame gotiche in uso nelle notti a cavallo dei due millenni per trovare nell’alternative rock il modo per firmare in calce questo lotto di brani con il monicker Diesanera.
Volian.i singer che non ha nulla da invidiare ai vampiri che si sono succeduti come icone del genere, ma che sa dare ai brani la giusta interpretazione, passando dai toni baritonali di Pete Steele a quelli più cool di Jirki 69, varia il suo canto arrivando a toccare lidi modern rock, mentre la band passa agevolmente tra tracce gotiche e notturne ad altre più dirette e metal.
Ne esce, come detto, un lavoro ispirato e vario, dove ci si confronta con un gruppo che ha trovato un’alchimia perfetta tra le sue varie influenze, senza mai ripetersi, variando e giocando con le atmosfere care all’alternative gothic rock, passando per le trame dell’opener Mad Man,del singolo Pills Of Lies, della sensuale Ghosts, del capolavoro The Last Funeral, della superba The Mission ed arrivando alla cover di Such A Shame dei Talk Talk, a conferma dell’amore per la new wave ottantiana dei protagonisti.
Un debutto affascinante che non passerà sicuramente inosservato tra le creature della notte e di chi si nutre del sangue che sgorga dalle note di Type 0 Negative, The 69 Eyes, Sisters Of Mercy, Secret Discovery e Poisonblack. Dark/ Gothic 8.20
Tracklist
1 Mad Man
2 My Lonely Hell
3 Pills Of Lies
4 Ghosts
5 DiesAnEra
6 The Spell
7 Sadness
8 The Last Funeral
9 S.I.R.I.A.
10 The Mission
11 In The Name Of God
12 Such A Shame
Oscuri, melodici e atmosferici come mai era accaduto prima: questi sono gli Ecnephias del 2017, fieri portabandiera di un’identità “mediterranea” in ambito rock e metal, ai quali non viene mai meno quella peculiarità che è caratteristica solo delle band di categoria superiore.
Ogni volta che gli Ecnephias pubblicano un nuovo album, nel mio caso l’attesa dell’estimatore della prima ora è contrastata dalla necessità di scrivere quali impressioni mi abbia destato e, avendo a che fare con una band che innegabilmente non ha mai fatto uscire un disco stilisticamente contiguo a quello precedente, è sempre difficile immaginare cosa attendersi.
Ormai da tempo, con una cadenza biennale, Mancan e soci offrono lavori di grande spessore qualitativo, partendo dal dirompente Inferno (2011), passando per il più estremo Necrogod (2013) per giungere al più darkeggiante album omonimo del 2015.
Personalmente ritenevo che le sonorità presenti in quell’ultimo lavoro rappresentassero stilisticamente le colonne d’Ercole per la band lucana, immaginando che si trattasse del punto più lontano dal metal entro il quale si potesse spingere: The Sad Wonder Of The Sun smentisce puntualmente questa mia congettura, rappresentando al contrario il veleggiare libero di musicisti scevri da condizionamenti stilistici di sorta verso territori finora inesplorati.
Per capire cosa intendo può essere utile partire dalla quinta traccia Nouvelle Orleans, dove si viene accolti da accenni di reggae che sono lontani anni luce dalle asprezze di Necrogod (per non parlare del black/death/doom, per quanto di volta in volta cangiante, di Dominium Noctis e Ways Of Descention) ma che, paradossalmente, non vanno ad intaccare il trademark Ecnephias; peraltro, questo brano non rappresenta neppure il massimo scostamento rispetto ad un’ipotetica strada maestra metallica, visto che la conclusiva You è un ottimo episodio di rock quasi radiofonico, con una chitarra che si erge a protagonista più che in altri frangenti.
Detto delle tracce più emblematiche del nuovo corso, l’album si rivela una raccolta di nove canzoni senz’altro fruibili, almeno se raffrontate con quelle contenute nel precedente lavoro, ma ciò non deve assumere un significato negativo rappresentando, piuttosto, una forma di evoluzione anche rischiosa, in quanto non è detto che possa trovare unanimi consensi, specie da chi considera i primi due album del decennio i più significativi della carriera degli Ecnephias.
