Secret Sphere – Portrait of a Dying Heart

I Secret Sphere, con Portrait Of A Dying Heart, giungono al disco che, qualora non li porti alla meritata consacrazione, sarà giusto allora che la nefasta profezia dei Maya si avveri facendo piazza pulita di questa piccola porzione di universo …

Con una storia ultradecennale alle spalle e ben sei full length pubblicati in precedenza, gli alessandrini Secret Sphere, con Portrait Of A Dying Heart, giungono al disco che, qualora non li porti alla meritata consacrazione, sarà giusto allora che la nefasta profezia dei Maya si avveri facendo piazza pulita di questa piccola porzione di universo …

Dopo un buon album come “Alchemist”, rimpiazzare lo storico cantante della band, Roberto Messina, poteva costituire un problema non da poco, brillantemente superato reclutando quella che forse è la migliore voce in circolazione sul suolo italico. Infatti, senza voler nulla togliere a chi l’ha preceduto, Michele Luppi costituisce un valore aggiunto per qualsiasi band e in qualsiasi genere si cimenti. Nonostante egli stesso si consideri un vocalist più orientato verso un hard rock di stampo classico, a mio avviso invece è proprio quando la sua timbrica si intreccia con partiture più robuste, come in questo caso o nel recente passato con i Vision Divine, che il cantante emiliano offre il meglio di se stesso. Se a tutto questo aggiungiamo una band fatta di musicisti dalla tecnica ineccepibile, in grado di passare con disinvoltura da uno strumentale come la title track posta in apertura, degna dei Dream Theater più ispirati, a un brano dalle melodie sognanti come Eternity, che chiude l’album in maniera superlativa, ecco spiegati i motivi della perfetta riuscita dell’album. Ma anche tutto ciò che è racchiuso tra queste due tracce si pone allo stesso livello, a partire da X, che appare quasi un prolungamento del brano precedente prima di evolversi in un power prog vario e trascinante e con un Luppi autore di un crescendo vocale impressionante o The Kill, una vera mazzata nella quale la melodia però resta sempre e comunque un punto di riferimento imprescindibile. Healing possiede armonie irresistibili e sembra essere il classico brano sul quale costruire un video mentre Lie To Me è breve ma dalla grande intensità, che va ulteriormente a crescere nelle conclusive The Rising Of Love ed Eternity, brano quest’ultimo, nel quale tutta la band si esprime ancora una volta a un livello stellare assecondando una prestazione vocale di Luppi da brividi. Dopo anni di impegno contraddistinti da ottima musica, rimasta purtroppo un po’ lontana dai riflettori, si può tranquillamente affermare che Aldo Lonobile e Andrea Buratto hanno trovato la quadratura del cerchio per la band che hanno contribuito a far nascere: questo disco ancor prima della sua uscita ha già raccolto consensi unanimi, non solo in Italia, e questo non può che rallegrarci. Poi, sicuramente ci sarà ancora, come sempre accade e sempre accadrà, qualcuno che non ascolterà neppure una nota di questo disco salvo precipitarsi a fare proprio l’ultimo lavoro di una delle tante band di grido che, ormai da anni, non fanno altro che replicare se stesse, timbrando il cartellino con la stessa puntualità ed entusiasmo dell’ultimo dei “travet” … Un errore nel quale non cadrà, invece, chi nella musica ricerca autentiche emozioni e non una mera esibizione di tecnica fine a se stessa.

Tracklist :
1. Portrait of a Dying Heart
2. X
3. Wish & Steadiness
4. Union
5. The Fall
6. Healing
7. Lie to Me
8. Secrets Fear
9. The Rising of Love
10. Eternity

Line-up :
Andrea Buratto – Bass
Aldo Lonobile – Guitars (lead)
Federico Pennazzato – Drums
Marco Pastorino – Guitars
Gabriele Ciaccia – Keyboards
Michele Luppi – Vocals

SECRET SPHERE – Facebook

Anamnesi – Descending the Ruins of Aura

Anamnesi è il progetto solista dell’omonimo musicista di Oristano, già attivo come batterista in diverse band isolane; “Descending The Ruins Of Aura” ne costituisce la seconda prova su lunga distanza dopo l’esordio autointitolato risalente a due anni fa.

Sgombrando subito il campo dai pregiudizi che spesso accompagnano l’operato delle one-man band, il lavoro del quale mi accingo a parlare si è rivelato sin dalle prime note una graditissima sorpresa: Emanuele (questo è il suo vero nome) riesce dove molti altri nomi, ben più considerati dalla stampa specializzata, hanno fallito.
“Descending …” è un disco che riesce mirabilmente a coniugare l’asprezza delle partiture black con il mood malinconico del miglior depressive, esibendo una serie di brani nei quali non viene mai meno il coinvolgimento emotivo: ecco, la dote principale di questo lavoro è la sua intensità, la capacità di penetrare nel cuore dell’ascoltatore, anche nei momenti in cui le sonorità di stampo ambient divengono predominanti.
Una gamma di sentimenti contrastanti, sebbene complementari, viene esibita nel corso di questi tre quarti d’ora di ottima musica, spaziando dalla rabbia alla desolazione, dall’angoscia alla malinconia, tramite una resa sonora piuttosto buona per gli standard del genere.
Condivisibile, come sempre, la scelta di utilizzare prevalentemente la nostra lingua per veicolare con maggiore efficacia il contenuto dei testi; purtroppo anche in questo caso, come in molti altri già affrontati, la produzione tende un po’ a sotterrare la voce rendendone difficile la comprensione in determinati passaggi.
“Litany of Suffering and Reaction” e “Julia Carta” sono I brani che personalmente prediligo ma, davvero, l’intero album è meritevole di attenzione da parte di chi ama queste sonorità che, proprio in occasioni come questa, sono realmente in grado di trasmettere quelle sensazioni che spesso si cercano invano in prodotti ben più reclamizzati.
Una menzione d’obbligo va anche alla Naturmacht Productions, piccola label tedesca che si occupa meritoriamente di promuovere musica lontana anni luce dal mainstream e che, tanto per mettere subito in chiaro le cose, nella propria homepage dichiara di non ammettere nel proprio roster band coinvolte in forme di estremismo politico o di esaltazione della razza, privilegiando invece chi tratta, in particolare, tematiche che vedono come protagonista incontrastata “madre natura”.

Track-list :
1. Intro (First descent)
2. Litany of Suffering and Reaction
3. La Quiete Del Silenzio
4. Nocturnal Path
5. Toward Rebirth
6. Annega La Coscienza
7. Julia Carta
8. Ciò Che Una Volta Era (Burzum Tribute)

Line-up :
Anamnesi All Instruments

anamnesi-descending the ruins of aura

Forgotten Tomb – And Don’t Deliver Us From Evil

“… And Don’t Deliver Us From Evil” è un prodotto di respiro internazionale, collocabile per affinità tra i primi Katatonia e gli ultimi Shining, ma con un sound del tutto personale e riconoscibile dalla prima nota, caratteristica, questa, che possiedono solo le band di alto spessore

I Forgotten Tomb del 2012 non sono più quelli di “Springtime Depression” e “Love’s Burial Ground” e, messa giù così, quest’affermazione appare terribilmente scontata, se non corrispondesse al pensiero ricorrente di chi ritiene che lo spirito originario della creatura di Herr Morbid sia andato irrimediabilmente perduto.