La verità è che la musica dei potentini, in tutte le sue vesti possibili, si rivela sempre un veleno che insinua lentamente e che, dopo ogni passaggio nel lettore, acquisisce spessore e fa salire nell’ascoltatore la consapevolezza d’essersi imbattuto nell’ennesimo album di grande spessore.
E allora, quel pizzico di smarrimento iniziale nel rinvenire i retaggi del passato solo nei rari passaggi in growl di un Mancan sempre più cantante ed interprete, nel senso più completo del termine, svanisce al cospetto dei chorus ficcanti che ogni canzone riserva, con menzione d’onore nella prima parte per Gitana e Povo de Santo, e nella seconda metà per Quimbanda e Maldiluna, nelle quali il cantato in italiano torna a lasciare il segno, assieme ad un’ispirazione melodica che, nel primo caso, è asservita ad una ritmica più incalzante e nel secondo, invece, va a toccare il punto più alto del disco per evocatività ed afflato poetico, nonostante accattivanti spunti elettronici possano inizialmente trarre in inganno.
Gli agganci alla produzione passata comunque non mancano, specialmente con la magnifica Sad Summer Night, traccia che riconduce ai momenti più emotivamente intensi di Inferno, e lo stesso in parte vale per l’altrettanto oscura A Stranger. The Sad Wonder Of The Sun è un album elegante e ricco di atmosfere e melodie vincenti, che deve essere ascoltato senza alcun pregiudizio, cosa che del resto è da sempre è il modo giusto per approcciarsi con la musica degli Ecnephias: in questo caso, però, non si può parlare di un balzo in avanti rispetto al precedente lavoro omonimo, bensì, metaforicamente, del salto in corsa da un treno all’altro per finire su un binario che potrebbe condurre verso nuovi ed inaspettati scenari futuri, facendo ritenere al momento improbabile una possibile inversione di marcia.
Oscuri, melodici e atmosferici come mai era accaduto prima: questi sono gli Ecnephias del 2017, fieri portabandiera di un’identità “mediterranea” in ambito rock e metal, ai quali non viene mai meno quella peculiarità che è caratteristica solo delle band di categoria superiore.
Tracklist:
1. Gitana
2. Povo De Santo
3. Sad Summer Night
4. The Lamp
5. Nouvelle Orleans
6. A Stranger
7. Quimbanda
8. Maldiluna
9. You
Line-up:
Mancan: Vocals, Guitars
Nikko: Guitars
Khorne: Bass
Sicarius: Keyboards and piano
Demil: Drums
Female voice on song 2 and 7 by Raffaella Cangero (LA JANARA)
Terzo e nuovo centro per gli Elegy Of Madness, che con il nuovo New Era si confermano come una delle migliori realtà nazionali del symphonic metal.
Quattro anni fa rimasi letteralmente folgorato dal secondo lavoro degli Elegy Of Madness, band pugliese che con Brave Dreams portava una ventata di oscura e sinfonica freschezza nella scena gothic metal.
Non è un caso se il quintetto è saldamente legato alla Wormholedeath, label nostrana con un fiuto eccezionale per band assolutamente non scontate, che siano estreme, dall’approccio classico o come in questo caso piacevolmente orchestrali.
Brave Dreams era piaciuto per un songwriting sopra la media, chitarre che esploravano la scena death melodica scandinava (Amorphis) e quella gotica proveniente dalle strade umide e nebbiose del Regno Unito (Paradise Lost), unite ad atmosfere orchestrali e valorizzate da una singer straordinaria come Anja Irullo .
Gli Elegy Of Madness, al trio storico formato, oltre che dalla cantante, dal chitarrista Tony Tomasicchio e dal violoncellista Luca Basile, si ripresentano con una sezione ritmica nuova di zecca per l’entrata in formazione di Larry Ozen al basso e Francesco Caputo alle pelli, e con un sound che porta con sé qualche importante novità. New Era entra subito nel vivo, l’opener Apokalypsis risulta un brano perfetto per presentare il nuovo lavoro, un singolo orchestrato a meraviglia, dall’appeal irresistibile e con una prova della Irullo che conferma la spiccata personalità espressa in passato: una conferma, dunque, e la consapevolezza di trovarci al cospetto di una delle migliori interpreti del genere in circolazione.