La realtà è che quest’ultimo lavoro rappresenta la naturale evoluzione di “Negative Megalomania” e trae il meglio anche da un disco controverso come “Under Saturn Retrograde”, offrendo come risultato un’opera matura e coinvolgente. Se vogliamo trovare un parallelismo, la parabola artistica dei Forgotten Tomb può essere tranquillamente accostata a quella degli Shining: partendo da un depressive black intriso di doloroso rancore verso l’umanità, Marchisio e Kvarforth sono approdati a una forma musicale dall’approccio meno estremo che i fan più intransigenti hanno interpretato come una sorta di tradimento, ma che in realtà è frutto della naturale evoluzione artistica dei due musicisti. Non necessariamente l’approdo a sonorità in apparenza più fruibili equivale a un decadimento qualitativo della proposta, chi ha avuto occasione di ascoltare l’ultimo ottimo disco degli Swallow The Sun, tanto per citare un esempio, capirà bene ciò che intendo. … And Don’t Deliver Us From Evil, si apre con Deprived, brano tipico degli ultimi Forgotten Tomb, decisamente piacevole pur senza entusiasmare; ben diversa è la title-track, un prototipo di black metal ammantato di atmosfere oscure e del tutto privo di qualsiasi apertura a sonorità più orecchiabili. Cold Summer è un altro brano nel quale le tenebre prevalgono sulla luce, assecondate da pesanti riff di stampo doom; Let’s Torture Each Other è un altro brano “normale”, sulla falsariga dell’opener, ma con Love Me Like You’d Love The Death e le sue atmosfere cariche di tensione emotiva, con un finale affidato a una chitarra in grado di tessere passaggi ricchi di pathos, la qualità dell’album si impenna nuovamente restando di elevato livello fino alla sua conclusione. Parlando di Adrift è facile pronosticare che si tratterà del brano destinato a destare le maggiori perplessità nei puristi: la voce pulita conduce un ritornello decisamente “catchy”, contrapponendosi alle consuete, ruvide, vocals di Herr Morbid e a un tessuto musicale tutt’altro che rassicurante. Nullifying Tomorrow chiude il lavoro nel suo formato classico (la versione digipack include la cover di Transmission, superfluo dire di quale band, mentre Sore dei Buzzov’en è la bonus track nel vinile) incarnando, di fatto, il trademark del suono attuale dei Forgotten Tomb. … And Don’t Deliver Us From Evil è un prodotto di respiro internazionale, collocabile per affinità tra i primi Katatonia e gli ultimi Shining, ma con un sound del tutto personale e riconoscibile dalla prima nota, caratteristica, questa, che possiedono solo le band di alto spessore: se ciò consentirà ai Forgotten Tomb di accedere a nuovi fans, pur perdendone per strada qualcuno tra i vecchi, lo vedremo nei prossimi mesi, di sicuro questo è un disco che tende a crescere ad ogni ascolto nonostante un’apparente maggiore fruibilità rispetto alle produzioni più datate.

Tracklist :
1. Deprived
2. …And Don’t Deliver Us from Evil…
3. Cold Summer
4. Let’s Torture Each Other
5. Love Me Like You’d Love the Death
6. Adrift
7. Nullifying Tomorrow

Line-up :
Herr Morbid -Guitars, Vocals
Algol – Bass
A. – Guitars
Asher – Drums

Antiquus Infestus – Order Of The Star Of Bethlehem

L’Ep degli Antiquus Infestus è il classico esempio di come si possa racchiudere in uno spazio temporale piuttosto ridotto una quantità di contenuti spesso sconosciuta in opere dalla durata ben più imponente.

L’Ep degli Antiquus Infestus è il classico esempio di come si possa racchiudere in uno spazio temporale piuttosto ridotto una quantità di contenuti spesso sconosciuta in opere dalla durata ben più imponente.

In ventiquattro minuti Order Of The Star Of Bethlehem racchiude non solo un concept incentrato sulle ultime, drammatiche, fasi della vita di Friedrich Nietzsche ma, anche e soprattutto, un potente concentrato di aggressione sonora, prodotto e suonato in maniera più che soddisfacente, considerando l’assenza di una label alle spalle, e privo di alcun compromesso o di ammiccamenti di stampo commerciale. Il trio si era già fatto notare, nell’ultimo periodo, con due interessanti demo ma questo Ep schiude prospettive diverse, alla luce di una chiarezza d’intenti invidiabile; il sound che ne scaturisce è un’intrigante mix tra il black di scuola svedese e il death dalle tonalità più oscure sulla falsariga dei Nile, soprattutto per quanto riguarda l’attitudine e la comune passione per l’egittologia. Tutto abbastanza bene dunque, se non fosse per un particolare, a suo modo inquietante, che esula dalla musica contenuta nell’Ep: Sverkel e Malphas, per trovare le condizioni utili alla progressione della loro carriera, si sono da poco trasferiti in Danimarca. Nell’augurare le migliori fortune agli Antiquus Infestus, non si può che constatare con amarezza la persistenza, se non addirittura un incremento, delle difficoltà logistico-organizzative che tarpano le ali a chiunque voglia cimentarsi, nel nostro paese, con forme artistiche non omologate al mainstream.

Tracklist :
1. Intro
2. St. Mary of Bethlehem
3. Bishopsgate
4. 55
5. Moorfields
6. Order of the Star of Bethlehem
7. The Signs of Future Threat (Outro)

Line-up :
Sverkel – Vocals
Malphas – Guitars, Drum progamming
Asmodeus – Bass

Southern Drinkstruction – Drunk Till Death

Non c’è nemmeno bisogno di una reunion dei Pantera, ce li abbiamo noi.

Immaginate i caduti della battaglia di Gettysburg che, posseduti dai Pantera, dai Texas Hippie Coalition e dal demonio del thrash metal, invadono il mondo, una bandiera sudista garrisce al vento e il sangue scorre..