Dicevamo del sound: New Era sposta il tiro su un metal sinfonico ed orchestrale più moderno, perdendo di fatto quelle sfumature che riconducevano al death/gothic dei primi anni novanta ed affascinando non solo con atmosfere apocalittiche, ma con l’uso più presente di una parte elettronica e soprattutto di tanta melodia, così da risultare appetibile agli amanti del genere con i piedi ben saldi nel nuovo millennio.
Diciamo che brani straordinariamente melodici come Fairytale, la title track, song da primo posto nelle classifiche rock se non fosse purtroppo per la carta d’identità tricolore del gruppo, la power ballad Memories River e l’ elegante Reset, avvicinano la musica degli Elegy Of Madness alle splendide trame degli ultimi Epica, più moderni come approccio al genere, finemente orchestrali e meno gotici.
Quando si parla del gruppo pugliese non si può non nominare la Turunen, sempre ispiratrice del magnifico canto della singer nostrana, mentre le orchestrazioni operistiche e cinematografiche della conclusiva Day Zero ci invitano a ricominciare in questa nuova era, dove verremo presi per mano dalla musica di questa straordinaria band: sicuramente il modo migliore per ripartire …
Tracklist
1.Apokalypsis
2.Answer
3.Fairytale
4.Lunacy
5.New Era
6.Divine Obsession
7.Memories River
8.Endless
9.Illuminated
10.Nobody Cares
11.Reset
12.Day Zero
Line-up
Anja Irullo – Voice
Tony Tomasicchio – Guitars and Backing Vocals
Luca Basile – Cello, Orchestra
Di Oni rimane la voglia di ascoltarlo ancora per essere nuovamente catturati e tritati dentro la potenza e la follia di chitarre affilatissime e velocissime, di un batteria che insegue il caos, di una voce bellissima e di un basso che ammazza i gaijin.
Ep di quattro pezzi devastanti, quattro killer di silicio incandescente, tra Dillinger Escape Plan, Meshuggah e un massacro giapponese di samurai.
Onryō nel folclore giapponese è uno spirito solitamente di sesso femminile, che dopo aver sofferto in vita o essere stata uccisa dal proprio uomo o da un uomo in generale, torna dall’aldilà per perseguitare il carnefice. Ecco, questa descrizione copre in parte l’assalto sonoro di questo gruppo romano, demone inquieto tra John Zorn, futurismo sonoro e immane potenza controllata attraverso la matematica. La lunghezza dell’ep è perfetta per poter godere appieno della bellezza perversa di questo disco, dove non c’è mai un ritornello, o una cosa scontata in un continuo rimescolamento di carte, in un vortice di vera potenza, per potere scoprire fino a che punto si possa spingere il nostro orecchio. Oniè la testimonianza di come sia davvero alta la qualità del nostro sottobosco estremo, perché questo disco non è un’eccezione ma un’altra perla in una strada disseminata di ottimi dischi, che magari non sono sotto gli occhi di tutti ma dobbiamo giusto guardare più a fondo nell’occhio del male. Di Oni rimane la voglia di ascoltarlo ancora per essere nuovamente catturati e tritati dentro la potenza e la follia di chitarre affilatissime e velocissime, di un batteria che insegue il caos, di una voce bellissima e di un basso che ammazza i gaijin.
Tracklist :
1 Oni
2 The Pyromaniac -Anarchogrind
3 Humanphobia
4 Sickness And Aluminium Foil Helmets
La cura per le melodie va di pari passo con sfumature metalliche ed atmosfere dark rock, ritmiche groovy e quel senso di tragico vivere che porta il sound del gruppo a scendere nell’ombra, senza perdere in tensione e mantenendo un approccio forte, mai mieloso, eppure dall’ottimo appeal radiofonico.
Le vie dell’alternative metal/rock sono infinite, molte portano a successi effimeri e dischi piatti e già sentiti, con formule trite e ritrite dal almeno venticinque anni, altre invece prendono la strada della personalità e di un buon songwriting e riescono a risultare freschi pur rivendicando le proprie ispirazioni e d influenze.