Tutto questo e molto di più sono i Southern Drinkstruction di Roma, una banda di alcolisti sonori che mischiano southern metal, thrash, heavy e death metal in un blend unico, potentissimo e molto ma molto piacevole.
I ragazzi sono al terzo episodio su supporto fonografico, dopo l’Ep “Southern Drinkstruction” del 2007, il full-length “Drink With Us” del 2009, di cui sono fiero possessore, e l’attuale Drunk Till Death.
Il disco è una botta sonora notevole, metal fatto con una freschezza ed una passione davvero invidiabile, la potenza non viene mai meno e il tutto è davvero molto coinvolgente.
Io ascolto molto metal e spesso mi capitano ottimi dischi, a volte mediocri, a volte pessimi, nonostante il grande impegno, ma questo è un disco che sento in macchina la mattina, quando mi bevo delle birre la sera, e mi fa tornare in mente i tempi dei Pantera, dei racconti di Valerio Evangelisti, il gusto del metallo e della sabbia.
I Southern Drinkstruction sono uno dei migliori gruppi italiani del genere e hanno una grande autoironia, cosa che a volte nel metal difetta; dalle paludi cajun, dai vicoli di New Orleans, dalle sabbie dell’Arizona, ecco spuntare i Southern Drinkstruction.
Non c’è nemmeno bisogno di una reunion dei Pantera, ce li abbiamo noi.
In beer we trust.

Tracklist:
1. Drunk Till Death
2. On Your Knees
3. 6-Strings Skull
4. Dirty Sanchez
5. Evil Skies
6. Nasty Jackass
7. Redneck Zombie Distillery
8. Motor 666
9. Cumming in Socks
10. Drink Whiskey, Make Justice!
11. The Man With No Name
12. Slide Or Die!
13. Death Bells

Line-up:
Eddie Vagenius – Drums
Pinuccio “Ordnal” Landro – Guitars
Southern Bastard – Vocals
Zorro – Bass

SOUTHERN DRINKSTRUCTION – Facebook

Obscura Amentia – Ritual

Un lavoro che merita d’avere una possibilità soprattutto da parte di chi apprezza il black di matrice svedese, ma che potrebbe soddisfare anche i più integralisti così come chi predilige, del genere, gli aspetti più melodici.

Gli Obscura Amentia sono un duo composto da Black Charm (che si occupa di tutti gli strumenti ad eccezione delle percussioni, affidate a una drum-machine) e da Hel (female scream): attivi dal 2010, con “Ritual” giungono al secondo full-length.

La loro musica, tanto per fornire un’idea di massima, ci riporta alle sonorità dei Dark Funeral, quindi si parla di black metal devoto alla tradizione ma senza che, per questo, venga trascurato il senso della melodia, sempre ben presente grazie ad efficaci linee di chitarra.
La band novarese propone un lavoro di buon livello, anche se qualche lieve pecca, per lo più addebitabile alla produzione, finisce per inficiarne parzialmente la resa finale: per esempio la voce di Hel, sia per una registrazione che la relega quasi in secondo piano, sia per una minore incisività che spesso accomuna le cantanti alle prese con scream e growl, non sempre si rivela in tutta la sua possibile efficacia.
Tutto sommato, invece, non ritengo così deprecabile l’uso della drum machine, pur essendo evidente che una batteria “umana” sia pur sempre preferibile, mentre il super lavoro strumentale al quale si sottopone Black Charm si rivela assolutamente appropriato.
Ritual è un disco che non delude, per la sua integrità stilistica e per il suo proporsi monolitico, cosa che a mio avviso più che un difetto ne costituisce la forza: se si eccettua la bellissima title track, che si staglia sul resto dell’album, marchiata a fuoco com’è da un riff ossessivo quanto coinvolgente, gli altri brani si sviluppano su coordinate piuttosto simili, creando però un impatto d’insieme nient’affatto trascurabile.
Un lavoro che merita d’avere una possibilità soprattutto da parte di chi apprezza il black di matrice svedese, ma che potrebbe soddisfare anche i più integralisti così come chi predilige, del genere, gli aspetti più melodici.

Tracklist :
1. The Citadel Of Beleth
2. Mirror Of Sorrow
3. Ritual
4. Lost In The Reflection Of Moon
5. Mater Hiemalium
6. Descend The Chaos
7. Ominous Herald
8. Silence (A Reminder Of Death)
9. Last Rite

Line-up :
Black Charm – Guitars, Keyboards, Bass
Hel – Vocals

Ecnephias – Inferno

“Inferno” possiede tutto ciò che servirebbe per fare breccia anche in una parte di pubblico non di settore: tracce dallo straordinario impatto emotivo, contraddistinte da melodie evocative e inserite in un tessuto sonoro all’altezza di grandi nomi del metal mediterraneo

Anche se con colpevole ritardo è d’obbligo dedicare il giusto spazio a quella che, a mio modesto parere, è stata in assoluto una delle migliori uscite in ambito metal del 2011.

Gli Ecnephias, con un disco come Inferno, si cimentano nell’ardua impresa di incrinare il muro di indifferenza eretto dall’ambiente musicale nei confronti di tutto ciò che non risulta convenzionale o rassicurante; purtroppo, in un paese sempre più ostaggio delle cariatidi sanremesi e dei polli d’allevamento dei reality show, appare sempre più improbabile un’apertura di credito nei confronti di chi riesce a offrire prodotti di qualità spinto solo da un’etichetta indipendente, da qualche volonterosa webzine e dalle poche riviste specializzate. Certo, se Mancan e soci invece che a Potenza fossero nati a Oslo o a Helsinki, probabilmente questo lavoro veleggerebbe in buona posizione nelle classifiche di vendita di quei paesi e i pezzi trainanti passerebbero con la dovuta frequenza nei programmi radiofonici e televisivi; al contrario, nella nostra italietta musicale, ci si guarda bene dal fornire a brani penetranti e provocatori, come A Satana e Chiesa Nera, l’opportunità di scandalizzare i benpensanti tramite i consueti canali di comunicazione. Eppure Inferno possiede tutto ciò che servirebbe per fare breccia anche in una parte di pubblico non di settore: per esempio tracce dallo straordinario impatto emotivo, contraddistinte da melodie evocative e inserite in un tessuto sonoro all’altezza di grandi nomi del metal mediterraneo come Rotting Christ, Moonspell e Septic Flesh. In particolare, la band di Sakis funge anche da riferimento per quanto riguarda l’uso promiscuo della lingua madre e dell’inglese, cosa peraltro già sperimentata nel precedente “Ways Of Descention” ma che, in questo caso, avviene in maniera ancor più convinta e incisiva, vista la maestria con la quale vengono maneggiati i testi in italiano; ne è la riprova un brano come Chiesa Nera, inserito come bonus-track, che risulta molto più efficace del suo corrispondente anglofono In My Black Church. Gli Ecnephias non fanno occultismo di bassa lega, i loro testi spesso traggono spunto da monumenti della letteratura come Carducci o Blake, passando con disinvoltura da momenti caratterizzati da una sarcastica provocazione ad altri carichi di oscuro e tetro lirismo. Chi ama le band citate in precedenza, non può e non deve ignorare brani come A Satana (da vedere assolutamente il video), con il suo accattivante ritornello che ti ritrovi a canticchiare senza accorgertene (con tutte le possibili conseguenze del caso …), la trascinante Buried In The Dark Abyss, la magnifica Voices Of Dead Souls esaltata da un chorus intenso come pochi, l’evocativa Secret Ways, la poetica Lamia (dall’intensità emotiva vicina a un omonimo brano datato 1974 …) e l’eretica Chiesa Nera. Con un quadro complessivo di simile valore cosa impedisce, dunque, agli Ecnephias di raggiungere livelli di notorietà più consoni al loro valore? Di certo non viene richiesto un cambiamento né a Mancan né agli ottimi musicisti che lo affiancano nella band, semmai questo dovrebbe riguardare il contesto musicale e culturale in cui sono costretti, loro malgrado, a muoversi: sarà anche vero che “nemo propheta in patria est” ma gli Ecnephias possiedono sia la giusta attitudine sia il necessario talento per provare a sovvertire questa situazione.

Tracklist :
1. Naasseni
2. A Satana
3. A Stealthy Hand of an Occult Ghost
4. Buried in the Dark Abyss
5. Fiercer than any Fear
6. Voices of Dead Souls
7. Secret Ways
8. In my Black Church
9. Lamia
10. Chiesa Nera

Line-up :
Mancan – Vocals, Guitars, Programming
Sicarius Inferni – Keyboards
Demil – Drums
Nikko – Guitars

The Foreshadowing – Second World

Continua inarrestabile l’ascesa dei The Foreshadowing che, con Second World, pubblicano il disco della definitiva consacrazione.

Continua inarrestabile l’ascesa dei The Foreshadowing che, con Second World, pubblicano il disco della definitiva consacrazione.

Già con l’esordio “Days Of Nothing” e con il successivo, splendido, “Oionos”, la band romana aveva gettato le basi per imporsi come uno dei nomi di punta della scena nostrana: chiunque avesse assistito a un loro concerto aveva potuto facilmente verificare le potenzialità di un gruppo al quale la dimensione underground stava decisamente stretta.
Questo lavoro, mixato e masterizzato da Dan Swanö agli Unisound Studios, riesce in maniera stupefacente a fondere le due anime che, nei dischi passati, talvolta lottavano per prendere il sopravvento l’una sull’altra: il cupo death-doom e il dark raffinato trovano il loro punto d’incontro in un gothic che prende il meglio da entrambe le matrici senza rinnegarle in alcun modo.
Marco Benevento rinuncia del tutto alle asprezze del passato, stabilizzandosi sulle sue tonalità calde e profonde, vicine a vocalist come Dave Gahan e Sven Friedrich (Dreadful Shadows, chi se li ricorda ascolti con attenzione Noli Timere), mentre anche il resto della band si esprime a livelli stellari grazie a un suono pulito ed energico allo stesso tempo.
Il disco, dal punto di vista lirico è un concept incentrato sulla ribellione della natura nei confronti dell’umanità, tematica magari non inedita ma trattata con la dovuta profondità, mentre sotto l’aspetto musicale, se nella prima metà sono racchiusi i brani più energici, la seconda parte viene riservata invece agli episodi dalle atmosfere più rarefatte senza perdere comunque un’oncia di intensità.
Le dieci tracce sono altrettante gemme incastonate all’interno di quest’opera, ma nonostante ciò alcune risultano ancora più brillanti: Outcast, un brano gothic-doom come non se ne sentivano da tempo, ovvero “quando gli allievi superano i maestri”, The Forsaken Son, dall’incedere drammatico e caratterizzata da un chorus di rara bellezza, Reverie Is A Tyrant, plumbea nei suoi ritmi rallentati e chiusa da un magnifico assolo di chitarra, e soprattutto Aftermaths, letteralmente indimenticabile per le melodie vocali e per la letale chiusura che fa presagire sfracelli quando sarà proposta dal vivo.
Second World è stato pubblicato quasi contemporaneamente a “Tragic Idol”, che viene surclassato, lo dico a malincuore visto l’amore sconfinato che nutro da sempre per i Paradise Lost, in virtù della freschezza compositiva e del livello di perfezione raggiunto dalla band romana, pur senza dimenticare che chiunque affronti questo genere non può prescindere da quanto composto in passato da Gregor Mackintosh e soci.
Ovviamente, proprio per questo, ci saranno sempre i soliti incontentabili che avranno da ridire sull’originalità della proposta: di fronte ad affermazioni di questo tenore l’unica replica possibile viene presa in prestito dal Sommo Poeta: “non ti curar di lor ma guarda e passa”.
A chi, molto più prosaicamente, si “accontenta” di ricercare emozioni nella musica che ascolta, i The Foreshadowing hanno regalato un autentico capolavoro …

Tracklist :
1. Havoc
2. Outcast
3. The Forsaken Son
4. Second World
5. Aftermaths
6. Ground Zero
7. Reverie Is a Tyrant
8. Colonies
9. Noli Timere
10. Friends of Pain

Line-up :
Jonah Padella Drums
Andrea Chiodetti Guitars
Alessandro Pace Guitars
Francesco Sosto Keyboards, Backing Vocals
Marco Benevento Vocals
Francesco Giulianelli Bass

Ravenscry – One Way Out

Sarebbe un peccato mortale pensare che i Ravenscry siano niente più che una grande cantante con un gruppo che si limita ad assecondarne le doti eccelse.

La proliferazione indiscriminata di produzioni discografiche, spesso di dubbio valore, ha tra le sue conseguenze peggiori non tanto l’inevitabile abbassamento qualitativo della proposta musicale nel suo complesso, quanto il rischio di non riuscire a dare la giusta evidenza alle uscite che lo meritano.

Così un autentico gioiello come questo One Way Out degli italiani Ravenscry, rischia seriamente di restare confinato a livello underground, nonostante l’ottimo lavoro promozionale svolto dalla WormHoleDeath, invece di trovarsi a competere con le ultime uscite di Nightwish e Lacuna Coil nelle classifiche di vendita.
Sto esagerando ? Provate ad ascoltare con la dovuta attenzione e senza la prevenzione nei confronti delle band con voce femminile derivante dal surplus produttivo di cui sopra: scoprirete una cantante come Giulia Stefani che, a mio avviso, ha pochi eguali nel suo campo, capace com’è di passare con disinvoltura tra mille diverse tonalità, senza scadere mai nel virtuosismo vocale fine a se stesso.
Se a una vocalist di questo livello, che ridicolizza con la sua performance tutti questi pseudo fenomeni festivalieri sfornati dai reality show, aggiungiamo una band che ci ricorda in ogni momento che quello che stiamo ascoltano è metal e non un pop sporcato ogni tanto da qualche riff più pesante, ecco la spiegazione
per un giudizio così entusiastico.
Dato per scontato che nel genere gothic-alternative è difficile se non impossibile portare degli elementi di novità, ciò che si richiede alle band che vi si cimentano è di proporre un sound fresco e, per quanto possibile, dotato di un’impronta personale o di qualche elemento distintivo in grado di rendere speciale la propria musica.
Questo avviene puntualmente con brani come Nobody, con la sua componente elettronica e i riff squadrati a dettare il tempo mentre Giulia libera le sue tonalità più alte, Redemption I – Rainy, semplicemente da brividi, This Funny Dangerous Game, dal piglio molto più metallico con chitarre quasi alla Rammstein e My Bitter Tale, con la sua delicata intro per piano e voce, che chiude alla grande un disco privo di punti deboli.
Senza negare, ovviamente, le inevitabili affinità che mi sento di ravvisare, sia dal punto di vista strumentale sia da quello vocale, con una band sottovalutata come furono gli After Forever di Floor Jansen piuttosto che con i soliti nomi, sarebbe un peccato mortale pensare che i Ravenscry siano niente più che una grande cantante con un gruppo che si limita ad assecondarne le doti eccelse; no, qui non c’è un semplice “supporting cast” ad accompagnare la voce di Giulia, e anche se questo risulta necessariamente il primo elemento che resta impresso, il lavoro preciso e allo stesso tempo fantasioso degli altri quattro musicisti è un ingrediente altrettanto fondamentale per la riuscita di One Way Out.
Resta solo da augurarsi che il lavoro della label, unito ai consensi pressoché unanimi ricevuti in sede recensione e al passa-parola in rete, consenta a quest’album di varcare i confini del genere collocando i Ravenscry nelle posizioni che spettano loro di diritto.