Wasted Wordsper esempio, debutto dei giovani Breaking Larsen Theory, non mancherà di allertare non solo gli ormoni delle pulzelle in giro per concerti in questa estate metallica, ma soddisferà pure i rocker con magari qualche anno in più sul groppone ed un passato a smuovere natiche con il rock intimista e perdente della piovosa Seattle, qualche altro tra l’hard rock moderno e un presente a tutta birra con le nuove leve alternative delle quali il gruppo milanese è un buon esempio.
Grinta metal e melodie intimiste, rock ed alternative, qualche spunto dark, e più di una atmosfera tooliana, danno all’album tutte le caratteristiche per non passare inosservato in una scena in cui la fatica a convincere non è neppure l’infinitesimale parte della velocità con cui si sparisce nel dimenticatoio della generazione iPod.
Un click e via si viene cancellati dalla play list, a meno che non si abbia qualcosa da dire e lo si faccia con la fermezza e la voglia dei Breaking Larsen Theory con le loro undici tracce più intro a formare un lavoro fresco, intenso, dark e drammatico, sempre in bilico tra la potenza del metal e il più ragionato impatto rock.
La cura per le melodie va di pari passo con sfumature metalliche ed atmosfere dark rock, ritmiche groovy e quel senso di tragico vivere che porta il sound del gruppo a scendere nell’ombra, senza perdere in tensione e mantenendo un approccio forte, mai mieloso, eppure dall’ottimo appeal radiofonico. Visions, l’ elettronica che attraversa brani d’impatto come B.L.T., il groove che lascia spazio alle melodie in On The Cruel Real sono solo una parte del sound che Phil, Aiden, Teo e Jody hanno preparato come ingredienti di un piatto d’alta cucina, buono, ma allo stesso tempo elegante e presentato con tutti i crismi: assaggiatelo e non smetterete più di gustarlo.
Tracklist
1. Metastasis (intro)
2. Every Road I’ve Kept Alone
3. Visions
4. Wasted Words
5. On The Cruel Real
6. Wake Up! (reprise)
7. B.L.T.
8. Severing Ties
9. Picture Of You
10. Beyond This Hole
11. Dream In Colour
Line-up
Phil – Vocal, Guitar
Aiden – Bass Guitar, Backing Vocals, FX Producer
Teo – Lead Guitar
Jody – Drums
In un’epoca di notevole appiattimento musicale e non solo, anche e soprattutto in ambito metal, dischi come questo dei milanesi A Total Wall sono come una birra fresca in mezzo al deserto d’asfalto.
In un’epoca di notevole appiattimento musicale e non solo, anche e soprattutto in ambito metal, dischi come questo dei milanesi A Total Wall sono come una birra fresca in mezzo al deserto d’asfalto.
Nati nel 2009 hanno avuto una lenta e costante maturazione, dovendo gestire al loro interno molte e notevoli forze. Il suono degli A Total Wall è un prog metal potente, molto vicino al djent e con un grande groove. Per orientarsi meglio si potrebbe dire Meshuggah con più melodie e anche più idee differenti. In questo disco, il primo su lunga distanza, il gruppo milanese fa tutto bene, facendo risaltare la sua meticolosità compositiva e la particolare idea di potenza, ovvero di sfogo di energia con un controllo notevole, in maniera da trasformarsi dentro le orecchie dell’ascoltatore. La loro padronanza tecnica è notevole, viene supportata anche da una grande capacità compositiva e tutte le canzoni sono costruite in maniera da non annoiare mai l’ascoltatore. Come detto sopra si spazia in vari generi, e si arriva a costruire un qualcosa che può essere definito new progressive metal, sia per un potenza notevole, sia perché figli di gruppi che vanno oltre il prog metal classico. Le chitarre qui hanno molte più corde del normale, si esprimono in una dimensione difficilmente definibile ma che suona benissimo, e colpisce la tenacia e la coerenza del disegno musicale che hanno tracciato gli A Total Wall, per un disco che è molto strutturato e potente, un moderno labirinto dal quale uscire migliori.
Tracklist :
1. Reproaching methodologies
2. Evolve
3. Sudden
4. Maintenance
5. Lossy
6. The right question
7. Delivery
8. Pure band
Line Up :
Davide Bertolini – drums
Umberto Chiroli – guitars
Riccardo Maffioli – bass
Gabriele Giacosa – vocals
Boccellari non concede neppure un secondo al proprio ego, creando un piccolo gioiello dove la parole d’ordine è emozione e consegnandoci un lavoro strumentale bellissimo.