Tracklist :
1. Calliope
2. Elements Dance
3. Nobody
4. A Starless Night
5. Redemption I – Rainy
6. Redemption II – Reflection
7. Redemption III – Far Away
8. Embrace
9. Journey
10. Back To Hell
11. This Funny Dangerous Game
12. My Bitter Tale

Line-up :
Giulia Stefani Vocals
Paul Raimondi Guitar
Mauro Paganelli Guitar
Andrea Fagiuoli Bass
Simon Carminati Drums

Sick Monkey – Anatomia Dell’Essere

Le sensazioni che restano impresse dopo l’ascolto di “Anatomia dell’Essere” sono del tutto positive e per questo motivo contiamo di poterci gustare al più presto un album intero degli ottimi Sick Monkey.

Potente, ruvido e genuino: tre aggettivi che servono per inquadrare il sound dei Sick Monkey, alle prese con il loro primo EP Anatomia Dell’Essere.

La band, proveniente dalla sponda orientale del lago di Garda, nasce nel 2007 e musicalmente, come ci informano le note biografiche, trae linfa dallo stoner in stile Kyuss senza precludersi eventuali escursioni in altri generi.
Lo testimonia la title-track posta in apertura che, dopo un avvio cadenzato come ci si aspetterebbe, si sposta in certi frangenti su ritmiche più spedite che lambiscono territori hardcore pur mantenendo complessivamente l’impatto e le chitarre lisergiche dei maestri del desert rock.
Già a partire dalla successiva Entiende il sound si fa più sempre più viscoso e le chitarre più distorte, mentre con la terza traccia Ruggine il quartetto veneto esprime al massimo le proprie potenzialità grazie a quello che sembra essere un vero marchio di fabbrica: riff granitici, una base ritmica spaccaossa e testi mai banali che raccontano i disagi e le problematiche della quotidianità.
Senza Testo (che, nonostante il titolo non è un brano strumentale) rinsalda l’ottimo lavoro svolto dai Sick Monkey chiudendo un EP nel quale si riscontrano sicuramente molte luci e pochissime ombre: a tale proposito è da valutare quanto possa essere funzionale alla riuscita del lavoro l’utilizzo della lingua italiana che, se da una parte consente ai nostri di comporre i testi in maniera più diretta ed efficace, dall’altra potrebbe costituire un ostacolo al tentativo di donare in futuro un respiro internazionale alla loro musica.
Ma, al di là di questa annotazione, le sensazioni che restano impresse dopo l’ascolto di Anatomia Dell’Essere sono del tutto positive e per questo motivo contiamo di poterci gustare al più presto un album intero degli ottimi Sick Monkey.

Line-up:
Marco Fila – Batteria
Antonio Bonizzato – Voce, Basso
Claudio Luce – Chitarra Solista
Pierpaolo Modena – Voce, Chitarra

1. Anatomia dell’Essere
2. Entiende
3. Ruggine
4. Senza Testo

(EchO) – Devoid Of Illusions

Esiste, anche se poco pubblicizzata, un’Italia diversa da quella degli schettini, dei buffoni di corte e di tutte quelle “squallide figure che attraversano il paese” ; gli (EchO) sono qui a dimostrarcelo.

Devoid Of Illusions è il miglior esordio discografico che mi sia capitato di ascoltare da diverso tempo a questa parte.

I bresciani (EchO) sono l’ennesima pietra preziosa che, con la consueta lungimiranza, la Solitude Productions (tramite la sub-label BadMoodman) lancia nella scena doom mondiale; anche se, in effetti, racchiuderli in maniera semplicistica all’interno del genere appare riduttivo.
Infatti i nostri, pur muovendosi chiaramente nell’ambito di competenza dell’etichetta con sede a Orel (Russia), riescono a fornire al loro sound una serie di sfumature e di influenze che spaziano dal gothic/doom più classico fino ad un progressive dalla tonalità darkeggianti.
Tale progetto riesce alla perfezione grazie alle innegabili capacità tecniche della band e a un vocalist come Antonio Cantarin in grado di passare con disinvoltura dal growl più catacombale a clean vocals evocative e prive di qualsiasi sbavatura.
In un quadro di questo genere la classica ciliegina sula torta è costituita da una produzione che valorizza al massimo le sonorità dell’album a cura di un autentico mostro sacro del doom metal, ovvero Greg Chandler, mastermind degli Esoteric.
In Devoid Of Illusions tutto funziona alla perfezione, ciascun brano possiede un’impronta che lo rende memorizzabile e distinguibile dagli altri, benché certamente non si stia parlando di musica di facile presa.
Del resto, proprio ciò che ad un primo impatto potrebbe costituire il punto debole del lavoro, ovvero l’eterogeneità stilistica che si manifesta anche all’interno delle singole tracce, in realtà finisce per rivelarsi il valore aggiunto dato che l’alternanza tra atmosfere apparentemente discordanti tra loro avviene magicamente in maniera del tutto naturale e spontanea.
Prendendo in esame alcune dei brani, The Coldest Land vive sull’avvicendamento tra arpeggi delicati prossimi ai Katatonia ed un’irresistibile melodia chitarristica contrassegnata da un growl impetuoso, mentre Omnivoid si caratterizza per un riff pesantissimo che improvvisamente si dissolve per lasciare spazio a sonorità prossime al depressive metal.
Disclaiming My Fault è un’altra delle tante perle dell’album, un brano che nasce con un’impronta prog alla Porcupine Tree che viene trasfigurata nel finale da un furioso death metal; Once Was A Man invece risalta come un’eccezione nel contesto dell’album poiché, se come la precedente traccia si muove inizialmente su territori contigui alla band di Steve Wilson, finisce per confluire in passaggi degni dei Cure di “Disintegration”; in sintesi : splendido !
Sounds From Out Of Space chiude alla grande il lavoro con la partecipazione dello stesso Greg Chandler che, con la sua voce e la sua chitarra, finisce inevitabilmente per “esoterizzare” il brano, ma questo non è certo un male, anzi …
Proprio il contrasto tra il cupo funeral doom introdotto dall’illustre ospite e le caratteristiche aperture post metal che, giunti alla fine dell’album, abbiamo imparato a conoscere ed apprezzare, si erge a simbolo dell’intero lavoro e dimostra quanto il talento degli (EchO) renda naturale la convivenza tra sonorità apparentemente incompatibili.
Non c’è molto altro da aggiungere se non l’esortazione nei confronti di chi ama la buona musica (non solo il metal) affinché supporti questa magnifica realtà nostrana.
Esiste, anche se poco pubblicizzata, un’Italia diversa da quella degli schettini, dei buffoni di corte e di tutte quelle “squallide figure che attraversano il paese” ; gli (EchO) sono qui a dimostrarcelo.

Tracklist:
1. Intro
2. Summoning the Crimson Soul .
3. Unforgiven March
4. The Coldest Land
5. Internal Morphosis
6. Omnivoid
7. Disclaiming My Faults
8. Once Was a Man
9. Sounds From Out of Space

Line-up:
Antonio Cantarin – Vocals
Mauro Ragnoli – Guitars
Simone Saccheri – Guitars
Simone Mutolo – Piano, Keyboards
Agostino Bellini – Bass
Paolo Copeta – Drums

Aeternal Seprium – Against Oblivion’s Shade

Una formazione che, mettendosi in gioco e lavorando intensamente dal vivo in tutti questi anni, ha raggiunto una cifra stilistica di livello ragguardevole ma non per questo priva di ulteriori margini di miglioramento

Dopo la mazzata impartita con i Black Propaganda, la Nadir ci propone una nuova interessante realtà nostrana.

Questa volta però, con gli Aeternal Seprium, ci allontaniamo dai lidi più estremi per prendere in esame sonorità decisamente prossime al metal classico.
Il monicker della band è un omaggio alle proprie radici che attingono appunto al  Seprio, una delle aree a maggiore densità di testimonianze storico-artistiche del territorio varesino.
Nati sotto il nome di Black Shadows nel 1999, i nostri nei primi anni di vita si affacciano sulle scene come cover band proponendo brani dei gruppi appartenenti alla NWOBHM, ma a metà dello scorso decennio si trovano ad un bivio : continuare a riproporre all’infinito gli stessi brani negli anni a venire, garantendosi l’attenzione di promoter e gestori di locali poco propensi al rischio, oppure provare a percorrere una strada meno sicura ma più stimolante come quella di comporre e proporre musica propria ?
E’ meritoriamente la seconda opzione a prevalere e gli Aeternal Seprium nel 2007 sono pronti per pubblicare il loro primo demo, “A Whisper From Shadows”, che viene accolto favorevolmente dagli addetti ai lavori.
Nel 2010 esce un nuovo demo, “The Divine Breath Of Our Land”, che come il precedente ottiene unanimi consensi e mostra una band già pronta per pubblicare il primo full-length.
Ed eccoci arrivati ad oggi, con Against Oblivion’s Shade , che costituisce una summa di quanto prodotto dai varesini negli ultimi 4 anni , riprendendo tutti i brani già presenti nei demo con l’aggiunta di 3 inediti.
Pur mantenendo il proprio background influenzato da Iron Maiden e Manowar, la band ha sviluppato uno stile personale che può richiamare alla mente certo heavy metal epico in stile Warlord, senza dimenticare quanto già fatto sul suolo italico dai Domine (in particolare per la voce di Stefano che ricorda molto da vicino quella di Morby) e dai Doomsword, quando i nostri passano a brani dai ritmi più compassati.
Dal punto di vista lirico risulta invece apprezzabile la volontà di non omologarsi a tematiche fantasy o legate alla mitologia nordica, scegliendo di raccontare le vicende legate alla propria terra e le gesta di personaggi che hanno caratterizzato la storia delle popolazioni del nord Italia.
Sotto l’aspetto musicale il disco mantiene un’apprezzabile omogeneità stilistica nonostante i brani più datati (quelli del 2007) possano risultare in certi passaggi un po’ slegati con gli altri e meno originali rispetto al contesto.
Le composizioni più recenti peraltro dimostrano un freschezza ed una varietà eccellente come per esempio l’iniziale The Man Among Two Worlds, con il suo intro epicheggiante che fa da subito intuire il trademark stilistico della band, o In The Sign Of Brenno, che con il suo riff cadenzato e doomeggiante, risulterà essere uno dei picchi qualitativi dell’album.
A differenza di quanto accade in molte occasioni, quando i musicisti sparano le migliori cartucce all’inizio provocando con il resto del lavoro un inevitabile calo di attenzione nell’ascoltatore, gli Aeternal Seprium ci riservano nel finale due brani piacevolmente sorprendenti : L’Eresiarca , il brano più lento del lotto, cantato interamente in italiano, con una pregevole prestazione di Stefano, il quale dimostra di possedere una voce versatile ed evocativa che riesce a valorizzare al massimo quando non si fa prendere da tentazioni “kiskeiane”, e The Oak And The Cross che, anche grazie all’apporto di tre componenti dei Furor Gallico, acquisisce un flavour folkeggiante che apre un altro fronte molto interessante per la band.
Il disco si chiude con l’anthem Under The Flag Of Seprium che ci lascia l’impressione di una formazione che, mettendosi in gioco e lavorando intensamente dal vivo in tutti questi anni, ha raggiunto una cifra stilistica di livello ragguardevole ma non per questo priva di ulteriori margini di miglioramento, soprattutto alla luce della maturata consapevolezza di avere alle spalle un’etichetta in grado di fornire il giusto supporto.

Tracklist:
1. The Man Among Two Worlds
2. Vainglory
3. Sailing Like the Gods of the Sea
4. Soliloquy of the Sentenced
5. In Sign of Brenno
6. Victimula’s Stone
7. Solstice of Burning Souls
8. L’eresiarca
9. The Oak and the Cross
10. Under Flag of Seprium

Line-up:
Santino Talarico – Bass
Matteo Tommasini- Drums
Adriano Colombo- Guitars
Leonardo “UNTO” Filace – Guitars
Stefano Silvestrini- Vocals

Opera IX – Strix Maledictae In Aternum

Il giudizio finale è positivo anche perché la presenza di qualche passaggio meno convincente all’interno di “Strix Maledictae In Aeternum” viene ampiamente mitigata dall’atteso ritorno all’attività di questa influente band.

Ritornano dopo ben 7 anni gli Opera IX , una delle band storiche della scena black metal tricolore.