Potremmo stare giorni, mesi o anni a discutere su quanto importante possano essere gli eventi di massa, lontano dal concerto in senso lato e più vicino proprio alla definizione evento e a quella frase (io c’ero) che diventa sempre più importante della musica stessa.
Poi, dopo avere discusso e litigato, chi dalla parte del fenomeno che unisce un intero popolo, chi invece dà ancora un valore quasi sacrale alla musica, anche e soprattutto al rock’n’roll o al metal estremo, si finisce al cospetto di un lavoro come As A Season Bloom, ep di quattro brani del polistrumentista lombardo Antonio Boccellari, alias Hitwood, reduce da un full lenght uscito lo scorso anno, intitolato When Youngness… Flies Away….
Un amore sconfinato per gli In Flames e il death metal melodico, un talento compositivo di sicuro valore ed il gioco è fatto: la sua musica può scorrere come un fiume di note, tra l’alternativo e l’estremo, piacevolmente strumentale, a tratti sognante, in certi passaggi quasi meditativa, in altri esplosiva e metallica.
Sembra facile a dirsi, ma non è così, i brani che compongono As A Season Bloom hanno una loro vita, anche se il tutto è perfettamente assemblato in un’unica opera musicale per la quale non servono le parole, persi nello spartito di A Spring Glare Where Green Shine the Brightest, piacevolmente progressiva, o nelle trame semiacustiche dell’alternativa Memories from a Gentle Summer Evening.
Tranquilli, il metal estremo è li che aspetta il suo momento, prima melodico e classico in Catch the Autumn Scent, brano a cui manca il canto di Anders Fridén per essere una canzone degli In Flames del periodo Whoracle, mentre il gioco si fa duro con la furia estrema della conclusiva Awaked By A Winter Blast, gioiellino swedish death da applausi.
Boccellari non concede neppure un secondo al proprio ego, creando un piccolo gioiello dove la parole d’ordine è emozione e consegnandoci un lavoro strumentale bellissimo, con una prima parte molto progressiva ed atmosferica che cresce d’intensità col passare dei minuti, per esplodere nell’ultimo brano: da avere e consumare.
Tracklist
1.A Spring Glare Where Green Shine the Brightest
2.Memories from a Gentle Summer Evening
3.Catch the Autumn Scent
4.Awaked by a Winter Blast
Ennesimo ottimo lavoro per la band pugliese che, fuori dai comuni schemi, regala musica per chi sa ascoltare.
Tornano con un nuovo lavoro (il quarto di una storia nata nel lontano 1993) i leccesi Essenza dei fratelli fratelli Rizzello (Carlo, voce e chitarra, ed Alessandro, basso, accompagnati da Paolo Colazzo alla batteria), che danno un seguito al precedente “Devil’s Breath” del 2009.
Il nuovo album propone una mezzora abbondante di hard rock adulto, oscillante tra l’heavy ottantiano, uno spirito rock anni settanta, squisite divagazioni prog ed ottime parti ritmiche: tecnicamente impeccabile, mai ordinario, Blind Gods And Revolution accentua la peculiarità del trio nel non fornire all’ascoltatore troppi punti di riferimento, grazie a suoni ed atmosfere che mutano ad ogni passaggio inglobando il meglio di questi generi in un unico lavoro.
Rimane preponderante, a mio parere, una forte impronta settantiana, iniziando dalla produzione e dal cantato di Carlo Rizzello, il che ne fa un album imperdibile per gli amanti del rock più attempati; originale ed imprevedibile, il sound della band acquista valore col passare degli ascolti, permettendo all’ascoltatore di assimilarne le mille sfaccettature.
Album di non facilissimo ascolto, dunque, e sicuramente non un lavoro usa e getta come ormai siamo abituati a consumare in questi anni in cui tutto corre, bensì ottima musica che va curata, lavorata e fatta propria, lasciando che la moltitudine di note racchiuse nei brani del cd entrino dentro di noi, assaporandone ogni sfumatura, che sia essa rivolta all’heavy o al prog, o addirittura al folk come nella meravigliosa Seagulls In The Night.