Diciamo subito che non ci dobbiamo attendere grandi novità da chi ha fatto della propria integrità stilistica una sorta di bandiera; la proposta risulta oscura e aggressiva, mentre le liriche vertono su tematiche care al gruppo quali stregoneria e occultismo. L’album presenta una serie di brani che colpiscono nel segno, a partire da 1313 , nella quale spiccano pregevoli parti di tastiera, proseguendo con l’altrettanto valida Dead Tree Ballad per arrivare al suo picco con Mandragora, contraddistinta da un impatto leggermente più immediato rispetto al resto del lavoro (e non è un caso che sia il pezzo prescelto per la realizzazione di un video, peraltro molto interessante sotto diversi aspetti …) e la successiva Eyes In The Well con il suo carattere epico. Da segnalare a livello lirico l’uso efficace dell’italiano negli ultimi due brani, abitudine che sta prendendo sempre più piede in ambito estremo, nonostante la nostra lingua ponga maggiori ostacoli dal punto di vista della metrica rispetto all’inglese. Nel suo complesso il platter della band piemontese viene in parte penalizzato sia dalla sua notevole durata sia dalla prevalenza dei mid –tempo che rendono alla lunga l’ascolto meno fluido . Ciò non impedisce agli Opera IX di riuscire nell’intento di condurci per mano nell’oscurità di epoche dominate dalla superstizione e da credenze arcaiche, nelle quali non occorreva molto affinché le maldicenze si trasformassero in accuse e le donne venissero additate come streghe e quindi responsabili di qualsiasi evento avverso. Il giudizio finale è dunque più che positivo anche perché la presenza di qualche passaggio meno convincente all’interno di Strix Maledictae In Aeternum viene ampiamente mitigata dall’atteso ritorno all’attività di questa influente band.

Tracklist:
1. Strix the Prologue (Intro)
2. 1313 (Eradicate the False Idols)
3. Dead Tree Ballad
4. Vox in Rama (Part 1)
5. Vox in Rama (Part 2)
6. Mandragora
7. Eyes in the Well
8. Earth and Fire
9. Ecate – The Ritual (Intro)
10. Ecate
11. Nemus Tempora Maleficarum
12. Historia Nocturna

Line-up: Ossian – Guitars
Vlad – Bass
Dalamar – Drums
M. – Vocals, Guitars (rhythm)

Drakkar – When Lightning Strikes

Tornano i Drakkar con un concept album di epico power metal.

Tornano i Drakkar con un concept album di epico power metal.

Nati nel 1995, i Drakkar hanno fatto uscire l’ultimo lp con la Dragonheart Records nell’ormai lontano 2002, per poi farsi risentire dai fan nel 2007 con l’ep “Classified”. I Drakkar tornano oggi alla grande, con un album di power metal melodico e potente, che coglie nel segno. Il songwriting è al servizio della storia che racconta di Hal Gardner, un pilota di caccia mandato a combattere gli alieni sbarcati nel centro di New York (mi vengono in mente i Kree e gli Skrull dell’universo Marvel) che, colpito da un raggio alieno, comincia a ricordare le sue reincarnazioni… Non vi voglio rovinare la sorpresa e il gusto di scoprire una storia epica: in questo disco è mirabilmente raccolto tutto ciò che ci si deve aspettare da un disco di power metal sopra alla media, ovvero potenza, melodia ed epicità. A volte il power metal è il miglior mezzo per far scoprire storie che richiedono un battito del cuore più forte del normale. Usando l’espediente delle reincarnazioni di Hal Gardner, il chitarrista Dario Beretta imbastisce un volo su vari momenti storici, che sono anche stati d’animo. Un ottimo ritorno per una delle band più importanti della scena power metal italiana e non solo: grazie a loro ho riscoperto qualcosa nel genere che non sentivo più da tempo.

Tracklist:
1. Hyperspace – The Arrival
2. Day of the Gods
3. The Armageddon Machine
4. In the Belly of the Beast
5. Revenge Is Done
6. When Lightning Strikes
7. Winter Soldiers
8. Salvation
9. At the Flaming Shores of Heaven
10. We Ride
11. The Awakening
12. My Endless Flight
13. Aftermath – The Departure
14. Engage!
15. New Frontier

Line-up: Dario Beretta – Guitars
Simone Cappato – Bass
Davide Dell’Orto – Vocals
Corrado Solarino – Keyboards

DRAKKAR – Facebook

Your Tomorrow Alone – Ordinary Lives

Ci troviamo certamente di fronte a un buon esordio che merita la dovuta considerazione da parte di chi predilige musica dai toni cupi e malinconici.

Una nuova realtà si affaccia nella già prolifica scena gothic-doom italiana : gli Your Tomorrow Alone.

La band salernitana si forma nel 2009 per volere del chitarrista Marco Priore e del cantante Eugenio Mucio; assestata la line-up, dopo diversi avvicendamenti viene pubblicato nel 2010 un demo che ottiene immediati riscontri favorevoli.
Nel 2011 la My Kingdom aggiunge al suo roster i propri conterranei consentendo loro di presentarsi al debutto sulla lunga distanza con questo Ordinary Lives (in uscita in questi giorni).
Come riportato nella bio della band, le coordinate stilistiche vanno ricercate ovviamente nella sacra triade del genere, Paradise Lost , Anathema e My Dying Bride, con netta prevalenza per i primi, senza però dimenticare un nome rilevante in campo nazionale come i Novembre.
Il sestetto campano si muove pertanto in questo ambito esibendo la caratteristica contrapposizione tra armonie malinconiche e partiture più robuste sfruttando al meglio la presenza in line-up di due cantanti dal diverso timbro vocale.
Il risultato è un album di grande valore, contrassegnato da momenti di considerevole impatto come l’opener Renaissance e One Last Breath, nelle quali proprio l’ottimo bilanciamento tra il growl di Eugenio e la voce pulita di Giovanni ricorda un’opera sottovalutata come “Shades Of Sorrow” dei disciolti Whispering Gallery, il trittico Praise For Nothing, The Essence Of Gloom e Guilty, con il pregevole lavoro chitarristico ispirato da Greg Mackintosh da parte di Marco, nonché l’intensa Agony, dal mood più darkeggiante. Anche i brani dalle atmosfere più intimiste e cangianti come Bursting Hope e In Silence si mantengono su un buon livello anche se per le loro caratteristiche peculiari riescono ad essere assimilati pienamente solo dopo diversi ascolti .
E’ evidente che questo disco farà la gioia di coloro che sono cresciuti ascoltando autentiche pietre miliari quali “Shades Of God”, “Icon” o “Draconian Times”, senza che per questo la proposta degli Your Tomorrow Alone possa essere definita una calligrafica riproduzione delle sonorità prodotte dalla seminale band di Halifax, anche perché il tutto viene opportunamente miscelato con atmosfere più rarefatte, che sono il tratto caratteristico della scuola gothic-doom italiana, rendendo in questo modo il lavoro, se non originale, sicuramente dotato di una propria personalità.
Tirando le somme ci troviamo certamente di fronte a un buon esordio che merita la dovuta considerazione da parte di chi predilige musica dai toni cupi e malinconici.

Tracklist:
1. Renaissance
2. Praise for Nothing
3. The Essence of Gloom
4. Guilty
5. Bursting Hope
6. Far From the Sight
7. One Last Breath
8. Agony (praeludium)
9. In Silence

Line-up:
Gianpiero Sica – Bass
Daniele Ippolito – Drums
Marco Priore – Guitars (lead)
Giovanni Costabile – Keyboards
Giovanni Sorgente – Vocals (clean)
Eugenio Mucio – Vocals

Necrodeath – Idiosyncrasy

“Idiosyncrasy” è un disco che ci consegna una band in ottima forma e nel pieno della propria maturità.

E’ stato veramente desolante constatare che diverse persone abbiano storto il naso a priori alla notizia che il nuovo lavoro dei Necrodeath sarebbe stato costituito da una suite di 40 minuti, per di più con una copertina con i nostri abbigliati in stile “Le Iene”.

Eppure dovrebbe essere noto a tutti, addetti ai lavori e non, che stiamo parlando di una band che per la propria storia, la perizia tecnica e le capacità compositive dei musicisti coinvolti, non ha certo bisogno di alcun beneplacito per discostarsi dalle consuetudini del metal estremo (al riguardo inviterei i più smemorati a ridare un ascolto ai due “Crimson” degli Edge Of Sanity…)
Del resto, fin dal magnifico album della rinascita “Mater Of All Evil”, edito nel 1999, Peso e compagni hanno avuto il merito di cercare ad ogni uscita nuove forme espressive pur senza snaturare la naturale componente black/thrash della loro proposta; va detto, onestamente, che non sempre i risultati sono stati all’altezza delle aspettative ma non è certo questo il caso di Idiosyncrasy , disco che ci consegna una band in ottima forma e nel pieno della propria maturità.
Come è facilmente intuibile, la scelta di presentare il disco sotto forma di un unico brano nasce dall’esigenza di fornire una struttura musicale adeguata ad un concept, che, in questo caso, verte sull’eterna dicotomia tra bene e male e sulla strada irta di difficoltà che deve percorrere ogni individuo alla ricerca della pace interiore; musicalmente ci troviamo dinnanzi ad una scrittura caratterizzata da una violenza disturbante, di sicuro nulla di noioso o di ridondante come magari temevano (o auspicavano…) le solite cassandre.
La caratteristica voce di Flegias, ideatore del concept, la terremotante base ritmica formata da Peso e G.L. e la riconosciuta tecnica chitarristica di Pier Gonella, sono messe al servizio di un album che necessita di diversi ascolti prima di far breccia nell’ascoltatore.
Forse sta proprio in questo aspetto la sola controindicazione riscontrabile nella scelta dei Necrodeath: non tanto a causa della sua limitata immediatezza o della conseguente assenza del caratteristico brano trainante quanto per la necessità di un ascolto integrale dell’intera opera per poterne cogliere in modo esauriente ogni sfumatura.
Ma, al di là questo inconveniente che è del tutto ascrivibile ad una scelta decisamente anti-commerciale, l’esperimento della band genovese può dirsi totalmente riuscito e non sono certo il solo a pensarla così a giudicare da questa recente dichiarazione rilasciata sul suo blog dal noto giornalista inglese Dom Lawson : “Ascoltate Idiosyncrasy, bevete grandi quantità di birra e fate finta che la collaborazione fra i Metallica e Lou Reed non sia mai esistita!”

Tracklist:
1. Part I
2. Part II
3. Part III
4. Part IV
5. Part V
6. Part VI
7. Part VII

Line-up:
Peso – Drums, Lyrics
GL – Bass
Pier Gonella – Guitars
Flegias – Vocals, Lyrics

NECRODEATH – Facebook

Black Propaganda – Black Propaganda

L’antidoto ideale da assumere per contrastare l’ipocrisia che ci ammorba puntualmente ogni anno durante il periodo natalizio ha un nome : Black Propaganda.

L’antidoto ideale da assumere per contrastare l’ipocrisia che ci ammorba puntualmente ogni anno durante il periodo natalizio ha un nome : Black Propaganda.

Nell’ambiente dei media viene così definita quel tipo di informazione falsa e diffamatoria che si professa proveniente da una fonte amica, ma che in realtà giunge dallo schieramento opposto; tale stratagemma venne attuato in particolare al termine della 2° guerra mondiale da quelle nazioni che avrebbero poi finito per soccombere (Italia e Germania in primis…)
Questa premessa è utile per poter meglio comprendere da dove tragga linfa la rabbia distruttiva che pervade l’intero lavoro dei Black Propaganda nei suoi 51 minuti, ma se ciò non dovesse essere sufficiente ci viene in soccorso la band stessa con la seguente dichiarazione d’intenti riportata nella propria “bio” :….brani ossessionati dal rancore sociale, dall’instabilità e dalla falsità psichica dell’essere umano…
Ciò che ne scaturisce è un grande album di thrash-death, inevitabilmente influenzato dalle migliori produzioni di Slayer, Pantera, The Haunted, Entombed, ma lo fa rifuggendo gli stilemi del genere e rimodellando in maniera del tutto personale un sound terremotante che spazza via svariati epigoni delle suddette band nonché la maggior parte delle uscite metal-core che hanno inflazionato il mercato discografico negli ultimi anni .
Da Hit The Mass, che come promette il titolo scuote l’ascoltatore dal suo torpore immergendolo all’istante nella violenza sonora che sarà il filo conduttore dell’album, passando per Craving, No Prejudice, la magnifica About Me (inserita lo scorso anno nel cd-compilation di Rock Hard) fino alle conclusive Livid Taste e Black Propaganda/The Prophet Of The Gore, la band torinese non si concede tentennamenti o divagazioni di alcun tipo e sfodera un lavoro che merita il supporto incondizionato di chi ha realmente a cuore la salute della scena metal tricolore.
Nulla da eccepire sulla produzione che valorizza al massimo l’eccellente lavoro chitarristico di Ian Binetti, le vocals efferate di Jacopo Battuello e la puntuale base ritmica fornita dalla batteria di Eric Di Donato.
Un plauso va infine anche alla Nadir Music per aver arricchito ulteriormente il proprio roster con una band dal potenziale esplosivo come i Black Propaganda.

Tracklist:
1. Punishers of No One Sin
2. Hit the Mass
3. Craving
4. No Prejudice
5. Cynic Apnea
6. I Clean My Mind Imploring for Coma
7. About Me
8. Destroy to Survive
9. Livid Taste
10. Black Propaganda / The Prophet of the Gore

Line-up:
Eric Di Donato – Drums
Ian Binetti – Guitars
Jacopo Battuello – Vocals
Federico Tinivella – Bass