I brani si susseguono tra ritmiche martellanti e trame complicate e avvincenti, i generi che di volta in volta ci appaiono tra le pieghe del disco rendono l’ascolto vario, anche se la concentrazione è d’uopo per seguire le molteplici strade prese dalla band e non perdersi all’ennesimo incrocio: i tre musicisti ci stupiscono per la scelta di vie talvolta a noi sconosciute ma affascinanti, giocando pericolosamente con la musica, come un incantatore di serpenti davanti ad un velenosissimo rettile.
Ennesimo ottimo lavoro per la band pugliese che, fuori dai comuni schemi, regala musica per chi sa ascoltare, confermandosi come realtà rock di altissima qualità.
Tracklist:
1. Plastic God (An Autumn Dream)
2. Bloody Spring
3. The Song Inside
4. The Fury of the Ancient Witch
5. Lost and Blind
6. Fight for Change
7. Seagulls in the Night
8. Time (Keep My Memories Alive)
Line-up:
Alessandro S. Rizzello – Bass
Paolo Colazzo – Drums
Carlo G. Rizzello – Vocals, Guitars
Una conferma del talento di questi splendidi musicisti, ed un album che dovrebbe far parte della collezione di chiunque abbia a cuore le sorti di queste due forme d’arte che il trio ha racchiuso in un prezioso scrigno.
Molte volte un capolavoro nasce per caso, da un incontro, una collaborazione, oppure uno sguardo o un’intuizione che l’artista mette in musica o illustra si un quadro.
Noi ci fermiamo alle due forme che, unendosi, creano opere monumentali, spesso senza fare a meno l’una dell’altra, facendo innamorare chi l’arte non la vive solo superficialmente: il cinema e la musica.
Torniamo ad occuparci della Qua’ Rock Records e del suo mastermind, il chitarrista Gabriele Bellini (Pulse R. e Hyaena tra gli altri) e del suo sodalizio con la cantante d’opera Claire Briant Nesti, in forza ai notevoli Inside Mankind e protagonista al microfono su Metamorphosis Revisited, dei “nuovi” Hyaena.
Insieme al fido batterista e percussionista Michael Agostini, terzo ed importantissimo tassello di questo fenomenale progetto, i due decidono di dare sfogo alla passione per il cinema con questa spettacolare e personale versione di brani tratti da film famosi ma, a mio parere, non così scontati.
Infatti, tre dei cinque brani prendono ispirazione dal mondo parallelo di Matrix, dalle intricate trame omicide di Saw e dall’atmosfera dark fumettistica del capolavoro Sin City, pellicole di cassetta ma spesso dimenticate nelle preferenze degli abituali frequentatori delle sale cinematografiche.
La grandezza di questo lavoro sta nella cura con cui i musicisti hanno composto questo immenso puzzle, oltre ovviamente alla bravura di una Nesti perfettamente a suo agio nel riproporre in versione operistica le varie atmosfere, usando la sua bellissima voce come un vero e proprio strumento, e un Bellini che fa meraviglie con la sei corde, con l’aggiunta di un drummer che sfoggia tecnica sopraffina ed almeno altre due braccia.
Detto delle bellissime ed oscure Halloween Songs (Saw), Can’t Kill Us (Sin City) e Clubbed To Death (Matrix), il cuore dell’album pulsa di uno splendido mix tratto dalle colonne sonore di alcuni tra i film più belli della storia del cinema più qualche accenno ad icone della nostra musica preferita, in un vortice di sorprese, come se schiacciando il tasto play avessimo aperto una straordinaria scatola musicale che i tre musicisti hanno riempito di sublime arte. Rock Movie Story “Part One” e Olympics Movie sono due capolavori che non lasceranno indifferenti chi vive di musica a 360°.
Una conferma del talento di questi splendidi musicisti, ed un album che dovrebbe far parte della collezione di chiunque abbia a cuore le sorti di queste due forme d’arte che il trio ha racchiuso in un prezioso scrigno.
Tracklist
1 – Halloween Songs “SAW”
2 – Can’t Kill Us “SIN CITY”
3 – Rock Movie Story “Part One”
4 – Olympics Movie
5 – Clubbed To Death “MATRIX”
Line-up
Gabriele Bellini – Guitars
Claire Briant Nesti – Vocals
Michael Agostini – Drums, percussion